18/09/14

La cosa più preziosa che un albero produce è la sua ombra (la mia vita precedente, un albero).




Cedrus atlantica glauca.

Nella mia vita precedente dovevo essere un albero e se ero un albero, dovevo essere un cedro del libano. 

Sotto le mie fronde altissime a raggiera, alcune chinate fino a terra dal loro peso, rifornivo d'ombra il bosco, la terra ed ogni organismo che voleva trovarvi riparo. 

Non era poi così faticoso. 

Il sole mi inebriava, lo cercavo ricevendone giovamento, ma io stesso finivo per ritrarmi: nell'intrico di maestosi rami trovavo ristoro. 

Solo nell'ombra, sapevo, la vita può crescere. Nulla sorge nel deserto, se non la voce del profeta. Che non potrà mai germogliare se non troverà l'eco di un'ombra dove risuonare. 

Quando smisi di cercare il sole, divenni pura ombra. Lentamente si dissolse il mio fogliame, scavandosi il tronco divenne cavo, poi ripiegandosi su se stesso si spezzò e divenne rifugio per i vermi. 

All'ombra del tronco interrato molta vita continuò a scorrere. Per intere generazioni. 

E se oggi qualcuno dovesse chiedermi cosa son stato, direi questo: che all'ombra son cresciuto, e nell'ombra ho lasciato il mio mondo terrestre, senza lacrime umane e senza rimpianto. 



Fabrizio Falconi



17/09/14

Perché una tegola è caduta sulla mia testa ? Perché proprio a me ? Remo Bodei.



Il Sole 24 Ore di Domenica scorsa, 14.9.14 ha anticipato Esorcizzando le nostre incertezze, uno stralcio della lectio magistralis che Remo Bodei terrà venerdì 26 settembre alle 19.30 ai «Dialoghi di Trani» dal 23 al 28 settembre nella cittadina pugliese. 


L'emergenza sembra diventata la norma, una situazione quotidiana dovuta alla maggiore incertezza legata al futuro. Si potrebbe dire con una battuta di Kurt Valentin che «il futuro non è più quello di una volta». Diversi fattori contribuiscono oggi ad accrescere la percezione di una crescente incertezza del futuro, che si riverbera direttamente sulle nostre vite. Le ragioni le conosciamo, ma il solo elencarle aiuta a capire la gravità delle implicazioni. Se non bastassero i timori per gli effetti sul pianeta del riscaldamento globale o per la relativa scarsità o il deterioramento delle risorse naturali non rinnovabili (acqua potabile, idrocarburi, metalli, terre rare), altri fattori umani si aggiungono a rendere più enigmatiche le previsioni del nostro avvenire.

Sono: il terrorismo, il coinvolgimento, fin dagli anni Novanta, di molte nazioni occidentali in nuove guerre, lo spostamento di interi blocchi di potere verso Paesi fino a poco tempo fa considerati emergenti e, soprattutto, la recente crisi finanziaria (che si è trasformata in economica e politica e che ha dimostrato come neppure la democrazia riesca a «disinfettare la ricchezza»). Il futuro è per definizione incerto e rischioso, ma oggi la consapevolezza della sua incidenza si è enormemente accresciuta in un mondo globalizzato le cui le parti sono interconnesse, ma in cui la comprensione dei processi è diventata più opaca e i pericoli non sono sufficientemente calcolabili.

Qualcuno, come il filosofo politico francese Jean-Pierre Dupuy, sostiene addirittura che, da quando l'umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o con l'alterazione delle condizioni necessarie alla sua sopravvivenza (clima, distruzione delle risorse), il peggio è già avvento e bisogna prepararsi lucidamente ad affrontare la catastrofe mediante una teoria che definisce «catastrofismo illuminato». Non potendoci più situare all'interno di un'epoca che si rapporta a un passato di tradizioni relativamente salde e ben individuate o a un futuro remoto di aspettative già stabilite, l'avvenire sembra riacquistare la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè sostanzialmente improgrammabile o, di nuovo, nelle mani di Dio, il che mostra come il processo di secolarizzazione si sia molto rallentato). Le conseguenze delle nostre azioni diventano sempre più imprevedibili, man mano che il loro raggio di influenza si estende.

Come orientarci allora nei confronti di un futuro aleatorio, preparandoci all'imprevisto? Da sempre le più varie strategie sono state elaborate per limitare i rischi e sconfiggere la casualità, l'incertezza e i rischi (da intendersi come messa in scena e anticipazione di una possibile catastrofe).

Da qui, nel campo specifico della teoria, l'urgenza di comprendere meglio i concetti che usiamo (caso, previsione, incertezza, rischio).

E, questo, per inquadrarli e contribuire così a chiarire le eventuali strategie tese ad aumentare le nostre capacità di previsione e di controllo. Si tratta, del resto di categorie che tutti usiamo quotidianamente e che servono per orientare i nostri pensieri, atti e passioni.

Cercherò di mostrarlo con un esempio popolare, che si può tradurre, per scoprirne le implicazioni, in un più preciso linguaggio filosofico. Immaginate che qualcuno, non voi, in una giornata ventosa decida di andare a prendere le sigarette. Nello stesso periodo, il vento ha smosso una tegola su un tetto. Quando questo qualcuno passa per strada, la tegola gli cade in testa. L'intenzione di andare a prendere le sigarette si chiama causa finale (il mio fine è, appunto, quello di comprare le sigarette); il vento che smuove e poi fa cadere la tegola si chiama causa efficiente, perché produce l'effetto della caduta.

Le due cause hanno una spiegazione immediata facilmente accettabile: la prima di tipo psicologico, legata a una decisione che poteva o non poteva essere presa, la seconda di tipo naturale, legata alla forza combinata del vento e della gravità.

Il caso si inserisce nell'intersezione tra le due cause, nel fatto che quella persona passa in quel punto proprio in quel momento. Due catene di eventi, a loro modo necessari, incrociandosi ne producono uno aleatorio. L'incidente era prevedibile? No, a meno che, per pura ipotesi, fossimo stati in possesso di conoscenze circostanziate sullo stato di ciascuna tegola di quel tetto in quel momento, sulla forza del vento o su eventuali ostacoli nella traiettoria. In questo caso avremmo anche potuto calcolare il punto esatto in cui sarebbe comunque caduta la tegola.

Resta però la questione riguardante la scelta di uscire. Essa dipende dalla volontà del soggetto, la quale a sua volta è mossa, poniamo, dall'urgente bisogno di fumare. Ma, sia per trovare le cause a questo atto forse solo apparentemente libero (come, ad esempio: il suo corpo, abituato al consumo di nicotina, avvertendo una piccola crisi di astinenza, ha mandato un messaggio al cervello), sia per risalire all'indietro ai motivi che hanno fatto cadere la tegola (perché il vento soffiava?), si avvierebbe una regressione all'infinito delle due catene causali che terminerebbe o in una confessione di ignoranza o nell'abbandonarsi alla volontà di Dio.

Estraendo una regola generale da questo esempio, si può dire che, da un lato, si ha una scelta di cui si è certo coscienti, ma di cui si ignorano le motivazioni remote, dall'altro, una serie concatenata di eventi necessari i cui anelli ci sfuggono.

Il prevedere è, tuttavia, un'attività che, più o meno consapevolmente, siamo tutti obbligati a esercitare di continuo. Non potremmo vivere senza quelle congetture che solo a posteriori possono trovare conferma o smentita. La nostra vita è inesorabilmente esposta alla fortuna, al presentarsi di eventi lieti o tristi e da millenni gli uomini cercano di esorcizzarli costruendo baluardi psichici e istituzionali.


foto in testa: Tegola angolare di gronda con testa di acheloo, 310-290 ac.

16/09/14

Una Palma del 1585, ancora viva - la pianta che "insegnò la vita a Goethe"



pubblico questo bellissimo articolo di Giovanni Montanaro pubblicato oggi dal Corriere della Sera. 

È il settembre del 1786, Johann Wolfgang von Goethe ha trentasette anni. 

Come ogni uomo, è già stato tanti uomini diversi. È stato avvocato e precettore, ha frequentato i tribunali e, con più trasporto, le taverne e le sale da concerto. 

Ha studiato lingue, dal greco all’italiano, ma non ha trascurato l’equitazione e la scherma. Si è applicato al disegno, ma anche a geologia e anatomia, botanica e mineralogia. 

Ha attraversato un periodo infernale, coliche e sangue in bocca, in cui ha temuto di morire presto. Ha bruciato quasi tutta la sua produzione letteraria giovanile, ma ha scritto già il suo best-seller, il Werther, che poi è la storia di una Charlotte vera che non ci stava con lui, di un suo amore aspro, giovanile, di quelli che sono tutto. Ha conosciuto la fama, ma anche l’angoscia dei ragazzi che si suicidavano imitando il protagonista del suo libro, tenendo quel libro in tasca.



In quel giorno di settembre del 1786, all’inizio del suo viaggio in Italia, Goethe si trova dentro l’Orto Botanico dell’Università di Padova (vedi foto in testa).

E vede la stessa pianta che vedo io adesso, la palma di San Pietro. Dopo la dipartita di un agnocasto, nel 1984, è la pianta più antica dell’Orto. 

Risale almeno al 1585, è cresciuta in questi secoli, continua a crescere, a salire, ma il tronco originario, la ceppaia, è lo stesso. Goethe ne osserva le foglie; quelle più giovani, di sotto, sono tutte intere, poi con l’età cominciano a spezzarsi, a diramarsi, a venire come ciuffi sottili. Goethe ne resta affascinato. 

Le foglie, nella loro vita, cambiano forma, fino a sembrare di piante diverse. Goethe pubblica, nel 1790, una teoria su La metamorfosi delle piante : sostiene che gli organismi crescono attraversando fasi che li modificano completamente.



Al di là del rigore scientifico della tesi, al di là della meraviglia e ambizione di quest’uomo universale in un’epoca in cui si poteva ancora esserlo, e scrivere copioni di teatro e trattati sulla natura, c’è qualcosa di più. 

Forse, l’evocazione che crescere, in fondo, significa perdere occasioni, fare solo una delle cose che si potevano fare. È facile dire che c’è tutto Goethe, qui; il Werther , in fondo, è una foglia intera, mentre il Faust o Le Affinità Elettive , scritti dopo aver visto questa palma, sono foglie più irregolari. È che le piante fanno sempre riflettere sulla vita, anche quelle che teniamo sul balcone, che ci sorprendono a crescere. 

A maggior ragione, la vita dilaga qui, nell’Orto, in questo tripudio di specie diverse, dal caffè alla polmonaria curativa, dalla ruta che profuma al fiore di loto che cresce velocissimo.


Quanti altri hanno paragonato la loro esistenza a questa palma? Quanti si sono sentiti piccoli, rispetto ai cipressi calvi, ma comunque protetti dagli alberi? Quanti, invece, hanno rivisto qualche conoscente nelle piante insettivore, quelle ad aspirazione, che succhiano la preda, quelle adesive, che la incollano senza muoversi o far nulla, o quelle a scatto, che invece ti sorprendono e ingoiano?

Giovanni Montanaro per Corriere della Sera - 16 settembre 2014. 

15/09/14

'Quanto lunghi i tuoi secoli', il nuovo libro di Filippo Tuena.



Quanto lunghi i tuoi secoli (Archeologia personale) di Filippo Tuena è il 17° volume della Collana letteraria Pgi, appena pubblicato in quest'anno particolare che segna i venti anni di vita della Collana di questa casa editrice svizzera (Grigionese). 

Quanto lunghi i tuoi secoli raccoglie testi inediti e sparsi sia in prosa che in versi e alcuni esempi di scrittura teatrale e recensioni letterarie che coprono oltre un ventennio di attività sempre più indirizzata, da un lato, verso l'autofiction e, dall'altro lato, verso la saggistica narrativa. 

Come scrive Paolo Melissi per Satisfiction (a questo link anche estratti del libro), i testi inediti di Quanto lunghi i tuoi secoli hanno – in comune lo stato di “grazia” narrativa propria dei racconti dell’Antonio Tabucchi “minore” (e quello più prezioso). Scritti nell’arco di vent’anni, sono la conferma dell’importanza della forma breve, del racconto, “genere” che in Italia ha vita difficile. 

Insieme, sono tentativi di scrittura teatrale, in versi, di autofiction e saggistica narrativa, forse una delle forme risolutive del dire in quanto (ma non solo) frutto di un insieme di forme in grado di rappresentare la complessità.

Ed è con piacere grande che ho ritrovato in questo volume alcuni testi poetici di Filippo pubblicati a suo tempo nella collana Le Remore (Aletti) nel volume Quattro Notturni.

Filippo Tuena nasce a Roma nel 1953 da una famiglia di origine composite, poschiavine (Le Prese, per la precisione) e romane da parte di padre; pugliesi e triestine da parte di madre. Il suo esordio narrativo Lo sguardo della paura (Leonardo 1991) vince nel 1992 il Premio Bagutta Opera prima. Pubblica quindi altri tre romanzi. Nel 1999 esce Tutti i sognatori (Fazi), vincitore del Premio Grinzane-Cavour 2000, cui fanno seguito La grande ombra (Fazi 2001; nuova ed. 2008), Le variazioni Reinach (Rizzoli 2005), insignito del Premio Bagutta, e Ultimo parallelo (Rizzoli 2007; nuova ed. Il Saggiatore 2013), vincitore del Premio Viareggio-Rèpaci. Dal 2010 Filippo Tuena cura la collana «Tusitala» per la casa editrice romana Nutrimenti. Il suo ultimo libro è intitolato Stranieri alla Terra (Nutrimenti 2012). Attualmente Tuena sta lavorando a un libro dedicato agli ultimi anni di vita del grande musicista Robert Schumann. 

14/09/14

Poesia della domenica - 'Alibi' di Elsa Morante.






Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!
Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,
comuni e spoglie sono per lui le mille vite.
Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori
e gli si apre la casa dei due misteri:
il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t'amo. Beato l'istante
che mi sono innamorata di te.


Elsa Morante, da Alibi, Einaudi, 2004.

13/09/14

L'enigma del pavimento del Pantheon di Roma.


E' un monumento unico al mondo, il Pantheon di Roma, sotto ogni aspetto. 

E se esteriormente il Pantheon dà e dava l’impressione di essere un tempio tradizionale – sul modello della purezza di linee greche -  non appena varcata la soglia (il portone monumentale è uno dei tre originali romani ancora esistenti e misura 7,50 metri di larghezza e 12,50 metri di altezza) si viene come risucchiati all’interno di una perfetta sfera delimitata da un tamburo cilindrico, in opera laterizia, spesso ben 6 metri.


La doppia decorazione, in due diversi registri, del tamburo, lo straordinario pavimento – a quadrati e cerchi (ancora quadrati e cerchi, il rapporto tra le due figure geometriche ricorre in tutta la costruzione) - e soprattutto la cupola articolata in cinque ordini di 28 (anche questo numero ritorna in tutta la costruzione) cassettoni concentrici, conferiscono all’opera un aspetto grandioso: la percezione del vuoto è impressionante, sembra di essere capitati all’interno di una enorme bolla di sapone, dove esterno e interno, vuoto e pieno tendono a coincidere. 

A proposito del pavimentooriginale, seppure restaurato nel 1872 - vale la pena aggiungere che il disegno geometrico, simile ad una sorta di scacchiera (in testa a questo post la pianta geometrico/cromatica) esercita pure un forte fascino simbolico, tutto da decifrare: è composto infatti da una serie di fasce parallele e perpendicolari che definiscono quadrati, al cui interno sono inscritti quadrati ancor più piccoli, oppure dei tondi (i pannelli con i quadrati sono costituiti da una cornice di porfido rosso e da quadrati piccoli in pavonazzetto bianco con venature azzurro-viola; i pannelli con i tondi hanno, invece, una cornice di marmo giallo ed il tondo di granito egiziano grigio scuro o di porfido rosso). 


E’ inoltre leggermente concavo in modo da convogliare le acque piovane in 22 fori che fanno parte di un complicato sistema di fognature sotterranee. 


Ciò nonostante ogni romano sa che perfino la pioggia rappresenta uno spettacolo, vista dall’interno del Pantheon: perché, a meno di una precipitazione particolarmente intensa o abbondante, la pioggia normalmente sembra sospesa al di sopra dell’oculus, e impossibilitata ad entrarvi, ciò a causa di quell’effetto camino, cioè della corrente d’aria ascensionale che porta alla frantumazione delle gocce di pioggia e le rallenta, altra proprietà che evidentemente gli architetti romani dimostravano di conoscere molto bene.

 Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata.    

12/09/14

"Consumiamo Internet per coprire la nostra solitudine" - Intervista a Thich Nhat Hahn.


riporto l'intervista realizzata da Claudio Gallo de La Stampa a Thenac, in provincia di Bordeaux a Thich Nhat Hanh, uno dei grandi maestri spirituali contemporanei, e pubblicata il 9 settembre scorso.  

Scorre sul finestrino del treno la campagna francese tra Bordeaux e Bergerac, filare dopo filare tra boschi e prati verdissimi che riflettono un’idea di potente dolcezza. È la stessa forza gentile che sembra di ritrovare negli insegnamenti di Thich Nhat Hanh. Monaco buddhista vietnamita, vive insieme con la sua comunità monastica al Plum Village, sulle colline intorno al minuscolo paese di Thenac. Tutti lo chiamano Thay, maestro semplicemente. Ottantotto anni, il volto severo che all’improvviso fiorisce in un sorriso contagioso di fanciullo, fu esiliato dal Vietnam del Sud nel 1973. Scelse l’Occidente, dove era già apprezzato da Martin Luther King e Thomas Merton, conosciuti nei suoi tour americani in favore della pace. In oltre un centinaio di libri ha creato un insegnamento buddhista rivolto agli occidentali, basato sulla Mindfulness: consapevolezza, presenza mentale. Assieme al Dalai Lama è forse il buddhista più celebre nel mondo, ha centri in ogni continente e un seguito di centinaia di migliaia di persone. Non chiede ai suoi seguaci occidentali di abbandonare la propria religione. Tra i quasi settecento italiani presenti al ritiro di fine agosto, molti infatti erano cristiani. 

Thay, che cos’ha da offrire il suo buddhismo alla generazione digitale, ai giovani che stanno tutto il giorno su Internet?  
«Oggi i giovani passano troppo tempo su Internet, questa è una malattia del nostro tempo. Quando passiamo tre ore davanti al computer ci dimentichiamo completamente di avere un corpo. Internet è uno strumento che può essere di grande beneficio o portarci molti problemi. Utilizzare Internet è un tipo di consumo. Consumiamo attraverso le idee, le immagini e i suoni con cui veniamo in contatto e questi possono essere elementi salutari o tossici. Le persone sono spesso sopraffatte dal numero di informazioni che ricevono su Internet. Molti di noi possono sviluppare una vera e propria dipendenza dall’essere online. Perdiamo noi stessi in questo mare di informazioni e quindi non siamo presenti per noi stessi, per i nostri cari e per la natura. Ci illudiamo pensando che rimanendo su Internet possiamo connetterci con gli altri, ma in realtà ci sentiamo sempre più soli. La consapevolezza ci aiuta prima di tutto a moderare il tempo che passiamo su Internet, e allo stesso momento ci aiuta a sapere se quello con cui entriamo in contatto è benefico o se ci fa sentire ancora più disperazione e solitudine. Consumiamo Internet per coprire la nostra solitudine, ma in realtà ci fa sentire sempre peggio. Molto spesso, quando consumiamo news, film, pornografia e pubblicità, stiamo consumando rabbia, violenza, paura e desiderio». 

Il buddhismo considera l’individuo un’illusione: c’è ancora posto in questa visione per la distinzione tra bene e male?  
«Nel XX secolo l’individualismo è stato messo in primo piano e questo ha creato molta sofferenza e difficoltà. Creiamo una separazione tra noi stessi e gli altri, tra padre e figlio, tra uomo e natura, tra una nazione e l’altra. Non siamo consapevoli dell’interconnessione tra noi stessi e tutto ciò che ci circonda. Quest’interconnessione è quello che nel buddhismo chiamiamo “interessere”. Il cammino etico che ci viene offerto dal buddhismo si basa sulla comprensione profonda dell’interessere. Quello che succede all’individuo influenza quello che accade in tutta la società e sull’intero pianeta. Su questo cammino la pratica della presenza mentale ci aiuta a fare una distinzione tra ciò che è bene e male, giusto e sbagliato. Quando siamo consapevoli possiamo vedere i danni che sono stati causati agli animali e al pianeta al fine di produrre carne per il nostro consumo. Con questa consapevolezza mangiare cibo vegetariano diventa un atto di amore verso noi stessi, verso il nostro ecosistema e il pianeta. Molti di noi rincorrono la fama, il potere, i soldi o il piacere dei sensi. Pensiamo che queste cose ci possano portare la felicità, ma al contrario ci possono portare a distruggere il nostro corpo e la nostra mente. Spesso i giovani confondono il sesso con il vero amore, ma in realtà una sessualità vuota può distruggere l’amore, e portare ancora più desiderio, solitudine e disperazione. La presenza mentale ci aiuta a sviluppare la nostra comprensione riguardo l’altra persona. Il vero amore non può esistere senza comprensione». 

È possibile superare la paura della morte?  
«La radice della paura è la nostra visione erronea per quanto riguarda la natura della morte. Abbiamo paura della morte perché pensiamo che una volta morti diventeremo il nulla. La scienza moderna ci insegna che nulla si crea, nulla si perde e che tutto si trasforma. Osservando una nuvola possiamo chiederci se possa morire. Può una nuvola da qualcosa diventare nulla? Osservando in profondità, possiamo vedere che la nuvola può solo diventare pioggia, neve, grandine e poi di nuovo vapore acqueo. Anche la nostra natura è come quella della nuvola. Proprio come la pioggia e la neve sono la continuazione della nuvola, le nostre azioni di corpo, parola e mente ci continuano sempre». 


intervista realizzata da Claudio Gallo de La Stampa a Thenac a Thich Nhat Hanh, pubblicata il 9 settembre scorso.

11/09/14

Domani, domani, domani....




Domani accadrà, domani, domani.

Sono così pieno di domani, che mi manca una scarpa.  Sono così pieno di ieri, che inciampo ad ogni passo. Ho le tasche così piene di 'ho fatto' e 'farò', che non ho nemmeno un soldo da spendere.

Domani, domani, accadrà domani.

Intanto questa pioggia di settembre cade, si smontano i giochi, i circhi e tutto resta immutabile, tutto torna come era prima, tutto è già come sarà. Ogni palude avanza, ogni uragano indietreggia.

Domani, domani, domani accadrà.

Non voglio fare niente domani. Voglio fare adesso, sentire il mio essere verticale, sentirlo vibrare tutto come una canna d'organo, come una corda di violino, come il rumore di una cascata.

Ora ora ora ora, questo posso dire di essere e sono, ora.


Fabrizio Falconi

10/09/14

Dal 20 settembre la grande mostra su Escher al Chiostro del Bramante.



Sono andato nei boschi di Baarn,
ho attraversato un ponticello e davanti a me avevo questa scena.
Dovevo assolutamente ricavarne un quadro!”

Con queste parole, Maurits Cornelis Escher allude alla litografia dal titolo Tre mondi, in cui superficie, profondità e riflesso sono poste su un unico piano, quello dell’acqua, che accavalla mondi reali e mondi riflessi fra sogno e geometria, invenzione e percezione visiva, fantasia e rigore.

Con oltre 150 opere, tra cui i suoi capolavori più noti come Mano con sfera riflettente (M.C. Escher Foundation), Giorno e notte (Collezione Giudiceandrea), Altro mondo II (Collezione Giudiceandrea), Casa di scale (relatività) (Collezione Giudiceandrea) s’inaugura a Roma, il prossimo 20 settembra al Chiostro del Bramante, una grande mostra antologica interamente dedicata all’artista, incisore e grafico olandese, che ne contestualizza il linguaggio artistico e racconta l’annodarsi di universi culturali apparentemente inconciliabili i quali, grazie alla sua arte e alla sua spinta creativa, si armonizzano, invece, in una dimensione visiva decisamente unica.

Prodotta da DART Chiostro del Bramante e Arthemisia Group e, in collaborazione con la Fondazione Escher, grazie ai prestiti provenienti dalla Collezione Federico Giudiceandrea, curata da Marco Bussagli, con il patrocinio di Roma Capitale, la mostra ESCHER vuole sottolineare l’attitudine di questo intellettuale - perché il termine artista, nell’accezione con cui siamo abituati ad usarlo, pare in parte inadeguato - a osservare la natura in un altro modo, con un punto di vista diverso, tale da far emergere in filigrana quella bellezza della regolarità geometrica che talora diviene magia e gioco.

Non è un caso che la spinta verso il meraviglioso e l’inconsueto sia nata nella mente e nel cuore di Escher grazie allo stupore che provava per le bellezze del paesaggio italiano, dalla campagna senese al mare di Tropea, dai declivi scoscesi di Castrovalva ai monti antropomorfi di Pentadattilo. Su questi paesaggi si allungava il suo sguardo che scorgeva la regolarità dei volumi, la dimensione inaspettata degli spazi, la profondità storica delle città e dei borghi. Fu la dimestichezza con questi luoghi, così diversi dalla dolcezza orizzontale della sua Olanda, a porsi alla radice di un percorso artistico che s’avventurò negli spiazzi sconfinati della geometria e della cristallografia, divenendo terra fertile per giochi intellettuali dove la fantasia regnava sovrana. 

Quello di Escher, infatti, è uno sguardo che sa cogliere la realtà del reticolo geometrico dietro le cose, per poi farne le premesse compositive per costruire quelle che più tardi prenderanno il nome di «immagini interiori». Così, quando lasciata definitivamente l’Italia Escher giunse a Cordova e all’Alhambra nel 1936, il gioco di tassellature - l’elemento di attrazione dell’apparato decorativo di quei monumenti moreschi - fu causa scatenante di un ulteriore processo creativo che coincise con il riemergere della cultura art nouveau della sua formazione artistica.

Il percorso della mostra vuole seguire letteralmente lo sguardo di Escher, che ha preso le mosse dall’osservazione diretta e puntuale della natura, sull’onda del fascino che esercitò su di lui il paesaggio italiano. 

Così, gli occhi del grande artista si sono posati tanto sulle meraviglie offerte dagli scorci del nostro paese, quanto sulle piccole cose, dai soffioni agli scarabei, dalle foglie alle cavallette, ai ramarri, ai cristalli che egli osservava come straordinarie architetture naturali.

La mostra dedicata a questo grande intellettuale, mago nell’iper suggestione del disegno, racconta attraverso le opere di Escher la compenetrazione di mondi simultanei, il continuo passaggio tra oggetti tridimensionali e bidimensionali, ma anche le ricerche della Gestalt - la corrente sulla psicologia della forma incentrata sui temi della percezione -, le implicazioni matematiche e geometriche della sua arte, le leggi della percezione visiva e l’eco della sua opera nella società del tempo.


Nel percorso della mostra anche opere comparative di Marcel Duchamp, Giorgio de Chirico, Giacomo Balla e Luca Maria Patella. 

09/09/14

200.000 visitatori per "il Blog di Fabrizio Falconi". Grazie.



Vorrei ringraziarvi per aver tagliato, dopo così poco tempo, e proprio alla fine dell'estate 2014, il traguardo dei 200.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività, anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno. 
Grazie.

Fabrizio

08/09/14

Freud e Jung adulteri - due diversi modi di tradire.



Si potrebbe dire, alla Woody Allen: dimmi come tradisci e ti dirò chi sei.

E' abbastanza curioso scoprire le differenze tra i due grandi padri della psicoanalisi, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, che furono entrambi, nelle loro vite, adulteri conclamati, ma in modi molto diversi. 

Come è noto Carl Gustav Jung sposò nel 1903, all'età di ventotto anni  Emma Rauschenbach, la figlia di un ricco industriale di Schaffusa.
Grazie a lei risolse definitivamente i suoi problemi finanziari e da lei ebbe, nel corso di dieci anni, ben cinque figli, Agathe, Anna, Franz, Marianne e Emma.
Nella sua autobiografia Jung parla poco di questa compagna, divenuta a sua volta psicoterapeuta junghiana. Il matrimonio durò tutta la vita (fino alla morte di lei), anche se Emma tollerò l'infedeltà coniugale del marito oltre ogni aspettativa.

Jung infatti già nel 1909 iniziò la celebre relazione con la paziente Sabina Spielrein che, invaghita di lui, pretende un figlio e tenta di rovinargli la reputazione.

Jung, intimamente coinvolto, non riesce ad interrompere la relazione. Fino al 1910, quando conosce Toni Wolff, poco più che ventenne, che rimane in analisi per circa tre anni.  E' ipersensibile, intelligente, amante della poesia, non bella ma estremamente femminile. Jung non le resiste e nel 1911 la relazione diventa totalizzante. Emma ne soffre molto, anche perché Jung pretende di coinvolgerla nella vita familiare e in quella professionale, rifiutando al contempo l'idea del divorzio.
La relazione con Toni dura per oltre quarant'anni,  in un singolarissimo rapporto triangolare (non fu mai messo in discussione il matrimonio con Emma, ma Jung, sempre più dilaniato interiormente, porterà il suo disastro interiore nel materiale magmatico che formerà il Libro Rosso).

Toni, fra l'altro, sarà l'unica autorizzata a trascorrere con lui i fine settimana nella Torre di Bollingen, il rifugio lontano da tutto, senza luce né acqua che Jung si era fatto costruire sul lago di Zurigo.


Del tutto diverso il tradimento di Freud. Il padre della psicoanalisi era sposato dal 1886 con Martha Bernays.

Anche questo matrimonio, però, non fu felice.  O almeno, non completamente.  Era stato lo stesso Jung, maliziosamente, molti anni dopo la celebre rottura tra i due, ad avanzare il sospetto che Freud fosse stato infedele alla moglie, e in un modo davvero piuttosto scabroso.

Negli ultimi anni, la notizia ha trovato conferme sicure proprio da parte di uno dei più grandi studiosi di Sigmund Freud, Franz Maciejewski, il quale è riuscito a dimostrare il rapporto con la cognata, Minna Bernays, sorella nubile della moglie di Freud che viveva sotto lo stesso tetto con la coppia.

Maciejewski infatti è riuscito a trovare in un albergo delle Alpi Svizzere la firma di Freud.  La prova difficilmente oppugnabile dell' adulterio sta scritta a chiare lettere nell' elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere, lo Schweizerhaus di Maloja.

Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora».

Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l' albergo.

Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente Freud non voleva insospettire la consorte.

In queste due diverse modalità di tradimento, c'è molto della diversa anima di Jung e Freud.

Jung portò l'adulterio, anzi i due adulteri, in superficie, alla luce del giorno, e cercò un difficilissimo - e doloroso - compromesso in vivendi.  Freud preferì la clandestinità.   Jung fu attratto da pazienti giovani, turbate e conturbanti. Freud preferì la cognata, che forse rappresentava un doppio della moglie.

E in queste differenti modalità c'è forse anche il segno di una diversissima interpretazione della libido, il meccanismo del desiderio umano, che mentre per Freud si identificava completamente con l'impulso sessuale, per Jung è la forza vitale psichica, di cui l'energia sessuale è soltanto un aspetto.


Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


07/09/14

La poesia della domenica - 'E' fuggita l'estate' di Arsenij Tarkovskij



È fuggita l'estate,
Più nulla rimane.
Si sta bene al sole.
Eppur questo non basta.

Quel che poteva essere
Una foglia dalle cinque punte
Mi si è posata sulla mano.
Eppur questo non basta.

Né il bene né il male
Sono passati invano,
Tutto era chiaro e luminoso.
Eppur questo non basta.

La vita mi prendeva,
Sotto l'ala mi proteggeva,
Mi salvava, ero davvero fortunato.
Eppur questo non basta.

Non sono bruciate le foglie,
Non si sono spezzati i rami...
Il giorno è terso come cristallo.
Eppur questo non basta.

Arsenij Tarkovskij

06/09/14

Le sofferenze di un cuore emotivo.





Nessuno viene al mondo come una tabula rasa, scriveva Jung. 

Se si è albero, difficilmente nella vita si potrà diventare mai sasso (e viceversa). 

Ogni cosa è una storia e ogni storia è un destino. Si potrebbe anche scrivere un libro delle sofferenze, sotto questo punto di vista. Ogni commiato di/da questa vita è tale, e ogni modo di viverlo appartiene a un mondo intero, che preesiste, che è dentro di noi come storia precedente, come storia di mille storie, come grida di antenati, come supporto vitale alla nostra stessa esistenza, forma di vita direbbe Wittgenstein. 

Un cuore emotivo è come un merlo di notte. Che non trova mai requie. E il nero del suo manto di piume si confonde con la notte.  Non ha casa, non sa stare, perché nessun posto è la sua casa.

Volare è l'unica cosa che sa fare.

Inutilmente volare, indifferente al cuore duro degli uomini, indifferente alla loro logica, ai vantaggi e agli svantaggi, alla convenienza, all'essere come deve essere, all'assurdo e al lucido e all'opaco.

Il volo di notte è l'unica requie, è l'unico agio che a un cuore emotivo è concesso. 

Un terreno di spine lo accoglie, una radura o un precipizio lo aspetta.  La stanchezza del volo non basta. 


Fabrizio Falconi

in testa: grafica di Paul Flora. 

05/09/14

'Livelli di vita' di Julian Barnes - (Recensione).




Dopo Il senso di una fine, molti lettori italiani si erano avvicinati al libro seguente di Julian Barnes, pubblicato nel 2013. 

I pareri che ho sentito e ho letto erano quasi tutti nella stessa direzione: trattandosi di un libro originale, strutturato in tre parti molto distinte - la prima dedicata ai pionieri del volo aerostatico del secolo scorso, la seconda all'amore (non duraturo) tra l'avventuriero inglese Fred Burnaby e l'attrice Sarah Bernhardt, e l'ultima che invece si concentra sul lutto dell'autore (Julian Barnes ha perso la moglie Pat Kavanagh nel 2008) -  ho constatato che quasi tutti avevano liquidato come leggere e tutto sommato irrilevanti le prime due parti del libro, elogiando invece la terza.  

Mi sento, come spesso accade, fuori dal coro. 

La prima parte - quella nella quella si descrive l'utopia umana dell'elevazione, della dimensione verticale, per noi terrestri, condannati al piano orizzontale - e la seconda, quella del bizzarro e sotto molti aspetti struggente amore del buffo colonnello Burnaby per la divina Bernhardt, sono le due parti che mi sono piaciute di più.

La terza, quella dove si descrive il dolore straziante per il lutto della moglie (l'agente Pat Kavanagh, conosciuta nel 1978 e diventata la moglie di Barnes per trent'anni, dal 1979 alla morte nel 2008), non mi ha convinto. 

Barnes - come umanamente si può condannarlo per questo ? - non riesce a trasformare in materia letteraria il dolore devastante della perdita di una persona con cui si è condivisa buona parte della vita. 
Il suo grido di dolore rimane sempre auto-riferito, l'elaborazione del lutto è assente: si resta infatti prigionieri delle due fasi del lutto, quella della non accettazione e quella della ribellione. 

Barnes descrive con esattezza ciò che prova ogni animo umano nei primi tempi di una perdita.  Il sentimento di invidia cieca per chi non è toccato, per chi è immune, l'indifferenza o il silenzio o l'imbarazzo delle persone amiche, l'inconsolabilità delle formule di rito, i ricordi che spariscono e riappaiono quando sono più dolorosi, la sensazione di vuoto, gli istinti suicidi.

Ma, un altro libro di un altro grande scrittore inglese, C.S.Lewis - Diario di un dolore, un libretto di poche decine di pagine, pubblicato in Italia da Adelphi - è molto più intensamente lucido (e anche più spietato) nell'attraversamento del lutto per la persona amata.

Barnes, in questa parte, cede all'autoindulgenza, al vittimismo, all'ebbrezza della dispersione nichilista, affermativa e totalitaria.   Non c'è mai nessuno sforzo di guardare oltre,  di capire cosa lascia veramente un lutto, dopo il trauma spaventoso dell'inizio, cosa davvero interroga in noi anche se Barnes racconta non solo i primi mesi ma i primi quattro anni senza Pat. 

L'unica sentenza di Barnes è che l'universo fa il suo mestiere. Molto in linea con il pensiero contemporaneo, ma poco poetico. Posto che è soltanto la poesia che riesce - di solito - a farci fare un salto in avanti, di consapevolezza.

L'aridità di questa terza parte è invece rovesciata dalle due - brevi - parti di Livelli di vita, che sono davvero poetiche. 

Qui, anche se Barnes alla fine tenta un volo carpiato che metta insieme le tre cose, è la poesia a superare l'insormontabile. 

Le vite ridicole, coraggiose, scialate e indomite di questi uomini e di queste donne di fine '800, raccontano di una terra - gli uomini la chiamano Utopia - dove i sogni e le pretese umane sono quel che sono: misteri indecifrabili. Ed è solo lo staccarsi da terra a conferire uno sguardo e un senso - Wittgenstein diceva che il senso, se c'è, si trova solo fuori del mondo - alle banali peripezie di esseri bipedi dotati di passione e di vita. 

In queste due parti si sogna. Si sogna a bordo dei fatiscenti aerostati, si sogna nel doloroso rifiuto di Sarah, essere femminile imprendibile e nelle notti insonni del povero Burnaby che s'era illuso, si sogna la vita per quel che è, per quel che doveva essere e per quel che potrebbe e forse sarà, in una dimensione che non è la nostra.

Fabrizio Falconi. 



  Nella foto Pat Kavanagh e Julian Barnes nel 1978, l'anno prima di sposarsi.

03/09/14

Un piatto da Roma ritrovato in una tomba in Giappone del V secolo d.C. Un appassionante mistero.




La scoperta ha dello straordinario ed e' destinata a modificare o forse riscrivere la conoscenza dei rapporti tra Oriente e Occidente gia' oltre 1500 anni fa. 

Le analisi fatte su un piatto di vetro blu, di pregevole fattura, ritrovato in una tomba del sito archeologico di Niizawa Senzuka, nella prefettura centrale di Nara, hanno fatto emergere una sorpresa: e' il primo manufatto del suo genere originario dell'Impero Romano mai scoperto finora in Giappone. 

I risultati degli esami sviluppati da alcuni ricercatori nipponici hanno portato anche a stabilire che una ciotola di vetro rotonda, rinvenuta insieme al piatto, e' riconducibile con ragionevole certezza al periodo della Persia sassanide (226-651 d.C.). 

Piatto e ciotola sono stati recuperati nel corso degli scavi fatti al tumulo n.126, che risale al V Secolo dopo Cristo del gruppo di tombe che costituiscono un sito storico nazionale. 

Gli studi scientifici, riporta il quotidiano Asahi, hanno dimostrato che il Giappone ha importato manufatti diversificati a dimostrazione di una vasta gamma di scambi commerciali tra Oriente e Occidente.

"Il piatto e' stato probabilmente realizzato intorno al mar Mediterraneo e portato nella Persia sassanide", ipotizza Yoshinari Abe, professore di chimica analitica presso la Tokyo University of Science, a capo del pool di ricercatori. 

 "Dopo essere stato decorato li', fu trasportato poi fin in Giappone", aggiunge Abe. 

La sorpresa nella sorpresa e' che il piatto, di circa 14 centimetri di diametro, si ritiene sia stato fatto al piu' tardi nel II Secolo. 

Secondo le analisi fatte con uno speciale dispositivo di fluorescenza a raggi X per valutare gli elementi chimici, la composizione del reperto è quasi identica ai vetri rinvenuti nell'area dell'Impero Romano.

Si tratta di un mix di natron, di un tipo di minerale di sodio, di una sabbia in silice e calce, simili a quelli usati di solito nelle vetrerie del bacino del Mare Nostrum e nel successivo periodo dell'Impero Romano d'Oriente. 

Il team, da ulteriori test, ha appurato la presenza di antimonio, elemento metallico molto popolare a Roma fino al II Secolo. 

La conclusione piu' ragionevole è che il piatto abbia impiegato più secoli per arrivare in Giappone, cosi' come nel caso della ciotola di vetro il cui taglio e' ritenuto identico a quello dei frammenti rinvenuti nei resti di un palazzo della antica capitale persiana di Ctesifonte. 

"Il Giappone aveva scambi molto aggressivi con altri Paesi nel V secolo, e gli ultimi risultati mostrano come vari elementi esterni riuscissero a entrare in Giappone", osserva Takashi Taniichi, professore d'archeologia alla Sanyo Gakuen University. 

"Dato che il piatto di vetro potrebbe essere stato trasportato attraverso l'Asia centrale, non c'e' da meravigliarsi per lo scarto di tempo tra produzione e arrivo in Giappone". Insomma, il mistero del 'piatto romano' avrebbe trovato la sua soluzione. 

L'arte di essere Festival - Lo spirito creativo - a Riva del Garda dal 17 al 19 ottobre.


parteciperò al Festival di L'arte di Essere a Riva del Garda.  Questa è la locandina e la sintesi degli appuntamenti. 

Dopo il successo della manifestazione “Artespirito” (svoltasi a giugno 2014 a San Marino), che ha riunito tanti artisti importanti come Franco Battiato, Alejandro Jodorosky, Gabriele La Porta, Silvano Agosti, Massimo Gramellini, Gianluca Magi e Franco Mussida, la rivista L’Arte di Essere si ripresenta con una nuova prestigiosa rassegna dedicata al rapporto tra creatività e spiritualità.

L’appuntamento è dal 17 al 19 ottobre 2014 nel suggestivo scenario di Riva del Garda. E’ qui che infatti si terrà il primo Arte di Essere festival, un evento che avrà per tema “Lo spirito creativo” e che vedrà la partecipazione di alcuni dei più importanti autori della rivista stessa (Igor Sibaldi, Gianluca Magi, Salvatore Brizzi, Lucia Giovannini, Silvano Agosti, Fabrizio Falconi, Gabriele La Porta, Giorgio Sangiorgio, e tantissimi altri). Un programma considerevole che si snoderà nelle tre sale e nel parco del Park Hotel Astoria, dove si alterneranno conferenze, incontri, e workshop.

Ricchissimo il programma della sala principale dove si avvicenderanno oltre 20 relatori. L’apertura ufficiale di venerdì è affidata alla voce di Lucia Giovannini con il suo intervento “Ricrea te stesso”. 

Altrettanto denso il calendario dei seminari che si concluderà domenica 19 con un doppio appuntamento inedito e imperdibile: “La domenica degli spiriti creativi”. Sul palco due dei più apprezzati autori e conferenzieri italiani del settore per presentare due nuovi seminari appositamente ideati per L’Arte di Essere Festival: Salvatore Brizzi, terrà alla mattina il workshop “L’intuizione – 
Come farsi canali della creatività”, e Igor Sibaldi, nel pomeriggio condurrà il workshop “I giorni della creazione – Istruzioni e consigli per chi vuole fare o rifare il proprio universo”.

Ma non mancando di certo anche nomi prestigiosi nella sezione video, che proporrà gli interventi di Massimo Gramellini e Anne Givaudan, e poi l’intervista di Franco Battiato. Tanti anche i momenti musicali, con interpreti e musicisti di qualità come Mario Mariani, Alessandra Bosco e Igor Ezendam. La direzione artistica del festival è di Riccardo Geminiani, il creatore e direttore editoriale de L’Arte di Essere.

Scopri il programma completo su www.artediessere.com. 

Per info e prenotazioni: eventi.artediessere@gmail.com - tel. 320.0146140 – Paola Ferraro, coordinatrice area Eventi Arte di Essere.

fonte: La Stampa 

02/09/14

Motus in fine velocior






Ne sono convinto, l'effetto Doppler vale anche per il tempo.

Inumidiscono i ricordi quando invecchiano, sono più secche le attese quando son giovani. Non c'è mai un solo tempo. 

Tutto vale per quello che si vive. 

Come una corda che vibra mano a mano che ci si avvicina alla fine.  Il vorticoso flusso che attira, l'orizzonte degli eventi possibili o probabili, che scompare e attira come dentro un buco nero. 

Nessuno sa cosa ci sia oltre e sarebbe stupido cercare di dirimere e asserir certezze.

Quanto fatui siete, esseri umani, a voler misurare il tempo. Come fosse un linguaggio, come fosse una distanza. 

Lente trascorrono le vostre ore quando siete all'inizio, rapide quando scorrono alla fine. 

Motus in fine velocior. 


Fabrizio Falconi

01/09/14

Meraviglie romane: la falsa cupola di Sant'Ignazio e il sepolcro di Kircher.




Una delle meraviglie romane è la Chiesa di Sant'Ignazio, nella piazza omonima tra Via del Corso, il Pantheon e il Collegio Romano. 

Ogni anno attrae visitatori da tutto il mondo, in primis per il prodigio pittorico realizzato dal pittore gesuita Andrea Pozzo: mago della prospettiva, realizzò una finta cupola, affrescata su una parete completamente piatta (a Sant'Ignazio per vari motivi, la Cupola progettata non fu mai costruita). 

Così chi entra nella Basilica, dal fondo della navata non si accorge di nulla, e viene illuso dalla esistenza di una Cupola che in realtà non c'è. 

Soltanto  avanzando e disponendosi sotto l'affresco si scopre l'inganno prospettico.

La Falsa Cupola fu realizzata da Andrea Pozzo nel 1685 cinque anni dopo la morte di Athanasius Kircher, il grande gesuita (scienziato, esploratore, vulcanologo, paleografo, enciclopedico, ecc..) alla ricerca del sepolcro del quale mi sono messo qualche anno fa. 

Durante questa lunga (e infruttuosa) ricerca (soltanto il cuore di Kircher è accertato trovarsi nel Santuario della Mentorella sui monti Prenestini), ebbi modo anche di esplorare i sotterranei di Sant'Ignazio. 

C'era infatti la possibilità che  la tomba di Kircher potesse trovarsi non al Gesù, come indicato dalle fonti (senza riscontro), ma alla Chiesa di Sant'Ignazio. Le due chiese in realtà sono distanti poche centinaia di metri. Un amico mi segnalò il fatto che a Sant'Ignazio vi era stato un recente ritrovamento di tombe antiche.

E per fugare il dubbio che tra queste potesse trovarsi anche quella di Kircher un giorno ho chiesto il permesso di visitare il Sotterraneo della Chiesa. 

Esattamente sotto la Falsa Cupola, al centro della navata, vi è, incassata nel pavimento una pesante botola di marmo. Che si può sollevare mediante due grossi anelli di bronzo dorato (ci vuole un bel po' di forza..). 

Con una normale scala a pioli, inserita nella botola (in orario di chiusura della Chiesa), siamo scesi nel sotterraneo, dove non esiste illuminazione, e bisogna portare una lanterna elettrica, per orientarsi. 

In quella occasione ho potuto verificare l'esistenza di un centinaio di sepolture, ottimamente conservate e allineate con ordine, che corrono in diversi larghi ambienti sotto il pavimento della Basilica. I nomi dei morti sono perlopiù scritti direttamente sulla superficie di cemento che chiude i loculi, con nerofumo o carboncino. 

Per quanto riguarda Kircher, ricerca ebbe esito negativo: le sepolture risultarono essere quasi tutte posteriori al 1720-1730, e comunque non sono risultate traslazioni più antiche, né tanto meno quella di  Kircher. 

Una esperienza comunque notevole. Di questa ho scritto in Dieci luoghi dell'anima, pubblicato qualche anno fa.

Fabrizio Falconi