06/11/16

La poesia della domenica: "Le arie che incantano e che fanno la bellezza."




Le arie che incantano e che fanno la bellezza sono:

L'aria smaliziata,
L'aria annoiata,
L'aria svaporata,
L'aria impudente,
L'aria di dominio,
L'aria di volontà,
L'aria cattiva,
L'aria malata,
L'aria fredda,
L'aria di guardare di dentro,
L'aria da gatta, infantilismo, noncuranza e malizia mescolati insieme.

In certi stati quasi soprannaturali dell'anima, la profondità della vita si rivela tutta intera nello spettacolo, per quanto comune sia, che si ha sotto gli occhi. Esso ne diventa il simbolo. 

05/11/16

L'amore e il sesso al tempo degli sms e della chat. (di Richard Brooks).




GLI SMS e GLI INCONTRI D'AMORE - COSI' SI DISTRUGGE POESIA E MORALE - di Richard Brooks 

Contatti multipli e più disincantati - si può passare da un partner all'altro nella stessa serata se arriva un messaggino. Dall’aprile del 2007 il New York Magazine pubblica online pagine di diario delle esperienze sessuali della gente, che narra anonimamente le proprie conquiste e prodezze notturne. 

Alcuni di questi racconti sono insoliti e tristi. Una bancaria che è stata licenziata passa le serate a ubriacarsi per poi svegliarsi al mattino nel letto di uomini sconosciuti. Un operatore finanziario afro-america­no nei week-end gira per il paese per incontrare coppie in cerca di sesso interrazziale.

L’aspetto più interessante di questi diari è però la parte che il cellulare ha avuto nel corteg­giamento. 

Nelle sere in cui escono, gli estensori dei diari spesso inviano sms a diversi possibili partner, cercando di combinare l’incontro migliore. 

Come nota il giornalista We sley Yang, che indaga acutamente il fenomeno sul New York Magazine , chi scrive i diari «usa il cellulare per disaggregare, catalogare e rimpacchettare i suoi bisogni emotivi e fisici, assegnando un partner di­verso a ognuno di essi e sperando in un’esperienza soddisfacente» . 

A queste persone capita spesso di accingersi a passare la serata con un partner e di cambiare poi idea perché gli arriva un sms con una proposta più promettente. Per scongiurare il pericolo di non essere scelti da nessuno, scrive Yang, «tutti sono nell’elenco di riserva di qualcuno, e tutti hanno un elenco di riserva, che tengono aperto con sms interlocutori».

L’atmosfera è fluida, come in un’asta su eBay. Questo comporta l’adozione di strategie di marketing. Non bisogna appari re troppo ansiosi di conclud re. Vanno trovati soprannomi diversi per i vari partner. «Decido di passare la giornata con Quella Che Piange», scrive un assistente legale di 26 anni del l’East Village. Nel condurre le transazioni non bisogna avere troppi scrupoli. «Ho per le mani un super-appiccicoso», scrive una produttrice televisiva. «Mi ha chiesto di uscire di nuovo domenica prossima. Non rispondo» .

La gente che manda il diario delle sue vicende erotiche a una rivista non rappresenta cer­to l’americano medio, ma l’impiego della tecnologia negli approcci sessuali è ormai consuetudine per un gran numero di giovani americani, e riflette una tappa interessante dell’evoluzione sociale del paese.

Una volta — ai tempi di «Happy Days» — il corteggiamento era governato da una serie di regole e cautele. Gli incontri tra i potenziali partner avvenivano di solito nel contesto delle grandi istituzioni sociali: il quartiere, la scuola, il luogo di lavoro, la famiglia. C’erano dei riti sociali accettati — darsi appuntamento, uscire insieme, rimandare il sesso — il cui scopo era guidare i giovani lungo il percorso che andava dalla fase dell’interesse momentaneo a quella dell’impegno duraturo. Negli ultimi decenni questi riti sociali, incompatibili con l’epoca post-femminista, sono divenuti obsoleti e si è andanti alla ricerca di regole di corteggiamento più aperte.

Ci si aspetterebbe che in questa materia una società dinamica sia in grado di aggiornarsi, ma la tecnologia ha reso la cosa molto difficile. Le norme di comportamento implicano ostacoli e restrizioni, che vengono però dissolti dagli strumenti tecnologici, in particolare da cellulari e sms

Ora i corteggiatori si mettono in contatto in un ambito istantaneo e fluido, separato dalle grandi istituzioni sociali e dagli impegni che esse richiedono. Le persone si trovano così a dover fare i conti solo con se stesse. Diventano liberi battitori in un’arena competitiva segnata da relazioni ambigue. La vita sociale somiglia sempre più all’economia, dove si è immersi in una miriade di occasioni, domande e offerte, in un universo di partner potenziali.

La possibilità di raggiungere rapidamente molte persone sembra incoraggiare la segmen­tazione: si cerca di allacciare contemporaneamente relazioni di diverso tipo di con persone diverse. Sembra poi incoraggiare un atteggiamento di provvisorietà. Se si hanno sempre molte opzioni a disposizione diventa naturale adottare la mentalità di chi confronta i prezzi della merce.

Sembra anche incentivare un’atmosfera di generale disincanto. Lungo i secoli i sistemi basati su principi morali, dalla cavalleria medievale agli inni all’amore di Bruce Springsteen, funzionavano tutti più o meno allo stesso modo. Legavano gli interessi egoistici contingenti a significati trascendenti, spirituali. L’amore diventa così una nobile causa, un atto di sacrificio e di impegno disinteressato.

Gli sms e la mentalità utilitaria tendono a distruggere la poesia e l’immaginazione. Per reggere ai brutali contraccolpi del mercato occorre dotarsi di ironico distacco. Nel mondo odierno la scelta di un’automobile è un atto più sacro della scelta di un partner. Questo non significa che i giovani di oggi siano peggiori o più superficiali di quelli del passato. Significa che sono meno aiutati. Una volta la gente viveva all’interno di un’esistenza strutturata, che si occupava di foggiare le emozioni, guidare le pulsioni dal provvisorio al permanente e collegare le esigenze quotidiane a cose più elevate. La saggezza accumulata dalla comunità portava le coppie a trovare un impegno duraturo. Oggi ci sono meno norme che vadano in questa direzione. La tecnologia attuale sembra minare l’instaurarsi del senso di reciproca e stabile affidabilità su cui si costruisce la fiducia.

Copyright New York Times Syndicate
(Traduzione di Maria Sepa)
David Brooks 5 novembre 2009 

04/11/16

Una poesia scritta a mano da Anna Frank (e sconosciuta finora) va all'asta ad Amsterdam.




Una poesia scritta a mano da Anna Frank poco prima che si nascondesse con la famiglia ad Amsterdam, un pezzo "estremamente raro", sarà venduta all'asta a fine novembre a Haarlem, in Olanda

Lo ha annunciato  la casa d'aste olandese Bubb Kuyper. Il valore di questo testo scoperto in un album di ricordi scolastici di "Cricri" (Christiane) van Maarsen, sorella maggiore della sua migliore amica Jacqueline, si situa fra i 30 e i 50.000 euro, secondo Bubb Kuyper. Il testo reca la data del 28 marzo 1942, poco prima che Anna Frank e la famiglia si nascondessero nell'alloggio segreto per sfuggire ai nazisti dove vi resteranno fino all'agosto 1944, quando furono denunciati e deportati.

Secondo il quotidiano NRC.Next, è la quarta volta soltanto che un testo manoscritto da Anna Frank viene messo all'asta. Una serie di lettere di Anna e della sorella Margot a dei destinatari americani era stata aggiudicata nel 1988 per 165.000 dollari. Un libro di fiabe, con le firme di Anna e di Margot, è stato invece venduto a maggio a New York per 62.500 dollari, più del doppio del prezzo stimato. La poesia che sarà messa all'asta è firmata da queste parole: "in ricordo di Anna Frank". 

Le quattro prime righe sono state probabilmente ricopiate da una periodico del 1938, ma le quattro righe successive non sono state ritrovate fino a questo momento in altre fonti. 

La Casa di Anna Frank di Amsterdam, che non pensa di fare una offerta, sostiene che sia "assolutamente straordinario scoprire ancora, dopo tanti anni, un manoscritto sconosciuto", ha commentato una portavoce, citata da NRC.Next

fonte askanews e Afp

03/11/16

Il prossimo 25 novembre conferenza "Le meraviglie dei numeri" a Santa Croce in Gerusalemme.




Il prossimo 25 Novembre, Venerdì alle ore 18, vi aspetto - per chi è interessato - alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme per Le Meraviglie dei Numeri (l'ingresso è gratuito, con offerta libera per la chiesa ospitante, una delle più belle di Roma), una conferenza che ho già tenuto al Festival di Arte & Essere di Riva del Garda. 

Parleremo, con l'aiuto di molte immagini, della magia dei numeri, del loro significato profondo nella storia dell'Occidente e della cristianità, delle meraviglie della Sezione Aurea inscritta nei grandi monumenti del passato, di Jung e Wolfgang Pauli e dei numeri come misura (o codice) del Cosmo. 

Fabrizio Falconi

02/11/16

"Le vergini suicide" di Jeffrey Eugenides (Recensione)



Jeffrey Eugenides (Detroit, 8 marzo 1960), ha firmato con Le vergini suicide, uscito nel 1993, uno dei migliori esordi contemporanei (Sofia Coppola ne ha tratto un film qualche anno dopo). Ripetendosi poi con romanzi come Middlesex  (che gli è valso il Premio Pulitzer nel 2003 e La trama del matrimonio (2011).

E' un racconto particolarissimo, a partire dalla voce narrante, per la quale Eugenides ha scelto un narratore "collettivo", voce di un gruppo di coetanei maschi, il quale rievoca a vent'anni di distanza la vicenda delle cinque sorelle Lisbon, oggetto proibito della loro adolescenza, avvolte in un'aura di mistero che la tragica fine comune - si sono tutte tolte la vita nel breve spazio di un anno - ha fissato per sempre. 

Più che l'originalissima trama, però - per niente gotica, semmai sospesa in un territorio quasi surreale, intercettato dalla ironia e dalle considerazioni dei testimoni -  Le vergini suicide è un capolavoro di stile. 

La vera protagonista del romanzo è la casa della famiglia Lisbon. Un territorio oscuro e inaccessibile, castello di reclusione, in putrefazione, che ospita la muta agonia delle cinque giovani, impossibilitate a vivere una vita normale. 

La casa vive su se stessa e attraverso se stessa la consunzione fisica e psichica delle cinque ragazze e dei due pietrificati genitori. 

Una angoscia strisciante e pervasiva intride ogni pagina di questo romanzo, in cui i dialoghi sono ristretti al minimo indispensabili, quasi inesistenti, e dove la narrazione prosegue come un unico flusso di memoria dalla prima all'ultima pagina. 

Il malessere delle cinque sorelle deriva dall'accettare il mondo così com'è, come è stato trovato. L'impossibilità di essere normali e di concedersi alla piccola e fertile infelicità che fa parte di ogni vita. 

Eugenides costruisce il ritratto di una piccolissima porzione della provincia americana, che può o potrebbe  a ragione essere un qualsiasi angolo remoto del mondo.

Perché il disagio esistenziale delle cinque ragazze Lisbon, così vive, così presenti, è quello delle stesse cose viventi - come la casa della famiglia - predisposte alla lacerazione, al disfacimento, al distacco, destino di ogni mortalità. 

L'idolatria del gruppo di maschi, la perpetuazione della memoria, la rivendicazione di quel segreto vissuto e mai sbocciato, è l'unica fragile ribellione possibile, al passare del tempo.

Fabrizio Falconi

Jeffrey Eugenides
Le vergini suicide
Traduzione di Cristina Stella
Mondadori 2008


01/11/16

9 luglio 1890 - Un terribile fatto di cronaca a Roma.




Filippo Tuena, insieme a Massimo De Fidio, in un prezioso libretto pubblicato molti anni fa - Ripetta in controluce (Segnature editoriale, Roma, 2000), tutto dedicato alla celebre ed elegante via di Roma - riportano un episodio di cronaca finito nell'oblio, che però all'epoca destò l'interesse morboso dei cittadini della Capitale, avvenuto sul Ponte di Ripetta, in legno, che vedete in questa rara foto d'epoca e oggi non più esistente 

Il 9 luglio del 1890 Augusto Formili, che all'epoca era un personaggio in vista perché a 41 anni dirigeva i Giardini comunali, sempre elegante e con fama di dongiovanni - un vero dandy dell'epoca - buttò giù dal ponte di Ripetta, la moglie, Rosa Angeloni, che aveva 3 anni più di lui e che. di mestiere semplice stiratrice, era stata sedotta giovanissima dal marito. 

Era successo che l'uomo avesse all'epoca un'amante, una ventenne trasteverina, di nome Elvira, con la quale intratteneva da tempo una relazione. Il triangolo amoroso era andato avanti per un po' fin quando la ragazza era rimasta incinta.

La nascita di questo bambino aveva spinto Elvira a spingere perché il suo amante si decidesse finalmente a lasciare la moglie, Rosa.

Per un certo periodo Augusto s'era lasciato convincere e aveva lasciato la moglie, trasferendosi in casa dell'amante. Ma poi, sempre più indeciso sul da farsi, era tornato a casa, spesso ubriaco, sfogando la sua frustrazione sulla moglie e sulle figlie, che picchiava senza motivo. 

Forse in questo c'era anche della premeditazione perché sperava che il suo carattere - insieme all'avarizia, aveva preso a lesinare i soldi alla moglie - convincesse la consorte a cacciarlo di casa.

Ma Rosa non aveva nessuna intenzione di concedere il divorzio, temendo forse,  e a ragione di trovarsi in miseria insieme alle figlie. 

La sera fatidica i due coniugi erano andati a cenare da Cesare, il Fornaciaio, cercando di risolvere la questione.  Ma se, finché erano rimasti nel locale, i toni erano rimasti pacati, appena usciti all'aperto la discussione si trasformò in un violento litigio. Così Augusto, giunto a metà del ponte di legno, esasperato dal rifiuto della moglie a concedere il divorzio, aggredì la moglie. Per farla smettere di gridare, la sollevò d'impeto e la spinse oltre il parapetto del ponte. La donna però riuscì a rimanere aggrappata alla ringhiera. Il marito, con un sasso, prese a schiacciargli le mani finché la donna mollò la presa e precipitò nel fiume.

Rosa non sapeva nuotare, cominciò ad annaspare nella corrente, affogando quasi subito anche a causa degli abiti lunghi che andavano di moda allora.

Subito dei passanti chiamarono la polizia, ma Augusto riuscì a fuggire, approfittando dell'oscurità.

Cominciò allora una caccia all'uomo, scatenata in tutta Italia e alla fine l'uomo finì per costituirsi alla polizia di Milano, città in cui si era rifugiato. 

Al processo, prima cercò di proclamare la propria innocenza, poi finì per confessare, spiegando di essere stato preda di un raptus feroce e di avere agito in stato di trance

La giuria non gli credette e lo condannò a 30 anni di reclusione. Pena che ai romani sembrò troppo mite e sicuramente giustificata dal rango del colpevole e dalle sue potenti amicizie. 

Gli stornellatori cittadini però espressero una condanna più severa e a futura memoria, con i versi che si tramandarono di generazione in generazione:

porgete orecchio attento, amici cari
ché fra i delitti atroci e ancor più rari
ve ne racconto un, se date retta,
il delitto del ponte di Ripetta.

Fabrizio Falconi - rielaborato da: Filippo Tuena e Massimo De Fidio, Ripetta in controluce (Segnature editoriale, Roma, 2000)


31/10/16

"The book of love", una canzone definitiva di Magnetic Fields, portata al successo da Peter Gabriel sull'amore.





E' una splendida canzone, definitiva sul senso dell'amore, quella scritta da Stephin Merrit e dai Magnetic Fields e poi portata al grande successo da Peter Gabriel qualche anno fa e contenuta nell'album Scratch my back (2010).

E' innanzitutto una canzone molto semplice e dal testo molto semplice.

Ma molto sottile.  Innanzitutto, dice, l'amore è un libro

Ciò vuole dire che l'amore preesiste agli stessi innamorati o amanti. E' qualcosa di già scritto, di già esistente, di già formato. Perché è stato scritto tanto tempo fa. (non si sa da chi).

E' dunque molto antico e tutto sommato lungo e noioso, probabilmente perché come tutti i libri antichi contiene una sua saggezza arcana, ma è pesante (non si riesce nemmeno a sollevare per il suo peso) ed è pieno di grafici e fatti e figure e istruzioni, quindi non proprio facile da leggere.

E però è anche un libro pieno di sorprese, perché ha della musica all'interno (la musica, anzi, viene proprio da lì). Anche se questa musica è in parte astrusa  (priva cioè di apparente significato e apparentemente riferita solo a se stessa) e in parte davvero stupida (come sa essere l'amore, specie quando questa musica è interpretata dagli innamorati (infatti è pieno di cose banali come i fiori e le scatole a forma di cuore). 

E ciò nonostante, dice l'innamorato, Io amo quando me lo leggi e tu puoi leggermi qualsiasi cosa, di questo libro.

L'incantamento dunque non è nemmeno nel contenuto del libro, in quello che c'è scritto, ma nel fatto che tu me lo legga.

E che, in qualche modo, me lo regali.

E', anzi, il regalo il vero senso di questo libro.
Il fatto che tu canti per me ogni cosa.

E' questa la vera fede nuziale, che fonda il legame d'amore. 

Un semplice testo dal quale si evincono due cose fondamentali che la saggezza ha imparato a riconoscere nell'amore: la prima, che l'amore pre-esiste agli innamorati. Come scriveva Nietzsche a Lou Salomé, l'amore è infatti più grande di chi ama.  E quindi pre-esiste, resiste e se ne frega delle bassezze, delle sciatterie e delle inadeguatezze di chi ama (o dice di amare).

La seconda è che l'amore passa attraverso un regalo.  Il regalo è di per sè qualcosa di gratuito. Che si fa per il piacere di farlo. E' l'amore che, come scriveva Paul Ricoeur, ad obbligare. Ad obbligare a regalare, a donare spontaneamente. Il regalo è anche una cura. E' avere cura, attenzione per chi si ama.  Ed è anche il discrimine, la mancanza di cura e di attenzione, per tutti quei rapporti che si camuffano da amore, ma amore non sono.

Fabrizio Falconi
il testo originale qui sotto:

Il libro dell'amore è lungo e noioso
Nessuno riesce a sollevare quella dannata cosa
E' pieno di grafici e fatti e figure e istruzioni per danzare
Ma io
Io amo quando me lo leggi
E tu
Tu puoi leggermi qualsiasi cosa
Il libro dell'amore ha della musica all'interno
Infatti la musica viene proprio da lì
Un po' di questa è astrusa
Un po' di questa è davvero stupida
Ma io
Io amo quando canti qualcosa per me
E tu
Tu canti per me ogni cosa
Il libro dell'amore è lungo e noioso
Ed è stato scritto molto tempo fa
E' pieno di fiori e scatole a forma di cuore
E di cose per le quali siamo troppo giovani per sapere
Ma io
Io amo quando mi regali qualcosa
E tu
Tu dovresi regalarmi fedi nuziali
E io
Io amo quando mi regali fedi nuziali
E io
Io amo quando mi regali qualcosa
E tu
Tu dovresti regalarmi fedi nuziali
E io
Io amo quando mi regali qualcosa
E tu
Tu dovresti regalarmi fedi nuziali
Tu dovresti regalarmi fedi nuziali

§

The book of love is long and boring
No one can lift the damn thing
It's full of charts and facts and figures and instructions for dancing
But I
I love it when you read to me
And you
You can read me anything
The book of love has music in it
In fact that's where music comes from
Some of it is just transcendental
Some of it is just really dumb
But I
I love it when you sing to me
And you
You can sing me anything
The book of love is long and boring
And written very long ago
It's full of flowers and heart-shaped boxes
And things we're all too young to know
But I
I love it when you give me things
And you
You ought to give me wedding rings
And I
I love it when you give me things
And you
You ought to give me wedding rings
And I
I love it when you give me things
And you
You ought to give me wedding rings
You ought to give me wedding rings

Stephin Merritt e Magnetic Fields 

30/10/16

Pierre Hadot, "La filosofia come modo di vivere" (Recensione).



Pierre Hadot (1922-2010), uno dei filosofi più importanti del Novecento, è soltanto un ragazzo quando il cielo stellato gli regala un'esperienza indimenticabile, in cui più tardi riconosce ciò che lo scrittore e drammaturgo Romain Rolland chiama "il sentimento oceanico".

Comincia da quel punto una parabola di vita straordinaria: i tempi della guerra nella Francia occupata dai nazisti, l'avvicinamento alla Fede e l'ordinazione come sacerdote dopo i lunghi anni passati in seminario, il dopoguerra, l'allontanamento dalla fede, lo sviluppo dello studio filosofico fino a giungere ai massimi livelli nei riconoscimenti delle massime accademie non solo di Francia.  

Ma per Hadot la filosofia non è - e non è mai stata - soltanto una disciplina intellettuale. La filosofia è invece esperienza vissuta. E anche i discorsi filosofici degli antichi sono "esercizi spirituali"  che non mirano a informare, ma a "formare", cioè a formare noi stessi.  

E quindi filosofare vuol dire "esercitarsi a morire", non nel senso di praticare un mero e semplice memento mori, ma invece esercitandosi a vivere con piena lucidità, staccandosi dal proprio io per aprirsi ad una prospettiva universale, con un itinerario di saggezza e di consapevolezza personale.

Questo libro è, per questi motivi, molto importante.  

Si tratta di una lunghissima intervista a tre voci - Jeannie Carlier, Arnold I. Davidson e lo stesso Hadot - che consentono al maestro francese di ripercorrere l'intero suo percorso di vita, e riannodare i fili di una esperienza umana, prima che filosofica, in grado di risalire agli insegnamenti delle grandi scuole della tradizione greca - stoicismo ed epicureismo in primis - fino all'esperienza delle grandi menti dell'ottocento e novecento, da Nietzsche a Wittgenstein, di cui Hadot è stato uno dei primi a studiare e a rendere pubblica l'opera.

Hadot propugna - e mette in pratica nella sua vita - una conversione completa della nostra relazione con il tempo: Vivere solo nel momento in cui viviamo, cioè il presente, non vivere nel futuro, ma invece come se non ci fosse un futuro, come se avessimo solo questa giornata e cercando di vivere nel miglior modo possibile.

Vivere è la più nobile delle occupazioni, come scriveva Montaigne (altro punto di riferimento continuo di Hadot). 

Ed è l'istante presente - come diceva Marco Aurelio - a metterci in contatto con il cosmo nella sua totalità. A ogni istante posso pensare all'indicibile evento cosmico di cui faccio parte.

Una elevazione del pensiero - o come si diceva anticamente il punto di vista di Sirio - che consente di sollevare lo sguardo dagli affanni del presente e percepire la propria presenza nel mondo, nel mistero del mondo, in tutta la sua grandezza. E' questo, il sentimento oceanico. 

Sforzarsi di vedere il mondo come se lo si vedesse per la prima volta, con quello stupore di cui parla Seneca quando tutto appare nuovo, lo splendore del mondo che usualmente ci sfugge.

Il mondo è forse splendido, spesso atroce, ma soprattutto enigmatico. E questo carattere enigmatico è, secondo Goethe - la parte migliore dell'uomo, essendo una intensificazione della coscienza che abbiamo del mondo.

Wittgenstein scriveva proprio questo, della sua esperienza di meravigliarsi per l'esistenza del mondo, dicendo: è l'esperienza di vedere il mondo come un miracolo. 

La vera filosofia è questo, dunque. Teoria di pratiche esistenziali, che servono a vivere, a vivere meglio. In modo più consapevole e costruttivo.  Come Pierre Hadot ha saputo fare, e come ci ha trasmesso, nella sua grande lezione di vita.

Fabrizio Falconi

28/10/16

Anatomia del tradimento - Tolstoj.




Nei primi tempi dopo il ritorno, era sincera nel credere d'essere scontenta dell'insistenza di Vronskij; ma una volta, non avendolo incontrato a un ricevimento dove contava vederlo, capì chiaramente, dalla tristezza che le invase l'anima, di aver ingannato se stessa; l'insistenza di quell'uomo non solo non le era fastidiosa, ma costituiva per lei tutto l'interesse della vita. 

E' un passo (II, IV) da Anna Karenina di Tolstoj e chi lo ha letto, ricorda sicuramente la scena. 

Fa parte delle meditazioni di Anna, dopo che il Principe Vronskij ha già cominciato ad insidiarla.  La voce della tentazione, nella convinzione intima di Anna, è sotto controllo.

Ma i suoi sentimenti quando - invitata ad una festa dove è convinta di vederlo tra i convenuti - lo constata assente, sono una specie di cartina di tornasole

Niente è sotto controllo. Anzi, la delusione che sente nel cuore, insieme a quella puntura dolorosa, a quella tristezza che le invase l'anima, sono la prova temibile e temuta che il suo cuore è già perduto dietro l'illusione amorosa. 

Ed è così perché quella insistenza di Vronskij - cioè il suo corteggiamento, l'interesse erotico e non erotico che ha per lei - realizza Anna, rappresenta per lei  tutto l'interesse della vita. 

Anna ne ha contezza in quel momento. Ed è il momento decisivo del romanzo. Perché lei sa che da quel momento non sarà più possibile tornare indietro. Il cammino verso l'estasi e la perdizione è ormai intrapreso. Tutto verrà messo in gioco, tutto sarà perduto. 

Fabrizio Falconi

27/10/16

Le leggende del Campidoglio e la Statua del Marco Aurelio, l'unico esemplare di questo tipo giunto fino a noi.




Il Campidoglio è da sempre il simbolo del potere cittadino, a Roma. Anticamente questo nome si riferiva soltanto all'altura più piccola dove sorgeva il Tempio di Giove Ottimo Massimo, il più importante tra gli dèi del Pantheon, la cui area era all'incirca quella occupata oggi da Palazzo Caffarelli. 

Più tardi, nel corso dei secoli, la dizione Campidoglio si estese all'intero colle. 

Ancora oggi il Campidoglio rappresenta una meraviglia delle meraviglie: esso ospita infatti reperti preziosissimi e unici al mondo, come i due leoni di basalto grigio ai piedi della scalinata, che provengono dall'Iseum et Serapeum del Campo Marzio, il Tempio che i romani avevano dedicato alle divinità egizie, e che raccoglieva moltissimi reperti importati da quelle terre. 


I due meravigliosi leoni egizi furono sistemati qui da Giacomo Della Porta, per fare da ali alla cordonata del Campidoglio.   Furono rimossi nel 1880 e sostituiti con delle copie, ma poi tornarono sul posto grazie all'illuminato prof. Pietrangeli, in tempi piuttosto recenti, nel 1956. 

Sembra che dalla bocca dei due leoni sgorgasse, in alcune particolari ed eccezionali circostanze, vino, (dalla bocca dell'uno, bianco, dall'altro rosso) anziché acqua. Come ad esempio nell'occasione della cerimonia di impossessamento della Basilica Lateranense da parte del Papa neo-eletto. 

Ma il vero gioiello del Campidoglio è la monumentale statua equestre del Marco Aurelio, divenuta nei secoli emblema cittadino al pari del Colosseo, oggi sostituita sulla piazza da una scrupolosa copia e conservata invece nel nuovo cortile protetto dei Musei Capitolini. 

Si tratta, come non tutti sanno, dell'unico reperto di questo tipo esistente al mondo, , cioè dell'unica statua equestre in bronzo dorato, dell'epoca romana giunta fino a noi e per molti secoli, pur essendo diventata un nume cittadino intoccabile, fu persino confusa la sua attribuzione, ritenendola una statua dell'imperatore Costantino (Caballus Costantini). 

Fu scolpita nel 164-166 d.C.  e raffigura l'illuminato imperatore a cavallo, col braccio e la mano protesi, come per affrontare il nemico. 

Una icona così potente non poteva che diventare un simbolo cittadino di prima grandezza, ed è inevitabile che, trattandosi di Roma, intorno ad essa siano fiorite nel corso dei secoli, infinite leggende, come quella della famosa civetta , il ciuffo dei peli tra le orecchie del cavallo, al cui distacco della velatura bronzea fu legata alla fine del Mondo e alla sua distruzione. 

La statua fu posta al centro del Piazzale del Campidoglio nel 1538 da Papa Paolo III Farnese su suggerimento di Michelangelo, che si era occupato di progettare la nuova piazza, nelle attuali forme che sono ammirate in tutto il mondo.  Per essa fu studiato un apposito basamento, disegnato sempre da Michelangelo. 

Pochi sanno che in quella occasione fu anche istituita la carica onorifica di Custode del Cavallo, un titolo dignitario grandemente ambito tra i nobili romani e che veniva conferita per espressa decisione papale. 

Il prescelto veniva anche ricompensato simbolicamente, in natura con una prebenda minuziosamente prevista comprendente: dieci libbre di cera, tre di pepe, sei paia di guanti, alcune scatole di confetti e due fiaschi di vino. 

Fabrizio Falconi © - riproduzione riservata.







26/10/16

Carlo Maria Martini, "l'uomo del dialogo". Un ricordo in questi tempi di barricate.



Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta… Lo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice. (Lev Tolstoj) 

Sono parole che potrebbero essere tranquillamente attribuite al Cardinale Carlo Maria Martini, perché riassumerebbero come forse meglio non si potrebbe il sentire dell’uomo che dopo aver condotto per 33 anni l’arcidiocesi Milanese, è divenuto un punto di riferimento della spiritualità non solo cattolica, nel mondo. 

E in effetti le parole di Tolstoj, riferite all’inizio, furono scritte in una sorta di testamento spirituale – poco conosciuto – Amatevi gli uni e gli altri, poco prima della morte, dal grande scrittore. 

Carlo Maria Martini era ‘tolstojanamente’ convinto che l’amore fosse la via rivelatrice e conoscitrice di cui gli uomini dispongono, nell’attraversamento di questa vita.

 Il cristianesimo – scriveva nella risposta alla missiva di uno dei tanti lettori che si rivolsero a lui nella rubrica del Corriere della Sera che curò negli ultimi anni della sua vita – è molto di più di una religione; esso nasce dall’iniziativa divina di entrare in contatto con l’uomo e di rivelargli se stesso. 

E non è un caso se, a partire dal momento esatto della sua morte, la sera del 31 agosto scorso, la parola più usata in relazione a Martini sia stata proprio ‘dialogo’. Dia-logo: Martini era l’uomo del dialogo. 

E cioè l’uomo del logos (cioè della parola) e del dia (cioè del ‘fra’: parole fra soggetti diversi, questo è dia-logo): solo una forma di com-prensione e di amore infatti permette il reale dialogo tra le persone; solo l’amore permette il vero dialogo, solo il dialogo mi permette di uscire da me stesso e di farmi altro, farmi-con-l’altro. Che nel caso di Martini era un Altro. 

Un Altro-alto, che attraverso di me trova il suo posto nel mondo, in questo mondo. 

Tutta la vicenda umana di Martini, dunque, dai primi passi compiuti, appena adolescente, nella casa dei Gesuiti di Cuneo, fino alla mirabile carriera universitaria che lo portò fino a ricoprire il ruolo di rettore della Pontificia Università Gregoriana, fino al prestigioso incarico di Arcivescovo di Milano, nel ruolo che fu di Sant’Ambrogio prima e di San Carlo Borromeo poi, e fino ancora ad una forte candidatura a divenire Papa, è improntata, ha come sigillo questa ricerca continua di spiritualità autentica, fondata cioè non tanto e non solo sulla elaborazione dei dogmi e delle liturgie, quanto soprattutto sul dialogo umano e vivente con i diversi, con gli atei, con l’altro, con la comunità intera dei fedeli, oltre che sulla preghiera.

 E a proposito del Soglio sfiorato, chi scrive era, insieme ad altri, sul tetto del Collegio dei Padri Agostiniani, quella sera del 18 aprile 2005. Si stava tenendo il Conclave per la elezione del 265mo successore di Pietro. C’erano diversi motivi di disorientamento tra coloro che seguivano i lavori, in quei giorni. 

Il primo motivo era la morte di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, avvenuta 16 giorni prima, il tardo pomeriggio del 2 aprile, dopo una lunga e lenta agonia. Un pontefice che aveva segnato così profondamente la storia degli ultimi anni. 

Il secondo motivo era il tempo passato dalla elezione precedente: 27 anni. Essendo stato eletto il polacco, il 28 ottobre del 1978. 

Un tempo così lungo che perfino per i più esperti segnava una barriera temporale ostica: chi ricordava, tra i presenti, esattamente i riti del Conclave ? Chi poteva dirsi preparato ad affrontarli per descriverli minuziosamente, quei riti così complessi, sedimentati nei venti secoli precedenti, frutto di infinite variazioni e correzioni del cerimoniale canonico ? Una sola certezza sembrava esservi, all’inizio di quello che fu poi uno dei Conclave più veloci della storia (e su questa velocità pesò sicuramente anche proprio quella necessità di riempire il più presto possibile il vuoto lasciato da un predecessore così “ingombrante”): i due pretendenti più accreditati e più autorevoli erano Joseph Ratzinger da un lato e Carlo Maria Martini dall’altro. 

A molti - e la stampa ovviamente giocò molto su questa dicotomia - sembrava il confronto perfetto: la dogmatica contro il colloquio, la dottrina della fede contro l’umanità del confronto cristiano. Vinse Ratzinger. 

Le cronache dei retroscena del Conclave riferirono che Martini, riluttante sin dal principio, a ricoprire un compito così gravoso, sin dopo il primo scrutinio - avvenuto appunto la sera del 18 aprile - scelse esplicitamente di rinunciare, convinto dal numero non sufficiente di voti ricevuti (il vero antagonista divenne così Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, anche lui Gesuita; ma soltanto per altre due votazioni: al quarto scrutinio Ratzinger ottenne il quorum necessario) nel primo scrutinio e dalla eventuale possibilità di frammentare in due il Collegio dei Cardinali, con la prospettiva di un lungo Conclave che avrebbe potuto avere conseguenze pesanti. 

Sulla decisione pesò anche sicuramente la consapevolezza di una malattia che non perdona - Martini aveva già da sette anni quel Parkinson che quest’anno l’ha portato alla morte, consumandolo lentamente. 

Che speranza poteva darsi alla Comunità dei credenti eleggendo un nuovo Papa afflitto, per ironia del destino, dalla stessa malattia che aveva segnato e portato via l’illustre Predecessore? Martini decise, prima ancora che vi fosse il rischio di una elezione, di defilarsi. Mi sono chiesto più volte (me lo chiesi anche in quei giorni) – e in tanti sono tornati a chiederselo in questi giorni, dopo la sua scomparsa - cosa sarebbe accaduto se Martini fosse divenuto Papa, se fosse stato lui l’erede di Wojtyla, e non Ratzinger. 

Oggi che la grande anima di Carlo Maria Martini ci ha lasciato su questa terra, è inevitabile - ma forse anche profondamente inutile – domandarselo, speculare su cosa sarebbe potuto essere e non è stato. Per un cristiano, oltretutto, queste sono questioni veramente superflue, che non dovrebbero essere mai poste, perché il primo credo è quello della fiducia e dell’affidamento ad una Volontà superiore, che ne sa sicuramente più di noi. 

Anche perché probabilmente il progressivo, lento isolamento a cui la malattia ha costretto Martini - isolamento dovuto negli ultimi tempi anche alla impossibilità di parlare - ci ha regalato qualcosa di molto grande, indipendentemente dall’essere divenuto o meno il capo effettivo della Chiesa cattolica. 

Lo spirito infatti ha parlato in ogni momento, in ogni giorno, attraverso le parole di Martini pronunciate magari sottovoce, ai più stretti confratelli e negli ultimi tempi solo grazie ad un apparecchio acustico in grado di amplificare e rendere comprensibili i flebilissimi suoni della sua voce; attraverso le parole scritte per coloro - sempre più numerosi - che hanno voluto leggerle nei suoi molti libri, nei suoi Esercizi Spirituali, nelle lettere dalla Terra Santa, dove per diversi anni si era ritirato, nelle lettere ai giornali. E ha parlato anche - fortissimo - attraverso il suo silenzio sofferente. 

Forse, anzi, lì più che altrove. Non c’era modo più esplicito e più concreto, per tutta quella che è stata la sua parabola terrestre, per lasciare un segno tangibile della sua presenza che durerà a lungo, che sarà per molti incancellabile e che si racchiude forse in una sola parola: speranza. “Occorre avere una forte fiducia in Dio Padre”, scriveva negli ultimi tempi Martini, “che conosce tutta la nostra eternità e vuole il meglio per noi, e un grande amore per Gesù. Per questo non si tratta mai di una operazione astratta, ma di un dramma in cui si scopre l’amore di Dio e la nostra capacità di dono e di perdono”.

Fabrizio Falconi

25/10/16

Don De Lillo a Roma: "non sarei quello che sono senza Fellini e Antonioni".



Il modo "in cui scrivo ha cominciato ad assumere una certa forma grazie al cinema europeo. Mi hanno formato autori come Antonioni, Fellini ma anche Kurosawa". 

Lo ha detto uno dei piu' grandi scrittori americani viventi, Don DeLillo protagonista di uno degli incontri ravvicinati con il pubblico della Festa del Cinema di Roma

Circa un'ora di conversazione fra Antonio Monda e l'autore di capolavori come Rumore bianco e Underworld, tornato da poco in libreria con 'Zero K', costruita intorno all'amore di DeLillo, per il cinema di Michelangelo Antonioni. 

Ha infatti aperto l'incontro leggendo un suo breve testo scritto ad hoc su 'Deserto rosso'. Un viaggio tra colori, suggestioni e conversazioni intime del film. 

"Qui la bellezza e' un'ossessione, sembra che il film non possa evitare di essere bello" spiega. DeLillo rende anche omaggio alla protagonista, che definisce "bellissima", Monica Vitti: "e' l'anima inquieta del cinema di Antonioni, incaricata di non interpretare ma semplicemente esistere"

Deserto rosso secondo lui "insiste a dire che vale la pena di notare tutto, fino alla piu' sottile sfumatura". 

Commentando poi le scene della trilogia in bianco e nero del regista (L'avventura, La notte e L'eclisse), sottolinea, che anche oggi "nella societa' delle immagini, la letteratura non e' messa in pericolo dal cinema

Ci sono ancora persone con il bisogno di scrivere come altri hanno quello di fare film. Eppure i ragazzi dovrebbero essere consci che il futuro, se ti metti a scrivere romanzi, sara' difficile... ma lo fanno lo stesso". 

Un accenno, infine all'ispirazione che viene ai registi dalla violenza, da Bonnie e Clyde a Il padrino, da La rabbia giovane a Il mucchio selvaggio, "dove viene illustrata in modo quasi surreale" e al primo film che ha visto: "potrebbe essere stato un cartone animato sui Viaggi di Gulliver".

fonte ANSA

24/10/16

Anche la Vergine delle Rocce di Leonardo alla Mostra "Maria Mater Misericordiae" che si apre a Sinigallia venerdì prossimo.



Maria Mater Misericordiae
a cura di Giovanni Morello e Stefano Papetti
28 ottobre 2016 – 29 gennaio 2017
Palazzo del Duca, Senigallia

UN VIAGGIO ARTISTICO ALLE RADICI DEL SACRO

Prima fra tutte giunge a Senigallia La Vergine delle Rocce di Leonardo, capolavoro assoluto che completa l’importante corpus di opere in esposizione per la mostra Maria Mater Misericordiae aperta al pubblico a Palazzo del Duca di Senigallia (AN) dal 28 ottobre 2016 al 29 gennaio 2017. 

La rassegna, organizzata dal Comune di Senigallia e dalla Regione Marche, oltre all’emblematico capolavoro leonardiano presenta significative opere di inestimabile valore, fra cui quelle di Perugino, Rubens, Carlo Crivelli, Lorenzo Monaco, che insieme costituiscono un affascinante racconto per immagini affidato ai più grandi artisti del Rinascimento italiano sul forte sentimento devozionale nei confronti di Maria, Madre Misericordiosa

E’ questo il senso profondo di Maria Mater Misericordiae, la terza rassegna promossa nell’ambito del programma di eventi sul Giubileo della Misericordia. Curata da Giovanni Morello e Stefano Papetti, in collaborazione con la Fondazione Giovanni Paolo II e l’ANCI Marche, propone un nucleo di dipinti e sculture provenienti dalle più prestigiose raccolte internazionali quali i Musei Vaticani, la Galleria degli Uffizi, la Pinacoteca Nazionale di Siena, la Galleria Nazionale delle Marche, la Galleria Borghese di Roma, il Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, l’Accademia Carrara di Bergamo.

Al centro della narrazione artistica troviamo i mutamenti iconografici ai quali è sottoposta l’immagine della Madonna della Misericordia alla quale i fedeli chiedono un’opera di intercessione per salvare la comunità urbana minacciata dalla peste.

Nella mostra di Senigallia verrà esposta la più antica rappresentazione iconografica di questo soggetto: la Madonna della Misericordia dipinta da Barnaba da Modena tra il 1375 e il 1376, conservata nella Chiesa dei Servi di Genova. 

Si tratta di un artista che ha operato nel palazzo ducale di Genova, nel monumentale Camposanto di Pisa, in altre città del nord Italia e le cui opere sono oggi esposte presso il Museum of Fine Arts a Boston, nella collezione Cruz di Santiago del Cile e alla National Gallery di Londra.

Eseguita per una confraternita genovese, la tavola, può ragionevolmente essere considerata come il prototipo più antico nell’arte della penisola della nuova iconografia della Madonna della peste o delle frecce. La Madonna della Misericordia è raffigurata nell’atto di offrire protezione sotto il proprio mantello alla popolazione della città, esposta ad un’inarrestabile pioggia di frecce scagliate dagli angeli e dal Figlio, la cui immagine è perduta. Nell’esercizio della giustizia celeste il Signore è assistito da una milizia di creature angeliche armate: l’immunità dagli strumenti della collera divina offerta dalla Madonna ai devoti è resa concreta mediante la raffigurazione dei dardi che si spezzano contro il mantello, mentre i supplici che ne sono rimasti fuori cadono trafitti dalle armi del castigo di Dio.

Tra i capolavori assoluti che sarà possibile ammirare nella mostra senigalliese va senz’altro annoverata l’opera la Madonna della Misericordia con i Santi Stefano e Girolamo e committenti di Pietro Perugino, oggi conservata nel museo comunale di Bettona. Si tratta di un dipinto eseguito nei primi anni del secondo decennio del Cinquecento per chiesa di Sant’Antonio. Qui l’ampio manto della Vergine, quasi una tenda, è usato come simbolo di protezione e accoglie Santo Stefano, San Girolamo e i committenti raffigurati alle loro spalle. La Vergine dal volto sereno e dalle morbide fattezze assume l’atteggiamento dolce e materno di chi è invocata a propria protezione.

Grande interesse assume anche la presenza in mostra della Madonna della peste, opera eseguita nel 1472 da Benedetto Bonfigli e conservata nella chiesa parrocchiale di Corciano. Questo pittore definito dal Vasari il più grande artista umbro prima dell’ascesa del Perugino lavorò sia in Vaticano, sia soprattutto nella sua città natale, Perugia nella cui Galleria Nazionale è esposto il suo più importante ciclo di affreschi eseguito per la cappella di Palazzo dei Priori del capoluogo umbro. Nell’opera esposta a Senigallia la funzione tutelare assicurata dalla Madonna della Misericordia trova tangibile espressione nel manto di broccato sul quale si frantumano i dardi della punizione celeste; i santi patroni ai lati, sono intenti a supplicare l’Eterno affinché risparmi la città, raffigurata ai piedi di Maria.

Altra opera di straordinaria bellezza che impreziosisce ulteriormente la mostra è la Madonna del latte di Carlo Crivelli, conservata nella pinacoteca parrocchiale della chiesa dei santi Pietro, Paolo e Donato di Corridonia. La tavola databile al 1472 ed eseguita per la chiesa di sant’Agostino costituisce la parte centrale di un polittico, forse smembrato e le cui parti laterali sono ormai definitivamente perdute. Considerata opera eccelsa, in questo dipinto il Crivelli abbandona il tradizionale fondo oro e raffigura Maria seduta su un trono con il tipico drappo alla veneziana che cala coprendo lo schienale, ed è attorniata da una gloria di cherubini e serafini e dipinge uno sfondo di colore azzurro. Il Bambino, attaccato al seno della Madre, volge lo sguardo verso lo spettatore quasi a voler dialogare e intessere una relazione con chi sta osservando la scena. Un gesto umano, come umano e divino allo stesso tempo e il Salvatore.
Sacro e terreno si uniscono in questo semplice racconto dove la Madonna tiene il Bambino in braccio, lo allatta e lo guarda con la tenerezza di una madre e con l’inquietudine di chi conosce già il dolore che l’attende.

L’immagine scelta per la mostra propone il dipinto che il pittore camerte Girolamo di Giovanni eseguì nel 1463. Si tratta della Madonna della Misericordia esposta al museo civico della città dei Da Varano e l’opera evoca il nome di Piero della Francesca per le affinità formali con la tavola centrale del polittico di Borgo San Sepolcro. L’imponente figura della Vergine che apre il mantello sotto il quale si riparano i devoti, assieme ai santi Venanzio e Sebastiano, rappresenta in modo emblematico l’aspetto della madre misericordiosa, madre che protegge amorevolmente la prole la Mater Dei che accoglie in grembo coloro che hanno vissuto la grazia e per garantire un destino di salvezza alla propria anima.

Il termine Misericordia è, infatti, l’incontro di due parole: miseria e cuore; l’incontro tra la miseria della condizione umana e il cuore di Dio. 

Rachùm, in ebraico il misericordioso, evoca il termine che la lingua ebraica riserva al grembo materno: rèchem. E allora ecco Maria che con il suo ampio mantello ripara e protegge il genere umano dai colpi della minacciosa collera divina. L’immagine iconografica della Madonna della Misericordia raffigura la Vergine che sotto il proprio ampio mantello ripara i devoti dalla pioggia di frecce scagliate da un Dio irato per la condotta immorale del genere umano.

Dalla chiesa di Sant’Ermete in Pisa proviene l’opera Vergine col Bambino e angeli di Lorenzo Monaco. L’artista che viene ricordato per essere l’ultimo esponente importante dello stile giottesco, prima della rivoluzione rinascimentale di Beato Angelico che fu suo allievo e del Masaccio, esegui la tavola che sarà esposta a Senigallia nel 1412 e di lui vanno ricordate l’Incoronazione della Vergine del 1412 e l’Adorazione dei Magi, del 1420-1422 entrambe esposte alla Galleria degli Uffizi di Firenze, me la sue straordinarie opere sono sparse nei musei di tutto il mondo, con una particolare concentrazione alla Galleria dell’Accademia di Firenze ed alla National Gallery di Londra, al Metropolitan Museum of Art di New York.

La mostra di senigallia fa parte del progetto regionale “Le mostre del Giubileo della Misericordia delle Marche”; fino all’8 gennaio 2017 è possibile visitare a Loreto, a poca distanza da Senigallia la mostra “La Maddalena tra peccato e penitenza”, a cura di Vittorio Sgarbi, e a Osimo, presso Palazzo Campana, fino al 15 gennaio 2017, la mostra “Lotto Artemisia Guercino. Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi”.

Le tre mostre sono visitabili con un coupon sconto disponibile presso gli uffici turistici, gli alberghi e, inoltre è scaricabile da: eventi.turismo.marche.it
La Mostra Maria Mater Misericordiae allestita nel Palazzo del Duca di Senigallia rimarrà aperta dal 28 ottobre 2016 al 29 gennaio 2017 con i seguenti orari:
dal martedì al mercoledì dalle 15.00 alle 20.00 dal giovedì alla domenica dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 20.00 telefono 366 - 67.97.942
sito internet. www.senigalliaturismo.it

23/10/16

La poesia della Domenica - Sonetto 61 di William Shakespeare.





61.

Sei tu a voler che la tua immagine tenga aperte
le mie palpebre pesanti nell'estenuante notte?
Sei tu a desiderare che i miei sonni siano rotti
da ombre a te sembianti che ingannano il mio sguardo?
È forse il tuo spirito che stacchi dal tuo corpo
e mandi da lontano per spiare le mie azioni,
per scoprire in me ore frivole e vergogne,
bersaglio ed alimento della tua gelosia?
No, il tuo amore pur forte, non è tanto grande:
è il mio amore che mi tiene gli occhi aperti,
il mio devoto amore che frustra il mio riposo
per esser sempre vigile al tuo fianco.
Per te rimango sveglio, mentre tu vegli altrove,
molto lontano da me, ad altri troppo vicino.

Is it thy will thy image should keep open
My heavy eyelids to the weary night?
Dost thou desire my slumbers should be broken,
While shadows like to thee do mock my sight?
Is it thy spirit that thou send'st from thee
So far from home into my deeds to pry,
To find out shames and idle hours in me,
The scope and tenor of thy jealousy?
O, no! thy love, though much, is not so great: 
It is my love that keeps mine eye awake;
Mine own true love that doth my rest defeat,
To play the watchman ever for thy sake:
For thee watch I whilst thou dost wake elsewhere,
From me far off, with others all too near.

William Shakespeare

21/10/16

Che cosa è la libertà ? (Bonhoeffer)



"Colui che è responsabile agisce nella libertà della sua persona, senza mettersi al riparo dei suoi simili, delle circostanze o di certi principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. 

Il fatto che nulla lo può difendere, che non può scaricarsi se non sui suoi atti e su se stesso, è la prova della sua libertà. Egli stesso deve osservare, giudicare, pesare, decidere, agire; lui solo dovrà esaminare i motivi, le possibilità di riuscita, il valore e il senso della sua azione. Ma né la purezza della motivazione né le condizioni favorevoli, né il valore, né la scelta giudiziosa dell'azione progettata potrà diventare la regola, dietro la quale trincerarsi o dalla quale possa essere giustificato e assolto. Altrimenti non sarebbe più realmente libero."

"La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: dal vincolo con l'uomo e con Dio, e dalla libertà della vita personale.  Quel vincolo dà origine alla libertà della vita del singolo.  Non esiste responsabilità al di fuori di quel vincolo e di quella libertà.  La vita che quel vincolo ha reso altruistica e disinteressata è l'unica veramente libera di esplicarsi e di agire in modo personale.  Il vincolo assume la forma di una sostituzione a favore del prossimo e di un atteggiamento conforme alla realtà, mentre la libertà si esprime nell'autocritica della vita e dell'azione e nel rischio della decisione concreta."

"Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente -- non cronologicamente -- la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell'uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo."

"E' infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell'azione responsabile personale.
E' infinitamente più facile soffrire comunitariamente che in solitudine.
E' infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna.
E' infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito.
Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui."

Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.


20/10/16

J.S.Bach "esoterico" e la sua passione per la crittografia.



Come tutti sanno la musica di Johann Sebastian Bach (185-1750), prodigio di misura ed armonia, è strettamente imparentata con la matematica. 

Forse non è altrettanto noto che Bach era affascinato proprio dalla natura bifronte delle note - suoni da una parte, numeri dall'altro. 

Non per niente decise di inserire il suo nome, come una sorta di firma musicale, in alcune composizioni, approfittando del fatto che nella notazione musicale tedesca B sta per si bemolle; A per la; C per do e H per si. 

Un'altra crittografia usata da Bach si basava sulla cosiddetta gematria: Se A = 1 B=2, C=3, eccetera... BACH (B+A+C+H) = 14 e J.S.Bach = 41 (dato che I e J erano equivalenti nell'alfabeto tedesco dell'epoca). 

Nel suo libro Bachanalia uscito nel 1994 il matematico e appassionato di Bach, Erich Altschuler fornisce molti esempi in cui compaiono nella musica del grande compositore numeri come il 14 (BACH cifrato) e il 41 (JSBACH cifrato), che lui ritiene siano stati inseriti di proposito. 

Per esempio, nella prima fuga (in do maggiore) del primo libro del Clavicembalo ben temperato, il soggetto ha 14 note. 

Inoltre, delle 24 fughe del libro, ventidue sono portate a compimento e la ventitreesima è portata quasi a compimento; solo una - la quattordicesima - non è completa né quasi completa. 

Alschulter paragona la mania di Bach di firmare in forma crittografica le sue opere - inserendo in forma criptica, cioè esoterica, il suo nome - a quello del regista Alfred Hitchcock di comparire con fugaci e quasi impercettibili camei in ciascuno dei suoi film. 




J.S.Bach esoterico e la sua passione per la crittografia.



Come tutti sanno la musica di Johann Sebastian Bach (185-1750), prodigio di misura ed armonia, è strettamente imparentata con la matematica. 

Forse non è altrettanto noto che Bach era affascinato proprio dalla natura bifronte delle note - suoni da una parte, numeri dall'altro. 

Non per niente decise di inserire il suo nome, come una sorta di firma musicale, in alcune composizioni, approfittando del fatto che nella notazione musicale tedesca B sta per si bemolle; A per la; C per do e H per si. 

Un'altra crittografia usata da Bach si basava sulla cosiddetta gematria: Se A = 1 B=2, C=3, eccetera... BACH (B+A+C+H) = 14 e J.S.Bach = 41 (dato che I e J erano equivalenti nell'alfabeto tedesco dell'epoca). 

Nel suo libro Bachanalia uscito nel 1994 il matematico e appassionato di Bach, Erich Altschuler fornisce molti esempi in cui compaiono nella musica del grande compositore numeri come il 14 (BACH cifrato) e il 41 (JSBACH cifrato), che lui ritiene siano stati inseriti di proposito. 

Per esempio, nella prima fuga (in do maggiore) del primo libro del Clavicembalo ben temperato, il soggetto ha 14 note. 

Inoltre, delle 24 fughe del libro, ventidue sono portate a compimento e la ventitreesima è portata quasi a compimento; solo una - la quattordicesima - non è completa né quasi completa. 

Alschulter paragona la mania di Bach di firmare in forma crittografica le sue opere - inserendo in forma criptica, cioè esoterica, il suo nome - a quello del regista Alfred Hitchcock di comparire con fugaci e quasi impercettibili camei in ciascuno dei suoi film. 




J.S.Bach esoterico e la sua passione per la crittografia.



Come tutti sanno la musica di Johann Sebastian Bach (185-1750), prodigio di misura ed armonia, è strettamente imparentata con la matematica. 

Forse non è altrettanto noto che Bach era affascinato proprio dalla natura bifronte delle note - suoni da una parte, numeri dall'altro. 

Non per niente decise di inserire il suo nome, come una sorta di firma musicale, in alcune composizioni, approfittando del fatto che nella notazione musicale tedesca B sta per si bemolle; A per la; C per do e H per si. 

Un'altra crittografia usata da Bach si basava sulla cosiddetta gematria: Se A = 1 B=2, C=3, eccetera... BACH (B+A+C+H) = 14 e J.S.Bach = 41 (dato che I e J erano equivalenti nell'alfabeto tedesco dell'epoca). 

Nel suo libro Bachanalia uscito nel 1994 il matematico e appassionato di Bach, Erich Altschuler fornisce molti esempi in cui compaiono nella musica del grande compositore numeri come il 14 (BACH cifrato) e il 41 (JSBACH cifrato), che lui ritiene siano stati inseriti di proposito. 

Per esempio, nella prima fuga (in do maggiore) del primo libro del Clavicembalo ben temperato, il soggetto ha 14 note. 

Inoltre, delle 24 fughe del libro, ventidue sono portate a compimento e la ventitreesima è portata quasi a compimento; solo una - la quattordicesima - non è completa né quasi completa. 

Alschulter paragona la mania di Bach di firmare in forma crittografica le sue opere - inserendo in forma criptica, cioè esoterica, il suo nome - a quello del regista Alfred Hitchcock di comparire con fugaci e quasi impercettibili camei in ciascuno dei suoi film.