24/07/20

Svelato il mistero del "Mostro Marino" disegnato da Leonardo da Vinci: era un fossile di cetaceo


fossile di Balaena Montalionis, conservato al Museo di Calci

Non un mostro marino, ma un fossile di cetaceo: svelato il mistero della misteriosa creatura disegnata da Leonardo da Vinci sul Codice Arundel, una raccolta di scritti e disegni conservata a Londra alla British Library. 

E' quanto rivela uno studio di ricercatori dell'Universita' di Pisa e dell'Universita' di San Diego (USA). 

Lo studio, pubblicato nella rivista internazionale Historical Biology, e' firmato da Alberto Collareta, Marco Collareta e Giovanni Bianucci dell'Universita' di Pisa e da Annalisa Berta dell'Universita' di San Diego. "Uno dei fogli che costituiscono il Codex Arundel - spiega Alberto Collareta, paleontologo del Dipartimento di scienze della terra - contiene la descrizione delle spoglie di un poderoso mostro marino, che e' stata a lungo interpretata come divagazione fantastica o metaforica del giovane Leonardo, se non come vera e propria rielaborazione poetica di presunte letture classiche del Genio". 

 "Esistono tuttavia molte indicazioni - continua Collareta - che suggeriscono che il giovane Leonardo abbia davvero osservato una balena fossile. Un censimento dei rinvenimenti di cetacei fossili toscani dimostra come, nel corso degli ultimi due secoli, almeno otto localita' toscane nelle vicinanze di Vinci (Firenze) abbiano restituito resti fossili significativi di grandi balene". La prima a ipotizzare che il mostro marino fosse una balena fossile era stata la biologa marina statunitense Kay Etheridge nel 2014. Il nuovo studio italo-americano conferma ora la sua teoria. 

08/07/20

Cartier-Bresson a Venezia . Una mostra imperdibile a Palazzo Grassi, la prima Post-Covid



Cinque sguardi d'autore sul lavoro del piu' celebre fotografo del Novecento, per costruire una mostra che e' cinque mostre, senza pero' perdere un'idea di unita'. 

Palazzo Grassi, per la riapertura dopo l'emergenza Covid, presenta la grande esposizione "Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu": partendo dalla selezione delle 385 immagini che il fotografo ha scelto nel 1973 come le sue piu' significative, il curatore Mathieu Humery ha chiesto al collezionista Francois Pinault, alla fotografa Annie Leibovitz, allo scrittore Javier Cercas, al regista Wim Wenders e alla conservatrice Sylvie Aubenas di selezionare a loro volta le immagini per loro piu' significative di Cartier Bresson. 

"Invece di avere ancora un punto di vista singolo - ha spiegato Humery ad askanews - l'idea e' di averne cinque diversi, e ciascuno e' molto personale, perche' siamo tutti esseri umani diversi. Quindi volevamo qualcosa di molto individuale, ma al tempo stesso volevamo un punto di vista specifico, che fosse in grado di definire qualcosa di assai preciso che il pubblico fosse in grado di riconoscere". 

Ogni curatore ha scelto sia le immagini sia l'allestimento, e cosi' all'interno del palazzo veneziano si alternano, oltre agli sguardi, anche le luci, i colori alle pareti, i momenti psicologici associati a un certo tipo di fotografie piuttosto che ad altre. 

E qui, in questa liberta' apparentemente disomogenea, si trova invece l'unita' della mostra, che e' metodologica e che, ovviamente, ruota intorno all'idea di un Grande Gioco. 

"Ogni curatore - ha aggiunto Humery - ha scelto una cinquantina di foto, senza sapere quali gli altri avrebbero selezionato. Questo e' piuttosto interessante, perche' si possono avere immagini ripetute due, tre o quattro volte. Io non ho dato alcuna indicazione, ho solo voluto discutere con loro per provare a capire cio' che avevano in mente per poi tradurlo in un modo per esporlo". 

Le fotografie di Cartier-Bresson sono notissime, ma qui, nella peculiarita' degli accostamenti, nelle, per cosi' dire, affinita' elettive che i curatori hanno individuato, sembrano assumere una luce diversa, piu' ricca e rotonda. In sostanza passano da icone singole a tessere di un piu' ampio mosaico, fatto di storia, cultura, vita quotidiana. 

Intrecciate in maniera profonda e, per usare un aggettivo caro al fotografo francese, decisiva. 

"Qui si scoprono diversi significati del lavoro di Cartier-Bresson - ha concluso Mathieu Humery - ma anche qualcosa di molto piu' personale: si usano le immagini di qualcun altro per descrivere la propria personalita'". E anche lo spettatore e' chiamato a giocare, immaginando, alla fine della visita, quale avrebbe potuto essere la propria selezione di immagini. Il proprio ritratto attraverso lo sguardo di Cartier-Bresson. 



07/07/20

La storia della mano di Ennio Morricone voluta dal Maestro e realizzata dal più bravo cesellatore di Roma

La mano di Morricone realizzata da Dante Mortet



"So Morricone. Ma sta mano la famo o no?". Dante Mortet, artigiano e dunque artista con bottega a Piazza Navona, dall'altra parte del telefono per poco non cade dal motorino

"Era un giorno di novembre di 4 anni fa. Il maestro aveva saputo che facevo sculture di mani, si era recuperato il telefono e mi aveva contattato. Ero su Ponte Cavour e in quel momento ho incontrato una persona immensa", dice Dante, oggi commosso per il passato e per il presente. 

Mortet immortala la mano di Morricone in una scultura in bronzo, "una mano che il maestro teneva in mostra a casa sua, poi io ne feci un'altra copia la notte che vinse l'Oscar, la feci inginocchiato mentre lo premiavano". 

"Andai a fare il calco a casa sua. Mise subito le cose in chiaro: 'deve essere la mia mano che scrive la musica, insomma con la penna ma quale bacchetta'", ricorda Dante, una famiglia di cesellatori da 5 secoli.

E quella mano in effetti viene alla luce nell'atto piu' concreto della creazione musicale, quella in cui le note fluiscono nell'inchiostro e prendono sostanza nello spartito. Insomma quell'atto semplice e potente in cui il mestiere diventa arte. 

"'Io la musica la scrivo' mi diceva il Maestro -spiega Dante- e a suggellare questo mi regalo' lo spartito in cui aveva scritto il brano che colsi nel calco: era il motivo principale del Il buono, il brutto e il cattivo, insomma si' L'ululato del coyote". 

Un vero gesto di stima "considerando che Morricone, mi disse poi un suo collaboratore, i suoi spartiti se li riportava sempre via e non ne lasciava mai nessuno in giro". 

Il calco, fatto in un pomeriggio tra tante chiacchiere romane, "il caffe' della signora Maria e un video girato col telefonino 'che fa il film', come diceva il Maestro", poi si trasforma in una scultura in bronzo. 

"Il materiale lo abbiamo scelto insieme -dice Dante- perche' e' il materiale di Roma, anche il Marc'Aurelio e' in bronzo. E Morricone e' un monumento di questa citta', anzi di questo mondo"

Da quella mano, solida e bella che tiene la penna e sembra strappata ad un affresco michelangiolesco, la vita artistica e umana di Dante cambia. "Te porta fortuna, vedrai", mi disse Morricone. 

Da li' Dante, bottegaio col dono dell'arte, fa le mani di Robert De Niro, Kirk Douglas, dell'intero cast del film di Tarantino 'The Hateful Eight', fa persino il calco dei piedi di Pele'. 

Ora sogna di immortalare nella materia le mani del grande fotoreporter Sebastiao Salgado, il fotografo del lavoro impastato di fatica nel bellissimo libro di 350 scatti "La Mano dell'uomo". Ma il legame di Dante con Roma resta ed e' fortissimo tanto che e' suo il logo del premio Roma Best Practice Award che quest'anno, per volere dell'organizzatore Paolo Masini, sara' dedicato a Ennio Morricone. 

 Da stamattina Dante tra le sue mani, belle e potenti come quelle del maestro, rigira quello spartito che Morricone gli ha regalato. "E' un pezzo mondiale", gli disse Morricone finendo di vergare le ultime note. "Io me lo tengo qui, nella scatola delle cose piu' belle, qui ci sono ancora le sue mani", dice Dante stringendo le note d'inchiostro e musica, le mani immortali del Maestro. 

06/07/20

Ennio Morricone e Gillo Pontecorvo, l'amicizia di una vita

Gillo Pontecorvo e Ennio Morricone 



Sono moltissimi i registi che non sarebbero gli stessi se Ennio Morricone non avesse messo a loro disposizione le sue musiche, le sue intuizioni, la sua professionalita'. 

Solo alcuni pero' divennero amici veri, frequentati dentro e fuori dalla sala d'incisione. 

Uno di questi, forse tra i piu' intimi, e' stato Gillo Pontecorvo per cui Morricone scrisse le colonne sonore di "La battaglia di Algeri", "Queimada", "Ogro"

Considerata la leggendaria ritrosia del regista ad impegnarsi su un progetto (solo 5 film in tutta la carriera), si tratta del legame di una intera vita professionale visto che duro' dal 1966 (l'anno del Leone d'oro per "La battaglia di Algeri") fino all'ultimo film di Gillo, presentato sempre a Venezia nel 1979

Dopo di allora c'e' una storia privata, fatta di cene a casa, scherzi goliardici, intimita' tra le consorti (la moglie di Gillo viene da una grande famiglia di musicisti, i Ziino, e lei stessa e' stata una colonna della Filarmonica Romana) che non si e' mai interrotta. 

Tutto pero' comincio' proprio nel '66 quando Pontecorvo, che tornava alla regia sette anni dopo "Kapo'", cerco' Morricone che in quel momento collaborava con Pasolini ("Uccellacci e uccellini") e Carlo Lizzani (sodale all'Anac e amico a sua volta). 

Fu un avvio tempestoso perché il regista, grande appassionato di musica e autodidatta, aveva gia' firmato insieme a Carlo Rustichelli le musiche del suo film precedente e sapeva che emozioni voleva suscitare attraverso le note

Dopo un mese di lavoro non si trovava un punto d'incontro finché Pontecorvo una sera non sali' le scale di casa Morricone fischiettando la melodia che secondo lui andava bene. 

Il maestro Morricone aveva capito con chi aveva a che fare e lo accolse suonando al piano la stessa melodia sostenendo di averne avuto l'intuizione la notte prima. 

"Rimase basito - racconto' il musicista anni dopo - io gli dissi, con una calma olimpica, che dopo un mese passato a discutere di quel tema, evidentemente eravamo sulla stessa lunghezza d'onda."

04/07/20

Spuntano dai fondali di Ventotene resti di una nave romana del VI secolo avanti Cristo




Nel mese di giugno 2020, a largo dell'isola di Ventotene, a seguito di una segnalazione effettuata da un esperto subacqueo del posto circa la possibile presenza di evidenze archeologiche su quel fondale marino, i militari del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (TPC) di Roma e del Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma, hanno individuato ad una profondita' di circa 40 metri, un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e una contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 51 cm) interessato da processi di ossidazione e corrosione, saldato ad un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro con barra mobile (lunghezza 1,5 m) ed un'ancora di minori dimensioni, tutte verosimilmente appartenenti al medesimo relitto di nave romana di epoca imperiale (I-II sec. d.C.).

E poi un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro (lunghezza 4 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora di "tipo rampino" (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C. 

Un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.. E infine un'ancora "tipo rampino" in ferro (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno. 

La Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone Latina e Rieti, attraverso il suo Servizio di tutela subacquea, ha stabilito di valorizzare il contesto archeologico in situ, secondo le recenti indicazioni UNESCO in merito al patrimonio culturale subacqueo 



03/07/20

La Nuova Mostra di Justin Bradshaw a Sutri a Palazzo Doebbing, fino al 17 gennaio



A Sutri, nel bellissimo Palazzo Doebbing, la nuova mostra di Justin Bradshaw, nell'ambito di Incontro a Sutri - da Giotto a Pasolini, l'allestimento curato da Vittorio Sgarbi dal 26 giugno al 17 gennaio 2021

Dal catalogo, il testo di Fabio Galadini:

La narrazione pittorica di Bradshaw evoca il sofisticato manierismo italiano e il realismo fiammingo. 

La tecnica sorprendente conquistata in anni di capillare ricerca, conduce l’artista ad una padronanza assoluta della gestione del colore e della luce, attualizzando la tecnica della velatura ad olio su supporti metallici (rame e zinco). 


Questa magistrale dimestichezza della “pittura a velo” consente a Bradshaw di esplorare le forme del realismo in chiave contemporanea, declinando la narrazione verso un iperrealismo che può tranquillamente confrontarsi con i maggiori maestri contemporanei di questa corrente, da Paul Cadden a Ralph Goings. 

E proprio guardando Goings, il realismo di Bradshaw traduce l’intima narrazione del vissuto indecifrabile “degli altri” in una dimensione pop, in una condizione in cui gli oggetti, i corpi, assumono valenza per quello che sono, non si allontana da esse, narra la loro condizione fuori da un ipotetico vissuto individuale. 


Esse appaiono, e ciò che ci restituiscono è solo il loro esserci in una dimensione epica senza nasconderne l’inadeguatezza. 

Qui gli oggetti e i personaggi ritratti mostrano la loro essenza. Essi sono senza storia e funzione, sono “i tubetti di colore consumati e le chiavi, rimaste appese in casa inutilizzate, per serrature che forse non ci sono più”. 

F. Galadini 


 In mostra: 

PETALA AUREA Petali d’oro. Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla Fondazione Luigi Rovati 
• GIOTTO Il grande Crocifisso dalla Collezione Sgarbossa 
 PIER PAOLO PASOLINI Fotografie degli ultimi sguardi del grande intellettuale 
• TADEUSZ KANTOR Dipinti e disegni dalla Collezione Dario e Stefania Piga che testimoniano l’immortale genialità di Kantor con le sue metafore visive e teatrali 
• CESARE INZERILLO La nuova scultura “Ora d’aria, 2020” per riflettere sulla fragilità umana in epoca di Corona Virus 
• LA DISTRAZIONE DEL MONDO Dipinti dalla Fondazione Franz Ludwig Catel di Roma 
• SCARTI, GIOCHI E RIMANDI Le sculture di Livio Scarpella 
 JUSTIN BRADSHAW Ritratti e nature morte eseguiti a olio su rame 
• KORAI Le sculture in gesso e resina di Alessio Deli 
• LE STORIE DI CARAVAGGIO L’appassionante vita di Michelangelo Merisi dipinta da Guido Venanzoni in una serie di grandi teleri 
• COME ALLO SPECCHIO Fotografie di Chiara Caselli 
• METAFORICA NATURALITÀ Sculture di Mirna Manni • LUOGHI REALI dipinti di Massimo Rossetti.



01/07/20

I meravigliosi Sotterranei di Napoli - Un tesoro da scoprire



I sotterranei di Napoli 


Esiste come è noto una vasta mitologia, antica e moderna, legata ai sotterranei di Napoli. Una delle città più affascinanti del mondo, oggi divenuta tentacolare, dallo sviluppo urbanistico e edilizio spaventoso, ormai giunto ad aggredire anche lo stesso minaccioso nume che la domina – il Vesuvio – nasconde nelle sue viscere un’altra città altrettanto caotica ed estesa: un vero e proprio labirinto di profondissime gallerie, cunicoli, grotte, ipogei che costellano gran parte del territorio e che ne costituiscono una specie di tessuto invisibile, propizio per la generazione di leggende, miti, tradizioni legate alla magia bianca e nera, in una città del resto già secolarmente predisposta al culto della superstizione e del soprannaturale.

Questa Napoli sotterranea ha in realtà origini antichissime, che sono quasi del tutto coeve con i primi insediamenti umani: le datazioni al radiocarbonio degli archeologi hanno permesso di stabilire che alcune prime cavità furono scavate cinque o sei millenni prima di Cristo, in epoca preistorica. 

Non sappiamo bene che cosa spinse quegli uomini, originariamente a proiettarsi nelle profondità di quel territorio. Sicuramente uno dei motivi che favorì questa attività fu la relativa permeabilità del suolo, la sua natura lavica o tufacea, che permetteva piuttosto facilmente di penetrarla. 

C’era sicuramente, all’origine, insieme alle pratiche di inumazione delle popolazioni preistoriche, la necessità di preservare i corpi dei familiari morti. E di venerarli post-mortem. Insieme a questa prima funzione cultuale, però, cominciò ben presto anche la pratica estrattiva: già nel III e nel II secolo a.C. i greci cominciarono a scavare nel sottosuolo per ricavare i grandi blocchi di tufo necessari alla fondazione della loro colonia, Neapolis, che prese il posto della cumana Partenope, fondata addirittura nell’viii secolo a.C. 

Ma il vero massiccio lavoro di scavo dei cunicoli della Napoli sotterranea fu sostenuto dai romani, i quali anche in questa occasione dimostrarono la loro incredibile perizia ingegneristica, soprattutto per quanto concerne l’approvigionamento idrico.  

Alcuni degli ipogei che oggi sono visitabili – come la grotta di Seiano o la grotta di Cocceio – testimoniano di una attività inesauribile, sempre alla ricerca di risorse idriche – come quelle del fiume Serino – che venivano convogliate e utilizzate a uso e consumo degli abitanti della ricca colonia romana. 

La manifestazione più alta di questa capacità ingegneristica è costituita proprio dalla cosiddetta Piscina mirabilis, un’enorme vasca costruita a Miseno che con i suoi imponenti quarantotto pilastri cruciformi, garantiva la riserva d’acqua – ben 13.000 metri cubi – per le navi della flotta romana che scandagliavano in lungo e in largo il Mediterraneo. 

Ma l’attività di perforazione del sottosuolo napoletano proseguì incessantemente, nei secoli, trasformandosi in un’opera immane di scavo che aggiunse agli originari scopi di approvvigionamento idrico, altre e più complesse funzioni, fino a realizzare un mostruoso reticolo di condotti – alcuni dei quali sufficiente a malapena per far  passare un uomo – che si ritiene abbia circa due milioni di metri quadri. Una percezione di questa opera – sedimentata in strati diversi, l’uno sull’altro – si ha visitando per esempio gli scavi della basilica di San Paolo Maggiore, uno dei monumenti più insigni di Napoli, costruita sui resti di una agorà greca nella odierna piazza San Gaetano. 

Lì, scendendo ben quaranta metri sotto il livello stradale attuale, in una lunga teoria di gradini e rampe, si possono toccare con mano i diversi livelli di reticoli sotterranei – diversi anche nella realizzazione e nelle tipologie – che conducono fino ai cunicoli d’epoca romana, culminanti nei magnifici resti del teatro romano di Neapolis. 

È soltanto una piccolissima porzione di quel mondo nascosto che volenterose associazioni di speleologi locali sta ancora tentando di esplorare compiutamente e di mappare: non è semplice, visto che è stata appurata l’esistenza di cunicoli lunghi chilometri in grado di mettere in comunicazione punti molto distanti della città. 

Per capire come fu possibile questo dobbiamo appunto procedere in avanti con la storia e comprendere come, alla funzione relativa prima alla sepoltura e poi all’ingegneria idraulica, se ne aggiunsero presto altre: le cavità sotterranee di Napoli, ad esempio, svolsero un ruolo importante nella spaventosa epidemia di peste, che nel 1656 si abbatté sul capoluogo campano e sul Regno di Napoli, mietendo, soltanto nella città, qualcosa come 200.000 vittime in pochi mesi. 

Tra le ragioni che scatenarono il rapidissimo diffondersi del morbo vi fu anche e soprattutto la sovrappopolazione della città e le pessime condizioni igieniche. Nel 1631 un’improvvisa e terribile eruzione del Vesuvio – che aveva ricordato a quelle popolazioni il ricordo ancestrale del disastro di Pompei – aveva causato la fuga di migliaia di persone che si erano rifugiate in città, credendo di trovare un sicuro riparo. 

Le risorse idriche risultarono ben presto insufficienti e i moti che instaurarono la Repubblica napoletana nel 1647 diedero il colpo di grazia, favorendo la diffusione della malattia, forse introdotta da alcune navi che provenivano dalla Sardegna. Nell’anno della peste, i cunicoli sotterranei di Napoli svolsero un ruolo molto importante: dapprima in esso prese a rifugiarsi parte di quella popolazione sfollata a causa della eruzione del Vesuvio. In seguito alla diffusione della epidemia, in molti credettero di poter scampare al morbo, resistendo al chiuso dei cunicoli e delle grotte sotterranee. 

Ma la peste si diffuse presto anche lì e gli stessi cubicoli finirono per diventare ossari dove venivano deposti i corpi degli appestati, cosparsi da uno strato di calce. Un esempio di questa funzione è la cosiddetta, leggendaria grotta degli sportiglioni cioè “dei pipistrelli”, ubicata al di sotto della odierna chiesa di Santa Maria del Pianto, nucleo originale del cimitero di Poggioreale

La grotta, che non è stata ancora localizzata nonostante le molte ricerche degli anni passati, è il classico esempio del diverso utilizzo delle cavità sotterranee di Napoli, dapprima usata per la ricerca di risorse idriche, poi come ricovero o nascondiglio (fu anche usata dalle truppe francesi del capitano Lautrec nel 1528), infine come ossario e sepoltura degli appestati partenopei.


Fabrizio Falconi

Il racconto continua su:


29/06/20

29 giugno 2000 - 20 anni senza "Il Mattatore" - Ricordo di Vittorio Gassman






Ha scelto il giorno di San Pietro e Paolo, patroni di Roma, per andarsene nel sonno, giusto 20 anni fa il 29 giugno. 

Non era romano Vittorio Gassman, figlio di un ingegnere tedesco, passato per una breve stagione a Palmi, cresciuto a Roma e rivelatosi a Milano; non era romano, ma sapeva esserlo piu' di tanti suoi concittadini, capace pero' di mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali. 

Ma alla fine e' stato tanto romano da meritarsi (come solo Anna Magnani e Marcello Mastroianni) una doppia targa stradale nelle vie della sua citta' adottiva

Del "mattatore", appellativo che lo ha sempre accompagnato dal 1959 quando ebbe grande successo televisivo in uno spettacolo dallo stesso titolo che poi trasloco' nella riuscita commedia di Dino Risi, non e' facile dare una sola definizione: gli riusciva tutto e apparentemente senza sforzo

Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo e svelo' nella sua autobiografia i tarli dell'anima, si scopri' la fatica della perfezione, l'infaticabile ricerca del dettaglio, la necessita' di superarsi ogni volta con precisione maniacale.

Si e' detto che aveva personalita' bipolare e si descrisse malato di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la propria immagine pubblica. 

Eppure era felicemente ammalato di vita, sprizzava giovialita', fisicita', intelligenza e per questo fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice esecutore

Aveva fin da giovane la presenza scenica del prim'attore, ereditava il piglio roboante della generazione di Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), usava il corpo come strumento della sua arte. 

Prestante e bello, da ragazzo era arrivato a disputarsi lo scudetto del basket universitario con la societa' sportiva Parioli, ma il teatro ebbe presto la meglio, visto che gia' svettava tra i compagni di corso all'Accademia d'arte drammatica. 

In piena guerra, nel '43, debutto' a Milano con Alda Borelli nella "Nemica" di Niccodemi, ma fu all'Eliseo di Roma, in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fece notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo

Se sul palcoscenico non ha mai avuto difficolta' a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci furono Luchino Visconti, il compagno d'Accademia Luigi Squarzina e piu' tardi Giorgio Strehler), al cinema dovette passare per piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da "villain" e seduttore pericoloso come in "Riso amaro" di Giuseppe De Santis nel 1949

Ma nel decennio successivo fu il teatro a mantenere alta la sua popolarita': fra il '52 e il '56 la sua lettura di Shakespeare (prima "Amleto" e poi "Otello") fecero storia cosi' come l'"Orestiade" di Eschilo con la regia di Pasolini. 

Gassman sembrava un dio greco, l'incarnazione del teatro, svettava in un'Italia ancora piegata sotto le conseguenze della guerra persa. 

Ma il cinema, nella persona di Mario Monicelli, gli offri' l'occasione di essere "altro". Ne "I soliti ignoti" (1958) incontro' il successo nel modo meno atteso: con Peppe "er Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indosso' una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per anni. 

Fu l'inizio di un'escalation inarrestabile che lo consegna alla storia della commedia all'italiana, uno dei "quattro colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi

Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come Dino Risi, Luciano Salce, Luigio Zampa, Ettore Scola, con Monicelli in testa

Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul "Miles Gloriosus" plautino, cosi' come Risi gli offri' lo spaccone disperato de "Il sorpasso", mentre Scola fu suo complice in tutto l'itinerario della maturita' da "C'eravamo tanto amati" a "La famiglia"

Meno nota, ma non meno intensa e' la carriera internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali e, dopo la rivelazione in "Guerra e Pace" (1956), dagli anni '70 in poi avra' i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, Andre' Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson. 

Si provera' anche come regista in proprio, riversando una buona dose di autobiografia in tentativi ambiziosi come "Kean" o "Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con Paolo Villaggio.

Chiudera' la carriera la' dove l'aveva iniziata, in palcoscenico, tra l'intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo "Ulisse e la balena bianca" che e' una sorta di testamento artistico ed esistenziale. 

Nato nel 1922, sognava di morire in scena e per poco non ci e' riuscito. 

Spirito irregolare e controcorrente, ha dato scandalo nella vita privata con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme.

Spirito inquieto, paradossalmente e' stato il meno "italiano" dei nostri grandi attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava. 

Sognava un suo teatro ma solo dopo morto il Quirino di Roma gli e' stato intitolato; meritava l'Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di un premio a Cannes (per lo stesso film)

La Mostra di Venezia gli ha dato il Leone d'oro alla carriera nel 1996, ma poteva accorgersi di lui ben prima

E' stato un gigante solo e forse proprio questo enorme vuoto che lasciava ogni volta che usciva di scena lo rapiva e terrorizzava insieme. Di certo e' il sentimento che lascia nel cinema e nel teatro italiano anche oggi. Sulla sua lapide sta scritto: "Non fu mai impallato". 




26/06/20

Quando Fellini ingaggiò la donna più alta del mondo per "Casanova" - L'incredibile storia di Sandy Allen

Sandy Allen con Federico Fellini nell'estate del 1975 a Cinecittà

Per il suo Casanova, che ebbe vicissitudini produttive infinite, girato interamente a Cinecittà, Federico Fellini ingaggiò anche la gigantessa americana Sandy Allen, che il Guinness dei Primati riconosceva come la donna più alta del pianeta, misurando in altezza 2.31 metri (qui sopra in una rarissima foto durante le riprese). 

Sandy Allen interpretò il ruolo appunto di Angelina, la Gigantessa che Casanova/Donald Sutherland incontra a Londra.

La Allen - nome completo Sandra Elaine Allen era nata il 18 giugno 1955 e la sua incredibile altezza era dovuta a un tumore nella sua ghiandola pituitaria che gli aveva causato il rilascio incontrollato dell'ormone della crescita . All'età di ventidue anni aveva subito un intervento chirurgico, senza il quale la donna avrebbe continuato a crescere e soffrire di ulteriori problemi medici associati al gigantismo. 

Scoperta durante uno dei suoi casting leggendari, Fellini chiese subito di poterla avere nel cast e nell'estate del 1975 (le riprese iniziarono il 21 luglio a Cinecittà) la Allen arrivò a Roma con un volo speciale fatto venire dagli USA. 

Sandy Allen con Federico Fellini sul set di Casanova (agosto 1975)

Appena dopo il ritorno della Allen in America, intorno a Ferragosto un'altra sciagura si abbatté sulla lavorazione del film: la gran parte dei negativi già girati infatti vennero rubati dagli stabilimenti Technicolor di Cinecittà, insieme a delle pizze di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini e Un genio, due compari, un pollo di Damiano Damiani.

Fellini si disse "rovinato" dal furto anche per la ragione pratica che le scene già girate e trafugate comprendevano i negativi girati con la gigantessa americana, per la quale un ulteriore ritorno in Italia avrebbe causato non pochi problemi organizzativi, visto che già la prima volta si era resto necessario lo smontaggio e l'adattamento dei sedili dell'aereo di linea. 

Fellini decise di proseguire comunque con il resto del film, riservandosi eventualmente di tagliare - con grandissimo dispiacere - le scene che riguardavano Angelina/Sandy Allen. 

Sandy Allen accompagnata sul set vestita da "Angelina", nell'estate del 1975 a Cinecittà

Le riprese, che da contratto sarebbero dovute durare 26 settimane, si interruppero bruscamente il 16 dicembre 1975 quando la produzione sospese le riprese licenziando il 21 tutta la troupe. 

Per il produttore Grimaldi la decisione era motivata dal fatto che il film invece di essere già stato completato con una spesa di 4,2 miliardi di lire, era già costato 4,8 miliardi e completato solo al 60%.

A quel punto Grimaldi si disse disposto ad investire un ulteriore miliardo a patto di ridurre i costi.

Fellini dal canto suo si sentì diffamato dal produttore e sostenne che l'accordo era di terminare le riprese il 21 gennaio 1976, ricordando che quattro settimane di lavoro erano sfumate a causa di scioperi, di una malattia del protagonista e di deficienze attribuibili alla produzione.

Quanto ai costi dell'opera Fellini in qualità di autore, e non di produttore associato, si dichiarò estraneo.

La querelle investì i media, che ovviamente ci andarono a nozze, e trovò soluzione solo quando Fellini si decise a trascinare Grimaldi in tribunale. 

Il 28 gennaio 1976 fu trovato l'accordo: Grimaldi avrebbe investito ulteriori 1,2 miliardi di Lire e gli attori sarebbero stati riconvocati a fine febbraio per terminare la lavorazione del film entro otto/nove settimane.

Il film venne ripreso dunque il 23 marzo. Quando tutte le riprese si erano ormai concluse e Fellini si era ormai rassegnato a fare a meno della parte relativa ad Angelina la Gigantessa, nel maggio 1976,  tutto il materiale trafugato fu ritrovato a Cinecittà, misteriosamente. 

Fellini ovviamente accolse la cosa con gioia, recuperando le scene perdute e potendo così procedere al montaggio completo del film.

Casanova uscì nelle sale a dicembre di quello stesso anno.

Ma che ne fu di Sandy Allen?

Sandy Allen

Colpita da improvvisa e provvisoria notorietà dopo la parte in Casanova, la Allen comparve sporadicamente in alcuni documentari.

Non si sposò mai. Con il passare degli anni, anzi, le sue condizioni di salute peggiorarono, essendo costretta ad usare una sedia a rotelle perché le gambe e la schiena non potevano sostenere la sua alta statura in posizione eretta. Infine, relegata a letto a causa di una malattia, per l'atrofia completa dei muscoli. 

Trascorse i suoi ultimi anni a Shelbyville, nell'Indiana.

Morì il 13 agosto 2008 a cinquantatré anni e da allora una borsa di studio è stata dedicata a suo nome alla Shelbyville High School.

Fabrizio Falconi 
tutti i diritti riservati - 2020


25/06/20

La drammatica storia d'amore tra John Cazale e Meryl Streep


E' stata una fortissima, drammatica storia d'amore quella tra due dei più talentuosi attori di Hollywood in assoluto, a cavallo degli anni '70.

Una storia che soltanto lentamente e recentemente - proprio per il grande riserbo che la grande attrice americana ha sempre riservato alle sue vicende private - è venuta fuori nei suoi particolari. 

La riassumiamo qui brevemente.

Subito dopo la laurea a Yale nel 1975, la Streep si iscrisse e studiò alla Eugene O'Neill Theater Center's National Playwrights Conference, dove apparve in cinque recite teatrali nel giro di sei settimane, visto il grande successo che da subito la accompagnò.

All'epoca aveva 26 anni. 

Lo stesso anno si trasferì a New York e qui apparve nelle più impegnative rappresentazioni teatrali del New York Shakespeare Festival: Enrico V, La bisbetica domata con Raúl Juliá e Misura per misura accanto a Sam Waterston e John Cazale.

Fu proprio durante quest'ultimo spettacolo, che la Streep incontrò Cazale, anche lui una delle promesse più importanti, all'epoca, dello spettacolo americano, con cui avrà una relazione fino alla sua prematura morte nel 1978. 

Nel 1976 la visione del film Taxi Driver ed in particolare la performance di Robert De Niro ebbe un profondo impatto sull'attrice, che fino a quel punto era stata piuttosto disinteressata all'industria cinematografica. 

La Streep iniziò quindi a fare audizioni per diversi film, tra cui quella per il ruolo da protagonista per King Kong di Dino De Laurentiis, il quale, davanti alla Streep e rivolgendosi al figlio in italiano commentò "Che brutta! Perché me l'hai portata?". 

Streep, capendo l'italiano, rispose: "Mi dispiace non essere bella abbastanza per il tuo film, ma la tua è solo un'opinione tra tante ed ora vado a trovarne una più gentile".

La Streep tornò così a teatro, a Broadway dove fu protagonista nei drammi di Tennessee Williams, 27 Wagons Full of Cotton, e di Arthur Miller, A Memory of Two Mondays, per cui ricevette una candidatura al Tony Award come miglior attrice non protagonista in un'opera teatrale nel 1976.

L'esordio al cinema di Meryl Streep avvenne nel 1977 con il bellissimo Giulia di Fred Zinnemann, dove interpreta un personaggio minore sebbene significativo per la trama.

Ma è l'anno successivo che si impone all'attenzione generale, recitando per la prima volta accanto a Robert De Niro, Christopher Walken e al fidanzato John Cazale ne Il cacciatore di Michael Cimino: un lavoro che Meryl Streep aveva deciso di accettare - pur non entusiasta della storia e del suo ruolo - per guadagnare i soldi necessari ad aiutare il compagno, Cazale che si era già gravemente ammalato, di un aggressivo cancro ai polmoni.  Quando Cazale si presentò sul set, lo stesso De Niro si spaventò per le sue condizioni di salute, che erano già peggiorate e che quasi non gli permettevano di rimanere in piedi. Benché cpsì sofferente, Cazale continuò a lavorare per poter terminare quello che sarebbe stato il suo ultimo film, Il cacciatore, e a fianco della sua compagna Meryl Streep. 

Furono la stessa Streep, Robert De Niro e il regista Michael Cimino a convincere i dirigenti della  Universal Studios a consentire a Cazale di continuare a lavorare fino alla fine della produzione. E grazie ad alcune modifiche del piano di lavorazione del film fatte da Cimino, l'attore fu in grado di terminare tutte le sue scene, ma non vide mai il film finito.

Al suo secondo film in assoluto, intanto la Streep ottenne subito la sua prima candidatura all'Oscar come migliore attrice non protagonista.

L'anno dopo, nel 1978 l'attrice fu chiamata per interpretare Inga Helms Weiss, una donna tedesca sposata con un artista ebreo nell'era nazista della Germania, nella miniserie televisiva Olocausto. 

Le riprese della serie si dovevano tenere in Germania ed in Austria, con Cazale costretto a rimanere a New York per curarsi.

Al corrente del peggioramento della malattia del compagno, il cui cancro si era propagato alle ossa,  l'attrice fece immediatamente ritorno e gli restò accanto fino alla sua morte avvenuta il 12 marzo 1978.

Nel frattempo, la serie, con un pubblico stimato di 109 milioni, ebbe un notevole successo e la Streep venne ricompensata con un Emmy come miglior attrice protagonista in una miniserie.

Per cercare di superare lo shock della morte del compagno, la Streep accettò il ruolo in un film minore,  La seduzione del potere e poi in un piccolo ruolo in Manhattan di Woody Allen, nel ruolo di Jill.

Nel film seguente, Kramer contro Kramer, la Streep recitò accanto a Dustin Hoffman nel ruolo di donna infelice che abbandona marito ed affronta una crisi coniugale che sfocia in una pesante battaglia giudiziaria per l'affidamento del figlio (all'inizio l'attrice non approvò il ruolo perché ritraeva le donne come "troppo perfide" e non le rappresentava in modo reale. Gli autori, d'accordo con lei, revisionarono la sceneggiatura. Riscrisse lei stessa alcuni dialoghi nelle scene chiave del film e frequentò l'Upper East Side, dove sarebbe stato grato il film, per osservare le interazioni tra madri e figli del quartiere).

Per Kramer contro Kramer, la Streep vinse sia il Golden Globe che l'Oscar alla miglior attrice non protagonista, che come è noto, dimenticò nel bagno subito dopo aver fatto il discorso.

Kramer contro Kramer e Il cacciatore furono dei successi al botteghino ed entrambi vinsero l'Oscar al miglior film.  

John Cazale detiene ancora oggi un singolare record: tutti i lungometraggi nei quali sia comparso come interprete nel corso della sua breve carriera, inclusi quelli usciti postumi, sono stati candidati al premio Oscar al miglior film



fonte: Wikipedia

23/06/20

Libro del Giorno: "E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto" di John Berger




Dispiace che anche un editore serio come Il Saggiatore sia assai deludente quando presenta il nuovo libro di John Berger come una "intensa lettera d'amore di un grande narratore", annunciandolo così nella quarta di copertina e ripetutamente sottolineandolo nella bandella, allo scopo, immagino, di catturare più lettori. 

In realtà il libro di Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) - come altri suoi - è un testo completamente anomalo, in bilico su diversi generi letterari, saggio filosofico soprattutto, memoir, poesia, auto-fiction. I temi affrontati sono quelli filosofici esiziali, dell'esistenza

L'amore vi ha una parte del tutto minore, trascurabile e semmai funzionale soltanto nella scelta del linguaggio fortemente evocativo e poetico di Berger.

John Peter Berger del resto è stato un personaggio atipico: critico d'arte, scrittore e pittore. Il suo romanzo G. vinse il Booker Prize e il James Tait Black Memorial Prize nel 1972, ma la sua formazione è pittorica: quando nel dopoguerra si iscrisse alla Chelsea School of Art e alla Central School of Art di Londra, esponendo in diverse gallerie londinesi sul finire degli anni '40.

Mentre lavorava come insegnante di disegno (dal 1948 al 1955), Berger divenne poi un critico d'arte, pubblicando svariati saggi e recensioni. Il suo umanismo marxista e le sue convinte opinioni sull'arte moderna lo hanno reso una figura controversa sin dall'inizio della sua carriera.

E solo recentemente si è pienamente apprezzata la sua notevole produzione letteraria, difficilmente identificabile in un genere specifico.

Questo libro, pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1984, è assai prezioso: un compendio di illuminazioni, suddivise in una dimensione verticale (il tempo) e orizzontale (lo spazio).   

Ricordi di viaggi, visioni estatiche, ma anche e soprattutto riflessioni profonde sul passato e sul senso dell'esistenza che (ci) trasforma ogni cosa che viviamo, mentre la viviamo, in qualche altra cosa. 

Un Taccuino intimo intervallato da brevi testi poetici dello stesso Berger, o di altri poeti come Anna Achmatova o Evgenij Vinokurov, oltre a fulminanti incursioni nelle opere amatissime di Van Gogh,  di Vermeer o di Caravaggio.

John Berger
E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto
Edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti
Edizioni il Saggiatore, 2020
pp. 152, Euro 18.00

22/06/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 70. "8½" di Federico Fellini (Italia, 1963)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 70. "" di Federico Fellini (Italia, 1963)

E' ormai per la critica unanime uno dei film capitali nella storia del cinema. E talmente conosciuto e singolare - genialmente innovativo all'epoca - nella struttura e nello stesso sviluppo narrativo che non serve tornarvi. 

E' più interessante invece dare voce allo stesso Fellini, che così parlava del suo film - su invito del settimanale - a corredo delle immagini di Tazio Secchiaroli sul set di Otto e mezzo, pubblicate in anteprima assoluta da L'Europeo del 6 gennaio 1963:

Forse questa è solo la storia di un film che non ho fatto.  

Mi ricordo che all'inizio, parlo almeno di un anno e mezzo fa, volevo mettere insieme un ritratto a più dimensioni di un personaggio sui quarantacinque anni che, in un momento di sosta forzata (il fegato, una cura termale in un posto tipo Chianciano, la giornata scandita da orari nuovi e precisi, il riposo, il silenzio, e intorno una folla insolita e malata, sovrani nordici e contadine, vecchi cardinali e mantenute un po' acciaccate), sprofonda pigramente in una specie di verifica intima. 

Quasi inevitabilmente gli passano davanti fantasie e ricordi, sogni e presentimenti.  Non riuscivo, all'inizio, a dargli una carta d'identità, al protagonista.  Restava un personaggio generico, piombato in una certa situazione, e credevo che non fosse necessario definirlo meglio.  

Ma il film non riusciva a fare un passo avanti. Per quanto se ne discutesse con gli sceneggiatori, Flaiano, Pinelli e Rondi, non restava altro che l'idea del film.  Poi il personaggio è diventato finalmente un regista che tenta di riunire i brandelli della sua vita passata per ricavarne un senso e per tentare di capire. Anche lui ha un film da fare, che non riesce a fare.

A un certo punto lo troviamo perfino ai piedi di una gigantesca rampa per missili: da quella rampa, nel suo film, dovrebbe partire un'astronave, con il compito di portare in salvo, verso chissà quale altro pianeta, i resti dell'umanità distrutta dalla peste atomica.    Proprio lì, sotto il castello di tubi e di pedane, il mio protagonista dice a se stesso: 

"Mi sembrava di avere le idee chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi sembrava di avere qualcosa di molto semplice da dire: un film che servisse, un po' a tutti, a seppellire quello che di morto ci portiamo dentro. Invece sono io il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio un bel niente.  E adesso mi trovo qui con questa torre tra i piedi e una gran confusione nella testa. Chissà a che punto avrò sbagliato strada.

Un capolavoro che non smette, dopo 60 anni, di ricevere applausi da ogni parte del mondo.

8 ½ 
Regia di Federico Fellini
Italia, 1963 
con Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Sandra Milo, Rossella Falk. 
durata 138 minuti 



21/06/20

Poesia della Domenica: "Lamento della sposa barocca (octapus)" di Claudia Ruggeri




lamento della sposa barocca (octapus)

T’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
– sentite ruvide come cadono -; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.




Claudia Ruggeri (Napoli, 30 agosto 1967 – Lecce, 27 ottobre 1996) è stata una poetessa italiana. Nata a Napoli da padre salentino e da madre napoletana. Esordisce giovanissima nel 1985, alla Festa dell'Unità di Lecce, quando declama i suoi versi durante un reading, al quale è presente anche il poeta (e amico) Dario Bellezza. Viene accolta come voce promettente e singolare nel nuovo panorama letterario. Muore suicida a Lecce il 27 ottobre del 1996, a soli ventinove anni, lanciandosi nel vuoto dal balcone della sua abitazione.

20/06/20

72 anni fa, nasceva il primo Long Playing della storia della Musica



È un'esperienza che tutti i baby-boomer, cioe' i nati dall'immediato dopoguerra fino alla meta' degli Anni Sessanta, hanno sicuramente provato. 

A ogni trasloco si sono trovati per le mani un pesante pacco di oggetti neri, circolari, del diametro di circa 30 centimetri, obsoleti e ormai inutili. Eppure tutti sono stati ogni volta assai restii a disfarsene. 

Stiamo parlando, ovviamente, dei dischi a 33 giri, i cosiddetti Long-playing, o piu' familiarmente Lp (ellepi') o Album

L'occasione per ricordare queste icone della musica e' il loro anniversario di nascita. 

Esattamente 72 anni fa, il 21 giugno 1948, presso l'Hotel Waldorf Astoria di New York, la Columbia Records presentava il primo esemplare di 33 giri, che in breve avrebbe soppiantato il vecchio e glorioso 78 giri inventato nel 1894. 

Per la prima volta, su un supporto in vinile si potevano incidere brani musicali su entrambe le facciate, con una resa del suono di grande qualita' e una durata superiore, in genere dai 25 ai 30 minuti per ciascun lato. 

Il disco veniva collocato sul piatto dei giradischi e una puntina in diamante o zaffiro "leggeva" i solchi che vi erano stati incisi, trasmettendoli a un'apparecchiatura che li trasformava in suoni. 

Girando, appunto, alla velocita' di 33 giri (per la precisione 33 e un terzo) al minuto

Fu una vera rivoluzione per il mondo della discografia. Completata dal fatto che l'anno successivo, nel 1949, la Rca lancio' il piu' agile 45 giri e negli stessi anni altre grandi aziende americane (come la Wurlitzer e la Seeburg) perfezionarono il mitico Juke-box. 

Finalmente la musica poteva diventare un prodotto culturale a disposizione di tutti, a prezzi non eccessivi, fruibile a casa propria o addirittura all'aperto, in spiaggia, in viaggio (quando poi, alla fine degli Anni Cinquanta, fu commercializzato il mangiadischi). 

La musica usciva dalle segrete stanze dei privilegiati e diventava una forma d'arte diffusa e popolare. 

Poi, dagli Anni Ottanta, e' arrivata l'era dei compact-disc, e successivamente degli Mp3 e dei supporti digitali. I vecchi giradischi sono stati archiviati in cantina, o buttati in discarica. Alcuni sconsiderati si sono liberati dei loro 33 giri, contribuendo ad alimentare le bancarelle dei prodotti vintage. 

Ma tantissimi non hanno ceduto, e mossi da motivazioni esclusivamente sentimentali hanno conservato quei curiosi oggetti in vinile. Magari ripetendo fra se' e se': prima o poi mi ricompro un giradischi e "li metto su". Cosa che non avviene mai. In compenso, questi nostalgici se ne ricorderanno al prossimo trasloco.

19/06/20

Incredibile scoperta: Il "Volto Santo" di Lucca è la più antica scultura lignea di tutto l'Occidente .



Le indagini diagnostiche con il carbonio 14 fatte per la prima volta sul celebre Volto Santo di Lucca hanno dato un risultato eclatante: l'opera e' databile tra l'VIII e il IX secolo.

E' la conferma, si spiega, che si tratta del primo e unico Volto Santo, che un antico testo creduto leggendario affermava essere arrivato a Lucca nel 782 d.C. e non di un'opera del XII secolo, replica di un originale piu' antico andato perduto, come gli studi di storia dell'arte ritenevano finora. 

Alla luce dei nuovi dati, il Volto Santo di Lucca e' la piu' antica scultura lignea dell'Occidente. 

L'indagine diagnostica e' stata avviata per le celebrazioni per i 950 anni dalla rifondazione della Cattedrale lucchese. 

L'opera e' una delle icone piu' venerate della cristianita': il suo culto nel Medioevo si estese a tutta Europa. 


100 film da salvare alla fine del mondo: 69. "Vacanze Romane" (Roman Holiday) di William Wyler, 1953, Usa




Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 69. "Vacanze Romane" (Roman Holiday)  di William Wyler, 1953, Usa

Il film che per molti ha rappresentato il liberatorio risveglio dopo gli anni della Guerra, il film che guardava con fiducia, ottimismo, ironia, al futuro, in un futuro dove il meglio sembrava possibile.  

In Italia come altrove.

Roman Holiday (il titolo originale) fu realizzato dal grande William Wyler nel 1953 e fu candidato a dieci premi Oscar - ne vinse poi 3 di cui uno a Audrey Hepburn come migliore attrice protagonista. 

La storia, frutto della sceneggiatura di Dalton Trumbo, uno dei più geniali scrittori di Hollywood finito poi nelle liste di proscrizione del maccartismo, racconta le vicende di Ann, una giovane principessa, che gira per le capitali europee, soggetta a un protocollo immutabile. 

Arrivata a Roma, decide di fuggire e lascia il palazzo in cui abita, dopo che un medico le ha somministrato un sedativo, addormentandosi su una panchina del Colosseo e attirando l'attenzione di un giovane e piacente giornalista, Joe Bradley. 

Bradley la porta a casa sua e la mattina dopo scopre che la ragazza non è altro che la Principessa Ann che avrebbe intervistato lo stesso giorno. 

Il palazzo, spaventato ha intanto avviato le ricerche per ritrovare la ragazza. 

Bradley decide di approfittare della situazione, cercando di intervistare Ann e fotografarla, nascondendo il suo lavoro di giornalista. 

Ann, felice di avere una giornata di libertà, si diverte e visita la capitale in Vespa . 

La sera prende la decisione di tornare al Palazzo,  a causa dei compiti derivanti dal suo suo status, nonostante si sia innamorata di Bradley. 

Il giorno seguente, Bradley rinuncia a scrivere e pubblicare un articolo sulla scappatella della principessa, nonostante l'importante somma che ha ricevuto dal suo giornale.

Pochi istanti dopo, Ann, intervistata da una folla di giornalisti, riconosce Bradley tra loro.

Il giornalista gli fa capire che rimarrà in silenzio, e il suo collega fotografo restituisce alla giovane donna le foto che le aveva fatto a sua insaputa. 

Ai giornalisti che le chiedono quale città preferisce tra tutte quelle che ha visitato durante il suo tour, Ann risponde che Roma è la sua città preferita e che la ricorderà per tutta la vita, rompendo così il protocollo che voleva che lei non esprimesse alcuna preferenza. 

Dopo questa conferenza stampa Bradley capisce che fa parte di un altro mondo rispetto al suo, e che, nonostante il sentimento, ognuno deve seguire il suo destino.

I titoli di coda specificano che il film è stato interamente realizzato a Roma (in città e negli studi di Cinecittà ). Il film deve anche il suo successo alle riprese in bianco e nero, una scelta voluta da Wyler che sorprese, nel momento in cui Technicolor era in pieno boom. 

Gregory Peck, già affermato, affascinato dall'esibizione della giovanissima Audrey Hepburn, chiese che il suo nome apparisse accanto al suo sul poster del film. 

La comprensione e la complicità tra i due attori era eccellente e lo si percepisce a distanza di 70 anni, ciò che rende questo film sempre genuino e felice. 

A riprova di questa complicità, la famosa scena della Bocca della Verità, con Gregory Peck che mette la mano nella Bocca della Verità, come è tradizione, e fa credere ad Audrey Hepburn che sia stata tagliata. 

La reazione spontanea dell'attrice è stata catturata in una ripresa dal regista che ha deciso di includerla nel montaggio.

Tra i luoghi di Roma ripresi nel film: il Colosseo , la Bocca della Verità, il ponte e il Castel Sant'Angelo, la Fontana di Trevi, il Pantheon, Piazza Venezia, Piazza di Spagna, la Galleria Colonna (dove si tiene la conferenza stampa alla fine del film).  


VACANZE ROMANE 
(Roman Holiday)
Regia di William Wyler 
Usa 1953 
con Gregory Peck, Eddie Albert, Audrey Hepburn, Artley Power, Hartley Power, Harcourt Williams, Margaret Rawlings
durata 119 minuti