15/10/13

"Pasolini e Roma" - Una grande esposizione alla Cinematheque francese di Parigi.




Pasolini e Roma, un legame inscindibile e un rapporto di scambio tra il regista, sceneggiatore, poeta e scrittore, nato a Bologna il 5 marzo 1922, uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX/o secolo, ma anche il piu' "scandaloso e controverso", e la capitale italiana (dove si e' trasferito dal 1950 fino alla morte nel 1975). E' il tema dell'ampia e ricca esposizione che si apre domani alla Cinematheque francaise di Parigi (fino al 26 gennaio) organizzata in collaborazione con il Centro de cultura contemporanea di Barcellona (dove e' stata in cartellone fino al 15 settembre), il Palazzo delle esposizioni di Roma (in cui fara' tappa dal 3 marzo all'8 giugno 2014) e il Martin-Gropius-Bau di Berlino (in mostra dall'11 settembre 2014 al 5 gennaio 2015). Gli archivi di Bologna e Firenze e l'Istituto Luce, con il contributo della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, custode dell'eredita' letteraria del maestro, hanno messo a disposizione lettere autografe, sceneggiature, foto, film, documenti inediti, libri, locandine, dipinti, disegni e oggetti personali e intimi. 

Il percorso espositivo di 'Pasolini-Roma' e' cronologico e la voce di Pasolini accompagna il visitatore attraverso le varie sezioni che sono anche i luoghi della capitale che il maestro frequentava.

"La mostra - dice il direttore della Cineteca, Serge Toubiana - cerca di rendere conto dell'importanza e della complessita' dell'uomo attorno a un tema preciso, Roma vista attraverso lo sguardo Pasolini: i film, le amicizie, i suoi lavori come l'incarico di professore in un liceo di Ciampino, le case in cui ha abitato. Pasolini si e' impregnato di questa citta' per ridipingerla a suo modo".

Si parte con il suo arrivo in "una casa di poveri" nella periferia di Roma dal Friuli, quindi l'appartamento in via Fonteiana 86, nel quartiere di Monteverde, dove porta a compimento il suo primo romanzo 'Ragazzi di vita', quello in via Giacinto Carini 45, dove visse dal 1959 al 1993, nello stesso palazzo di Bernardo Bertolucci, il quale e' diventato poi il suo assistente, e poi l'ultima residenza in Via Eufrate e la trattoria di Ostia dove ha cenato prima di essere assassinato. Nel mezzo vari flash back: Piazza del popolo e il bar Rosati dove era solito incontrare gli amici, Elsa Morante, Alberto Moravia e Laura Betti, la collaborazione con Fellini sul set de 'Le notti di Cabiria'. Ma anche le frequentazioni con Ungaretti e Calvino, i viaggi a New York, Parigi e in Africa, la relazione professionale e di profonda amicizia con Ninetto Davoli (presente all'inaugurazione della mostra che lo ricorda con grande affetto e fierezza), le sue 33 denunce e l'accanimento della giustizia nei suoi confronti, tra l'altro, per vilipendio alla religione con il film 'La ricotta', per una presunta tentata rapina ai danni dell'addetto a un distributore di benzina, per censurare 'Accattone' e per le parolacce in 'Mamma Roma'. Ci sono anche estratti e sceneggiature di film (in programma nella sala della Cinematheque fino al 2 dicembre) da 'Accattone' (1961), a 'Il vangelo secondo Matteo' e 'Comizi d'amore' (1964), 'Uccellacci e uccellini' (1966), 'Teorema' (1968), 'Medea' (1969), 'Salo' e le centoventi giornate di sodoma' (1975). Tra le novita' della mostra un percorso virtuale sulla Roma di Pasolini disponibile sul web. Oltre a spettacoli, letture, giornate di studi. Persino due stazioni della metropolitana parigina dedicate a Pasolini.

"Questa esposizione non e' assolutamente commemorativa, Pasolini non deve diventare un monumento - spiega il curatore francese, Alain Bergala -: Pasolini non e' morto, il suo pensiero non e' morto". "Nel XX/o secolo gli artisti che hanno meglio interpretato o incarnato Roma non erano romani, salvo due eccezioni, Roberto Rossellini e Alberto Moravia - ricorda anche Gianni Borgna -. Pasolini, bolognese e friulano, fa cadere il velo che nascondeva la Roma di periferia. Nei suoi romanzi e film mostra un'altra Roma, a tal punto che si puo' dire che c'e' una Roma prima e dopo Pasolini".


14/10/13

Bauman a Milano: La felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli.




"Devo deludervi, non sono un guru", ha esordito Zygmunt Bauman, aprendo il suo intervento milanese a Meet The Media Guru: "non vi dirò come condurre la vostra vita". La conferenza di Bauman, uno dei maggiori pensatori viventi, ha toccato molti aspetti centrali della nostra condizione di esseri umani, a cominciare dal rapporto con la vita digitale. Secondo il sociologo, la nostra esistenza ha conosciuto, con la rivoluzione digitale, l'impatto con una divisione, quella tra online e offline, che ci ha imposto di vivere allo stesso tempo in due differenti dimensioni. In questo contesto, i bambini incontrano Internet ormai già a 4 anni e crescono senza nemmeno poter immaginare che la connessione al Web possa non esserci, tanto il nostro rapporto con la vita online è diventato stretto. La Rete, per Bauman, è parte del progresso, ma porta con sé anche un numero di "perdite collaterali". L'automatizzazione del lavoro, ad esempio, causa diminuzione di posti di lavoro "umani" sia nell'industria pesante che nel lavoro intellettuale, ha puntualizzato Bauman: "i server stanno immagazzinando la nostra conoscenza e la nostra capacità di memorizzare sta scomparendo".

Per esemplificare questa dicotomia tra guadagno e perdita dovuta al progresso, Bauman ha citato Mark Zuckerberg e l'incredibile successo di Facebook: il social network ha intercettato la nostra paura di non essere visti ed essere soli e ha fondato il suo successo sull'allontanamento di questa paura: "il fondamento delle relazioni online è la soddisfazione", ha specificato Bauman, "e le relazioni diventano estremamente fragili". Facebook ci dà un "gadget" che ci fa credere di poter incontrare 500 amici in un giorno stesso, "io non sono riuscito a farne altrettanti in 80 anni di vita", ha scherzato Bauman. "Il problema con Facebook e gli altri social network è che promettono esattamente quello che il progresso promette: rendere la nostra vita più semplice". Questo meccanismo si presenta anche nella gestione delle relazioni umane e sentimentali. Per Bauman, i social media servono, ad esempio, a rendere semplice la conclusione della relazione con un'altra persona, superando le dinamiche del mondo "offline". Ma siamo davvero felici di questa possibilità? Per Bauman la risposta è no: "la felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli".

La Rete, però, nella visione di Bauman porta con sé anche vantaggi, come la disponibilità quasi infinita di conoscenza: "con un click, Google ci presenta due milioni di risposte, un numero che non potremmo consultare nemmeno in tutta la nostra vita". Anche questo aspetto, però, ha un prezzo: l'impazienza e la perdita della capacità di conservare conoscenza "dentro di noi". Sono i server a conservare il nostro sapere, noi possiamo solo consultarlo e questo "avrà un effetto negativo sulla nostra creatività".

Per Zygmunt Bauman, Internet ci fa vivere "senza rischi", consentendoci di relazionarci solo con persone che la pensano come noi e condividono il nostro punto di vista: "le persone diventano così nostri specchi", ha spiegato Bauman; in caso contrario, "clicchiamo il tasto 'delete' e passiamo a un altro sito". Ma come uscire da questa condizione? Per l'autore della "vita liquida" una risposta è piuttosto ovvia: "parlando gli uni con gli altri e dimostrando interesse nel dialogo" per mantenere vivo l'interesse nei confronti di chi la pensa in modo diverso, evitando opinioni preconcette. La seconda soluzione è "essere aperti", dando inizio a un dialogo tenendo viva la possibilità che le nostre opinioni possano essere sbagliate. La terza possibilità è la cooperazione: "il dialogo non deve servire a far prevalere il nostro ego", ha spiegato Bauman, "perché nel dialogo con il diverso non devono esserci né vincitori, né vinti". Queste "arti" sono messe a repentaglio da Internet, nella visione di Bauman. Allo stato delle cose, riscoprire queste capacità di dialogo nei confronti del diverso è una questione "di vita o di morte" per il nostro futuro perché, ha chiosato Bauman, "Il futuro non esiste, il futuro va creato".

11/10/13

Bauman su Lampedusa: "la modernità produce persone superflue. Viviamo in un'epoca in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere."




“Qualsiasi cosa tenti di fare il premier Enrico Letta, o l’Europa, gli arrivi dall’Africa non finiranno”. Per Zygmunt Bauman, a Milano per la rassegna Meet The Media Guru, niente riuscirà a fermare chi è “in cerca di pane e acqua potabile”: né i governi, né tragedie del mare come quella di Lampedusa.

Durante la conferenza stampa di presentazione dell’incontro pubblico, il sociologo e filosofo polacco, 91 anni, ha spiegato che gli sbarchi non si fermeranno, perché “le migrazioni sono inseparabili dalla modernità. Infatti una caratteristica della modernità è la produzione di “persone superflue”: individui tagliati fuori dal processo produttivo che perdono la propria fonte di sussistenza. Il progresso economico consiste nel produrre la stessa quantità di cose che producevamo ieri con una minore quantità di lavoro e a un costo più basso. Chi rimane tagliato fuori diventa una persona superflua. E alle persone superflue, non resta che andarsene, cercando un altrove dove ricostruirsi una vita”.

Per Bauman poi “le economie europee hanno bisogno d’immigrati, perché senza di loro non potremmo vivere. Se nel Regno Unito gli irregolari venissero identificati e deportati, la maggior parte degli ospedali e degli alberghi collasserebbe, e credo che si possa dire lo stesso per l’economia italiana”.

Il sociologo ha ricordato che “per alcuni demografi la popolazione dell’Unione Europea diminuirà da 400 milioni di persone a 240 nei prossimi cinquant’anni: un numero troppo basso per mantenere i nostri standard di vita, il nostro benessere”. “In base ad alcuni calcoli - ha detto Bauman - nei prossimi 20 o 30 anni sarà necessario accogliere in Europa circa 30 milioni di migranti”.

Un fenomeno che gli stati nazionali, inadeguati di fronte alle sfide della contemporaneità, hanno pochi strumenti per arginare o regolare. Per il teorico della società liquida “i popoli non credono più che i partiti e i parlamenti nazionali siano ancora in grado di assolvere le funzioni per cui sono nati, e non solo perché in alcuni casi i politici sono corrotti o incapaci, ma perché per queste istituzioni è strutturalmente impossibile realizzare quello che promettono agli elettori”.

E per spiegare cita Antonio Gramsci: “Viviamo in un interregno, un’epoca in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere: le regole e le leggi del passato sono scomparse, ma le nuove leggi non sono ancora state inventate. La sovranità degli stati nazionali è ormai in buona misura una finzione. Il potere è la capacità di fare, la politica è decidere che cosa fare. La globalizzazione ha fatto evaporare il potere degli stati nazionali verso poteri sovranazionali liberi dal controllo della politica. Se un governo provasse a realizzare ciò che davvero vogliono i suoi elettori, invece di ciò che esige la finanza, i mercati lo punirebbero con durezza”.


10/10/13

Simone Weil - Le illuminazioni. (10 citazioni da meditare)




Non si finisce mai di esplorare l'universo di Simone Weil, il suo grande lascito spirituale e umano. Marco Cicala, in questo articolo pubblicato sul Venerdì di Repubblica ha ricostruito la sua vicenda alla luce delle memorie pubblicate dalla nipote, Sylvie Weil, la figlia del fratello André (1906-1998).  E' un pezzo molto interessante, che ci offre anche l'occasione di proporre dieci piccole perle dai diari di Simone, utili per la riflessione, da lasciar decantare e parlare, come avviene per ogni passo della sua grande opera. 



La compassione senza umiltà non è mai pura.
*
Il lavoro è per noi l'unica via che porta dal sogno alla realtà.
*
La collettività è più forte dell'individuo in tutto, tranne che per un aspetto: il pensiero.
*
Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L'umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità.
*
L'eternità si trova al termine di un tempo infinito. Il dolore, la fatica, la fame danno al tempo il colore dell'infinito. 
*
La forza del tempo strappa l'anima; e attraverso lo stretto; e attraverso lo strappo entra in essa l'eternità.
*
Ogni essere è un grido silenzioso che chiede di essere letto in maniera diversa. 
*
Accettare di essere anonimi, di essere materia umana. Rinunciare al prestigio, alla considerazione.
*
La creazione è un movimento che va dall'alto verso il basso. In questo senso il lavoro è una imitazione della creazione (come dell'incarnazione e dell'eucaristia).
*
Io desidero, io supplico che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi, interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché esso guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità.


Citazioni tratte da S.Weil, L'avventura di uno sguardo puro, Città Nuova 2001. 


09/10/13

Le navi (Tu manchi da questa camera) - di Mariangela Gualtieri.





Tu manchi da questa camera e le cose non chiamano,
oggi. Ho deciso che il tempo non passi. In tuo onore.
Che non passi di qui e si fermi di sotto - dove gli uomini
chiacchierano seduti barbaramente. Amore mio.



Mariangela Gualtieri, Le navi, da Senza polvere e senza peso, Einaudi 2006.

08/10/13

Stamattina, il fosso - di Fabrizio Falconi.







Stamattina, il fosso.


Stamattina
sono passato sotto un albero
le sue fronde cadenti
mi hanno carezzato i capelli,
- un tocco morbido e duro
allo stesso tempo.

Non me ne ero accorto:
quando, molto tempo dopo,
mi sono guardato allo specchio
ho scoperto
di avere tra i capelli
minuscoli frammenti
di foglie, rami
e polvere di terra
come una ghirlanda bruna
mi adornava la testa.

E ho pensato:
sarà così quando sarò morto,
gli alberi e la terra
sfioreranno la mia testa
se ne impadroniranno
dolcemente
con terribile silenzio
mi copriranno
nello stesso modo
- tocco morbido e duro
allo stesso tempo.

Ma poi un coro vittorioso
e perduto, come di bimbi afflitti
- per tutto quel non vissuto,
la vita gettata al vento del rischio –
ho sentito sussurrarmi
un poema nuovo:

“ E’ già ora così.
Non correre, non andare
non oltre.
E’ qui, ora il tuo fosso
da aprire, da svellere
e vivere,  bonificare
e nutrire nel fondo del fondo
di tutte le ere che lo hanno generato.

Tu sei l’odore di salvia
l’umidore del mattino, la luce
che fa il giro nuovo 
nei segreti dell'ombra."



Fabrizio Falconi -  tratto da M.C. Biggio (a cura di) - Luci da "Il Fosso" – Ventiquattro segni terrestri per Laudomia Bonanni (nel centenario della nascita). Poesie di Anedda, Biggio, Bre, Buffoni, Calandrone, Cavalera, Falconi, Giancarli, Gualtieri, Kinsella, Loi, Loreto, Mariani, Marzaioli, Merini, Pecora, Pizzi, Precht, Sica, Spaziani, Stewart, Tocci, Valesio. In copertina un olio di A. Arrivabene. Pp. 63, La Vita Felice, Milano 2008.

07/10/13

Nessun pensiero comprende l'amore - di Fabrizio Falconi




nessun pensiero comprende l'amore
nessun accenno, nessun rumore
conosce l'ardore, nessun sentimento
nessuna passione
l'amore si sconta nelle ore insonni
nel vento muto che agita il dolore
nello spazio sospeso o l'intervallo
di una parola mai data
nell'inciampo e in quello
che non riesce perché non sappiamo essere
il momento soltanto
la corsa di un animale o il suo riposo
tenerezze ostili, corpi e frammenti
cerchiamo l'uno e siamo
miseramente molteplici.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


06/10/13

Il Museo Hendrik Christian Andersen a Roma, un piccolo gioiello sconosciuto.




A Roma, anche in una città come Roma, esistono gioielli sconociuti. 

Uno di questi è il il Museo Hendrik Christian Andersen, in Via Pasquale Stanislao Mancini, al numero 20, a pochi metri da Piazza del Popolo. Che oltretutto è - incomprensibilmente - gratuito. 

Una bellissima palazzina Liberty conserva le opere dello scultore e pittore Hendrik Christian Andersen. 

Nato a Bergen in Norvegia nel 1872 da povera famiglia e naturalizzato americano essendo emigrato ancora bambino negli Stati Uniti, a Newport (Rhode Island), il giovane Andersen intraprese il viaggio di formazione in Europa nel 1894 e, dopo Parigi, si stabilì definitivamente a Roma dove visse per oltre quarant'anni. 

Alla sua morte, il 19 dicembre 1940, lasciò in eredità allo Stato italiano il suo studio-abitazione di via Mancini e quanto in essa contenuto: opere, arredi, carte d'archivio, materiale fotografico, libri. 

Ma solo dopo la morte nel 1978 di Lucia Andersen (adottata nel 1919 dalla madre dell'artista e quindi usufruttuaria del lascito), alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna è stata affidata la tutela delle raccolte e dell'edificio. 

La collezione delle opere (oltre duecento sculture di grandi, medie e piccole dimensioni in gesso e bronzo; oltre duecento dipinti; oltre trecento opere grafiche) si segnala per la sua eccezionalità essendo quasi interamente incentrata attorno all'idea utopistica, che ossessionò per tutta la vita Andersen, di una grande "Città mondiale", destinata ad essere la sede internazionale di un perenne laboratorio di idee nel campo delle arti, delle scienze, della filosofia, della religione, della cultura fisica. 

A tale progetto e alla sua diffusione Andersen aveva dedicato nel 1913 insieme all'architetto francese Ernest Hébrard un ponderoso volume (Creation of a World Centre of Communication; consultabile presso il Museo) che, partendo dalle concezioni urbanistiche delle antiche civiltà, doveva indicare l'approdo alla nuova e moderna "Città".

I due grandi atelier al piano terra- la Galleria, sala di rappresentanza ove l’artista mostrava ai visitatori le opere finite, e lo Studio, vero e proprio atelier per l’ideazione delle opere e la modellazione delle forme- accolgono le monumentali statue, i busti-ritratto e i disegni-progetto per il “Centro mondiale di comunicazione”. 

L’appartamento al primo piano, un tempo abitazione dell’artista, costituisce oggi uno spazio espositivo sia per le raccolte permanenti - dipinti, disegni, sculture di piccola dimensione- sia per mostre temporanee dedicate ai rapporti tra l’Italia e gli artisti stranieri dell’Ottocento e del Novecento. 

L’edificio chiamato Villa Helene (dal nome della mamma) viene lasciato in eredità da Hendrik Christian Andersen allo Stato italiano nel 1940, anno della sua morte. 

Corredano il museo splendide foto d'epoca, che ritraggono Andersen con personalità influenti dell'epoca come Tagore e Umberto Nobile.  

Tra le amicizie v'era poi quella, durata molti anni (consistente molto probabilmente in una vera e propria relazione). 

Penso a te nella dorata aria romana, scrive Henry James a Andersen il 2 gennaio del 1912, sto sospeso con te sopra la tua indicibile terrazza sul Tevere- siedo con te in quelle nobili sale.

E un'altra lettera del 2 febbraio del 1902, scritta all'indomani della morte del fratello di Hendrik, rende bene il contenuto del sentimento che James provava per l'amico, molto più giovane di lui:

Il fatto che non posso aiutarti, vederti, parlarti, toccarti, tenerti stretto a lungo o fare nulla per tranquillizzarti e farti sentire la mia profonda partecipazione - questo mi tormenta, carissimo ragazzo, mi fa dolere per te e per me stesso; mi fa stridere i denti e gemere contro l'amarezza di queste cose [...] Un solo pensiero che mi solleva un poco - mi auguro che tu possa pensare all'idea o anche solo alla possibilità. Sono in città per qualche settimana, ma tornerò a Rye il 1 aprile, e prima o poi ti vorrei vedere là, e stringerti e lasciarti posare su di me come fratello e amante, sostenerti, lentamente confortarti o almeno toglierti l'amarezza del dolore - questo io cerco di immaginare, come fosse pensabile, fattibile, non totalmente fuori questione. 



04/10/13

La vita armonica. (perché debbo vivere armonicamente ?)






Perché bisognerebbe vivere armonicamente ?  Anche ammesso che ciascuno sappia cosa significhi questo - cosa significhi scegliere tra una vita armonica, dove le cose e i gesti e i pensieri seguano il ritmo coerente di un ordine intrinseco,  e una vita caotica, dove ci si limiti a vivere come un legno alla deriva, sospinto dagli umori del vento - perché bisognerebbe scegliere la prima opzione ?

L'obiezione mossa da alcuni (dai tempi di Schopenhauer e prima ancora, e sempre più spesso) è: perché si dovrebbe scegliere l'uno - cercare faticosamente di vivere in armonia - invece dell'altro, abbandonarsi alla inerzia delle cose, visto che il fine della vita è lo stesso, ovvero la morte e la dispersione di tutto?

La risposta, molto banalmente, è nel dover essere.

E' così che è. Perché l'universo si è formato e sviluppato, secondo un ordine perfetto, invece di non nascere e di sbrindellarsi in un immane caos ?  Perché la vita ha ordinato il suo filo nel corso di miliardi di anni, per raggiungere uno scopo obbedendo ad un ordine inaudito di sequenze, anziché non nascere e rimanere poltiglia, cosa inespressa ?

Il dover essere del mondo è il suo essere.

Il dover essere è una legge (per quanto misteriosa) del mondo.

Noi siamo mondo.

E a quanto pare, nessuno può esimerci dal desiderio di una ricerca di vita armonica, perché - a quanto pare - l'armonia nasce solo da un'ordine (o al massimo da un armonico disordine).


Fabrizio Falconi


03/10/13

I guai del "tempo psicologico", l'incapacità di vivere il presente - Eckhart Tolle.





Vorrei che fossimo capaci di meditare profondamente su questa breve riflessione di Eckhart Tolle:

Ogni negatività è causata da un accumulo di tempo psicologico e dalla negazione del presente. Disagio, ansia, tensione, stress, preoccupazione (tutte forme di paura) sono causati da un eccesso di futuro e da un'insufficienza di presente. Senso di colpa, rimorso,risentimento, rancore, tristezza, amarezza e ogni forma di mancato perdono sono causati da un eccesso di passato e da una insufficienza di presente. In definitiva vi è un solo problema: la mente legata al tempo.

Mi sembra che raramente si sia espresso con più chiarezza quel che genera la nostra s-connessione dal mondo. L'incapacità di vivere il presente, o meglio di viverlo soltanto in modo epidermico, superficiale (il contrario dell'epicureismo classico) divenuto paradigma contemporaneo, è il veleno che lentamente svuota e sta svuotando di significato la vita. 

Il tempo psicologico - una pura proiezione - inficia il nostro contatto diretto con il mondo e con il centro di noi stessi che siamo (anche il mondo): quell'essere piantati qui e ora, che abbiamo dimenticato, a scapito di un nevrotico rincorrere un tempo soltanto mentale.

Siamo capaci di vivere ? Di vivere, ora ? 


Fabrizio Falconi


in testa, Helmut Newton, Big nude, 1975. 

30/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (5./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (5)


Le ultime pagine del 1961, prima della morte, sono straordinarie.
      Il giorno del giovedì santo (30 marzo), Hammarskjold davvero profeticamente, scrive:
    
     La morte si avvicina
     Tutta la volontà di un uomo Quantum Satis ?
     Egli è Deus Caritatis.
 
     Ragionavo per intendere questo,
     ma era troppo complicato per me:
    finché non sono entrato nel santuario di Dio. (14)

     Le prime tre righe di questo scritto sono tratte dal dramma di Ibsen, Brand.  E davvero l’invocazione del  pastore ibseniano che grida a Dio, devono apparire ad Hammarskjold, in quei giorni di terribile solitudine, un pre-sentimento fortissimo.   Poche settimane dopo, il 21 maggio, il giorno di Pentecoste, scrive quel brano di diario destinato a diventare un piccolo classico della spiritualità, brano nel quale, in poche righe, in scarne parole, è contenuto il significato di una vita intera e di una ricerca. Una traccia di cammino,  testamento esemplare da consegnare ai posteri:
   
      Io non so chi - o che cosa - abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno - o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l'esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d'Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l'impegno nella vita è l'oltraggio, e che l'umiliazione più profonda costituisce l'esaltazione massima che all'uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto. Proseguendo il cammino imparai, passo dopo passo, parola per parola, che dietro a ogni detto dell’eroe dei Vangeli, vi è un essere umano e l’esperienza di un uomo.  Anche dietro la preghiera che il calice gli fosse allontanato e dietro la promessa di vuotarlo.  Anche dietro ogni parola sulla croce.  (15)

      La consapevolezza che nulla può essere tolto.  Una pienezza nuova e sconosciuta e finalmente raggiunta. Nella umanità divina, nella sottomissione del Figlio, nel compimento di un , egli trova la risposta tanto agognata.  La domanda è stata posta nel modo giusto, la risposta è arrivata prima di comprendere pienamente la domanda, sulla base di una fiducia totale, di una sottomissione senza pretese, nella certezza di essere nel giusto.  Il 2 agosto del 1961, 40 giorni prima dell’incidente scrive:

Onnipotente…
Perdona
il mio dubbio,
la mia ira,
il mio orgoglio.
Piegami
con la tua grazia.
Innalzami
con il tuo rigore.

     Nel Getsemani personale di Hammarskjold l’ora è giunta.    E’ un nuovo paese,  scrive nell’ultima pagina del suo diario, il 24 agosto, in una realtà diversa da quella del giorno ? Oppure ho vissuto io lì, prima del giorno ? …. Eppure è lo stesso paese. E comincio a riconoscere la mappa e i punti cardinali. 
     I contorni del nuovo paese  sono forse quelli di una nuova Gerusalemme.  O almeno così piace immaginare, quando si giunge al termine della lettura delle fitte pagine di Markings, il Diario di Hammarskjold.   Il sacrificio, come tutto lasciava presagire, si compì.
     Riguardo la sua morte oggi sappiamo che si trattò, con ogni probabilità di un omicidio, voluto dalla compagnia franco-belga Unione Miniere,  una eliminazione motivata dall'opposizione dell'allora segretario generale dell'Onu alla secessione di una regione, goloso obiettivo di una delle società minerarie più potenti del pianeta. Scrive Luciano Canfora: “E ora, dopo quarant’anni, nelle pagine molto interne dei giornali, leggiamo quello che abbiamo sempre saputo: che l’Unione Miniere condannò a morte (per "incidente aereo") anche Hammarskjold, il segretario generale dellOnu, colpevole di opporsi alla secessione del Katanga, preda avita dellUnione Miniere”.  (16)
       Quel viaggio doveva servire al Segretario Generale per raggiungere il villaggio di Ndola, al confine tra Katanga e Rhodesia del Nord ed incontrare i secessionisti, convincerli a intavolare subito una trattativa di pace. 
       All’aeroporto di Leopoldville, prima di salire sulla scaletta dell’aereo, per l’ultimo volo fatale, Hammarskjold aveva confidato all’amico Sture Linner di aver appena intrapreso una propria personale traduzione dell’opera capitale di Martin Buber, l’Io e il Tu.
       Per l’uomo che aveva fatto della sua vita – al prezzo di una personale solitudine e di una devozione estrema - un inno alle possibilità della relazione, di ogni relazione, umana e divina, davvero non poteva esserci un testo programmaticamente più scelto di questo.

       “Lo scopo della relazione”  scrive Buber in una delle pagine più intense di quel libro, “è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un  alito del Tu, cioè della vita eterna.” (17)     (5-FINE) 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

14. Op. cit. pag. 224 
15. Op.cit. pag.225 
16. Luciano Canfora, “Critica della retorica democratica”, Laterza, 2002. 
17. Martin Buber, Io e Tu, in Principio Dialogico, Comunità Milano, 1958, pag. 57.

29/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (4./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (4)


Il coraggio non manca, dunque, a quest’uomo che sembra davvero aver posto un obiettivo ambizioso, davanti a sé: quello della santità, dell’avvicinarsi quantomeno alla santità, nella certezza di aver fatto tutto quel che si poteva, di aver dato tutto quel che si aveva.
      Un coraggio che da solo, servirebbe comunque a poco. E’ soltanto nell’accettazione, nel piegarsi ad una volontà superiore, e semmai proprio nello sforzo continuo di identificare questa volontà – cosa vuoi tu da me ? – che il cammino può proseguire, e giungere fino al termine.  In questo, il percorso di Hammarskjold ricorda da vicino quello di un altro gigante del Novecento, Dietrich Bonhoeffer.  Scrive nel suo quaderno Dag:

     Dinnanzi a te, padre
        In rettitudine e umiltà
     Con te, fratello,
        In fedeltà e coraggio !
     In te, spirito
        In quiete.

   Tuo, perché la volontà è il mio destino,
votato perché il mio destino è di essere usato e
consumato secondo la tua volontà.  (11)

    Rettitudine, umiltà, fedeltà, coraggio, quiete.  Parole semplici che nella teodicea di Hammarskjold rappresentano le strade convergenti per uniformarsi alla volontà di Dio. La fede, in fondo, appare soltanto che questo:  lo scomponimento delle proprie aspettative egoistiche, lo scioglimento di se stessi, delle proprie velleità individuali, in un disegno più grande, in un servizio più grande.
    
La fede è l’unione di Dio con l’anima, scrive Hammarskjold citando San Giovanni della Croce, La fede è: dunque, non può essere afferrata, né tantomeno identificata con formule usate per parafrasare ciò che è.      …. In una notte oscura. La notte della fede tanto oscura che non si può cercare nemmeno la fede.  E’ nella notte del Getsemani che l’unione si compie, quando gli amici dormono, gli altri tramano la rovina e Dio tace.
     Essere guidati da quel che vive quando “noi” più non viviamo come parti in causa o “saccenti”. Saper ascoltare e vedere ciò che dentro di noi è nel buio. E nel silenzio. (12)
     
      Negli ultimi tre anni, dal 1958 alla fine, il linguaggio nei Diari di Hammarskjold si fa sempre più rarefatto, sempre più diluito, quasi in obbedienza a questa legge del silenzio che sembra avvicinarlo sempre di più a Dio.  Aforismi e considerazioni, riflessioni e meditazioni sul proprio mestiere, sugli incontri e le circostanze, lasciano il posto ormai a veri e propri piccoli componimenti poetici, fatti di rapide terzine, di versi brevi tagliati, densi di immagini delicate e forti, di impressioni e combattuti sentimenti difficili da esprimere,  di considerazioni che appaiono davvero ultime, in cui si avverte spesso il peso di un destino:

Il cammino degli altri
ha soste
al sole
dove si incontrano.
Ma questo è  il tuo cammino,
ed è proprio ora,
ora, che non puoi tradire. (13)
      
      Ma davvero questo cammino particolare è anche un duro privilegio. Mi desti forse questa solitudine senza scampo affinché più facilmente io potessi darti tutto ? Scrive nel giorno del suo cinquantatreesimo compleanno. 

      Il Tu a cui si rivolge in modo sempre più accurato negli ultimi tempi della sua vita Hammarskjold, non è più così silenzioso. Una risposta arriva, è una risposta confermativa, ma – è la scoperta più radicale – una risposta che dipende molto (anzi, che dipende tutto) dalla domanda.    (-segue 4./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


11. Op.cit. pag. 141
12. Op. cit. pag. 114 
13. Op. cit. pag.233

27/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (3./)

      


Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (3)


E’ questo un primo orientamento importante,  sul quale Hammarskjold ritorna quando in una pagina del 1952 citando nuovamente Joseph Conrad e i personaggi del suo Lord Jim, scrive: Al limite dell’inaudito. L’inaudito; forse solo l’ultimo incontro di Lord Jim con Doramin, quando egli è giunto all’assoluto coraggio, e all’assoluta umiltà, in assoluta lealtà verso se stesso.  Con vivi sensi di colpa, ma cosciente a un tempo di aver assolto il debito, per quanto possibile in questa vita, attraverso quanto ha fatto per coloro che ora chiedono la sua vita.   Tranquillo e felice. Come quando si vaga solitari in riva al mare. (4)
    Assoluto coraggio dunque, assoluta umiltà, assoluta lealtà verso se stesso.  Sono queste le condizioni per consentirsi di giungere con animo tranquillo e felice all’appuntamento con la morte.  Hammarskjold ci pensa da sempre.  Lo scrive eloquentemente nel 1955 – e mancano soltanto sei anni alla fine della sua vita: Un tempo la morte faceva sempre parte della compagnia. Ora è la mia vicina di tavola: me la devo fare amica. In questa “riscoperta” intuitiva divenuta il filo di Arianna della mia vita – passo per passo, giorno dopo giorno – ora la fine è divenuta altrettanto palpabile quanto il dovere che mi spetta per domani. (5)
    E il dovere per Hammarskjold è mettere le ali ad un organismo internazionale – le Nazioni Unite – ancora giovane, sprovvisto di poteri e fragile, in un mondo diviso in grandi blocchi contrapposti.  E’ proprio durante il doppio mandato di Hammarskjold che per la prima volta nella storia dell’ONU – il 10 dicembre del 1954 -  viene votata una risoluzione per conferire un mandato diretto al Segretario Generale per gestire una crisi internazionale.  (6)
      Sarà un crescendo di impegni e fatiche per Dag, che passano attraverso l’invasione sovietica dell’Ungheria e la crisi di Suez (1956), la creazione, per iniziativa del Segretario Generale della prima forza armata di peace keeping delle Nazioni Unite, e  la riconferma con il secondo mandato nel 1958 (ctrl.), fino all’ultima crisi, quella congolese, che costerà la vita ad Hammarskjold, apertasi nel luglio 1960 e culminata nelle richieste di dimissioni arrivate direttamente da Nikita Chruscev.  (7)
     Rimarrò al mio posto per quanto resta del mio mandato come un servitore dell’Organizzazione - risponde orgogliosamente al presidente sovietico Hammarskjold, in un celebre discorso tenuto all’Assemblea Generale, il 3 ottobre del 1960 -  nell’interesse di tutte le altre nazioni, fin quando esse vorranno che io faccia così.  (8)  
     E’ nell’attraversamento di queste dure prove che si esprime, in parallelo, il peculiare misticismo di Hammarskjold.  La sua ricerca di Dio diventa il cammino in controluce di una carriera, di una vita, perennemente esposta alla luce dei riflettori del mondo Già da bambino, Hammarskjold ha fatto l’abitudine al silenzio, alla meditazione. Sa che questo e soltanto questo può salvarlo, in definitiva, dall’assordante chiasso del mondo.  Viene da terre fredde, ha trascorso lunghi anni, bambino, al seguito del padre, prima capo del governo, poi governatore di Uppsala, in una grande e bellissima casa da cui si domina la città.  La sua famiglia di provenienze nobili, è conosciuta e ammirata in tutta la Svezia. Il padre è intimo amico dell’arcivescovo Nathan Soderblom, grande teologo
svedese, uno dei fondatori del movimento ecumenico moderno, e vincitore a sua volta del premio Nobel per la Pace nel 1930. Dag cresce in questo clima, e non è difficile immaginarlo come una sorta di Alexander, il protagonista del celebre film di Ingmar Bergman (9), ambientato proprio a Uppsala.  Riceve i rudimenti della fede luterana, sviluppa un carattere timido, introverso, la passione per l’arte, la letteratura, la musica. Non si sposerà mai, non metterà su famiglia, forse anche  obbedendo a quel pre-sentimento di avere di fronte a sé una vita breve.
      La solitudine interiore, l’isolamento, sempre e comunque, anche nonostante una vita convulsa, diventano l’habitat necessario per una ricerca che non si interrompe mai, per il dialogo più difficile con un Interlocutore presente, ma  silenzioso.
      Basti pensare che alla quiete Dag Hammarskjold edificherà un vero e proprio monumento: la stanza per la meditazione fu infatti fortemente voluta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne seguì personalmente ogni fase, dalla progettazione (al centro della stanza un raggio di luce proveniente dall’alto colpisce la nuda superficie di una pietra), all’arredamento, fino all’inaugurazione, nel 1957, occasione per la quale Hammarskjold scrisse un testo, intitolato Una stanza di quiete, che ancora oggi compare nel depliant distribuito alle migliaia di persone che ogni anno visitano il Palazzo delle Nazioni Unite di New York.  Nelle intenzioni questo doveva essere un luogo “le cui porte possano essere aperte agli spazi infiniti del pensiero e della preghiera. “  Hammarskjold fu uno dei primi statisti a rendersi conto che uno dei maggiori rischi per l’uomo politico è quello di distaccarsi dalla realtà e da se stesso.  Di non avere tempo per stare solo e riflettere.  Una esigenza simile è stata sottolineata ed espressa recentemente da Barack Obama, prima della sua elezione, in un incontro a Londra con l’allora primo ministro inglese Tony Blair.  La quiete come presupposto ultimo per cercare se stessi,  per rimanere un “humus aperto, umido nel fertile buio dove cade la pioggia e cresce il grano.”
      E’ questo del resto, anche il senso di ogni ricerca mistica, che per Hammarskjold non è mai fuga dal mondo.       
       “L’esperienza mistica”.  Sempre qui e ora… in quella libertà che è tutt’uno con il distacco, in quel silenzio che nasce dalla quiete. Ma questa libertà è una libertà nell’azione, questa quiete è quiete tra gli uomini. Il mistero è perenne realtà per chi è libero da se stesso nel mondo, è realtà in una tranquilla maturità nell’attenzione ricettiva e acconsenziente. 
      Nel nostro tempo la via della santità passa necessariamente attraverso l’azione.
      Bisogna dare tutto per tutto.  (10)   (-segue 3./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

4. Op. cit. pag.97
5. Op. cit. pag.125
6. Si tratta della vicenda degli aviatori americani dipendenti dalle forze ONU in Corea, fatti prigionieri e condannati poi dalla Cina per spionaggio, che verranno rilasciati il 1. agosto dell’anno seguente – 1955 – grazie proprio alla paziente opera di Hammarskjold che visita diverse volte Pechino, ricavando dal governo cinese ripetuti rifiuti fino alla improvvisa liberazione, esattamente due giorni dopo il cinquantesimo compleanno di Dag Hammarskjold (29 luglio 1955).
7. Il 30 giugno 1960, a solo un anno e mezzo dai primi violenti scontri con Bruxelles, il Congo divenne stato indipendente. Iniziò un lungo e sanguinoso periodo di lotte tra fazioni e guerra civile, culminante con la presa del potere da parte del colonnello Mobuto, dopo l’arresto e la condanna a morte nel gennaio del 1961 di Patrice Lumumba, colui che era stato uno degli artefici principali della liberazione e della lotta per la indipendenza dal Belgio.
8. Cit. tratta da Foote, Wilder, ed., Servant of Peace: A Selection of the Speeches and Statements of Dag Hammarskjöld, Secretary-General of the United Nations 1953-1961. New York, Harper & Row, 1962. 
9. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander), film del 1982 di Ingmar Bergman, con Pernilla Allwin e Bertil Guve, vincitore di 4 premi Oscar. In Italia è edito su dvd dalla Sanpaolo Audiovisivi. 
10. Op. cit. pag. 139.

26/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (2./)




1. (Dieci grandi anime) - Dag Hammarskjold (2) 


Quel che appare certo è che in un certo senso Dag Hammarskjold aveva un destino già scritto, se è vero che egli era l’ultimo dei quattro figli maschi di Hjalmar Hammarskjold, eminente politico del dopoguerra svedese, che fu anche primo ministro e membro dell’Accademia Reale di Svezia.   Quando Dag, alla sua morte,  è chiamato a prenderne il posto, alla fine del 1953, pronuncia un celebre discorso in memoria del padre. E ricordando il se stesso diciannovenne che seguiva dalla tribuna la cerimonia di insediamento del padre, dice: le parole che lui pronunciò riassumevano, per me, una vita di fede nella giustizia e di servizio compiuto nella negazione di sé, sotto una responsabilità che ci unisce tutti.
       Negazione di sé, sottomissione, darsi agli altri, sono le parole d’ordine che risuonano quasi in ogni pagina del Diario di Hammarskjold.  Sembrano coniugare la personale teodicea di quest’uomo che pronuncia la parola ‘fede’ con molta esitazione, e che con la stessa prudenza e attenzione si rivolge a Dio.
       Eppure, Hammarskjold, soltanto a scorrere il suo Diario, appare un assiduo frequentatore delle Scritture.   Quasi ogni pensiero è scandito di echi, magari anche lontani, anche non espliciti, all’Antico e al Nuovo Testamento.
        E quando i soccorsi raggiungono in Africa il luogo dell’incidente aereo,  in quel giorno d’estate del 1961, scoprono, non lontano al cadavere di Hammarskjold, la copia tascabile del De Imitatione Christi di Tommaso da Kempis, uno dei testi più popolari della spiritualità cristiana. La stessa copia che Hammarskjold teneva abitualmente sul comodino del suo appartamento di New York,  che portava sempre con sé e che era accompagnata da un segnalibro molto particolare: una cartolina su un lato del quale era battuto a macchina il giuramento formulato nella cerimonia di insediamento come Segretario Generale delle Nazioni Unite.
        Un uomo di fede, dunque, si direbbe senza alcun dubbio.
        Eppure, scorrendo le brevi frasi, le rapide illuminazioni contenute nelle pagine dei Diari, si scoprono gli angoli di un negoziato con Dio vissuto al prezzo di dubbi, lacerazioni del cuore, paure, incerti scaturiti da notti insonni, o da pause meditative durante le quali il compito di operatore di pace tra popoli e genti che non volevano saperne di ragionare, dialogare, smettere di guerreggiare, doveva apparirgli improbo, disperato.
        Chi ama vuole la perfezione dell’amato, scrive la vigilia di Natale del 1955,  la quale esige l’essere liberi persino da chi ama.   Dio vuole la nostra indipendenza e in essa noi “ricadiamo” in Dio, quando smettiamo di cercarla da soli.
       Ma questa libertà, questa indipendenza che Dio lascia all’uomo è forse anche pericolosa.  Hammarskjold la avverte come un campo aperto, dove è molto facile perdersi, ancora di più per un uomo come lui esposto a tentazioni umane molto tangibili e suadenti: il potere, l’autoaffermazione, il riconoscimento degli altri, il narcisismo, l’interesse personale.
      Il cristiano Hammarskjold procede allora su un altro piano,  che è quello della totale sottomissione ai disegni di Dio, una sottomissione che viene avvertita anche nei toni di un destino personale, forse pre-sentito.  E’ infatti curioso constatare come riecheggino per tutto il diario presentimenti di una possibile fine imminente, di un annientamento. Basti pensare che ogni nuovo anno del taccuino personale, si apre con la stessa frase: “e presto verrà la notte”…
      La condizione umana è quella, per come viene sperimentata da Hammarskjold, di un viaggio senza ritorno, di un cammino che una volta intrapreso ha un solo possibile epilogo, quello del sacrificio e del grande salto nell’Oltre.   Tornare indietro non è possibile. Vi è un punto in cui tutto diviene semplice, in cui non c’è più alternativa, poiché tutto quello che hai puntato è perso se ti guardi indietro. Il punto di non ritorno, proprio della vita. (3)

      Il cammino della vita procede su coordinate fisse, soltanto in parte decise ab origine. E una di queste coordinate, quella zenitale, è la responsabilità personale.  Responsabilità personale che consiste, in primis, nel non deludere le aspettative.  Nell’essere all’altezza.  Dag ha fatto propria una massima di Joseph Conrad che ripete spesso: Vivere secondo le aspettative dei propri amici. (-segue 2./). 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


3. Op. cit. pag. 83.

25/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (1./)





1. (Dieci grandi anime) - Dag Hammarskjold (1) 

Chiedo l’assurdo:  che la vita abbia un senso.
    Così scriveva nel 1952, nel suo diario intimo, Dag Hammarskjold.  La sua vita breve volgeva già al termine. Altri nove anni, poi in una notte  di settembre del 1961 – tra il 17 e il 18 – l’aereo che lo trasporta per una nuova missione di pace per risolvere la drammatica crisi congolese, nel cuore della martoriata Africa, e che è partito nella serata da Leopoldville, si schianta a Ndola, nello Zambia.
     Hammarskjold muore, la notizia fa il giro del mondo.  E’ morto un operatore di pace, un grande uomo.  Un uomo, che come disse John Steinbeck, faceva tutto per passione.
     E come è immancabile quando a morire è un uomo politico, specie se questo uomo è un grande diplomatico, anzi, un Segretario Generale delle Nazioni Unite, le “notizie sulla morte” sono imprecise, sospette, lacunose, piene di oscurità: è stato un attentato ?  Quasi certamente, ma non si saprà mai con precisione. Gli uffici istruttori nell’ex Africa coloniale, nei primi anni ’60 sono tutt’altro che preparati per una evenienza del genere.
Poco importa: l’oscurità della morte di Hammarskjold diventa, in poco tempo luce.  Due fatti, principalmente. Appena due mesi dopo la morte l’Accademia di Svezia concede all’unanimità il Premio Nobel per la Pace alla memoria del grand’uomo svedese.  Quasi contemporaneamente, nell’appartamento abitato a New York da Hammarskjold, vengono ritrovate alcune carte, tra cui un diario minutamente e ordinatamente segnato, con brevi riflessioni riportate anno dopo anno, dal 1925 al 1961.   Insieme al diario c’è una lettera, indirizzata ad un caro amico, Leif Belfrage.       Hammarskjold gli ricorda che qualche volta ha accennato a questo diario, gli scrive che vorrebbe che sia lui ad occuparsene, in vista di una possibile pubblicazione.  
      Se trovi che valga la pena di pubblicare le mie note, scrive nella lettera, ti autorizzo a farlo, come una specie di “libro bianco”, sul mio negoziato con me stesso… e con Dio.
     La parola ‘negoziato’ per un diplomatico, non può essere un caso.
     Cosa intendeva Hammarskjold con “negoziato” ?  Perché sentì l’esigenza di intavolare questa trattativa con Dio ?  Chi era, in definitiva, questo uomo che le fotografie d’epoca ci mostrano distinto ed elegante, gli occhi azzurri, l’onda dei capelli biondastri sull’alta fronte, lo sguardo luminoso e buono ? Cosa sappiamo di lui ?
     Gli archivi del Palazzo di Vetro dell’ONU dispongono di montagne di documentazione sul lavoro e sulla frenetica attività diplomatica del terzo segretario dell’ONU (1). Ma certamente per chi oggi voglia conoscere qualcosa dell’uomo Hammarskjold assai più significative di quelle cataste di documenti, appaiono essere le poco più di duecento pagine del ‘Diario’ intimo, tradotto in tutto il mondo con diversi titoli (2).       (-segue 1./). 

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1.      Dag Hammarskjold (1905-1961) fu il terzo Segretario Generale delle Nazioni Unite – che furono fondate il 24 ottobre 1945 -  dopo il britannico Sir Gladwyn Jebb (1945-46) e il norvegese Tryvge Lie (1946-1952).       2.     In Italia i diari di Hammarskjold sono pubblicati con il titolo Tracce di cammino da Qiqajon – Comunità di Bose, 1992, a cura di Guido Dotti. A questa edizione si è fatto riferimento per le citazioni riportate nel testo. 

23/09/13

Cosa diciamo quando diciamo 'Mi piace' (o 'Non mi piace) ?





Sento spesso dire, ultimamente: questo Papa mi piace (o non mi piace);  eppoi sento dire Matteo Renzi ? Non mi piace (o mi piace);  E ancora: Napolitano ? mi piace, Balotelli ? Non mi piace. La Kyenge ? Non mi piace. 

Ecco ma mi viene da chiedere: ma cosa è questa cosa che ci fa dire 'mi piace'?

Mi sembra fin troppo facile dire che il  format di un social network a diffusione planetaria sta condizionando pesantemente anche il nostro modo di pensare.

Cosa diciamo esattamente quando diciamo mi piace ? Cosa vogliamo dire ? Cosa vogliamo comunicare ?

Il mi piace è il compito ordinativo, fondativo cui siamo chiamati oggi. Un rituale dell'interrogazione -monocorde, vieto - che sembrerebbe l'unico modo per vestirci di una personalità.

Attraverso i mi piace e i non mi piace, possiamo illuderci di vestire una identità precisa, o più o meno precisa che ci differenzi - si spera - dagli altri. O ci uniformi, il che va bene lo stesso.

Ma il piacere o non piacere deriva appunto e soltanto dal piacere: puro godimento esteriore. Diciamo mi piace se qualcosa o qualcuno ci dà una sensazione di piacere, di soddisfazione.  Diciamo non mi piace, se ci disturba, o non ci soddisfa o non ci gratifica. 

E spesso, sempre più spesso, non abbiamo nemmeno il bisogno, non sentiamo nemmeno l'esigenza di dover giustificare (non parliamo poi di argomentare) questo mi piace o non mi piace: è così è basta.  Cosa vuoi spiegare. Puro istinto, pura formulazione transitiva o non transitiva. La mia epidermide me lo dice, non mi star a chiedere perché.

Ma davvero il pensiero, il pensiero umano può ridursi a questo ?

Dovremmo forse interrogarci cosa (ci) dice questo mi piace e questo non mi piace.
Le cose che non ci piacciono nascondono mondi che nemmeno immaginiamo, quelle che ci piacciono, forse, paludi delle quali non siamo nemmeno consapevoli. 
E come sempre, è tutto dentro di noi (e non sulla superficie).
Solo che, come sempre, non vogliamo vederlo.


Fabrizio Falconi