01/02/19

Una rara intervista a Pasquale Panella il poeta autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti.






A beneficio degli appassionati e non pubblico in questo blog una delle rarissime (e più complete) interviste realizzate a Pasquale Panella, poeta romano, autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti,  da Don Giovanni a Hegel che conclusero la sua esperienza artistica e costituiscono ancora oggi un corpus eccentrico e affascinante. 

LE CANZONI SONO SOLO VAPORI
(primavera 2000)
Il vate aveva accettato di incontrarmi, ma ho preferito telefonargli. Sapevo già che è al telefono che dà il suo meglio. Leggendario, diluviante, Panella vive con il telefono appiccicato all’orecchio, e soprattutto alla bocca. Forse perché (tranne una recente acquisizione) non ha mai avuto uno stereo, e il telefono è un buon modo per ascoltare qualcosa, soprattutto se stesso. Forse perché come Elias Canetti ha subìto (o prodotto) l’autodafé dell’immensa biblioteca della sua cultura, optando per la comunicazione orale. Forse perché è un autore-attore senza spettacoli, se non quelli che telefona tutti i giorni alle sue incantate vittime. Perché le parole sono milioni e lui ha bisogno di pronunciarle tutte, articolandole nella sintassi del paradosso e del nonsense. Forse anche perché disprezza i cantanti (cioè gli autori), e preferisce al limite i giornalisti, purché le sciocchezze che scrivono possa firmarle un genio, per ribaltarne il senso. Lui stesso, paroliere per caso, firma quello che gli fuoriesce dalla macchina da scrivere, come in un incubo del suo amato Burroughs. Non parla mai di quello che fa, e nemmeno di quel che si fa, o si fa fare. Parla del linguaggio, provando sempre a soffocarlo nelle sue stesse spire.

Parlare con lui di Lucio Battisti, come avrei voluto fare, è stato molto illuminante. Perché Panella di Battisti non racconta quasi niente, ma quello che non dice è molto più di racconto. E’ il mistero della medietà, caratteristica intrinseca delle canzoni, ma anche delle persone.

Ho dimenticato, con lui, di provare a pronunciare la parola genio. Ma, proprio per questo, dalla nostra conversazione tale parola brilla di luce intensa per la sua assenza. In fondo il genio è un vapore della medietà, la capacità di trovare quello che neppure si cerca, come diceva Picasso. Di trovare ovvie le cose meno ovvie e così, genialmente, scoprirle. O meglio ancora (si fa prima) crearle ex novo. Dal vapore, dal nulla.
La chiamo per parlare con lei degli autori di canzoni.
Non ci sono autori, ci sono solo cantanti. Quelli che si dicono autori sono autori solo di quello che ascoltano: dunque sono cantanti. I cantanti sono sempre qualcosa di meno.
Eppure lei esordì come autore di testi con Enzo Carella, che cantò Barbara, vincendo un secondo posto al Festival di Sanremo del 1979.
I cantanti sono parecchi. Enzo Carella è il meno parecchio di tutti, ovviamente perché è il primo, e come in tutte le cose la prima è sempre quella buona. Con Carella si è fatto tutto. Proprio ieri ho chiesto di darmi quelle vecchie registrazioni, che non ho mai avuto, perché non avevo uno stereo, solo oggi ho un lettore Cd. Sto chiudendo un periodo, un periodo blu. Non come Picasso, imitativamente, ma chiudo il mio periodo blu per entrare in quello rosa, il colore della cattiveria e della crudeltà. Non è vero che è un colore tenero, non è il colore dell’incarnato. Basta prendere un rosa e metterlo sull’ovale di un viso, e si vedrà che non è quello il colore della carne.
Ma lei ascolta canzoni?
Sento tanti provini, ma i cantanti, così come le persone, son tutti un po’ uguali.
Anche Lucio Battisti era un cantante?
Credo che così lo si privi della sua definizione assolutamente guadagnata nel tempo, del suo essere di meno ma non solo.
Quel “non solo” è un di più?
No, i cantanti sono sempre un di meno, perché son baciati dagli angeli. Ci sono molti parrucchieri che si chiamano Angelo.
Come iniziò e come finì tra lei e Battisti?
Per quel che mi riguarda inizia come finisce, cioè forzatamente. Parliamoci chiaro: parlando di canzoni io non sono affatto adeguato. Per me scrivere le canzoni è come fare le rapine. C’è un mondo abbastanza imbecille da farsi uscire i soldi dalle tasche, senza nemmeno dover andar lì a mano armata. Io che nella vita non ho fatto altro che pensare a scrivere, anzi non ho fatto altro che non pensare a scrivere, so che basta appoggiare la mano sui tasti della macchina da scrivere, come si fa su quelli di un pianoforte, e fai uscire quattro parole. Ma se ciò non è preceduto da una continua elaborazione della scrittura precedente, non esiste scrivere. A me della canzone non me ne è mai importato nulla. Mi sono avvicinato alla canzone giusto per ascoltare quattro dischi, quelli che facevo, magari nemmeno a casa ma in in studio di registrazione, mentre si elaborava. Oggi sono molto annoiato, perfino dall’ascolto di me stesso. Già a quel tempo, per me, scrivere era scrivere al di là di una destinazione, era scrivere in prosa. Capitavano queste occasioni abbastanza lucrose, e quindi lo facevo. Pur senza competenza di quello che la produzione musicale italiana è o non è, mi è sempre parsa un’attività abbastanza cretina. Mi vergognavo un pochino che il mio nome apparisse, usavo pseudonimi, poi sfuggiva perché il mondo della musica leggera è molto ciarliero. Ma è stato per me un mondo anche molto affabile, gentile, affettuoso.
Anche i cantanti sono dunque un po’ angeli, come i parrucchieri.
Dicendo “i cantanti” libero queste creature di tutte le scaglie imprenditoriali che le ricoprono. Quando diventano imprenditori sono invece abbastanza ributtanti. Ma è bello vedere un cantante che, nell’esercizio delle sue funzioni, risolve dei passaggi, trova il suo momento di voce.
Mentre registrava a Londra i dischi delle canzoni scritte con lei, spesso Battisti le telefonava. Cosa le chiedeva?
Più che chiedere mi faceva ascoltare delle cose.
Le chiedeva modifiche ai suoi testi?
No, a volte capitava che gli proponessi dei tagli. Io preferivo abbondare, però lo avvertivo: fa’ ‘na cosa, vedi tu quello che più ti occorre. A volte capitava non che fossero tagliati di botto, ma che alcune parti fossero restituite frammentariamente.
Con Mogol, Battisti preferiva modificare la propria melodia piuttosto che intervenire sulla lunghezza o sulla metrica dei versi. Faceva così anche con i suoi testi?
Come no, sempre. Salvo in casi rari, quando io stesso gli proponevo delle varianti, delle frammentazioni. Battisti lavorava moltissimo sulla melodia.
Si dice che lei e Battisti vi sentivate al telefono ogni giorno.
Anche più di una volta al giorno.
E cosa vi dicevate?
Di tutto, qualche volta era anche finalizzato alle canzoni. Poi a volte anche le chiacchiere potevano essere utili.
Sembravate avere in comune una vocazione scientifica. Lucio Battisti sapeva riparare tutti gli oggetti meccanici, lei li metteva in versi.
Scrivere significa avere tutte le vocazioni, e dibattersi perfino nella sconoscenza.
Ma perché ci sono tutte quelle macchine, e tutte quelle macchinazioni, nei suoi testi scritti per Battisti?
Perché se fossi vissuto in altri tempi avrei parlato di cose occorrenti nel passato. La canzone in fondo è molto legata a tutto questo che si muove, vive un po’ di questa sua prima ambizione che è il movimento. Ecco perché nelle canzoni si vola sempre, il primo referente dinamico e primordiale è quello, e nella canzone generalmente è teorico. Come in Freud, è l’anelito del mancante. Se uno parla del volo o è perché vive tutti i giorni su un aereo, o è perché si sta frustrando. Non è che io perda tutta la notte per dire solo “io volo”, come scrissi in un pezzo. Perché più astutamente osservavo la frustrazione che a loro veniva, cantanti e autori, mettendo il volo dovunque. La canzone è ingenua, una da poco arrivata, una parvenue. Anche questo sposalizio di interessi tra la parola e la musica… parola e musica non hanno niente a che vedere tra di loro, la canzone esiste per puro amore dell’orrido. Le più sopportabili sono le canzoni di tipo comportamentale, dove la musica è solo un’enfatizzazione dei toni espressivi. Quelle dove ad una splendida musica corrisponde una splendida falsità testuale sono le migliori, le canzoni stupide-belle, dove l’interesse dell’ascoltatore è lo stesso per il quale si sposarono parole e musica, perché per accoppiare insieme le due cose ce ne vuole, di sforzo. Oggi è un interesse potentissimamente commerciale, oggi per unire musica e parole a volte si devono mettere assieme due colossi industriali. La prima cosa che si chiede è se uno ci ha le edizioni. Poi la canzone cerca sempre di creare la castità, sembra sempre che uno produca la canzone di nuovo, la novia, la sposa, la nuova.
Dopo la vostra prima collaborazione, quella di Don Giovanni, lei non scrisse più testi sulle melodie di Battisti, ma fu lui a musicare i suoi testi. Perché invertiste il metodo?
Invertire il metodo è stata una mia richiesta, perché in Don Giovanni la presunzione di canzone era ancora forte. A me piaceva stabilire un diritto di prima notte, che una canzone uscisse già fatta, che uno se la fosse già fatta, in tutti i sensi, o signora, coi suoi difetti. Tutti quelli che ascoltano canzoni sono puritani, mormoni, una cosa tremenda. La canzone è piena di piccoli ma ferrei codici, molto morali. La canzone è il tentativo di darsi una morale. Altri si danno una calmata, questi una morale. Perciò la canzone esiste sempre, e tutti i governi in fondo la tollerano, ed essa ha con loro traffici illeciti. Una volta degli amici facevano una festa con le canzoni di Dylan, era venti o trent’anni fa. Chiedo: ma che dice questo? Andai a guardare, e mi sembrò un chierichetto. Noi italiani siamo abbastanza svezzati, gente come napoletani e romani, gente che circonda il Vaticano: quelli di Dylan mi sembrarono testi di uno scadente spiritualismo. Nessuno era d’accordo, tutti credevano che fossero gran cose. Solo dopo trent’anni, andandolo a rileggere, se ne rendono conto, forse perché lo hanno visto piegarsi davanti al papa. Sembravano canzoni di grande assalto, ma non era vero: canzoni mormoni, piegate, molto moraleggianti.
Ma cosa vi dicevate al telefono, lei e Battisti? Parlavate del vostro lavoro, o di cos’altro?
Allora parlavo un po’ così come adesso: per me parlare significa monologare.
Ma vi vedevate?
A volte ci trovavamo insieme, e c’era anche allora quella… Voglio dire, quando la stampa lamentava la sua sparizione, era lei che la creava. La sparizione di Battisti era una comoda notizia da scrivere seduti. Ma in fondo io apprezzo il giornalismo. E’ vero, non siamo più ai tempi d’oro, non dico di Truman Capote, ma del giornalismo iniziale, quello mosso, presente, di ricerca, nel senso proprio del cercare. Tutti sono notizia, sotto una certa specie. Ad esempio la bellezza, o lo scatenamento del desiderio da parte di un personaggio molto bello, è notizia; finché non arriverà alla decadenza, quando la notizia sarà quella, la notizia della decadenza.
Lei tace le relazioni, non parla mai di sentimenti. Lei lo ha amato, quel Battisti? Ricordo la violenza con cui scrisse a Boncompagni dopo una sua battuta infelice in televisione, all’indomani della scomparsa del musicista.
Io me la son presa perché ci aveva messo dentro anche me, me fisicamente. I testi sono come i quarti di bue, se uno non vuole non li produce. A me risultano più approssimative e più antipatiche le critiche benevole, perché non dicono niente di vero. Poiché l’astio, il livore, è molto più lucido. Ricordo certe scivolate di Luzzato Fegiz o di Zampa, che mi attaccavano: quando mi incontravano mostravano un’opinione di me molto più alta. Quello che dite è tutto vero, mancava solo la firma, perché non ci stava scritto Roland Barthes. Se si scrive “Panella persegue un progetto di insensatezza”, ed è firmato Roland Barthes anziché Fegiz, è questo che fa la differenza. Detto da Fegiz vorrebbe essere un astioso insulso… volevo dire insulto (ma detto da me va benissimo). Quando i benefattori sparano qualche complimento, chi se ne importa.
Battisti rivelò un giorno a un amico una specie di metodo per valutare quello che lei scriveva: “I testi di Panella, se non li capisco vuol dire che sono giusti”.
Qualche testo sempre mi rimaneva fuori… Sì, vabbè, ma era quello che chiedevo io, avrebbe fatto una brutta figura a dire “ho capito tutto”, peggio che dire “io sono ignorante”. Si sbaglia a mettere queste faccende sul piano della comprensione delle cose. Si dovrebbe piuttosto rimanere incantati di fronte a questo oggetto dal quale esce la musica. Non capiscono nemmeno perché un disco messo in un posto suona, poi vogliono capire cos’è la musica? Mi sembra troppo. Tra un uomo e una donna, non sia mai che uno debba dire all’altro: “fàmmiti sempre capire”. Mi sembra molto offensivo. E poi si parla di sentimento. Riconoscano prima che il sentimento è una falsa sovrastruttura, e allora poi parliamo di capire.
Quando lei e Battisti facevate assieme una canzone, cercavate la stessa cosa?
No, non credo. Io non so neppure cosa cercassi. Non è nemmeno che non cercassi niente. Mi trovavo quelle frasi davanti, oggi sarebbero probabilmente diverse. Ma non per ragioni strutturali o formali, perché le canzoni che vengono un giorno non vengono un altro.
Per un Battisti che non scriveva più secondo la logica della strofa e del ritornello, le melodie erano diventate un’operazione di dispendio. Come la parola per lei. Un’altra affinità fra voi due?
Io non scrivevo ritornelli, ma un percorso obbligato, nel quale c’erano però dei moduli tornanti. Ma quelle canzoni nell’insieme sono dei ritornelli.
Ma sono anche come i quarti di bue, come lei stesso diceva prima. Il pubblico compra le canzoni per mangiarle.
No, il pubblico mangia tutto, è quasi una discarica, riceve i testi di tutto. Se uno pensa a quello che è l’elaborazione della canzone… Prendiamo un giovane autore o cantante, giovane per offenderlo. Vive la sua vita giovanile, tutta fatta di speranze, pulsioni compositive, aspettative, e la sua dotazione è circa venticinque canzoni. Sono le canzoni migliori della sua vita. A un certo punto c’è questo ragazzo che s’incontra con altri ragazzi, produttori, discografici, e da questo gran corpo bovino o suino ricavano qualcosa come una cistifellea, nella quale gli antichi credevano ci fosse l’anima. Una cosa assottigliata, strofa-strofa-inciso, la cistifellea: qualcosa che normalmente si butta. E la buttano, infatti, in pasto al pubblico. Non mi pare che il pubblico riceva il meglio. Di tutto il corpo, bovino o suino che sia, di una vita rivolta alla canzone, ricevono qualcosa che veramente è stato sterilizzato da quel corpo. Lo ricevono nei termini di una “operazione” discografica, si dice così, no? Questo tampone pieno d’alcol snaturato. Quello che arriva. La canzone è qualcosa di molto levigato, prosciugato, tagliato e ritagliato, una cosina così. Ma nego che ci sia un’affinità tra musica e testi, che ci sia stata o che ci sarà. E’ un matrimonio di interessi. La parola non ha niente da condividere con la musica, né la musica con le parole. Esiste un luogo comodo, che è la canzone, con cui oggi la gente ritiene di aver assolto il compito del consumo culturale. Una cosa composta, molto calata nel ruolo. Si fanno seminari, ne parlano sul serio: questa è la più grande offesa portata alla canzone. La canzone non va discussa, perché è fuori da ogni discussione. Sennò perde la sua caratteristica di figlia degenere di un matrimonio d’interesse, ma bella, leggera, idiota. Perde quello che veramente dovrebbe essere: inafferrabile. Non conoscendo e non amando la canzone, le ho restituito quello che dovrebbe essere: l’inafferrabilità. Se chiediamo a un amante della canzone del passato cosa vuol dire “Vola, colomba bianca vola, diglielo tu che tornerà”, lui non lo sa. Con la canzone si entra in scemenza, uno esce dalla priorità del tutto. Entra in scemenza, nell’avulsione dal tutto. Ma da anni vien fuori che bisogna essere problematici, che bisogna farne un problema.
Stiamo scrivendo l’ennesimo libro su Battisti, nell’eterna speranza che sia quello vero. Lei trova sbagliato che in un libro si racconti la vita di una persona?
Sì. La vita di una persona coincide con la vita di chi l’ascolta, quella persona lì. Poiché esiste uno standard esistenziale: anche se gli ascoltatori di canzoni sono tanti, mediamente parlando, la canzone è la soddisfazione della zona mediana: le apprensioni, le aspettative, i medi desideri e le medie voluttà del medio. E’ tutto medio. Non esiste una canzone di tipo tirannico, o criminale. E’ tutto mezzo e mezzo. Un po’ autoritario, ma un po’. Un po’ vittima, un po’ no. Se uno dovesse ricostruire i rapporti umani dalle canzoni, non ne verrebbe fuori quasi nulla. E’ un mondo molle, perché è un mondo medio. E’ un mondo di quella vita lì, che non prende posizione né per un verso né per un altro. Non dà colpi né al cerchio né alla botte: accenna. Alla canzone non è chiesto di dire, ma solo di apparire. Ecco perché L’apparenza. E’ un po’ un miracolo, ne ha tutte le caratteristiche, salvo che non la fa troppo lunga, perché dura tre minuti, se ne capisce l’origine, perché c’è di mezzo un oggetto. A differenza di Fatima può vendere anche qualche milione di copie nel mondo, ma almeno non è così invasivamente ecclesiale. La sua capacità invasiva è epidemica, ma sempre meno di quell’altra. Di vantaggioso ha che dura meno: la si può riascoltare, ma la sua durata resta sempre quella. Da ragazzi si comprava un 45 giri, e il primo giorno lo si metteva cento volte di seguito. Ma non è che facendo così moltiplicassero i tempi: non riuscivano a capirne il miracolo, per cui lo ripetevano. La canzone è amabile perché finisce, presto.
E la vita di chi scrive canzoni?
Della vita, che dire? Sono vite normali. Uno si sveglia dopo essere andato a letto il giorno prima, fa colazione. E vive come chiunque. Io poi son poco attendibile. Poco mi ci trovo nei panni di chi vive di ricordi, io so parlare solo di me, che vuole che dica di un altro? Si può dire di Alfred Jarry, che col revolver sparava ai bagarozzi, e li stecchiva pure. Ma son passati più di cento anni. Ho letto di Graham Greene che era uno scrittore mediocre perché parlava di persone. Obiettivamente è uno scrittore medio. Un bravo scrittore, scrittore-scrittore, di quelli veri, scrittore di professione, non certamente di vocazione. Si interessava delle persone perché di meglio non sapeva fare. Interessarsi alle vite è una noia, perché le vite sono noiose.
Ma insomma, questo Lucio Battisti. Nessun dettaglio da ricordare?
Sono io che non mi trovo nelle parti di uno che ricorda, non sono un memorialista, affettivamente parlando.
Un rapporto, dei sentimenti?
Io di natura non sono portato molto alla condivisione di nulla. Penso a me, penso di me, non vedo perché debba penare trapassandomi negli altri. Il fatto di mettere insieme queste due cose, la musica e le parole, questa compenetrazione in realtà è perfino un superamento, una sospensione dell’amicizia. Non vedo perché uno debba impegnarsi, dopo aver fatto qualcosa del genere, che è perfino un po’ immorale, come qualsiasi fondazione di una moralità: l’immoralità dell’estetica è nel farle, le cose, non nell’averle fatte. Partecipare di questa immoralità, come commettere una rapina insieme, è più dell’amicizia. Mi viene in mente Genet, che non aveva amici, ma che perciò aveva ancora qualcosa di più potente, con i suoi complici. Dell’amicizia non me ne importa nulla, anzi la detesto un pochino. Non la capisco.
Si è mai mosso di casa per incontrare Battisti?
Ho frequentato solo la sua casa romana, si figuri se io mi muovo, certo non per andare a parlare di canzoni. Si parla meglio al telefono.
Anche per comporre testi di canzoni?
Ci sono stati vari modi. All’inizio, dettandoglieli. Poi i fax, poi ancora la prima Internet.

Battisti le ha mai fatto proposte di modifica, sui testi? Voglio dire: non sulle metriche, ma sui contenuti?

Il problema sarebbe stato capire quali erano, i contenuti…
Perché? Vuol dire che Battisti non li capiva?
In fondo questa cosa fu risolta prestissimo. La cosa che dissi subito, e che subito lo persuase… Diciamo che probabilmente io gliene ho parlato come ne ho parlato con lei, sulla canzone come apparizione, sulla sua volatilità, la peste da una parte e il miracolo dall’altro.
Dunque lui accettò subito questa sua posizione?
Immediatamente.
Lei è elusivo, nei suoi testi come nel racconto della vita.
Ogni vita a raccontarla è assolutamente insulsa, salvo che tu non lo faccia da giornalista, detto nel senso bello. I fatti accaduti esistono solo in alcune pagine di questi giornalisti qui, parlo di gente come Hemingway. Ma uno notevole sotto il profilo esistenziale è Enzo Carella, perché non avendo vissuto imprenditorialmente la vita che fa, vive una vita senza risorse, che io ricordo e tengo presente come tutti gli altri. Ho un certo affetto per il giornalismo, specialmente per il cattivo giornalismo, che è ingenuo, perché è avventizio. Come quando cominciarono a dire: è la loro fine, non vendono più, eccetera. Per qualche motivo i discografici, vuoi perché macinano musica, vuoi perché sono commercialmente aggiornati, le garantisco che afferrano le cose molto più dei giornalisti avventizi. Capirono subito che dietro quella cosa c’era un evento commerciale, come si dice nel loro lessico. E quando leggevano quelle cose, le previsioni giornalistiche su quel cantante che consideravano finito, i discografici ridevano. L’evento è stato talmente produttivo dal punto di vista promozionale – tanto che noi oggi ne stiamo parlando – perché le vendite superarono le previsioni e ci fu pure un richiamo di vendita del suo passato, di tipo vendicativo. Senza che l’avessi fatto volontariamente, io partecipai di un’ottima operazione commerciale. Ecco perché andava bene tutto. L’elemento di novità attira le attenzioni, e la novità erano quelle parole lì.
Perché finì?
Perché mi stancai. Mi pareva che cinque dischi fossero già troppi. Si stava diventando troppo produttivi e continui. Io non amo molto la continuità. Se mi dessero un miliardo per posare nudo lo accetterei, perché mi metterebbe a rischio e non me ne importerebbe nulla. Perfino Fegiz cominciava a parlarne bene, si diventava consueti. Alcune cose io non le ho neanche firmate, perché non volevo diventare un miserabile mito della musica leggera, come dire: non c’è altro, ti devi accontentare. Diventare qualcosa in mancanza di tutto.
Mai pentito?
Assolutamente no. Anzi, in generale mi sto allontanando sempre più dalla canzone. Ne faccio sempre meno, e cerco di farle nella maniera più stupida possibile. Ma la cosa non era riconducibile a un episodio.
Lui come la prese?
Credo non bene. Ogni disco finito io dicevo vabbè, abbiamo fatto, ci possiamo dire appagati. Ma lui parlava subito del prossimo. Da parte mia era sempre più evidente questo blando scostamento dalla canzone. Da quella in particolare, perché stava diventando consueta, stava prendendo piede, come si dice. La mia scrittura per canzone è scrittura applicata alla canzone. Per me la canzone non è il riferimento assoluto, ma nemmeno relativo. Di quel passo avremmo fatto un disco ogni due anni per sempre. Era tutto così ripetitivo. Due anni e tutto si ripeteva, solite solfe, solito balletto, tutte finzioni da parte di tutti, il pubblico finto. Per me quelle cose, a voler esagerare, avrebbero dovuto vendere quindicimila copie. Il discorso più interessante è proprio questo: l’incidenza di queste cose nelle faccende discografiche, negli interessi del pubblico. La vita è bella quando te l’immagini, perché se sei bravo riesci a veder quello che non puoi vedere. Cosa vuole che m’importi mettere a nudo una vita normale? Non importa nemmeno a quello che l’ha vissuta. Le vite taciute è meglio che lo restino. Le vite di cui non si conoscono grandi espressioni, grandi barbagli, grandi abbacinamenti e grandi scivolate, grandi uppercut e grandi record (della vita, non della musica leggera, che qualsiasi imbecille è in grado di apportare) vanno taciute, perché quelle grandi espressioni non furono espresse proprio per non essere raccontate. Chi si esprime in maniera notevole vuole essere raccontato in maniera notevole. Vite così sono esistite, vite che volevano essere raccontate. Gente che, sapendo di vivere in pubblio, viveva in pubblico godendo, e pagandolo. Questo li pone di fronte alla violenta scelta di essere quasi per sempre. Ci fanno pure i film, su Ciaikovskij, su Oscar Wilde: gente talmente densa di racconto che questo racconto gli usciva dai pori. L’altra gente ascolta le canzoni, e ascoltare le canzoni significa farle. Non esiste un autore di canzoni che non sia stato pubbblico della canzone. Chi fa canzoni è un ascoltatore, e lo sarà per sempre. Io non ho mai ascoltato canzoni, ho scritto in assenza di suono, come Beethoven. Ecco perché ho scritto prima di ascoltare la canzone, perché io non la sento. O si vivono vite notevoli, o si ascoltano (si fanno) le canzoni.
Io sono elusivo perché son sordo.
E detesta gli aneddoti.
Alcuni fatterelli è bene che non si conoscano mai, perché se la normalità vuol esser taciuta, è bene che sia taciuta. Molte vite possono essere ricostruite sulle opere. E’ tutto lì. Esiste un’esposizione sfrontata, impavida di sé, che può essere ricostruita come vita.
Mi vien da pensare che quella pretesa di Battisti, che diceva di non essere più interessato a comunicare, forse gliel’aveva suggerita lei.
La canzone non è necessaria, per cui nessuno può dire di trovarsi scomodo in quei panni. Non è sartoriale. La più concreta analogia è quella con il miracolo: pura visione, puro nulla, però colorato. Non puoi infilare le braccia in una nuvola. Durano forse uguale, la canzone e il miracolo: per un miracolo un tempo di quattro minuti è sufficiente. La noia, l’usura, la sopravvivenza di una chiesa su quel miracolo sono molto più durature. La canzone è più astenuta: certo, sono un miracolo, ma non stiamo a far tante chiacchiere, tanto poi ne apparirà un altro. Son miracoli stagionali.
E poi?
Le canzoni sono vapori. La canzone dice: io sono un po’ falsa. Ma il fatto che lo dica è grande. Sono un po’ falsa, cioè sono un miracolo: un abbaglio nel quale puoi vedere delle cose, puoi vedere l’amore, cioè un abbandono cantabile, una cosa falsa. Ad esempio, io ho giocato a lungo come centravanti nella Roma, allenato da Zeman.
Davvero?

31/01/19

Gobetti, vittima del Fascismo: 3 brani per non dimenticare.



Di questi tempi, è bene ricordare le vicende del nostro passato - non così lontane come sembrano.

Il 5 settembre 1924, mentre sta uscendo di casa, Piero Gobetti, giornalista, filosofo, editore e traduttore, all'epoca ventiquattrenne, viene aggredito sulle scale e selvaggiamente picchiato dalle squadracce fasciste. 

Costretto a espatriare in Francia con la moglie Ada Prospero, conosciuta a quindici anni, nel febbraio del 1926 Piero, mai più riavutosi dalle ferite, muore. 

Ada rimane sola, con il bambino Paolo di pochi mesi. Queste le strazianti parole di Ada, sul suo diario, scritte nel settembre del 1926:

"Non è vero, non è vero: tu ritornerai. Non so quando, non importa, non importa. Ritornerai e il tuo piccolo ti correrà incontro e tu lo solleverai tra le tue braccia. E io ti stringerò forte forte e non ti lascerò più partire, mai più. È un vano sogno, tutto questo, una prova a cui hai voluto pormi: tu mi vedi, mi senti: e io saprò mostrarmi degna del tuo amore. Quando ti parrà che la prova sia durata abbastanza, tornerai per non più lasciarmi. Saranno passati molti anni ma immutati splenderanno i tuoi occhi e ritroverò le espressioni di tenerezza della tua voce. Mio caro, mio piccolo mio amore, ti aspetterò sempre: ho bisogno di attenderti per vivere". 

Questi due tra i tanti brani scritti da Piero Gobetti, che gli valsero la persecuzione e l'uccisione da parte dei fascisti. Incredibile la lucidità di questo giovane, tanto più che Piero scrisse questo soltanto un anno dopo la Marcia su Roma e l'avvento al potere di Mussolini:


"Il mussolinismo è [...] un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza."  

"Egli [Benito Mussolini] non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di un'idea trascendente. Avrebbe potuto riuscire il duce di una Compagnia di Gesù, l'arma di un pontefice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare "a suon di randellate" nei "crani refrattari". "

Entrambi i brani sono tratti da: Piero Gobetti, 'La rivoluzione liberale.'

30/01/19

Libro del Giorno: "La tigre assenza" di Cristina Campo.



E' ormai un nome quasi leggendario quello di Cristina Campo, nella vicenda letteraria italiana.

Si tratta dello pseudonimo della poetessa e scrittrice Vittoria Guerrini nata a Bologna nel 1923 e spentasi prematuramente a Roma nel 1977, minata da una malattia al cuore che condizionò la sua intera esistenza.

Formatasi su studi privati, cresciuta nel culto della bellezza e animata da un'incoercibile tensione alla perfezione, etica non meno che estetica - come scrive la voce a lei dedicata dalla Treccani -  fu grandemente influenzata dal pensiero di Simone Weil, e negli ultimi anni si dedicò allo studio dei mistici e della grande tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale.

Ciò che alimenta il mito della Campo, è l'estrema esiguità della sua produzione poetica: pubblicò in vita soltanto un'esile raccolta di versi (Passo d'addio, nel 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971).

Tutto ciò in ossequio ad un rigore e ad una autodisciplina quasi maniacale, bene espressa dalla frase che amava ripetere a proposito di se stessa, a mo' di precoce epitaffio: "Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto ancora meno."

Ciò nonostante, il nome di Cristina Campo è divenuto oggetto di devozione prima nell'ambiente degli esperti di cose letterarie, e poi  tra i lettori, dopo la pubblicazione di un ristretto corpus dei suoi scritti, a partire da Gli imperdonabili (1987), in cui è raccolta l'intera opera saggistica e che trae il titolo dal saggio dedicato ai poeti, ovvero all'imperdonabile amore della perfezione.

A quel libro, pubblicato da Adelphi, ha fatto seguito La tigre assenza (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), che raccoglie le poesie, edite, inedite e sparse, e le traduzioni dei poeti più amati. 

Nella bandella sono riportate due frasi, l'una di Ezra Pound: «Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato», l'altra di Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo», che bene esprimono le regole convergenti a cui Cristina Campo si è sempre attenuta, sia nel suo lavoro di traduttrice, che nella sua attività di poeta.

Tutta la sua opera in versi è così racchiusa nelle prime 50 pagine di questo libro, cui fa seguito però una gloriosa carrellata di traduzioni che vanno da  Simone Weil, a John Donne, da Hofmannsthal all'amatissimo W.C. Williams, da Herbert a Giovanni della Croce, fino a Emily Dickinson.

Più che traduzioni, queste di Cristina Campo, sono  esercizi di metafisica, dove ogni parola è distillata come il risultato di una potente e misteriosa alchimia.

Di certo tra le più grandi traduzioni in lingua italiana di questi poeti.

In Passo d’addio sono raccolte tutte le rare poesie scritte dalla Campo che ci offrono visioni terse e piene di pathos:  "Devota come ramo/ curvato da molte nevi/ allegra come falò/ per colline d'oblio."
" T'ho barattato, amore, con parole."   " La luce tra due piogge, sulla punta di fiume che mi trafigge";
fino al poemetto Diario bizantino, che apparve pochi giorni dopo la sua morte. E forse da questi ultimi versi, , da un «mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo», occorrerebbe partire per capire tutta Cristina Campo. Una voce davvero unica nel firmamento della poesia italiana, difficilmente assimilabile a qualunque altra del nostro tempo.

Fabrizio Falconi

Cristina Campo 
La Tigre Assenza 
A cura di Margherita Pieracci Harwell 
Biblioteca Adelphi 
1991, 6ª ediz., pp. 316 

29/01/19

Quattro voci, quattro poeti, quattro libri: Sabato prossimo 2 febbraio alla Libreria di Via Giulia 111.


Alla Libreria di Via Giulia quattro voci di Interno PoesiaSabato 2 febbraio 2019 alle ore 18 alla Libreria di via Giulia 111 Roma “Quattro Voci – quattro poeti, quattro libri” il primo incontro e reading romano con quattro autori della collana libri di Interno Poesia: Fabrizio Falconi con “Nessun pensiero conosce l’amore”, Antonella Palermo con “La città bucata”, Annarita Rendina con “Nasse” e Michela Zanarella con “Le parole accanto”. 

Stili di scrittura diversi, ma la poesia a fare da protagonista assoluta. 

Alcune letture saranno affidate alla voce degli attori Giuseppe Lorin e Chiara Pavoni. 

Fabrizio Falconi (Roma, 1959) è sposato, con tre figli. Scrittore e giornalista è autore di romanzi (“Il giorno più bello per incontrarti”, Fazi, 2000; “Cieli come questo”, Fazi, 2002; “Per dirmi che sei fuoco”, Gaffi, 2012) e saggi (“Dieci Luoghi dell’Anima”, Cantagalli, 2009; “I Fantasmi di Roma”, Newton, 2010; “Le rovine e l’ombra”, Castelvecchi, 2017; “Cercare Dio”, Castelvecchi, 2018). In poesia ha esordito con “L’ombra del ritorno” (Campanotto, 1996) finalista al Premio Sandro Penna e segnalato al Premio Montale, a cui hanno fatto seguito “Sub Specie Aeternitatis” (Aletti, 2004), “Poesie 1996-2007” (Campanotto, 2007) e “Il respiro di oggi” (Terre Sommerse, 2010). Sue poesie sono apparse su varie riviste italiane, e sul numero monografico dedicato dalla rivista “Tri-Quarterly” (n. 127/2007) alla poesia contemporanea italiana, tradotte da David Lummus e Robert Pogue Harrison. 

Antonella Palermo è nata a Campobasso nel 1973. Giornalista, vive e lavora a Roma come conduttrice radiofonica, occupandosi prevalentemente di approfondimenti dell’attualità. Ha esordito in poesia nel 2012 con la raccolta “Le stesse parole” (LietoColle), prefazione di Davide Rondoni. 

Annarita Rendina è nata a Napoli nel 1988 e vive a Monte di Procida, piccolo comune del litorale flegreo. Ha conseguito la laurea specialistica in Filologia Moderna. Il suo saggio Il Fantomas di Cortazár. La dis-attesa del supereroe è presente nel volume Le Attese. Opificio di letteratura reale/2 (a cura di E. Abignente ed E. Canzaniello, Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2016). Si è occupata per anni di immigrazione e ha insegnato italiano come lingua seconda per un’associazione di volontariato e per l’Istituto Italiano di Cultura di Dublino. È docente di materie letterarie presso il liceo Seneca di Bacoli. “Nasse” è la sua opera prima. 

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: “Credo” (2006), “Risvegli” (2008), “Vita, infinito, paradisi” (2009), “Sensualità” (2011), “Meditazioni al femminile” (2012), “L’estetica dell’oltre” (2013), “Le identità del cielo” (2013). In Romania è uscita in edizione bilingue la raccolta “Imensele coincidente” (2015). È inclusa nell’antologia “Diramazioni urbane” (2016), a cura di Anna Maria Curci. Autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di “Periodico italiano” e “Laici.it”. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi e giapponese. Ha ottenuto il “Creativity Prize” al “Premio Internazionale Naji Naaman’s 2016”. È ambasciatrice per la cultura e rappresenta l’Italia in Libano per la “Fondazione Naji Naaman”. Socio corrispondente dell’Accademia Cosentina, fondata nel 1511 da Aulo Giano Parrasio.

28/01/19

Depressione e creatività. Malinconia e Genio. Un saggio bellissimo.


Nel settembre del 1787, quando aveva solo sedici anni, Beethoven rivelò un tormento che lo afflisse per il resto dei suoi giorni. In una lettera scritta poco dopo la morte dell'amata madre, confessò di soffrire per il dolore e per l'asma, cui si aggiungeva la "melanconia", che era per lui "un male grave quasi come la stessa malattia". Ben prima di essere straziato dalla sordità, che lo colpì a cavallo del secolo, Beethoven era già turbato per la disarmonia tra sé e il mondo. Questa cronica insoddisfazione si manifesta di continuo nelle lettere e nei comportamenti. La stessa melanconia inquieta agì peraltro anche da ispirazione per i suoi accordi sinfonici. 



Il 29 giugno 1801, in una lettera a un amico medico, Beethoven espresse la sua caratteristica melanconia con speciale intensità. Nella sua vita, scrive, tutto sembra procedere bene, almeno a una visione superficiale: le composizioni si vendono in fretta, molti editori gli chiedono lavori, ha poche preoccupazioni finanziarie. Ma l'apparenza nasconde una crudele realtà: la diminuzione dell'udito e i disturbi intestinali lo riducono alla "disperazione". Preoccupato di non poter guarire dall'incipiente sordità e dalle coliche, scrive: "Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza". Tutto quello cui può aggrapparsi, adesso, è la "rassegnazione": giura di voler "sfidare il suo destino", pur consapevole che ci saranno momenti in cui sarà "la più infelice delle creature di Dio".
La melanconia ci riporta a come Emily Dickinson definiva la "possibilità", una "casa più bella della prosa / di finestre più adorna, / e più superba nelle sue porte". Si trasforma in musa della visione, quella percezione di uno stato in cui le polarità di colpo si uniscono in turbolenta concordia, come stimolo a creare nuovi modi di immaginare relazioni tra opposti infinitamente misteriosi. Le creature melanconiche costituiscono un'affascinante squadra di mentori: pensare a simili guide aiuta a raccogliere le forze per resistere nei tempi bui. Possiamo identificarci tutti con queste grandi personalità, una lista d'onore di uomini e donne brillanti. Pensiamo a scrittori come Ernest Hemingway e Rita Dove, musicisti come Beethoven e Mahler, pittori come Goya e van Gogh. Ma non sono solo artisti; ci vengono in mente anche politici come Lincoln e Churchill, imprenditori come J.C.Penney e Ted Turner, attori come Carrie Fisher e Jim Carrey. 
O ancora scienziati come Isaac Newton e Sigmund Freud e capi militari come Napoleone e Sherman. Potrei aggiungere altri a quest'augusto elenco di innovatori melanconici; potrei menzionare Martin Lutero e Michelangelo, Hart Crane e Francis Scott Fitzgerald, Hans Christian Andersen e Florence Nigthingale, James M. Barrie e Mary Shelley, Handel e Holst, Rossini e Schumann, Paul Gauguin e Edward Munch. E Noel Coward, Victor Hugo, Cajkovskij, Charles Ives, Lev Tolstoj, Virginia Woolf, Dylan Thomas e Kierkegaard. Questa lista non arriva neanche lontanamente a fare giustizia dello sterminato inventario di illustri melanconici creativi. Che dire di Lord Alfred Tennyson, Franz Kafka e Jackson Pollock? Oppure di Abbie Hoffman, Tennessee Williams e William Faulkner? O ancora di John Lennon? O di Ad Reinhardt? O di Cary Grant? O di Marcel Proust?
Se soffri di costante melanconia, sei incluso in questa seducente litania di uomini e donne straordinari. Sei nauseato dello status quo; vuoi qualcosa di più dalla vita di quanto ti è offerto dalle fiacche convenzioni. Sei teso, un pò intimorito. Ma in questo momento ti senti più vivo che mai. Senti che sei sul punto di immaginare mondi alternativi, forze integre. Nel tuo momento di fecondità, guardi a queste figure come guide per una terra inesplorata, che recitano mantra commoventi nel tuo orecchio tremante. 



Nel 1890 Vincent van Gogh pose fine in modo repentino e violento al suo più forsennato periodo di attività creativa. Dopo aver completato freneticamente più di duecento quadri tra il 1888 e il 1890, compresi capolavori come Notte stellata e Campo di grano con volo di corvi, profondamente depresso, si incamminò sotto lo splendido sole giallo nella campagna francese e si sparò un colpo di pistola al petto. Morì due giorni dopo per la ferita. Aveva trentasette anni. Istinti suicidi e dipendenze pericolose sono forse il prezzo da pagare per i geni melanconici? 
Non sempre, certo, ma è comunque significativo che molti di loro dovettero lottare con gravi disperazioni e abitudini sordide. Forse è facile ammirarli da lontano; ma l'egoismo e lo sconforto di questi creatori produssero una bellezza che ci nutre senza fine. Per la bellezza occorre soffrire, è un tesoro da pagare a caro prezzo. Come dice Emily Dickinson, l'arte eccelsa è il "dono del torchio". Solo in questo modo possiamo continuare ad ammirare quegli animi malinconici la cui vita è stata dedicata a creare bellezza, non importa a quale costo. La melanconia è il terreno profano da cui sgorga il sacro. Abbiamo bisogno di credere che le nostre ombre generino luce. Non è il creare a renderci infelici; è l'infelicità a renderci creativi. 



Eric G. Wilson, Contro la felicità - un elogio della melanconia (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini) 



Eric G. Wilson è professore d'inglese alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina. E' autore di cinque libri sui rapporti tra letteratura e psicologia e ha ricevuto numerosi premi.

Fonte: Luigi La Rosa 

27/01/19

Poesia della Domenica: "Il sogno" di John Donne.




Il sogno

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema alla ragione,
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi.  E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia. Se ti parve
meglio per me non sognar tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

Come il lampo o un bagliore di candela,
i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure (giacché ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
sapevi i miei pensieri oltre l'arte di un angelo,
quando sapesti il sogno, quando sapesti quando
la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, confesso che profano
sarebbe stato crederti qualcos'altro da te.

Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora il levarti mi fa dubitare
che tu non sia più tu.
Debole quell'amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce che devono essere pronte
sono accese e rispente, così tu tratti me.
Venisti per accendermi, vai per venire. Ed io
sognerò nuovamente
quella speranza, per non morire.

John Donne

Traduzione di Cristina Campo, da La Tigre Assenza, Adelphi, Milano, 1991, pag. 203.


22/01/19

A Pavia la straordinaria mostra su Vivian Maier, una delle più grandi ed enigmatiche fotografe del Novecento.




Dal 9 febbraio al 5 maggio 2019, le Scuderie del Castello Visconteo di Pavia rendono omaggio a Vivian Maier (1926-2009), una delle più singolari e misteriose figure di artista, la ‘bambinaia-fotografa’, recentemente ritrovata e definita una delle massime esponenti della cosiddetta street photography.

La rassegna, curata da Anne Morin e da Piero Francesco Pozzi, è promossa dalla Fondazione Teatro Fraschini e dal Comune di Pavia – Settore Cultura, Turismo, Istruzione, Politiche giovanili, prodotta e organizzata da ViDi, in collaborazione con diChroma photography, John Maloof Collection, Howard Greenberg Gallery, New York.

“La primavera del 2019 - afferma Giacomo Galazzo, assessore alla Cultura del Comune di Pavia e presidente Fondazione Teatro Fraschini - sarà l'occasione di una vera e propria celebrazione dell'arte fotografica, protagonista di un importante percorso culturale in questo mandato amministrativo. Lo concluderemo con una doppia iniziativa al Castello Visconteo, luogo strategico per la cultura e per la promozione della città”.
“Alle Scuderie - prosegue Giacomo Galazzo - con una rassegna su una firma celebre e amatissima e con una bella storia da raccontare, quella di Vivian Maier. In Sala mostre, invece, dopo la positiva esperienza pavese alla biennale di Jinan, ricambieremo la bella ospitalità ricevuta ospitando l'arte del Maestro Zeng Yi, che con i suoi scatti ci racconterà la Cina da un punto di vista diverso da quello più frequentato nella discussione pubblica. Ancora una volta, crediamo, l'arte e la cultura saranno uno straordinario veicolo di conoscenza reciproca”.

Il percorso espositivo propone un racconto per immagini composto da oltre cento fotografie in bianco e nero e a colori, oltre che da pellicole super 8 mm, in grado di descrivere Vivian Maier da vicino, lasciando che siano le opere stesse a sottolineare gli aspetti più intimi e personali della produzione dell’artista che, mentre era in vita, ha realizzato un numero impressionante di fotografie senza farle mai vedere a nessuno, come se volesse conservarle gelosamente per se stessa.

Nata a New York da madre francese e padre austriaco, Vivian Maier (1926-2009) trascorre la maggior parte della sua giovinezza in Francia, dove comincia a scattare le prime fotografie utilizzando una modesta Kodak Brownie. Nel 1951 torna a vivere negli Stati Uniti e inizia a lavorare come tata per diverse famiglie. Una professione che manterrà per tutta la vita e che, a causa dell’instabilità economica e abitativa, condizionerà alcune scelte importanti della sua produzione fotografica. Fotografa per vocazione, Vivian non esce mai di casa senza la macchina fotografica al collo e scatta compulsivamente con la sua Rolleiflex accumulando una quantità di rullini così numerosa da non riuscire a svilupparli tutti.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio, cercando di sopravvivere, senza fissa dimora e in gravi difficoltà economiche, Vivian vede i suoi negativi andare all’asta a causa di un mancato pagamento alla compagnia dove li aveva immagazzinati. Parte del materiale viene acquistato nel 2007 da John Maloof, un agente immobiliare, che, affascinato da questa misteriosa fotografa, inizia a cercare i suoi lavori dando vita a un archivio di oltre 120.000 negativi. Un vero e proprio tesoro che ha permesso al grande pubblico di scoprire in seguito la sua affascinante vicenda.

Con uno spirito curioso e una particolare attenzione ai dettagli, Vivian ritrae le strade di New York e Chicago, i suoi abitanti, i bambini, gli animali, gli oggetti abbandonati, i graffiti, i giornali e tutto ciò che le scorre davanti agli occhi. Il suo lavoro mostra il bisogno di salvare la “realtà” delle cose trovate nei bidoni della spazzatura o buttate sul marciapiede. Pur lavorando nei quartieri borghesi, dai suoi scatti emerge un certo fascino verso ciò che è lasciato da parte, essere umano o no, e un’affinità emotiva nei confronti di chi lotta per rimanere a galla.

Alle Scuderie non mancano i celebri autoritratti in cui il suo sguardo severo riflette negli specchi, nelle vetrine e la sua lunga ombra invade l’obiettivo quasi come se volesse finalmente presentarsi al pubblico che non ha mai voluto o potuto incontrare.

L’esposizione offre quindi, la possibilità di scoprire una straordinaria fotografa che con le sue immagini profonde e mai banali racconta uno spaccato originale sulla vita americana della seconda metà del XX secolo.
Per tutta la durata della mostra una serie di incontri ed eventi permetteranno ai visitatori di approfondire l’opera di Vivian Maier e la storia della fotografia.

Una mostra “family friendly” con un percorso creato ad hoc per i bambini, un kit didattico in omaggio da ritirare in biglietteria appositamente creato per la visita dei più piccoli. Inoltre, all’interno delle Scuderie, un’opera ad “altezza bambino” attende i giovani visitatori per un’esperienza immersiva a loro dedicata.

Pavia, gennaio 2019

VIVIAN MAIER. Street photographer
Pavia, Scuderie del Castello Visconteo (viale XI Febbraio, 35)
9 febbraio - 5 maggio 2019

Orari
Dal martedì al venerdì: 10.00-13.00/14.00-18.00
Sabato, domenica e festivi: 10.00 - 19.00
(La biglietteria chiude un'ora prima)

Biglietti
Audioguida inclusa nel prezzo
Intero: € 10,00; ridotto: € 8,00; Scuole: € 5,00 

Informazioni e prenotazioni
Tel. 02.36638600


PAVIA
ALLE SCUDERIE DEL CASTELLO VISCONTEO
DAL 9 FEBBRAIO AL 5 MAGGIO 2019
LA MOSTRA
VIVIAN MAIER. Street photographer

L’esposizione presenta oltre 100 immagini di una delle più singolari e misteriose figure di artista, definita la ‘bambinaia-fotografa’.