10/03/14

Wim Wenders - "La ragione smarrita".







Wim Wenders (1945) scrisse questo testo il 28 maggio del 1999 nei giorni drammatici della Guerra del Kosovo (pubblicata sul quotidiano La Repubblica di quel giorno).  "Ogni volta che una guerra, con la sua brava etichetta geografica, entra nell'archivio della memoria collettiva," scriveva Guido Davico Bonino, "speriamo tutti che sia l'ultima. Putroppo non è così." 


La ragione smarrita.

Sono tante le cose
che non comprendo
di questa guerra
e così poche
quelle che afferro.
Una sola mi sembra
abbastanza certa:
ogni guerra
è una guerra.
Ogni guerra
finisce per mangiarsi
le sue ragioni
quand'anche fossero le migliori.
E continuo a pensare
che combattere il male
con altro male
non può, alla fine,
essere un bene.


Wim Wenders, 1999.

09/03/14

La poesia della domenica - "Una seconda volta non ci è data" di Aleksandr Kusner.






E la prossima volta in Russia voglio vivere.
Ma sarà un altro secolo, altri tempi saranno.
Vedrò Parigi, potrò vedere Roma,
Della Neva alle rive care ritornare.
Allora i versi leggerò di quel poeta
Che un tempo sono stato – non ci credo –
Così dirò: peccato, il mondo non ha visto,
Che versi su Roma egli ha mai scritto!
E i nuovi amici mi saranno accanto.
Che strano – mettendoli alla prova talvolta
Con lo sguardo, ciò che ho dimenticato invano
Cercherò, per poi arrendermi con un gesto della mano.
E colei che nel futuro mi toccherà di amare...
Ma no, una seconda volta non ci è data.
Lì sarai più felice, non opporti, non far storie.
Ah, se si scegliesse, io sceglierei l'amore.


Aleksandr Kusner, tratto da:  La poesia di San Pietroburgo,  Spirali, 1998.

08/03/14

"Il giunco mormorante" - di Nina Berberova. Un racconto-capolavoro.






Due amanti si lasciano a Parigi prima della guerra, promettendo di rincontrarsi presto. Lui parte per Stoccolma, lei resta per occuparsi di un vecchio zio che non ha più nessuno al mondo. 

Passeranno sette anni e lui - Enjar - si è intanto fatto una nuova vita, sposando Emma, una giovane svedese. 

Lei lo va a trovare, scopre la sua nuova esistenza, cerca un chiarimento impossibile, che arriverà soltanto molto tempo dopo, durante una visita a Venezia, e in modo molto parziale. 

Il giunco mormorante è un capolavoro di stile. In sole 80 pagine la Berberova raggiunge il culmine della tensione narrativa con l'inespresso che diventa essenza (e viceversa). Vibrante, bellissimo, pieno di verità sull'amore, il mistero dell'amare, l'impossibilità, l'abbandono, la sofferenza. 



“C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ognuno di noi ha la propria “no man’s land” in cui è totale padrone di se stesso. [...] Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale; l’una sia lecita l’altra illecita. Semplicemente l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero…”

Nina Berberova, Il giunco mormorante, Traduzione di Donatella Sant'Elia, Adelphi, 1988.

07/03/14

Le notti di luna piena - Rohmer. Le difficoltà di una vita consapevole.




Le notti di luna piena

Notti di luna piena è un film francese diretto da Éric Rohmer, che uscì nelle sale il 29 agosto 1984, e che oggi è un po' dimenticato. 

E' il quarto capitolo di una serie che il grande cineasta chiamò Commedie e Proverbi , ispirandosi ogni volta ad un detto, a un motto popolare. 

In questo caso Rohmer dichiarò che Notti di luna piena si ispirava ad un proverbio della provincia di Champagne: "Chi ha due donne perde l'anima, chi ha due case perde la ragione" .

Più tardi, però, si scoprì che Rohmer si era preso gioco della stampa perché quel proverbio non esisteva e non era mai esistito, avendolo invece il cineasta inventato di sana pianta, per i fini del suo film, di quello che voleva dire. 

Nel film Louise è interpretata da Pascale Ogier, una talentuosa e sfortunata giovane attrice francese che per questo film vinse la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia di quell'anno ('84) e morì solo pochi mesi dopo, per un infarto, alla vigilia del suo ventiseiesimo compleanno (è sepolta al Père Lechaise di Parigi). 


Pascale Ogier 


Louise è dunque, nel film, una giovane decoratrice d’interni che vive insieme al suo compagno, l’architetto Rémi, in una casa alla periferia di Parigi; la ragazza possiede però anche un appartamento in città, nel quale spesso si ferma a dormire e grazie al quale si sente ancora una donna indipendente. 

Il miglior amico di Louise è Octave, un intellettuale che le fa compagnia durante le serate mondane di Parigi. 

Louise progetta (come dice il proverbio) di dividersi fra due case: un compromesso che riesce a far accettare anche al fidanzato Rémi, ma che tuttavia non eviterà lo sfaldamento del loro rapporto. 

La duplicità del personaggio di Louise è emblematica: da una parte la ragazza è davvero innamorata di Rémi e non vorrebbe compromettere la loro relazione; dall’altra si affanna in un parossistico tentativo di negare il proprio bisogno di stabilità affettiva, fino a concedersi un’avventura clandestina in una notte di luna piena. 

 In questo delizioso ritratto femminile, un’importanza particolare è riservata alla splendida amicizia fra Louise ed Octave (Fabrice Luchini), uno scrittore sposato e padre di una bambina, ma con il bisogno di evadere dalla vita familiare per ritagliarsi i propri spazi. 

In qualche modo, Louise e Octave sono come due anime gemelle, legate fra loro da una meravigliosa complicità (una complicità alla quale si unisce anche l’attrazione fisica che Octave prova per Louise, ma che lei invece non ricambia).

E non a caso nel finale, quando si ritrova sconfitta e sola (Louise, che si è pentita della sua insignificante scappatella con un giovane seduttore dopo una notte in discoteca, scopre che Rémi ha una amante da tempo, una allieva del suo corso di tennis), la ragazza sceglie di telefonare proprio a Octave, per darsi appuntamento con lui e confidare a lui il suo fallimento. 

E' un film che meriterebbe di essere rivisto oggi, quando la pretesa di dividersi, di tenere tutto insieme, sembra essere diventata un paradigma, che forse rispecchia la difficoltà di vivere una vita davvero consapevole.



Le notti di luna piena

05/03/14

Ti diranno..




Ti diranno, quando amerai il tuo Maestro, che lo fai per avere buoni voti ed essere incoraggiato, sentirti dire bravo. Ma tu fallo lo stesso.

Ti diranno quando amerai te stesso, che lo fai solo per istinto di sopravvivenza e perché hai paura del male e del dolore. Ma tu fallo lo stesso.

Ti diranno, quando amerai il tuo lavoro, che lo fai per la tua ambizione, perché vuoi essere riconosciuto, apprezzato, stimato.  Ma tu amalo lo stesso. 

Ti diranno, quando amerai una donna, che la ami perché vuoi appagare il tuo desiderio, possedere il suo corpo, sopperire alla tua solitudine e alla tua disperazione. Ma tu amala lo stesso. 

Ti diranno, quando amerai i tuoi allievi, che lo fai per sentirti gratificato, incensato nel tuo ruolo di Maestro, messo sul piedistallo, drizzato ai loro occhi, stagliato su tutti gli altri. Ma tu amali lo stesso. 

Ti diranno, quando amerai un povero, che lo farai per ipocrisia e per farti vedere dagli altri, oppure per mettere a tacere la tua rumorosa coscienza.  Ma tu fallo lo stesso e amalo lo stesso. 

Ti diranno, quando amerai l'universo intero e la creazione che ti ha follemente generato, che lo fai perché è un modo per consolarti, per addormentarti la notte, e per trovare un senso qualsiasi purché ci sia. Ma tu amalo lo stesso, ama l'universo e ama la creazione. 

Ti diranno, infine, che non sai amare.   E tu, che non sai amare, ama lo stesso.  

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata 

04/03/14

Human Dystopia - La profezia di Wall-E


                 

La profezia si è già avverata.

Sotto forma di innocuo cartone (meraviglioso, spettacolare), Wall-E, rilasciato nel 2008, la Pixar, in collaborazione con la Disney, ci ha raccontato tutto della nostra distopia, ovvero della nostra utopia umana al contrario. 

Il pianeta è sommerso dai rifiuti, come profetizzato da Wall-E soltanto 6 anni fa. E come profetizzato da Wall-E una grande parte degli uomini di questo pianeta (che il film immaginava già in fuga, a bordo di una moderna Arca, in viaggio nell'Universo alla ricerca di un altro pianeta abitabile), vive ormai con uno schermo incollato agli occhi. 

Non era esattamente il sogno - o l'utopia - che avevamo immaginato.  Ritenevamo che l'uomo, l'essere umano, nel suo cammino evolutivo - che immaginavamo infinito - avrebbe continuato a riempire di sé, cioè di umano, il mondo. 

Qualcuno vagheggiava un ritorno dell'uomo alle origini, alle sue propensioni, alla sua natura. 
Lì, si diceva, c'è il nostro nucleo vero, quello che ci salverà. 

Ma invece la téchne, la tecnica si è impadronita di tutto e anche dei nostri occhi e dunque anche della nostra anima. Se è vero quello che ritenevano i padri, e cioè che tutto quello che passa attraverso gli occhi viene o va direttamente alla nostra anima. 

Saremo davvero come questi pupazzoni ovoidali di Wall-E, incapaci di concepire e concentrarsi su qualcosa che diverga dalla inquadratura, dalla cornice di un supporto ? Per quanto minimo esso sia, anche un paio di occhiali, la nostra visuale si restringe, si sta restringendo, si restringerà sempre di più. 

E ci accorgeremo di un mondo più grande (il nostro ambiente sociale, terrestre e cosmico, dal quale pro-veniamo, dal quale siamo pro-venuti) solo quando un folle automa verrà a sbriciolare l'algido schermo che ci illude di vedere.


Fabrizio Falconi ©



03/03/14

L'inutile ondata di piena nazionalista per l'Oscar a "La Grande Bellezza."




Lo confesso, sono un antitaliano e un disfattista: non sono tra coloro che esultano per la vittoria dell'Oscar. 

La Grande Bellezza, ne ho scritto già altrove, è un film interessante, tecnicamente superbo (Sorrentino è uno dei migliori registi in circolazione oggi), ma del tutto irrisolto, cioè non riuscito. 

Non riuscito perché - a differenza del modello a cui largamente ed esplicitamente si ispira (il mondo creativo Felliniano) - non riesce mai a tramutare il grottesco, l'orrido o l'inutile in vita vera o in poesia.  Tutti i personaggi restano macchiette, tutto resta solo un arido esercizio di compiacimento estetico. 

L'ondata di entusiasmo nazionalistico a cui si assiste in queste ore poi, è piuttosto imbarazzante. 

L'Oscar al film era dato per scontato e i bookmakers l'avevano ampiamente previsto: La Grande Bellezza contiene infatti tutti gli ingredienti che notoriamente conquistano i cuori americani quando pensano all'Italia: grottesco unito alla bellezza delle antichità.. Roma insomma. E forse è stato concepito così anche per questo.  
L'impresa quindi ha funzionato

E va compresa anche questa ondata di piena, considerando il fatto che sono rimasti pochissimi - quasi inesistenti - i motivi per cui sentirsi orgogliosi di questo Paese.

Ma sentire in queste ore sciorinare attestati retorici sulla grande rinascita del Cinema italiano e della Cultura italiana (tutte e due con la C maiuscola), fa sorridere. 

Probabilmente è vero che il talento creativo italiano - per fortuna - non si è disperso del tutto, e sopravvive miracolosamente - più che altro in forme sommerse e misconosciute dal grande pubblico. 

Ma questo premio americano - generoso per i motivi suddetti - non ci dovrebbe far dimenticare il paragone con il passato (seppure in questo paese si sia persa la capacità di ricordare).
Questo, tanto per fare un esempio, è un elenco dei film che hanno vinto il David di Donatello in Italia nel decennio 1970-1979 (tanto per capire la situazione dell'oggi): 

1970: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri.
1971: Il conformista, regia di Bernardo Bertolucci ex aequo Il giardino dei Finzi-Contini, regia di Vittorio De Sica
1972: La classe operaia va in paradiso, regia di Elio Petri
1973: Alfredo Alfredo, regia di Pietro Germi ex aequo Ludwig, regia di Luchino Visconti
1974: Amarcord, regia di Federico Fellini ex aequo Pane e cioccolata, regia di Franco Brusati
1975: Fatti di gente perbene, regia di Mauro Bolognini ex aequo Gruppo di famiglia in un interno, regia di Luchino Visconti
1976: Cadaveri eccellenti, regia di Francesco Rosi
1977: Il deserto dei Tartari, regia di Valerio Zurlini
1978: In nome del Papa Re, regia di Luigi Magni
1979: Cristo si è fermato a Eboli, regia di Francesco Rosi ex aequo L'albero degli zoccoli, regia di Ermanno Olmi.

Fabrizio Falconi

02/03/14

La poesia della domenica - "Sono ormai tanto stanco" di Cesare Pavese.






Sono ormai tanto stanco
che non mi arresto più.
  Ogni  cosa che accosto
è soltanto una nausea,
e bisogna che fugga più lontano.
   Oh le donne lascive
che il libertino esausto,
come un ragazzo in sogno,
stringe frenetico e non gode più.
   Corsa vertiginosa
che non vede nemmeno più le stelle
perché son tanto stanche.
  Come posso più ormai,
tra tutti questi brividi,
queste striature livide,
fermare la mia vita,
ch'è un gran brivido buio,
come una cieca folgore?
  E anche gli occhi son spenti .
Il nero della notte
mi caccia più lontano.

[1 ° giugno 1928]
- Cesare Pavese

da Cesare Pavese, Le poesia, a cura di Mariarosa Masoero, Introduzione di Marziano Guglielminetti, Einaudi1998.

01/03/14

E' morta Elena Bono.




All’ospedale di Lavagna è morta la poetessa Elena Bono. Aveva 92 anni. 

Poetessa, scrittrice, autrice di opere teatrali e di critiche d’arte, era nata a Sonnino, in provincia di Latina, il 29 ottobre 1921. 

Figlia di un noto studioso di letteratura classica, Francesco Bono, e di Giselda Cardosi, ha respirato poesia fin dall’infanzia, trascorsa a Recanati dove ha instaurato uno speciale legame con l’animo poetico di Leopardi, che lei chiamava confidenzialmente “Giacomino”. 

A dieci anni si è trasferita con la famiglia in Liguria, a Chiavari, dove ha scritto le sue opere. 
Al 21 febbraio 1959 risalgono le nozze con Gian Maria Mazzini, imprenditore e critico letterario, appartenente a un ramo collaterale della famiglia di Giuseppe Mazzini e lontano parente pure di Giuseppe Garibaldi. 

Sorretta da una fede profonda (era terziaria francescana) ha chiesto di essere sepolta con lo scapolare francescano. 

"Lucida fino a martedì, ha ricevuto tutti i conforti materiali e spirituali fino alla fine" – spiega Stefania Venturino, amica e agente di Elena Bono.  




28/02/14

La scoperta dell'orrore (Una esperienza taoista).




Il mio battesimo con la morte avvenne quando avevo meno di dieci anni.

Mio padre, mentre eravamo in vacanza nel paese dov’era nato, mi portò un giorno al mattatoio locale.
Non so quale fosse lo scopo che l’animava.

Forse era semplicemente curioso, o forse aveva in mente di impartirmi una lezione, di farmi prendere confidenza con quello che non riusciva a spiegarmi a parole. L’effetto fu brutalizzante. E ne ho portato le tracce fino ad oggi.

Nel vecchio mattatoio l’odore del sangue arrivava da molto lontano. Insieme alle urla – umane – dei maiali terrorizzati che pre-sentivano la fine orribile che li attendeva. Assistemmo alla esecuzione di un bue. Ed ebbi modo di verificare l’incredibile resistenza della vita biologica.

All’animale fu sparato un colpo in fronte, con una pistola. Il povero bue rimase come impietrito, sulle quattro zampe, mentre il sangue zampillava copioso. Ci mise un paio di minuti buoni a cedere sulle ginocchia prima e a caracollare in terra.

Sdraiato nel lago di sangue, però, la morte era ben lungi dal sopravvenire. L’uomo-aguzzino, addetto al macello, com’era prassi, accelerò la fine infilando un lungo ferro nella ferita della fronte. Per spegnere ogni attività cerebrale.Ma l’agonia durò lo stesso parecchi minuti .

Non posso dimenticare le emozioni provate dal mio corpo, allora. L’orrore si univa alla impossibilità di spostare lo sguardo. La meraviglia si mischiava alla nausea vischiosa del mare di sangue. Il dolore dell’anima era lo stesso di quello dell’anima-le. Eppure qualcosa mi consentiva di assistere, come fossi impassibile. Come fossi un automa.

La scoperta del dolore, la conferma dell’orrore, l’inevitabilità della morte si collegarono in modo misterioso alla vita, al ritorno alla vita, quando sollevato feci ritorno a piedi verso casa, la mano in quella di mio padre.
A ripensarci oggi, fu davvero una esperienza taoistica. Mai come in quel giorno la morte e la vita mi apparvero unificate.

L’ingiustizia e l’orrore del mondo misteriosamente unite al sole che quel pomeriggio non voleva morire e bene-diceva ogni cosa sotto i miei occhi. L’incomprensibilità della vita era un grumo che non voleva spiegar-si e non voleva tanto meno ri-velarsi.
Dopo qualche settimana riuscii perfino nuovamente a mangiare carne.

Oggi discuto con un amico convinto vegano. Hai ragione, dico. Hai tutte le ragioni. Ogni ragione è in te. Ma perché mangi insalata ? “L’insalata,” mi dice, “è un vegetale. Hai idea della differenza che c’è tra un animale, un corpo biologico e una vita vegetale?”
No, ho risposto.
Non ne ho idea. Perché non sono mai stato un mandorlo o un albero di banano. O forse sì, lo sono stato. O lo sono ancora. E mi porto addosso, nella mia vita, la dissipazione di una fioritura caduta, la disidratazione e la fine di un albero seccato da una stagione maledetta.

Fabrizio Falconi

27/02/14

L'armonia della dissonanza.






L'essere è dissonanza. 

Ogni volta che ricerco l'unità, la dissonanza mi sospinge lontano, ai margini. Mi riporta indietro.  

Eppure appartengo ad un nucleo originario. E quella parola fastidiosa che pronunci, destino, anche se non mi appartiene in fondo, la vedo scritta ovunque, sul trionfo dei melangoli bagnati dalla pioggia, sull'inciampo del marciapiede sollevato, sulla miserabile compagnia di sogni che mi son scelto. 

Ma è una illusione. 

Tanti suoni mi abitano, e tutti insieme vogliono suonare. Tutti insieme vogliono esistere.  Lo pretendono, mi inchiodano alla sofferenza, al vuoto delle ore senza, al bisogno, alla cura, all'impazienza e al suo contrario. 

L'ordine non viene dalle cose, l'ordine non è nelle cose. Tutto danza, e la danza non si tiene.  Sono io che osservo, che la tengo. 

Io fragile, io codardo, io forte come un tronco, io dissonante come le canne del ghiaccio suonate dal vento nella caverna.  Nessuno capisce quel suono. Nemmeno io, anche se non posso fare a meno di vibrare e di essere fino in fondo quel ghiaccio, quella vera vibrazione, quel vento.  



Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.


in testa: Jennifer Connelly in A Beatiful Mind. 

25/02/14

Siena: riapre la "Porta del cielo".




Il Duomo di Siena riapre la sua “Porta del Cielo”. 

Dal primo marzo sarà possibile ammirare nuovamente la sommità dell’imponente fabbrica. Il percorso, aperto per la prima volta la scorsa primavera, ha permesso di accedere ad una serie di locali mai aperti al pubblico ed utilizzati solo dalle maestranze dirette dai grandi architetti che si sono avvicendati nei secoli. 

Dopo la grande affluenza di pubblico italiano e straniero della passata stagione, il Rettore dell’Opera della Metropolitana, Mario Lorenzoni, ha promosso anche per l’anno in corso, l’apertura straordinaria della Porta del Cielo. 

Si accede al percorso attraverso la magnifica facciata, la quale è fiancheggiata da due imponenti torri terminanti con guglie di svariate forme che si proiettano verso l’alto. 

All’interno di queste si inseriscono scale a chiocciola segrete perché nascoste alla vista dei visitatori, che portano ai tetti del Duomo. 

Una volta giunti sopra le volte stellate della navata destra si inizia un itinerario riservato a piccoli gruppi, accompagnati da un’esperta guida, che riserva una serie di scoperte ed emozioni. 

Sarà infatti possibile camminare ‘sopra’ il sacro tempio e ammirare suggestive viste panoramiche ‘dentro’ e ‘fuori’ della cattedrale. 

Saranno aperte al visitatore le multicolori vetrate di Ulisse De Matteis con la rappresentazione degli Apostoli, dalle quali i turisti si affacceranno all’interno della cattedrale con la vista del pavimento, dei principali monumenti scultorei e dell’interno della cupola con il ‘Pantheon’ dei santi senesi, i quattro Patroni, santa Caterina e san Bernardino, i ‘giganti’ dorati che proteggono dall’alto la comunità dei fedeli. 

Si percorre dunque il ballatoio della cupola dal quale sarà possibile contemplare l’altar maggiore, la copia della vetrata di Duccio di Buoninsegna, con al centro la mandorla di Maria Assunta, e i capolavori scultorei. 

Dall’affaccio della navata sinistra è possibile ammirare uno splendido panorama sulla Basilica di S. Domenico, la Fortezze Medicea, l’intera cupola della cappella di S. Giovanni Battista, il paesaggio circostante fino alla Montagnola senese. 

Si entra infine dietro il prospetto della facciata nel terrazzino che si affaccia su Piazza del Duomo con la vista dello Spedale di S. Maria della Scala e si accede al ballatoio della controfacciata da dove si ha una vista generale sulla navata centrale e lo sguardo è accompagnato dal ritmo scandito dalle teste dei papi e degli Imperatori, attraverso le tarsie con i filosofi del mondo antico che proferiscono sentenze.

La “porta del cielo” si apre dunque ai visitatori come salissero attraverso la scala apparsa in sogno a Giacobbe, la cui cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio salivano e scendevano (Genesi 28,10-22). 

Nel sogno Dio promette a Giacobbe la terra sulla quale egli stava dormendo e un’immensa discendenza. Al suo risveglio Giacobbe esclama «Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo», verso utilizzato dalla liturgia nella messa della dedicazione delle cattedrali. Ma ‘porta del cielo’, secondo le litanie lauretane, è anche la Vergine, definizione che meglio esprime la potenza e la bontà di Maria, la quale come Madre di Cristo e dell'umanità, concorre alla nostra salvezza eterna in Cielo ove lei è ‘Regina assunta’. 

Il percorso “dall’alto” permetterà infatti di comprendere meglio la dedicazione del Duomo di Siena all’Assunzione della Madonna e il forte legame che i cittadini senesi hanno da secoli con la loro ‘patrona’: Sena vetus civitas Virginis. L’Opera della Metropolitana ha inoltre istituito un nuovo biglietto integrato, OpaSiPass Plus che permette, oltre alla visita guidata della Porta del Cielo, l’accesso a tutte le altre sedi museali del Complesso monumentale del Duomo.

Spettacolari immagini della "Porta del Cielo" scaricabili dal link: 

24/02/14

450 anni dalla morte di Michelangelo. Nuovo allestimento delle sale agli Uffizi.





In occasione del 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti, è stato presentato il nuovo allestimento delle Sale 33-34 della Galleria degli Uffizi, titolate, rispettivamente, I Ritratti greci e L’Antico e il Giardino di San Marco.

Come ha commentato Antonio Natali, Direttore degli Uffizi, Nel 2014 saranno 450 gli anni trascorsi dalla morte del Buonarroti, e agli Uffizi – museo che ospita l’unica opera certa di lui dipinta su tavola – si sentiva il dovere di rammentarlo. È parso, dunque, che la maniera migliore per celebrare l’anniversario della morte di Michelangelo fosse quella di far precedere la sala di lui (e d’altri artefici cresciuti alla scuola del Magnifico, compreso il poco più grande Granacci) da una stanza allestita con marmi e gessi capaci di richiamare il mitico ‘Giardino di San Marco’ e di far da introibo al nucleo dei maestri fiorentini – capintesta il Buonarroti – raccolto nella stanza ampia immediatamente successiva

In questa occasione, con l’apertura delle sale 33-34 degli Uffizi, si completa dunque un progetto delineato già nel 2012, quando si decise di finanziare il nuovo assetto della sala 35, detta di Michelangelo, che conserva al suo interno il Tondo Doni, l’unica prova certa su tavola del suo talento pittorico. 

Le Sale 33-34, le cui pareti di colore verde ricordano quello delle pitture di Paolo Uccello, si trovano al secondo piano della Galleria degli Uffizi, e prima dell’attuale sistemazione accoglievano quadri toscani della seconda metà del Cinquecento e lombardi. 

I due locali precedono la sala 35, detta Sala di Michelangelo, che conserva il Tondo Doni ed evocano il ‘Giardino di San Marco’, il luogo che Lorenzo il Magnifico volle istituire per educare alle arti i giovani artisti fiorentini, tra cui lo stesso Buonarroti.

 “Sono due sale contigue fra di loro, ma profondamente diverse per temi affrontati e impianto - afferma Fabrizio Paolucci, direttore del Dipartimento di Antichità Classica della Galleria degli Uffizi. La prima, che volutamente riecheggia il perduto “gabinetto degli uomini illustri” di lanziana memoria, si propone di restituire al visitatore la genesi di quella che fu una delle più grandi conquiste dell’arte classica: il ritratto fisiognomico”. 

Qui si trova una selezione di marmi, repliche di età romana da originali databili fra il V e il III secolo a.C., da sempre nelle collezioni granducali.

I rilievi conservati in questa sala, anticamente destinati a impreziosire le pareti delle domus italiche, offrono prove dell’abilità nel riprodurre l’iconografia e lo stile degli archetipi del V secolo a.C., divenuti modelli normativi per il gusto dell’epoca. Il secondo ambiente è dedicato al ‘Giardino di San Marco’. 

“Questa sala - continua Paolucci - vuole ricordare l’eccezionalità di un luogo divenuto, per volontà di Lorenzo il Magnifico, sede di un’esclusiva accademia votata allo studio dell’Antico. Qui giovani scultori e pittori, quali Leonardo, Francesco Granacci, Lorenzo di Credi, Baccio da Montelupo, Andrea Sansovino, oltre allo stesso Michelangelo, avevano avuto la possibilità di “riconquistare” i valori dell’arte classica grazie alla guida di un esperto restauratore di ‘anticaglie’ quale Bertoldo di Giovanni”. 

L’atmosfera di quel luogo viene rivissuta attraverso una scelta di opere che ricordano i soggetti visti dai frequentatori dell’accademia laurenziana e, in particolare, da Michelangelo. I sarcofagi con scene mitologiche, le teste di satiro o l'amorino dormiente visibili in questa sala, evocano le sculture realizzate dal Maestro in quegli anni.

fonte CLPonline.

23/02/14

La poesia della domenica - I tre archi di Fabrizio Falconi.






I tre archi 



Due volte al giorno, tutti i giorni
passo sotto i tre archi
in salita, in discesa
col sole nero, con la pioggia azzurra
nel vento caldo asfissiante
nell'umido del tempo giusto di marzo
piego la testa sotto i tre archi
l'arco dell'attaccamento,
quello dell'avversione, quello dell'ignoranza;
loro, con un sorriso rosso
mi lasciano passare, mi osservano
aspettano ancora prima di
crollare
sopra la mia testa.
Ogni volta, oltrepassati, vedo
il giardino dei melangoli lucenti
bagnati dalla pioggia
e mi dico è ora.
Poi un giorno è passato
e devo ridiscendere
piegare nuovamente la testa
salutare in fretta i tre archi
dimenticarmi anche di loro
far finta di vivere, prima
che sia di nuovo l'ora
compiuto il giro della notte,
di tornare a passare
dentro le antiche bocche ancora
affamate, di me e di tutti
del tempo immemore di prima
che fossero tutte le inutili cose,
di prima dell'amore.


Fabrizio Falconi © (inedito-2014). 

22/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (5.)



Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (5.)


E in questa condanna ai lavori forzati l’unico appiglio sono le lettere alla famiglia, che vengono recapitate con mesi di ritardo. In una di queste Florenskij scrive: qui è tutto vuoto, come se ci trovassimo in un sogno, ho perso il ritmo dei giorni e delle notti e il tempo passa come una striscia ininterrotta e in interrompibile. Ho la sensazione che a questo punto non c’è più niente che di per sé sia interessante  e soltanto il fatto che io, in qualche modo, riesca a comunicare ancora con voi, risveglia il mio pensiero. (15)

Che cosa può salvare un uomo che si trovi in queste condizioni ?
    Questa è un’epoca tanto tremenda che ognuno deve rispondere di se stesso… confida a una delle figlie (16) Io ho compreso che è soltanto l’ascolto della voce di Dio che io devo seguire.
       
Nessuno può sapere se questa voce, la voce di Dio, che Florenskij non si stancò mai di cercare dietro l’apparenza volubile dei fenomeni, dietro la pieghe e le meraviglie del pensiero matematico e scientifico, gli risuonò nella mente anche in quegli ultimi giorni della sua vita quando, a bordo dei cosiddetti vagoni della morte, stipato insieme ad altre centinaia di derelitti, fu portato in quel bosco per essere fucilato.

Il grande filosofo e mistico fu come inghiottito nel nulla in quella notte di dicembre del 1937.  Com’era usanza, all’epoca sovietica, nessuno si prese la briga di informare la famiglia, la moglie, i figli, delle circostanze della morte del loro congiunto. Soltanto più di mezzo secolo dopo -  nel gennaio del 1990 -  pochi mesi prima del definitivo crollo della Unione Sovietica, un freddo dispaccio del KGB inviato alla famiglia riportò il documento ufficiale della fucilazione di Florenskij.

       Vi prego, miei cari, quando mi seppellirete, aveva lasciato scritto nel Testamento, di fare la comunione in quello stesso giorno, o se, questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi.  Non rattristatevi e non soffrite per me, se potete.  Se sarete lieti e forti, con ciò mi darete la pace. Io sarò sempre con voi in spirito e, se il signore me lo concederà, verrò spesso da voi e vi guarderò. Voi però confidate sempre nel Signore e nella sua Purissima madre, e non rattristatevi.  (17)    

(5. - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.

       
15.       E’ la lettera del 14 dicembre 1936, scritta dal lager delle Solovki.
16.       La circostanza è contenuta nelle memorie scritte dalla figlia di Florenskij, Ol’ga, pubblicate con il titolo Martirologio di Leningrado, e si riferisce a uno degli incontri che la famiglia ebbe con Florenskij a Skorovodino nel 1934.
17.      Pavel A. Florenskij,  Non dimenticatemi, op. cit. pag. 413

20/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (4./)




Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (4./)

Una straordinaria apertura del cuore e del pensiero caratterizza tutta l’opera di Florenskij.  Cuore e pensiero vanno di pari passo, nella ricerca incrollabile di una vita. Forse mai più precisamente che in  questo passo qui di seguito – nel quale descrive la sua passione giovanile per lo studio dei fiori – Florenskij enuncia lo scopo spirituale che lo ha sempre animato:
      In ogni fibra… vedevo e volevo vedere, cercavo di vedere, credevo di poter vedere l’anima, l’unica essenza spirituale.  E perciò, quanto ferma era la mia certezza che il corpo non fosse solamente corpo, solo un’inerte materia, solo qualcosa che si vede, tanto ferma era la certezza opposta dell’impossibilità, dell’inutilità della presunzione di vedere quell’anima incorporea, spogliata del suo velo simbolico… Il positivismo mi disgustava, non meno, però, mi disgustava la metafisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata. (10)

E questa visione sempre duale, e quindi complessa, della realtà e della verità si traduce anche in una concezione del cristianesimo che – tenendo conto della lezione di Tolstoj – guarda oltre il contingente e il presente: Il cristianesimo, scrive Florenskij, non vive di concetti fissi e intangibili, ma si manifesta in un processo evolutivo che non è riconducibile ad alcuna delle formule (riti sacramentali, formulazioni dogmatiche, regole canoniche, conformazione temporale dell’ordinamento ecclesiastico) che l’ecclesialità assume nel corso della storia.  (11)

La fede, la fede in Cristo, è sperimentabile, secondo Florenskij in ogni evenienza della vita, in ogni circostanza.  Egli si lascia ispirare profondamente dall’apostolo Paolo, ed è “convinto di poter fare l’esperienza viva di fede e di lavorare per la diffusione del Regno di Dio in ogni situazione di vita e in ogni condizione esterna, anche quella di opposizione politica” (12).  

Non si spiegherebbe altrimenti la determinazione di Florenskij, durante la terribile, lunga prigionia,  a non lasciarsi andare, a mantenere la fiducia – ad incoraggiarla, anzi, nei famigliari che lo attendono invano a casa – ad accettare la vessazione e la segregazione che gli vengono imposte cercando un senso anche in questa sofferenza.  E’ il motivo per il quale rifiutò perfino la possibilità, quando già era detenuto nello SLON delle Solovki, di emigrare in Cecoslovacchia, insieme alla sua famiglia, opzione che fu accettata di buon grado da altri intellettuali che si trovavano nelle sue stesse condizioni.
      Sarebbe ora che tu capissi, scrive al figlio Vasilij  il 23 novembre del 1933,  che tutto ciò che succede ha un suo significato e si combina in modo tale che, in ultima analisi, la vita si dirige verso il meglio. I dispiaceri, nella vita, non si possono evitare; ma i dispiaceri sopportati consapevolmente e alla luce degli avvenimenti generali ci educano e arricchiscono e, in seguito, portano i loro frutti positivi. (13)

Ma è la visione di quell’oltre, di quella sostanza oltre l’apparenza, a rendere possibile l’identificazione di un senso, che rendono plausibili e sopportabili anche il dolore, i dispiaceri, le privazioni; la sensazione che una nuova luce, quella che non vediamo annebbiati come siamo dalle vicende della nostra condizione umana, una nuova luce verrà a capovolgere le nostre parziali convinzioni, le nostre parziali oscurità: Non è possibile il minimo dubbio, scrive,  riguardo a quanto è detto giustamente della vita eterna nell'Apocalisse di Giovanni: “Non vi sarà più notte; non hanno più bisogno né della luce della lampada, né di quella del sole, perché il Signore Iddio splenderà su di loro" (22,5). Questo non si può intendere se non della luce vera sensibile con la quale saranno illuminati gli occhi dei beati. (14)
        
Una delle ultime foto di Florenskij (quella posta in testa a questo articolo N.d.A.) lo ritrae seduto alla scrivania nel laboratorio della stazione dei ghiacci presso il BAMLAG (la sigla è l’acronimo inglese Baikal Amur Corrective Labor Camp del corrispettivo russo) a Skovorodino, nel 1934. 

Alla luce di una debole lampada, di fronte al microscopio protetto da una campana di vetro, il volto di Florenskij appare fortemente dimagrito, gli zigomi sporgenti, ma lo sguardo è quieto e determinato, e un foglio di calendario pieno di annotazioni, che campeggia sulle pareti alle sue spalle è il segnale di un lavorio continuo, nonostante il gelo della Siberia, nonostante la fame, nonostante tutto. Gli schizzi dell’epoca, ritrovati, sono zeppi di disegni, appunti, formule matematiche.

(4./segue) 

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10.     Pavel A. Florenskij, Ai mie figli, op. cit. pag. 154
11.      A. Maccioni, Florenskij e Bulgakov nella storia di un prodigio, in Slavia, XVII,2,2008, pag. 39    
12.        Così i curatori Natalino Valentini e Lubomir Zak in Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi,  op.cit.  nota a pag. 83        
13.       Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit. pag. 76

19/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (3./)





Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (3./)


Durante quegli anni di prigionia spaventosa – dal 1933 al 1937 – Florenskij continuò instancabilmente a lavorare  (a Skovorodino viene messo a capo di un laboratorio interno al lager, che si occupa dell’estrazione dello iodio e dello sfruttamento delle alghe marine) e a scrivere accorate, straordinarie lettere alla famiglia  (la moglie e i tre figli più piccoli lo raggiunsero in Siberia nell’estate del 1934), mentre proseguiva l’iter di un processo kafkiano destinato a concludersi con la condanna alla pena di morte come controrivoluzionario.

Queste lettere, riemerse dopo l’apertura degli archivi del KGB e riordinate pazientemente dal curatore Lubomir Zak vanno dal 23 maggio 1933, quando Florenskij è detenuto alla Lubjanka (ti prego di portarmi della biancheria intima e un lenzuolo… se avrai il permesso mandami due o tre cipolle, perché la mancanza di verdura può essere dannosa...) fino al 18 giugno 1937, pochi mesi prima della morte, quando nella lettera al figlio Tiki scrive profeticamente: io devo continuamente separarmi da qualcosa. Ho dato l’addio al Biosad, poi alla natura delle Solovki, poi alle alghe, poi allo Iodprom. Chissà che non debba dire addio anche all’isola. (6)

La lettura di queste pagine, insieme a  quelle delle memorie famigliari,  scritte negli anni ’20 (7), di questo uomo in cui – come scrisse l’amico teologo Sergej N. Bulgakov – “ si sono incontrate, e  a loro modo unite, la cultura e la Chiesa, Atene e Gerusalemme” (8) è una esperienza che arricchisce e che scalda il cuore.

 Sono lettere che pur provenendo dall’inferno – un inferno fatto di temperature a meno venti gradi, di povere camerate dove la gente dà di matto, di assurde marce nel nulla, di veglie notturne, di desolazione e vessazioni psicologiche – sono piene di incrollabile fiducia, nella vita, nel valore ultimo della esistenza, nella serena attitudine a cercare sempre di scoprire le tracce del mistero e della verità dietro l’apparenza dei fenomeni e delle circostanze.

In queste lettere, i riferimenti espliciti alla fede sono quasi assenti, e il motivo è fin troppo evidente, trattandosi di corrispondenza che veniva passata al meticoloso setaccio della censura sovietica.  

Eppure, quasi ogni rigo di questi scritti riporta un desiderio di assoluto, magari sigillato implicitamente in citazioni come quella di una poesia del poeta persiano Hafez, che Florenskij trascrive per la moglie e i figli, ma che nell’originale è una invocazione all’essere supremo (il te è un maiuscolo):  Mai si cancellerà l’amore per te/ dalle tavole del mio cuore e della mia anima/ E non lascerà la mia mente distratta il pensiero di te/sotto il giogo del destino e dell’afflizione/ impostomi dal mondo. /Fin dal principio il mio cuore/fu legato da un capello del tuo capo/E fino alla fine/non sfuggirà al suo voto. (9)


E in effetti questo essere, questo sentirsi legato a un capello del tuo capo, cioè del capo di Dio, è forse, in estrema sintesi, il pensiero di Florenskij, della sua esperienza, del suo percorso umano e spirituale. 

E’ l’essere legato a un capello, cioè a una sostanza che non è di questo mondo, ma che è oltre, rende l’interpretazione del mondo, per Florenskij, bisognosa di una ridefinizione: ogni cosa e ogni apparenza fenomenica rimanda a un nuovo pensiero, capace di sintetizzare Dio e il mondo, il visibile e l’invisibile, in una concreta riscrittura delle teorie sullo spazio che sembrano tener conto e in qualche caso perfino anticipare le nuove acquisizioni einsteniane e le conseguenze che produrranno sulla conoscenza scientifica. 

(3./segue) 

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6.     La raccolta delle lettere scritte dal Gulag alla famiglia da Florenskij costituisce una delle testimonianze spirituali più alte del Novecento, che molti hanno paragonato a quella dei diari Etty Hillesum o di Dietrich Bonhoeffer.  L’edizione italiana completa è quella contenuta in Non dimenticatemi, op.cit.          
7.     Le memorie famigliari sono pubblicate in Italia da Mondadori.  Pavel A. Florenskij, Ai miei figli, memorie di giorni passati,  a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak, Mondadori, Milano, 2003.    
8.     La citazione è riportata nella nota biografica su Pavel Florenskij pubblicata nel volume Ai miei figli… op. cit.             
9.     La poesia di Hafiz è riportata da Florenskij nella lettera del 24-25 luglio 1935. Contenuta in Non dimenticatemi, op. cit. pag. 194. 

18/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (2./)




Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (2./)

Il pensiero è un dono di Dio: davvero l’intera vita di Florenskij sembra santificare questo assunto.  Le scelte degli  anni a partire dal 1910 non furono facili. Alla serenità della vita privata – il ventottenne Pavel sposò nel 1910 Anna Michaijlovna Giacintova, che gli diede cinque figli, Vasilij, Kirill, Olga, Mikail e Marija-Tinatin  – corrispose un crescendo di difficoltà, dovute appunto al suo impegnarsi sempre più concretamente nella vita religiosa.  

Dal 1912, dopo esser divenuto Magister  in Teologia,  cominciò a svolgere infatti attività pastorale presso la Chiesa di Maria Maddalena e quella di direttore della rivista Bogoslovskij Vestnik (Messaggero Teologico).   Di pari passo procedeva la sua carriera accademica, con la pubblicazione di saggi – il monumentale La colonna e il fondamento della Verità, nel quale riassunse il senso e il significato storico della spiritualità russa – e la successione di corsi e conferenze, fino alla nomina nel 1921 a professore all’Accademia libera di cultura spirituale fondata da Berdjaev, dove teneva corsi di Analisi della spazialità nell’opera d’arte.

Questo incredibile  eclettismo – dal 1921 lavorò anche nei laboratori di ricerca della più grande compagnia elettrica del paese, pubblicò studi, brevettò nuove invenzioni, fece ricerche botaniche e di mineralogia – gli fece meritare, già dai suoi contemporanei,  l’appellativo di Pascal russo oppure di Leonardo da Vinci della Russia (4).

Ma questi anni di febbrile attività per Florenskij, sono anche gli anni in cui la Russia si incendiò al fuoco della rivoluzione d’Ottobre. Alle dieci di sera del 7 novembre del 1917 i bolscevichi attaccarono il Palazzo d’Inverno di Pietrogrado. Nei giorni che seguono venne formato il Soviet dei commissari del popolo, il primo provvisorio governo. Dopo la caduta di Mosca, la rivoluzione  rapidamente si estese a tutta la Russia. Il cambiamento di clima, per Florenskij e per quelli come lui, fu immediato.

Due anni dopo, nel Testamento, il 26 giugno 1919, scrive: 
      Cari figli miei, questo periodo della rivoluzione è stato talmente difficile che non si può nemmeno immaginare; è stato difficile, e lo è, e Dio sa quanto ancora durerà. Le epidemie, la fame, il costo della vita incredibilmente elevato, la mancanza di diritti, la possibilità di ogni genere di violenza, insomma tutto quanto ci si può immaginare di difficile non è mai mancato attorno a noi. (5)

In realtà questo è soltanto l’inizio. L’inizio di un lungo calvario personale per il “mistico scienziato”.

Le sue colpe, agli occhi di un sistema che iniziò ben presto a farsi intollerante nei confronti di qualsiasi tipo di dissidenza, furono la pubblicazione di vibranti libelli contro la dissacrazione generalizzata e violenta dei luoghi e degli oggetti sacri, perfino contro il cambiamento dei nomi e delle città e delle strade, in omaggio alla rivoluzione, contro quella che appariva a Padre Pavel come una totale distruzione dell’intero patrimonio della cultura russa.  

Nonostante alcuni avvertimenti, Florenskij venne risparmiato dalle prime ondate di arresti di presunti o veri controrivoluzionari, solo per la sua attività e i ruoli ricoperti in campo scientifico (era redattore della Enciclopedia Tecnica e membro di Direzione della Compagnia Elettrica), ma la situazione, in breve, precipitò anche per lui.  Il continuare ad essere un sacerdote, infatti,  nonostante la responsabilità di incarichi scientifici di così alta portata stava diventando intollerabile.  

Arrestato  una prima volta nel 1928 – e liberato grazie all’interessamento della moglie di Maksim Gorkij, tornò ad esserlo nel 1933 con l’accusa falsa di essere membro di una organizzazione clandestina controrivoluzionaria.  Stavolta però la condanna è durissima: dieci anni di lavori forzati e l’imposizione di continuare comunque l’attività scientifica.  Il passaggio per la Lubjanka fu, per Florenskij come per gli altri dissidenti, devastante: torture fisiche e psicologiche, un processo farsa, l’induzione ad auto incolparsi di reati inesistenti per salvare almeno qualche compagno di prigionia.   Dalla Lubjanka ai Lager il passo è breve: per Florenskij si aprirono dapprima le porte di quello di Skovorodino, in Siberia, poi – dopo un viaggio allucinante, quelle delle isole Solovki, di cui abbiamo già parlato, da cui si muoverà soltanto per andare incontro alla fucilazione.

(2./segue) 

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4.     Queste notizie sono tratte dal saggio  L’arte della gratuità, di Natalino Valentini, introduzione a Non dimenticatemi, op. cit. pag. 13
5.     Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit. pag. 415.