19/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (1./)


  


     

 Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (1./) 

      E’ piuttosto difficile spiegare il fenomeno Etty Hillesum. Al contrario di altre celebri vittime dell’Olocausto, come Anna Frank, infatti – il cui diario fu pubblicato la prima volta nel 1947, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale – di Etty Hillesum, oggi divenuta una delle fonti spirituali più feconde e più frequentate nell’occidente non solo cristiano, nessuno aveva sentito parlare, fuori dai confini olandesi,  fino al 1981, quando l’editore Jan Guert Gaarlandt fece stampare ad Amsterdam  una selezione dei manoscritti, seguita, l’anno seguente da 40 lettere.   Per avere una edizione completa, in lingua olandese (1),  bisognò attendere il 1986 mentre la prima opera completa tradotta in inglese uscì soltanto nel 2002 presso la casa editrice Eedermans.

      Prima dell’edizione inglese c’era stata quella in italiano, nel 1985 per meritoria e felice intuizione dell’editore Roberto Calasso (Adelphi) che pubblicò in quell’anno il Diario, e due anni dopo le Lettere

     E’ incredibile considerare come, in un brevissimo lasso di tempo – dopo un così lungo oblio durato dalla morte di Etty avvenuta il 30 novembre del 1943 nel lager nazista di Auschwitz – l’opera della Hillesum sia divenuta così universalmente nota, appassionando ed emozionando intere generazioni di lettori, nel mondo.

     Eppure già le circostanze strettamente editoriali delle lettere e dei diari di Etty appaiono indicativi di un percorso spirituale del tutto particolare.  

     Fu proprio Klaas A.D. Smelik, l’uomo a cui si deve il salvataggio di questi meravigliosi testi, a raccontare qualche anno fa in un appassionato intervento durante un convegno (2) a Roma le peripezie che portarono nel corso di quattro decenni, all’emersione dei diari e dei quaderni.

      Ma prima di tutto l’antefatto: come è noto Etty Hillesum tenne negli anni 1941 e 1942 ad Amsterdam, un diario. Probabilmente, come racconta lo stesso Smelik, “lo fece su consiglio di Julius Spier, psicochirologo e terapeuta ebreo-tedesco, come momento della sua terapia. I diari non le servivano solo per la sua salute psicologica, ma anche per esercitare il suo talento di narratrice; Etty Hillesum infatti aveva l'ambizione di diventare scrittrice dopo la guerra, voleva scrivere un romanzo sulle sue esperienze, che tentava di fissare meticolosamente.” (3) 

      Una volta rinchiusa definitivamente nel campo di transito di Westerbork – dal quale passarono tutti i deportati dei Paesi Bassi, comprese Edith Stein e Anna Frank -  nel giugno del 1943, Etty diede in custodia i diari che teneva ad Amsterdam alla sua amica e coinquilina Maria Tuinzing, con l’indicazione di consegnarli ad uno scrittore Klaas Smelik, che come amico, doveva prendersi cura della pubblicazione dei diari.  

Il figlio dello scrittore, nella occasione di quel convegno, ha continuato così il suo racconto: “Ella aveva fatto conoscenza con mio padre a metà degli anni Trenta e sperava ovviamente che egli, attraverso le sue relazioni con vari editori, fosse in grado di trovare una via per realizzare la pubblicazione.  

Quando, dopo la Liberazione, risultò che Etty Hillesum era stata assassinata ad Auschwitz, Maria Tuinzing si mise in contatto con mio padre e gli consegnò gli undici quaderni dei diari, nonché le lettere. La figlia maggiore di Smelik, Johanna (nei diari chiamata Jopie) dattiloscrisse una parte dei diari e delle lettere, poiché la scrittura di Etty Hillesum era difficilmente leggibile. Alla fine degli anni Cinquanta e poi, di nuovo, a metà degli anni Sessanta, mio padre si mise in contatto con vari editori, che si rifiutarono di pubblicare i diari. Veniva considerato troppo filosofico.”


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 



1.    Il titolo originale dell’opera è Etty, De nagelaten geschriften van Etty Hillesum 1941-1943 (Gli scritti postumi di Etty Hillesum). Si tratta di un’opera di 864 pagine contenente tutti i quaderni e le lettere. Recentemente pubblicata anche in Italia dall'editore Adelphi. 
2.     Il Convegno internazionale su Etty Hillesum si tenne a Roma il 4 e 5 dicembre 1988 e i relativi atti furono pubblicati nel volume:  L’esperienza dell’Altro, Apeiron Editori, Sant’Oreste 1990.

3.     Klaas A.D. Smelik, intervento in L’esperienza dell’Altro, op.cit. pagg.121-125. 

18/05/14

La poesia della Domenica - 'E qual è il sentiero?' di Ezra Bayda.




E qual’è il sentiero?
Impara ad abitare ciò che la vita propone.
Impara a prestare attenzione alle cose
che bloccano il flusso di una vita più aperta
e vederle come la vera via del risveglio:
costrutti, identità,
esitazioni, difese,
paure, autocritiche e accuse,
tutto ció che ci separa dall’accettare la vita.

E qual’è il sentiero?
Rinunciare alla ricerca di consolazione
e alla fuga dal dolore.
Aprirsi alla volontà di essere
semplicemente in questo istante
così com’è.
Non più tanto pronti a cadere
nel vortice inarrestabile della mente.
Praticare è risvegliarsi al vero Sé:
nessuno in particolare, nessuna meta.
Abitando nel cuore, basta essere.

Siamo tanto di più che questo corpo,
che questo dramma personale.
Abbarbicati alla paura,
alla vergogna, al dolore,
perdiamo la gratitudine di una vita spontanea.

Come si manifesta, adesso, il nostro aggrapparci alle opinioni?

Rilassando il giudizio incessante della mente ci risvegliamo al cuore che cerca il risveglio.

E quando si alza il velo della separazione,
La vita si rivela come vuole.
Liberi dal sogno autocentrato
possiamo donarci agli altri,
come un uccello bianco nella neve.

Il tempo vola.
Non esitare.
Accogli grato questa vita preziosa.



Ezra Bayda, tratto da Cuore Zen.

17/05/14

'Il cardellino' di Donna Tartt: il piacere (effimero) di leggere una storia.




Di solito - premetto - non leggo libri così.   
Intendo libri che arrivano preceduti da un enorme battage pubblicitario, da premi (Pulitzer 2014) e investiture sul campo come 'libro dell'anno', che non si può evitare di leggere. 

Ma non avendo letto nulla di Donna Tartt ero abbastanza incuriosito. I libri poi arrivano sempre nel momento deciso da loro, ed era evidentemente il momento giusto per sobbarcarsi una lettura come questa, quasi 900 pagine, una storia perfino estenuante, scritta interamente in prima persona, in unità di tempo e luoghi, senza flashbacks, senza quegli espedienti di frammentarietà che vanno così di moda oggi. 

La Tartt è molto brava, nel congegno narrativo: la macchina funziona - non per niente proviene da quel Bennington College dal quale sono usciti anche Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem - con efficacia implacabile, pagina dopo pagina, con tutti gli snodi che rendono un libro leggibile e una storia accattivante. Si va a dormire incuriositi e con la voglia di farci raccontare cosa succederà quando riprenderemo in mano il libro. 

Theo, un ragazzino di dodici anni, resta orfano di madre - il padre, un ex attore sbevazzone ha già mollato il tetto coniugale da tempo, sparendo nel nulla - durante un misterioso attentato in un museo, nel centro di Manhattan.  Sepolto dalle macerie - la scena madre del libro si dipana all'inizio per cinquanta pagine ed è scritta con la necessaria magniloquenza e precisione dei dettagli di chi sa che è essa ad innescare il meccanismo narrativo che ti terrà avvinto per le successive 850 pagine - Theo scoprirà solo in seguito che la madre è morta, ma intanto avrà fatto in tempo a portare con sé, nello stordimento generale, un preziosissimo piccolo quadro, Il Cardellino, dipinto dal fiammingo Carel Fabritius nel 1654. 

Quella tela diventa il talismano di Theo, la sua àncora per sopportare i dolori del mondo che gli proverranno dalla nuova condizione di orfano: la scoperta del mondo di Hobie, l'antiquario nobile e silente che prende ad occuparsi di lui;  l'adozione da parte di una ricca famiglia di Manhattan, i Barbour; il ritorno del padre, che torna a farsi vivo accompagnato da Xandra, una svitata e lo porta a vivere con loro a Las Vegas; l'amicizia totalizzante con Boris, il Lucignolo che avvia Theo sulla strada della perdizione e della droga; la fuga solitaria per tornare a casa a New York; l'escalation nel mondo dell'antiquariato occupandosi della bottega di Hobie; i guai che ne seguiranno e le vicende gangsteristiche che porteranno il libro alla sua conclusione. 

Il Cardellino è un libro con molte ambizioni. Ma la qualità letteraria non è adeguata, ahimé, a supportarle.  

Contrariamente al facile entusiasmo di quelli che anche qui in Italia hanno scomodato paragoni con Saul Bellow o Henry Roth,  la scrittura della Tartt non è assolutamente all'altezza di questi confronti. 

Siamo cioè molto più dalle parti di Stephen King - che infatti ha recensito entusiasticamente il romanzo - che di Saul Bellow. 

Pur nella ricchezza del testo, nelle invenzioni narrative, nell'impianto Dickensiano così apparentemente solido, Il Cardellino ha un vuoto di fondo che non si riempie. 

Non si tratta soltanto della filosofia nichilista che pervade il romanzo, quasi come un teorema scontato. L'anima della storia resta ad un livello superficiale. 
Funzionano alcuni personaggi - il migliore è Hobie - altri molto meno, così come non funzionano affatto quelle trappole per il lettore che sono molto artificiose e di facile individuazione per chi non è proprio di primo pelo. 

Il personaggio di Theo resta, ma sono insopportabili a lunghi tratti le sue tirate vittimistiche, autocompiacenti e autocompiaciute, così come è insopportabilmente descritta - con eguale compiacimento - la parossistica caduta nel gorgo delle droghe (del vomito, della nausea, dei collassi, delle visioni) che avvita il libro su ritmi più stantii. 

Il vuoto comunque resta. E forse è proprio questo vuoto che sta a cuore alla Tartt, come lei stessa ci mostra nelle ultime pagine del romanzone. 

Senza compiere nessuno spoiler, si può affermare che il Cardellino resta alla corda, alla catena, esattamente come l'uccellino dipinto da Carel Fabritius nel 1654. 

Si ha cioè l'ìmpressione che un tale sfoggio di tecnica narrativa - al contrario dei grandi maestri che, dando voce poetica alla tecnica trasformano l'immateriale narrativo in reale-concreto-per-le nostre-vite - resta, come i vivaci colori del Cardellino fiammingo: pura manifestazione esteriore. 

Il pianto di Theo non riesce mai a scuoterci o a commuoverci fino in fondo.  La vita interiore richiede un surplus di  mondo reale e di mediazione poetica che nessuna raffinata tecnica narrativa, da sola, può restituire. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 






15/05/14

'La giovinezza è sopravvalutata' - Tilda Swinton.






In una recente intervista ad Alessandra Venezia (per IoDonna/Corriere della Sera), Tilda Swinton, che è una grande attrice e una donna molto intelligente, ha espresso un pensiero molto interessante:

'La giovinezza è sopravvalutata. La vita diventa molto più interessante col passare degli anni e arrivare a 97 anni, come mia nonna - che è ancora la mia stella polare - a me piacerebbe. Chi disse che la gioventù nei giovani è sprecata aveva ragione. Sì, d'accordo, l'energia dei giovani.. ma tutto il resto è un disastro. Le cose migliorano e continuano a migliorare col passare del tempo. Almeno per me.' 

Mi sembra una considerazione profonda e coraggiosa in un'epoca che ha deificato la giovinezza - e la bellezza esteriore ad essa legata - al punto tale che si pretende di imporre - nei linguaggi della pubblicità, dei media.. - il modello di una età eternamente giovane, quasi come se la vecchiaia (parola scomparsa dal vocabolario) non esistesse più.

Invece, avverte la Swinton - che incarna sullo schermo spesso personaggi fuori dal tempo e dal genere - la gioventù è un'età immatura.   In particolare, oggi. 

E' il (nostro) tempo mortale a definire il passaggio ad una vita più piena, più autentica e quindi più gustosa. 

Oggi ne abbiamo tutti i mezzi. 

Ripeness is all,  scriveva Shakespeare.  La maturità è tutto. 

L'energia giovanile, la forza, la ribellione, l'istinto, la bellezza, l'esibizione, la sfrontatezza, sono ben poca cosa se non si è capaci di capire che ogni conquista di sé - e del Sé - passa attraverso la relazione con l'altro.

Con tutto ciò che - in termini di godimento e sofferenza, di consapevolezza e prova - esso comporta. 

Ma soltanto quando si cresce le cose continuano a migliorare col passare del tempo. 


Fabrizio Falconi 

14/05/14

Il Festival dei comportamenti a Lodi - fino al 20 maggio.



Giorgione, Le Tre età dell'uomo, 1501


Dal 12 al 20 MAGGIO 2014 a LODI, il Festival dei Comportamenti, 9 giorni di incontri, spettacoli e laboratori per conoscere meglio sé stessi e gli altri.

 Il Festival dei Comportamenti da quest’anno rientra nel più ampio progetto sostenuto dalla Fondazione Cariplo “Lodi Ruota della Cultura”, una rete che raccoglie festival, eventi e rassegne esistenti e future in un continuo confronto e dialogo, per permettere alla cultura di non fermarsi mai. 

Gli incontri dedicati ai Comportamenti intendono offrire momenti di approfondimento e dibattito. Per questo motivo sono chiamati a Lodi scrittori, artisti e testimoni del nostro tempo, che ci aiutino a guardare il mondo da nuove prospettive. 

Nove giorni di laboratori, spettacoli e incontri che ci fanno riflettere e che ci spronano a comprendere qualcosa di più su di noi e sulle relazioni con noi stessi, con gli altri e con il mondo. 

Il Festival dei Comportamenti ci parla della nostra vita: dalla genitorialità ad un nuovo modo di vivere la socialità, la scuola e gli affetti, dall’elaborazione del lutto a nuovi modelli di produzione e di mercato sostenibili.

Tra gli ospiti: Luis Sepúlveda, Giuseppe Catozzella, Paolo Legrenzi, Nadia Toffa, Eraldo Affinati, Ian Leslie, Marina Sozzi, Giorgio Manzi, Massimo Recalcati, Giacobbe Fragomeni con Valerio Esposti, Gino Nebiolo
con Pier Luigi Vercesi, Diego Fusaro, Davide Longoni Luis Sepúlveda e Enzo Bianchi ci raccontano una società sempre più veloce, innaturale ed egoista. 

Una società dove, per ritrovarsi, bisogna riappropriarsi – sostiene Sepúlveda – del tempo per la vita, per noi e per le nostre relazioni. 

Bisogna riscoprire – ci insegna Bianchi – il dono e la capacità di dare, di offrire un gesto in grado di introdurre relazioni rigeneranti.

Perché non possiamo vivere senza mentire? Lo spiega Ian Leslie; Matteo Rampin suggerisce che per ogni problema c’è una via d’uscita; Giorgio Manzi racconta il meraviglioso viaggio dell’evoluzione; Eraldo Affinati spiega i disagi dei nostri adolescenti; Cesare Moreno, maestro di strada, sogna un incontro con i giovani che costituisca una comunicazione interumana al riparo da competizioni e ideologie; Marina Sozzi aiuta a ripensare e accettare la morte per cambiare la vita e Massimo Recalcati affronta l'eterno problema del perdono nelle relazioni amorose. 

Tre nonne riportano l’esperienza di vita ricca di felicità con i propri nipoti adottivi; con Eleonora Mazzoni si prende in considerazione il tema della ricerca della maternità, talvolta una ricerca disperata e ossessiva; Giacobbe Fragomeni racconta l’infanzia difficile, la droga e l’alcol come illusorie soluzioni e poi la passione per il pugilato, che da ragazzo allo sbando lo porta ad essere due volte campione del mondo WBC massimi leggeri; Massimiliano Verga testimonia la sua paternità un po’ speciale, quella di un bambino disabile, che obbliga a una nuova quotidianità, un nuovo modo di essere padre e genitore.

Il festival non poteva non approfondire due grandissime emergenze sociali: quella dell’immigrazione e quella della Ludopatia. Lo fa attraverso la voce di Giuseppe Catozzella e la storia di Samia, la ragazza africana che riesce a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino ma che trova la morte nelle acque di Lampedusa, mentre cercava di raggiungere l'Europa. Il gioco compulsivo è una malattia che affligge 800.000 italiani, distrugge persone e intere famiglie, ma gli interessi in ballo sono enormi e di fatto viene incentivato. 

Per maggiori informazioni www.festivalcomportamenti.org

13/05/14

Jung: La nevrosi collettiva.





Più l'uomo è civile, ossia più è consapevole e complicato, meno sa seguire l'istinto;  le sue complesse condizioni di vita e l'influenza dell'ambiente son così forti da soverchiare l'esile voce della natura. 

Allora opinioni e convinzioni, teorie e tendenze collettive si fanno avanti in sua vece e danno il loro appoggio a tutte le aberrazioni della coscienza. 

Igiene e prosperità non bastano perché l'uomo sia sano; altrimenti gli uomini più ricchi e più illuminati starebbero meglio degli altri.

Per quanto riguarda le nevrosi, le cose non stanno così, al contrario. 

La perdita delle radici e l'abbandono della tradizione nevrotizzano le masse e le predispongono all'isteria collettiva.  E questa  richiede una terapia collettiva consistente nella privazione della libertà personale e del terrore. 

Là dove predomina il materialismo razionalistico, gli Stati tendono a diventare non più prigioni, ma manicomi.


Carl Gustav Jung, da Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, Bollati Boringhieri, 1982, citazioni tratte da pag. 20 e da pag.170.  

12/05/14

Lotta di classe al terzo piano - un romanzo coraggioso di Errico Buonanno.




Ci pensavo di recente: il coraggio è proprio quel che manca, che sembra mancare agli scrittori italiani. 

In molti scrivono bene, imbastiscono storie ben costruite, affilano personaggi che riescono a suscitare empatia.  Però.. però alla fine manca quasi sempre qualcosa. 

Come ha detto una volta con incredibile sintesi, Michel Serres, è proprio il coraggio la qualità umana che sembra mancare di più di questi tempi (dove tutto, anche la passione, è sotto tono, sotto traccia, dove tutto sembra tiepido e confortevolmente privo di profondità). 

Errico Buonanno, invece, il coraggio ce l'ha.  E lo dimostra con un romanzo che mette insieme una storia, un ambiente, personaggi, apparentemente del tutto inattuali, del tutto fuori moda, del tutto lontani dal gusto contemporaneo, da quello che sembra gradito al mercato. 

Buonanno ci invita - con tono leggero, divertito e divertente, ma pieno di implicazioni attuali (eccome) - a Londra, nel 1861, dove in un vecchio, fatiscente condominio, vive - a spese del sodale, pazientissimo e devoto Engels - Karl Marx.  Proprio lui.  Il personaggio e il filosofo che dopo aver dominato la scena del mondo per buona parte del Novecento, sembra oggi caduto in una specie di damnatio memoriae, come quella che capitava agli imperatori romani, dopo aver esaurito il loro Regno. 

Oggi quasi nessuno più - a parte i circoli accademici - parla più di Marx, e se è vero come è vero che anche nei periodi di massimo fulgore della diffusione del suo pensiero in Occidente si poteva affermare che quasi nessun marxista o dichiarato tale avesse mai letto una sola pagina del Capitale (un certo oblio dunque già esisteva), oggi ad essere dimenticata sembra anche la vicenda umana del filosofo, che pure già di per sé contiene molti motivi di interesse.

Buonanno mette al centro del suo romanzo proprio Karl Marx, con tutte le sue smanie e le sue idiosincrasie, a quarantatré anni, mentre è alle prese con la scrittura del libro (Das Kapital), che incendierà il secolo successivo e che vedrà la luce soltanto sei anni più tardi, nel 1867. 

A Londra Marx se la vede malissimo.

Lui e la sua famiglia, che qui sono approdati nel 1852, hanno vissuto con gli esigui proventi della sua attività di pubblicista.

Abitano in uno dei peggiori quartieri di Londra, occupano due stanze con la moglie che lo ama profondamente e crede nelle sue idee, nonostante le gravissime difficoltà e la morte, in pochi anni, per denutrizione, di tre figli, Heinrich (1850), Franziska (1852) e Edgar (1855).

Nonostante ciò, Marx non smette di studiare, scrivere, riflettere: il mondo, l'Europa, sono in rivolta.  E ovunque sembra di respirare soltanto un'attesa di qualcuno che sappia interpretare e definire questo sentimento.

In questo clima dickensiano, Buonanno costruisce un romanzo formidabile, che pagina dopo pagina diverte e commuove.  Il segreto - l'espediente - è quello di introdurre la figura del padrone di casa,  Alan John Huckabee, che sembra l'opposto di Marx: sfruttatore, cinico, invidioso, letterato fallito e vero e proprio capitalista.

Marx è un inquilino scomodo: moroso impenitente, pericolosa testa calda, frequentatore di brutti soggetti.

Tra i due opposti caratteri comincia una guerra che si stempererà, pagina dopo pagina, in una imprevista e imprevedibile empatia, una lotta solidale, dalla stessa parte, in nome dell'utopia: in fondo ogni uomo alla fine, desidera cambiare il mondo, e desidera che il mondo sia un posto migliore di quello che viviamo.

A corollario dei due, Buonanno dispone poi una serie di personaggi di contorno particolari che arricchiscono la narrazione - imbastita soprattutto sui dialoghi, che sono la vera arma in più di questo scrittore - come quello di Natasha Ivanova, che sembra uscita da un libro di Tolstoj e che con La promessa del Tamigi, "romanzo in presa diretta", regala al lettore momenti di divertimento puro.

E alla fine con quella frase così spontanea: "Huckabee, su: si guardi intorno! Non è bella la vita, anche qui fuori ? E non è bella la realtà? Il futuro, il progresso, quello vero!" concede al romanzo l'esito più appropriato.

Il futuro, il progresso, lontano dall'utopia, sono nel coraggio della vita ordinaria, nelle battaglie quotidiane, nel riso e nel pianto della vita.  E questo, anche Karl Marx, prima ancora di comprenderlo forse, lo ha vissuto interamente con la sua esistenza.

Fabrizio Falconi



Errico Buonanno

11/05/14

La poesia della domenica - 'Incontro nel Viale dei castagni' di Rainer Maria Rilke.




All'ingresso l'avvolse il buio verde
come in un fresco mantello di sera;
e mentre ancora al corpo s'accordava
ecco lontana nella trasparente

opposta estremità, da un sole verde
come da vetri verdi, luminosa,
emerse una sola figura bianca
e restò a lungo lontana; poi luci
spiovendo ad ogni passo l'inondarono

e all'indietro le corse un chiaro brivido i capelli
timido propagarsi nel biondo.
Ma a un tratto l'ombra si fece profonda
e occhi vicini erano aperti

ora in un volto nuovo, chiaramente visibile
e fermo come in un ritratto
in quell'istante che tornò a dividerli:
prima era per sempre e poi non era più.

Parigi, estate 1908, prima del 15 luglio

Rainer Maria Rilke, da Nuove poesie, a cura di Giacomo Cacciapaglia, Einaudi, 1995.

09/05/14

Salva la Public Library di New York, una delle più belle biblioteche del mondo.



La Public Library di New York abbandona il suo piano di restyling: dopo anni di polemiche e' stato bocciato il progetto di rinnovamento dell'architetto Norman Foster, secondo il quale sarebbero stati abbattuti gli scaffali per i libri del 1911.

Il sindaco della Grande Mela, Bill De Blasio, aveva espresso scetticismo sul piano di ristrutturazione della biblioteca sulla 42esima Strada gia' durante la campagna elettorale, e recentemente si incontrato con il presidente della Public Library, Anthony Marx, per discutere il progetto.

Il piano doveva essere pagato con 150 milioni dollari stanziati dalla citta' di New York e proventi della vendita della Mid-Manhattan Library, sulla Quinta Strada e 40esima, e della Science, Industry and Business Library, su Madison Avenue e la 34esima Strada. 

La biblioteca e' ancora in attesa di ricevere i 150 milioni di dollari stanziati sotto l'amministrazione Bloomberg, ma ora spera di utilizzare il denaro per altri progetti. 

Tuttavia, per il piano erano già stati sborsati nove milioni di dollari a Foster. Sembra pero' che il costo dell'opera sarebbe stato piu' elevato dei 300 milioni di dollari inizialmente stimati.



08/05/14

Essere fratelli non si sceglie, lo si diventa (Joaquin e River Phoenix).


Joaquin (sotto) e River (sopra) Phoenix fotografati nel 1985. 


Essere fratelli non lo si sceglie. Lo si diventa. 

Quel che accomuna due esseri umani, l'essere venuti al mondo dalla stessa donna, dallo stesso codice genetico, non è scelto da nessuno, tanto meno da chi si ritrova nella condizione di essere fratello di qualcuno. 

Ma non esiste forse relazione che rende meglio il concetto di responsabilità umana di quello di fratello (non casualmente questo è il termine a cui si ricorre più spesso nei libri sapienziali e nelle parole pronunciate dal Messia nei Vangeli). 

Sono il fratello di qualcuno, non l'ho scelto.  

Ma il destino mi chiama, sotto questa forma, anche se io non so cosa sia il destino. 

Sono chiamato a farmi carico (o a scegliere di non farmi carico, che è la stessa cosa), sono chiamato direttamente in causa, sono interrogato nel profondo di me stesso. 

Un legame misterioso avvolge noi due e non so trovare altro termine più appropriato di relazione

Fratelli non abbiamo scelto di essere.  Ma possiamo diventarlo, e certe volte siamo chiamati drammaticamente ad esserlo, senza nemmeno poterlo sceglierlo. 

Emblematico, fortissimo di significati è il destino dei cinque fratelli Phoenix.  River è morto tragicamente. Joaquin, che ha assistito alla sua morte, che lo ha visto morire tra le sue braccia, è oggi uno dei migliori attori di Hollywood, in virtù, forse, anche di quel dolore che si legge ancora sulla sua faccia. 

Fabrizio Falconi

Joaquin Phoenix, noto per un periodo anche come "Leaf Phoenix" appartiene a una famiglia di artisti, di cui il più noto è il fratello maggiore River, morto tragicamente nel 1993 all'età di 23 anni.

Suo padre è John Lee Bottom, carpentiere, cattolico proveniente da Fontana in California, mentre la madre è Arlyn Dunetz, segretaria, nata nel Bronx da genitori ungherese e russo e di religione ebraica. 

I due s'incontrarono a Los Angeles: John diede un passaggio in auto a Arlyn che stava facendo l'autostop dopo aver abbandonato il primo marito. Vissero per qualche tempo nelle comuni hippie. Divennero quindi missionari della setta religiosa dei Bambini di Dio, in Sud America. 

Ebbero cinque figli: River (deceduto nel 1993), Rain, Joaquin, Liberty e Summer. Joaquin è l'unico che non porta un nome ispirato alla natura; sentendosi escluso, a quattro anni decise di farsi chiamare Leaf ("foglia"), nome che tenne anche come attore fino all'età di 15 anni. Delusi dalla setta dei Bambini di Dio, i genitori di Joaquin rientreranno negli Stati Uniti nel 1978 dove cambiarono il cognome in "Phoenix" (in onore alla Fenice che risorge sempre dalle proprie ceneri). 

Rientrato negli Stati Uniti, Joaquin Phoenix sarà uno dei testimoni della morte del fratello River, avvenuta per overdose di droghe al Viper Room, un club alla moda in parte di proprietà di Johnny Depp, la notte di Halloween del 1993. 


Johnny Depp era presente quella sera nel locale, così come la fidanzata di River Samantha Mathis, il cantante degli Slipknot Corey Taylor, il bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea, e il chitarrista John Frusciante, entrambi amici da tempo. Dopo essere stato visto a colloquio con alcuni spacciatori, River uscì dal locale in condizioni preoccupanti mentre Flea e Depp stavano suonando sul palco; i due si precipitarono fuori, mentre Joaquin chiamava il numero di soccorso pubblico 911. 

I soccorsi però non poterono arrivare in tempo, e quando un'ambulanza giunse sul luogo River era già morto sul marciapiede. La corsa al Cedars-Sinai Medical Center e i tentativi di rianimazione furono inutili e River fu dichiarato morto alle ore 1:51 L'autopsia rivelò in seguito un'overdose di eroina e cocaina, sotto forma di speedball, oltre a tracce di cannabis,Valium e un altro anti-influenzale per il quale non era necessaria la ricetta medica. Tuttavia sul suo corpo non furono ritrovati segni di aghi. 

La drammatica telefonata di Joaquin al 911 fu registrata e ritrasmessa da varie trasmissioni radio e tv. A seguito del decesso di River e dell'atteggiamento invasivo e irrispettoso dei media nella sua vita privata, Joaquin si allontanò da Hollywood per la seconda volta fino al 1995, quando parteciperà a Da morire (To Die For), prova d'autore diretta da Gus Van Sant.

tratto da Wikipedia.



Joaquin Phoenix

07/05/14

"Guarda che non sono io", un libro su Francesco De Gregori.



Si intitola 'Francesco De Gregori - Guarda che non sono io' il volume, a cura di S.Viglietti e A.Arianti, che racchiude il racconto fotografico della storia del popolare cantautore. 

Il libro, che anticipa la pubblicazione di un nuovo progetto musicale, racconta 40 anni di musica di De Gregori attraverso una selezione di immagini e parole: la vita, i viaggi, i live, i backstage, gli incontri.

'Guarda che non sono io' e' un affascinante ritratto dell'artista e del suo modo di fare musica. Dopo una galleria di foto inedite, un approfondimento sul personaggio e sulla sua discografia, più due interviste esclusive, a lui e al suo produttore Guido Guglielminetti (con Steve Della Casa e Gabriele Ferraris).

Completa il libro una raccolta di manoscritti di nuove e vecchie canzoni. 

Per lui e' una prima volta. 

"La maggior parte dei libri - spiega Francesco De Gregori - che sono stati scritti su di me, non molti per la verita', li ho visti solo quando erano gia' in libreria... In questo caso, invece, sono stato coinvolto fin dall'inizio e ho dato volentieri un mio contributo. Lasciandomi fotografare, tirando fuori molte vecchie foto e altri materiali d'epoca dal fondo dei cassetti, revisionando insieme ad Alessandro, mio pianista, e Silvia, editrice torinese, un'impressionante quantità di interviste rilasciate nel corso degli anni". 

Il volume, disponibile dal 10 maggio in pre-order sul sito www.francescodegregori.net e dal 3 settembre in libreria, sara' presentato sabato al Salone del Libro di Torino e il 20 luglio al Collisioni Festival di Barolo.




06/05/14

Disputa sul tradimento. Un bell'articolo di Federica Manzon su La Lettura del Corriere della Sera.



Le relazioni pericolose (Dangerous Liaisons) diretto da Stephen Frears nel 1988

Il tradimento è uno sfogo maschile opportuno, addirittura essenziale a preservare la famiglia. Così pensa Martin Hart, il protagonista di True Detective, l’ultima serie tv culto della Hbo. Martin tradisce la moglie con ammirevole costanza, con donne più giovani, donne che lo legano al divano con le manette, che gli fanno ogni genere di proposta al telefono: «Il lavoro ti assorbe tanto» dice, «bisogna decomprimere, prima di tornare a casa. Alla fine lo fai per il bene di tua moglie e dei tuoi figli». Il tradimento, dunque, è eminentemente prerogativa degli uomini? Certo, pensa il maschio eterosessuale della profonda Louisiana. Certo, dicono i critici di Dominique Strauss-Kahn, sulla cui condotta fedifraga l’ex moglie Anne Sinclair aveva solo qualche sospetto. Certo, dicono le femmine intervistate da Daniel Bergner nel suo ultimo libro Che cosa vogliono le donne (Einaudi Stile libero). 

Naturalmente, mentono. L’esperimento che le ha smentite è semplice: alle volontarie vengono fatte ascoltare delle audio-cassette pornografiche con protagonisti amanti di lunga data, sconosciuti, donne. Tutte dichiarano di preferire il rapporto tradizionale, peccato che gli impulsi nervosi inviati agli strumenti evidenzino il contrario. Le donne sono attratte dalla relazione traditrice, lo sono rapidamente e più liberamente di quanto osino dichiarare. Mettendo mano ai più seri studi scientifici, Bergner scardina ogni falso mito: dalle scimmie alle manager newyorkesi, le donne desiderano il tradimento, lo ricercano, lo praticano, senza che questo debba per forza minare le basi della vita di coppia, senza che questo le renda delle pessime madri. 

Ma se il tradimento, anche quello senza sospiri e senza romanticismi, è diventato unisex, identici sono rimasti i suoi riti. Ancora nel cuore della notte ci giriamo sul fianco per rispondere a un sms. Al mattino, ci precipitiamo a cancellare i messaggi di Facebook. Guardiamo l’iPhone vibrare nella tasca della giacca: scusa ero in una riunione importante. E sempre ci addormentiamo immaginando le sue gambe nude e i suoi occhi che sorridevano troppo, e daremmo qualsiasi cosa per un’ora di irragionevole spensieratezza: Elsa Morante che al telefono acconsente alle richieste di Luchino Visconti, mentre accanto a lei Moravia dorme. È questo il tradimento che rende così immorali? Oppure immorale è il desiderio segreto degli amanti che il marito o la moglie muoiano, perché abbandonarli significherebbe procurare loro un’infelicità e non vogliamo, neppure se la vita insieme ci tormenta e basterebbe appena un po’ di coraggio. O piuttosto immorale è la pretesa d’eternità che ogni promessa d’amore si porta dietro? Quel «per sempre» che giura su un futuro impossibile e suona sinistro tra le paure della nostra infanzia — le gemelle di Shining, il pagliaccio di IT.


05/05/14

C'è qualcosa di meglio di trovare: ritrovare.




C'è qualcosa di meglio di trovare:  ritrovare. 

Cammino da quando son nato e da quando cammino - forse ancora prima -  perdo qualcosa: un  oggetto, un paio di occhiali scivola dalla tasca senza che me ne accorga; il tempo lo perdo ad ogni inciampo e anche lui scivola da qualche parte dove io non posso vederlo. 

Ogni tanto trovo anche qualcosa: e mi riempie di stupore.  A volte sono cose piccole, altre immensamente sconosciute, ne trovo soltanto l'involucro; certe sono anche dentro di me e non sapevo di averle, altre le trovo camminando come dicevo, perché succede che anche un inciampo può servire a trovare qualcosa. Gli occhi non vanno di pari passo con le gambe. 
Gli occhi mirano in alto, le gambe hanno bisogno di camminare sulla strada. 

E però nessuna grazia è maggiore del ritrovare. 

Ho lasciato una cosa, sperando che nessuno la veda, che nessuno la riconosca.  Ho nascosto una cosa, ho seppellito, l'ho lasciata, l'ho abbandonata.  Ma lei sapeva che io sarei tornato. 

Così funziona: se ti fidi, troverai quel che hai lasciato, nel posto esatto dov'era. Nessuno lo avrà portato via, nessuno l'avrà distratto, nessuno l'avrà rubato, nessuno l'avrà fatto dimenticare di te. 

E' il patto segreto.  E' sapere che ritroverai, certamente, quel che vuole appartenerti e quello a cui tu vuoi appartenere.  Che non si sposta mai sull'asse del pianeta, o dell'universo. Che resta fisso, che non si muove mai. 


Fabrizio Falconi

04/05/14

La poesia della domenica - 'Dolore' di Jacqueline Risset.



Dove nasce il misterioso il folle
dolore d'amore ?
mi sveglio questa mattina
circondata dal dolore di te

- di te: come un'irritazione
nella pelle del mondo dove sei
e se chiedo:
come farla cessare

lo so:
occorre che sia spento quel punto
che smetta di battere come un dente
quando il resto tace

Tessuto del mondo in un punto trasparente
tutto soffre in questi paraggi
tutto guarda questo punto
che il dolore      rischiara

Sogno l'oblio completo
parete sorda muro bianco
ma tutto è scritto disegnato
coperto di segni

di te - da me -
fatti per vedere te ovunque
e ora soffoco
soffro vorrei
dormire

mi hai detto sulla piazza
brusio di bronzo fontane
"Quale fine ? l'oblio
non si immagina"

ma tu, amore,
non soffri - ed io
non capisco soffro
ancor di più

Così di seguito e senza alcun sapere
corro
fino alla prossima freccia
che uccidendomi mi risvegli


Jacqueline Risset, da Amor di lontano, Einaudi, 1993 (pag. 125)

03/05/14

"E' impossibile tacere su una morte" - Elias Canetti.


250.000 foto ed effetti personali allestiti nel centro della memoria di Fukushima (foto di Toru Hanai).


E' impossibile tacere su una morte.  Vorremmo una muta del lamento, e poiché non esiste cerchiamo di metterla insieme con le lettere che mandiamo in paesi lontani.

Ma il nostro dolore per il morto è così grande e violento che non scriviamo soltanto a quelli che l'hanno conosciuto: impegniamo ad onorarne la memoria anche tutti quelli che non conosciamo.  Ad essi presentiamo il morto a posteriori, ad essi comunichiamo il meglio che di lui si possa dire; diciamo esplicitamente cosa lui significhi per noi ed esercitiamo una sorta di pressione: guai se anche per loro non significa molto. 

In cuor nostro facciamo dipendere dalla loro reazione alla notizia di questa morte la possibilità che continui la nostra amicizia per loro. 

Li mettiamo alla prova, li osserviamo con diffidenza, misuriamo sulla bilancia ogni parola della loro reazione, e se il peso risulta troppo scarso li cacciamo senza pietà: non potranno più far parte della nostra cerchia. 


Elias Canetti, La rapidità dello spirito, appunti da Hampstead 1954-1971, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, 1994, pag.182.

02/05/14

I tiepidi vanno all'inferno.




I tiepidi vanno all'inferno, ammonisce il titolo di un libro scritto da un volenteroso prete di strada di Marsiglia, Michel-Marie Zanotti-Sorkine, il quale è riuscito - sembra - nell'impresa di tornare a far riempire la sua parrocchia, parlando di cose semplici e di un vangelo quasi pasoliniano. 

Zanotti-Sorkine è convinto che l'uomo serio, di fronte al destino, non può stare tranquillo.  E in effetti, come si sa, Gesù Cristo non amava affatto i rinunciatari, i passivi, gli ignavi, i farisei e tutti quelli che seppelliscono il loro talento, invece di farlo fruttare. 

Ma implicazioni religiose a parte, anche per chi non crede, questa faccenda della tiepidezza è diventata centrale nella nostra epoca. 

Tiepidi sono quelli - sempre più numerosi - che vivono vite anestetizzate, vagheggiano passioni - di qualunque natura - ma ne hanno paura.  Non riescono mai a mettersi in gioco veramente, né in discussione, ad abbandonarsi alle domande che il destino - o la vita - sottopone, non riescono né a piangere veramente né a godere di una vera gioia.
  
Preferiscono quella che Thoreau chiamava una mite disperazione.  Una disperazione soffusa, tiepida. Come il ronzio di un frigorifero in funzione. Non si vede esteriormente. La si vive come un rumore di fondo, di accompagnamento della propria vita.

Vivere così può apparire triste, ma è sicuramente più vantaggioso sotto molti aspetti: si rischia di meno, o non si rischia affatto.

I tiepidi, però, visto che abbiamo parlato di mite disperazione, non vanno confusi con i miti. Una tipologia che si va facendo molto rara.

Per capire qualcosa della vera mitezza di cuore, bisognerebbe leggere il celebre racconto di Dostoevskij.

Il mite di cuore non è affatto un tiepido. Vive le passioni intensamente, spesso anche più intensamente degli altri, ma rinuncia a - egoisticamente - affermarle. A farne vanto. Preferisce che sia la vita ad aprire le porte, spesso - come nel caso del racconto dostoevskiano - pagandone il più crudele dei prezzi.

Essere miti, dunque, non significa affatto rinunciare a vivere. Soltanto i tiepidi lo fanno. Preferendo una vita a scartamento ridotto, piuttosto che una ondata di pienezza che potrebbe sommergere.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

01/05/14

Hitler e il Nazionalsocialismo: una lettera di Thomas Mann a Albert Einstein.




Per diversi critici, l'atteggiamento del grande scrittore - a cui era stato attribuito il Premio Nobel nel 1929 - nei confronti di Hitler e soprattutto dell'antisemitismo furono tutt'altro che limpido. 

Thomas Mann, che non era ebreo, ma aveva sposato un'ebrea, ebbe però la coerenza di scegliere l'esilio quando i Nazisti presero il potere, nel 1933, dopo le contestazioni dei nazisti alla sua celebre conferenza su Wagner tenuta all'Università di Monaco.  Lo scrittore, che in quei giorni si trovava all'estero, decise di non fare più ritorno in Germania, fino alla fine dei suoi giorni. 

Stabilitosi dapprima in Svizzera, a Kusnacht e poi a Zurigo, andò a vivere negli Stati Uniti, a Pacific Palisades, nei pressi di Los Angeles. 

In America divenne intimo di grandi personalità, tra cui Albert Einstein, che aveva già conosciuto negli anni precedenti, e al quale scrisse questa lettera, datata 15 maggio 1933 poco dopo che (il 30 gennaio) Adolf Hitler era stato nominato Cancelliere del Reich. 

La lettera fu scritta nel Grand-Hotel di Bandol, nel dipartimento di Var, nella Francia del Sud. 

Ad Albert Einstein 
Bandol (Var), 15 maggio 1933, Grand Hotel

Stimatissimo professore, 
diversi cambiamenti di residenza hanno fatto sì che il mio grazie per la sua cara lettera si sia protratto fino ad oggi. 

E' stato il più onorevole messaggio che io abbia avuto non solo in questi tristi mesi, ma forse in tutta la mia vita: ma esso mi loda di una condotta che mi riuscì naturale e che pertanto non merita elogi.

Ben poco naturale, certo, è invece la situazione in cui, per quel mio contegno sono venuto a trovarmi; sono troppo un buon tedesco infatti, perché il pensiero di un esilio permanente non abbia per me un accento assai grave, e la rottura col mio paese, che è quasi inevitabile, mi opprime e mi angoscia parecchio:
segno appunto che non si adatta bene alla mia natura, più improntata ad una tradizione goethiana e rappresentativa che non fatta, di sua natura e vocazione, per il martirio.

Perché mi vedessi costretto a entrare in questa parte dovevano accadere, veramente, cose oltremodo false e cattive, e falsa e cattiva, infatti, secondo la mia più profonda convinzione è questa "Rivoluzione tedesca."  

Le mancano tutte quelle qualità che alle vere rivoluzioni, per cruente che fossero, hanno attirato la simpatia del mondo. Essa, per sua natura, non è una "sollevazione", checché vadano dicendo e strillando i suoi esponenti, ma odio e vendetta, gusto di uccidere e meschineria spirituale piccolo-borghese. 

Non ne può venire nulla di buono, non lo crederò mai e poi mai, né per la Germania né per il mondo, e l'aver messo in guardia, fino all'ultimo, contro le forze che hanno portato questo disastro morale e spirituale, costituirà certo un giorno un titolo d'onore, per noi, titolo d'onore che forse sarà la nostra rovina. 

Il suo devotissimo

Thomas Mann