17/09/13

"Roma significa il mondo" di Ingeborg Bachmann (inedito).




Roma significa il Mondo.


A Roma ho visto che il Tevere non è bello, ma trascurato nelle banchine, da dove spuntano rive a cui non c'è chi metta mano.  Nessuno usa le navi da carico brunite dalla ruggine, nemmeno le barche.  ..  A Roma ho visto nel ghetto che non bisogna lodare il giorno prima della sera.  Ma nel giorno dell'espiazione a ciascuno sarà perdonato in anticipo per un anno..

Ho visto a Campo de' Fiori che Giordano Bruno continua ad essere bruciato. Ogni sabato, quando smantellano le bancarelle intorno a lui restano solo le fioraie, quando la puzza di pesce, cloro e frutta marcita va disperdendosi sulla piazza, gli uomini raccolgono sotto i suoi occhi i rifiuti che sono rimasti dopo che di tutto è stato fatto mercato, e danno fuoco al mucchio.

Sul Campidoglio l'alloro e nel foro l'erbaccia proditoria, e quando l'erba sulle colonne chiuse con assi e sulle mura spezzate piombava nel crepuscolo, ho udito il rumore della città, ingannevolmente lontano, e soave lo scivolare delle automobili.

Ho visto, dove le strade di Roma finiscono, insinuarsi in città il cielo trionfante che non si chinava sotto nessun portone e si estendeva sopra i sette colli, azzurro dopo le scorrerie sulle coste della Sicilia e pieno dei frutti delle Isole del Mar Tirreno, illeso dopo gli assalti nei briganti d'Abruzzo e nero di grappoli di rondini, sopra gli Appennini.

A Roma ho visto che tutto ha un nome e che bisogna conoscere i nomi.

Alla stazione Termini ho visto che a Roma i commiati sono presi più alla leggera che altrove. Perché quelli che partono lasciano a quelli che restano lo scontrino della nostalgia.


Ingeborg Bachmann - inedito, dal Messaggero del 17 settembre 2013, anticipazione del libro Quel che ho visto e udito a Roma, di Ingeborg Bachmann pubblicato da Quodlibet. 

Ingeborg Bachmann
Quel che ho visto e udito a Roma
Presentazione di Giorgio Agamben
Con una nota di Jörg-Dieter Kogel
Traduzioni di Kristina Pietra e Anita Raja

Vai alla nuova edizione economica nella collana "Bis"

Le corrispondenze da Roma di Ingeborg Bachmann per la radio di Brema (1954-'55), qui pubblicate insieme agli articoli da lei scritti nello stesso periodo per alcuni giornali tedeschi, sono un ritrovamento recente e testimoniano sia di un aspetto sconosciuto di questa ormai celebratissima scrittrice, sia di uno spaccato dell’Italia postbellica visto da una angolatura di eccezione. La Bachmann conosceva perfettamente l’italiano e si orientava con sicurezza nella politica e nella cultura locali. Dietro lo pseudonimo Ruth Keller, ella riferisce sugli argomenti più scottanti del periodo: su misteriosi eventi criminosi negli ambienti altolocati romani (il caso Montesi), su presunti tentativi di eversione da parte dei comunisti italiani, sulle catastrofi naturali che colgono di sorpresa i già provati popoli della Campania, sulle inquietanti manovre della mafia, sull'’ascesa alla ribalta della Lollobrigida e sulla ratifica dei “trattati di Parigi”. Un’occasione per ripercorrere la vita italiana degli anni ’50, meno distante da quella odierna di quanto si pensi, e per comprendere meglio l’attività di una scrittrice che ancora non ha finito di svelare tutti i suoi segreti. Assieme alle “Cronache”, pubblichiamo una breve prosa coeva, che dà il titolo all’intero volume, e che parla a sua volta di Roma. Associamo al grado meno letterario e più “fattuale” della scrittura bachmanniana una prosa intrisa di ispirazione conforme allo stile più noto e più felice della scrittrice. Si apre così lo spazio totale entro cui si muove l’occhio della Bachmann e da cui affiora il suo ritratto di Roma, e molti dei motivi che popolano le altre sue opere letterarie. 

16/09/13

Occursus noster (Il nostro incontro) - di Fabrizio Falconi (traduz. latina).





Occursus noster

Occursus noster
in rebus agendis non erat, nigro
scribebatur muris, nubes erat
fluxa, cantus erat
e lumine, prospectus erat
parvus infinitus qui forium silentio
se abdit.

Occursus noster
vesperi proximus erat
diei ante, tropicis hiemabat
sicut avis extra cursum,
eum pudebat sui,
sicut communem locum,
vel in verborum exordio questionem.

Occursus noster
vana possessio erat,
vel fascinata nota,
et tamen occursus noster
apparuit olim, aliquo die,
vitam vi illuminavit,
et nondum evanuit.

Fabrizio Falconi - traduz. di Filomena Bernocco.
Testo originale qui

13/09/13

Attrazione fatale (esiste una attrazione fatale dell'amore?) - Lectio Magistralis di Remo Bodei oggi a Modena. Il testo integrale.



Remo Bodei, professore di filosofia presso la University of California a Los Angeles terrà oggi una Lezione magistrale dal titolo Attrazione fatale. L'appuntamento è a Modena, in Piazza Grande alle ore 16,30

Ecco il testo integrale. 


E siste un’attrazione fatale dell’amore?
È davvero impossibile non ricambiare l’amore di chi ci ama? Esiste un amore irresistibile, contagioso e cieco? Se amati, si deve riamare "per forza"? Tutti questi interrogativi rinviano a una domanda preliminare: Perché, quando si ha la fortuna di incontrarlo, si dovrebbe rinunciare all’amore, a una delle esperienze più piene e appaganti nell’esistenza di ciascuno? Esso rappresenta, infatti, un’energia di radicale rinnovamento, un nuovo inizio, quasi una rinascita: incipit vita nova.

Si gode dell’esaltazione che produce, dell’inafferrabile, luminosa espansione della vita, un allargamento dell’io che sente di non bastare più a se stesso e trova il propriocompletamento nell’altro. Si avverte allora la sensazione di innalzarsi al di sopra della banalità della vita quotidiana e di essere strappati alla solitudine dell’io.

È felicità e tormento che risveglia il desiderio di ignoto, assieme al dubbio di non essere corrisposti e al connesso timore di perdere ciò a cui oscuramente si è sempre aspirato.

È una riscoperta di noi stessi in vesti altrui, l’incontro con quel nucleo di noi stessi, da cui viviamo spesso lontani, assorbiti dall’esteriorità e dalla dissipazione delle nostre energie.

Quando si prova amore per qualcuno, il desiderio più grande è che tale affetto sia ricambiato, superando una doppia difficoltà, poiché è già improbabile trovare tra milioni di persone qualcuno di cui innamorarsi, ma è ancora più improbabile esserne ricambiati.

Gli amori asimmetrici,in cui si ama non riamati, possono finire tragicamente,come sappiamo anche dalla cronaca, con l’uccisione di chi non vuole iniziare o continuare una relazione.

A partire dal celebre verso dantesco «Amor che nullo amato amar perdona», mostrerò,come sostenere questo principio possa in certe culture, da un lato, sfociare nella morte,dall’altro rappresentare un’attenuante e una rivendicazione dell'adulterio.

continua a leggere QUI.

11/09/13

La Lettera del Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio a Eugenio Scalfari, pubblicata oggi su "Repubblica."

ecco il testo della Lettera che Jorge Mario Bergoglio ha inviato a Eugenio Scalfari, e che Repubblica pubblica oggi in prima pagina, sui temi della fede e della ragione.




PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth". Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

10/09/13

Siria: Adonis: "Finché ci sarà poesia, ci sarà voglia di pace."





Finche' ci sara' l'amore ci sara' la poesia e finche ci sara' la poesia ci sara' voglia di pace. 

Prima di lasciare Capri per fare ritorno a Parigi, il poeta Adonis, candidato al Nobel e vincitore del Premio Internazionale Capri è tornato a parlare dei temi che gli sono cari ed ha auspicato che Obama receda dal desiderio di lanciare l'attcco alla Siria.

Adonis (il cui vero nome e' Ali' Esber) nacque in un villaggio siriano 83 anni fa e, pur essendo vissuto in Libano e poi a Parigi, non nasconde che il suo cuore di poeta e di libero cittadino batte per il suo paese d'origine.

Non certo per il regime di Assad chiarisce, ma per un popolo che ha una storia antica e per una terra che ha una civilta' antichissima. Fu la Siria a inventare il nostro alfabeto e fu la Siria a creare la parola Europa; spero che l'Europa si ricordi di questo e freni l'America. La guerra e' un non senso; bisogna dare spazio al dialogo; l'uomo deve parlare e non uccidere. 

Adonis ha ricevuto il riconoscimento "Capri Arwards", che in passato e' stato attribuito ai più importanti poeti del mondo. 

Quindi ha letto alcune sue liriche, tra cui spicca quella intitolata "Pace": 

Pace ai volti che, soli, vanno nella solitudine del deserto
all'oriente vestito d'erba e fuoco
Pace alla terra lavata dal mare
al tuo amore, pace. 

fonte ANSA


09/09/13

E' morto Alberto Bevilacqua. Il torto di essere poliedrico.





La scomparsa di Alberto Bevilacqua rende un po' più povero il panorama - già di per sè non particolarmente esaltante - della produzione culturale italiana.  

Bevilacqua, che esordì giovanissimo, a soli 19 anni, con la raccolta di racconti La polvere sull'erba, ha scritto molto (secondo alcuni, troppo), ma soprattutto ha commesso un 'errore' che non gli è stato mai perdonato dalla critica militante italiana (quella che esisteva fino a qualche anno fa e che poi si è dissolta, insieme a quella che una volta veniva definita cultura alta, disciolta in mille congreghe perlopiù virtuali e perlopiù irrilevanti, come è quasi del tutto irrilevante, tranne poche eccezioni, almeno a livello internazionale, la cultura italiana): quello di assecondare il proprio talento poliedrico.  

Se infatti in Italia viene già perdonato a fatica il fatto di avere un talento, specie in campo culturale, viene invece ritenuto del tutto imperdonabile avere più talenti, un tipo di figura intellettuale che di contrario nel mondo anglosassone o in Francia, per esempio, viene ben considerata. 

Bevilacqua ha avuto la presunzione di scrivere molti romanzi, di scrivere racconti e piccoli e lunghi saggi, di scrivere poesia e addirittura di dedicarsi al cinema con la realizzazione di ben otto film, tra i quali i primi due, La Califfa (1970) e Questa specie d'amore (1972) che erano tratti da suoi romanzi e che ottennero premi e riconoscimenti importanti, fuori e dentro l'Italia. 

Ha poi avuto anche l'ulteriore torto,  probabilmente dovuto al narcisismo che accomuna molti intellettuali, e questo ancora più grave e imperdonabile di concedersi al trash di trasmissioni televisive (ah, la televisione!) in qualità di ospite e di opinionista.

Questo pesa e peserà non poco - in Italia funziona così - sulla valutazione del Bevilacqua scrittore. E di quello regista o di quello di intellettuale a tutto tondo.  

Bisognerà aspettare, come è successo molte volte in passato, il transito del tempo, il trascorrere magari di una generazione o due, e forse anche su Bevilacqua sarà possibile esprimere un parere più serio, più obiettivo.

E magari scoprire una dote piuttosto rara che ha permeato molte delle sue opere: la sincerità.

Fabrizio Falconi.

06/09/13

Una bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il "Gesù" di Pasolini - di Marco Cicala.





Sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica, Marco Cicala ha pubblicato questa bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il Gesù di Pasolini (nel Vangelo Secondo Matteo).  La riporto qui integralmente perché oltre ad essere scritta benissimo è piena di aneddoti e di ricordi di un personaggio singolare, quale è appunto Irazoqui, praticamente scomparso dalle scene dopo quel clamoroso esordio.  La vicenda appare realmente una sorta di film nel film. Buona lettura. 

Cadaqués. 

Gesù non beve. Fu­mava, ma ha smesso. Era marxista. Ha smesso. Da giovane, l'ha stracciato a scacchi il princi­pe del dadaismo; ha rubato la scena al pa­dre della beat generation; ha mangiato i tortellini in trattoria con Elsa Morante. Eandava da Rosati assieme a quelli che an­davano da Rosati: Guttuso, Moravia, Maraini: «Ma se c'era Elsa, Dacia non veniva». 

Vabbè però adesso basta col giochetto: Gesù si chiama Enrique Irazoqui e nella sua vita avanti Cristo era uno studente di econo­mia all'università di Barcellona. Militava pure nel sindacato giovanile. Comunista. Clandestino. Perché al volante della Spagna c'era Francisco Franco. Per via della madre (nata, quasi un presagio, a Salò) Enrique sela sbrogliava bene con l'italiano, e così il Par­tito lo spedì a Firenze e Roma in missione speciale. Si trattava di cercare appoggi tra i big della politica e della cultura. Sostegno pecuniario, ma non solo: «Volevamo invitar­li in Spagna a tenere conferenze contro ladittatura. Se li lasciavano parlare, bene. Se li arrestavano, pure meglio. Lo scandalo ci avrebbe fatto ancora più gioco». 

Era il feb­braio 1964. Irazoqui aveva 19 anni e un bel volto angoloso da antico eresiarca. In Italia venne preso in consegna da un gentil accompagnateur del Pci. Gli fecero vedere La Pira, Pratolini, Nenni, Bassani... Per ultimo lo por­tarono all'Eur, da Pasolini. Avvertendolo: «Guarda che è poeta. E omosessuale». Enrique Irazoqui sedeva a casa di PPP e quello lo ascoltava in piedi, girandogli intor­no senza spiccicare parola. Alla fine disse: «D'accordo, verrò in Spagna. Ma prima tu devi farmi un favore». Quale? «Interpretare Gesù nel mio prossimo film». Pardon? «Sarà un racconto epico-lirico, in chiave nazional-popolare, sai Gramsci? Dobbiamo restituireCristo al popolo. Perché gli è stato rubato dalla classe dominante». Irazoqui era allibito. «Risposi di no. Per me la religione significava il cattofascismo franchista. Ero un ateo militante. Fedele al motto di Kropottón secondo cui L'unica chie­sa che illumina è quella che brucia». Parole sante, «ma non ti hanno mandato in Italia anche a raccogliere soldi?» gli bisbigliò, luciferino, l'emissario del Pci. «Guarda che se accetti sono m-i-l-i-o-n-i». Eh già. Allora affa­re fatto. Prodigi del materialismo dialettico. Tempo pochi giorni, Enrique, ancora mino­renne, ottiene il nihil obstat dei genitori. Sarà sua madre a negoziare il contratto col pro­duttore Alfredo Bini. 

Le riprese del Vangelo secondo Matteo lo porteranno a Barletta, Crotone, Matera... Un Meridione dove «i vol­ti degli uomini parevano scavati nel diaman­te e nel carbone». Un sud «molto, ma moolto più sud di quello spagnolo». Nelle pause di lavorazione, donne di nero vestite gli chie­devano miracoli. Così, a la carte. Ma poi sor­prendendolo con la cicca in bocca, si ritira­vano sdegnate. Perché Cristo non fuma. Temendo che a quasi mezzo secolo dal film non lo riconoscessi, Irazoqui mi è venuto incontro benedicendo. Porta un panama si­gnorile e scarpe minorchine. 

Da anni vive qui a Cadaqués, che fu la Saint-Tropez catalana e il Vittoriale mediterraneo, ora casa museo, di Salvador Dalí. «Quel fascistone» dice En­rique accenando alla (brutta) statua del Divi­no, che domina la baia e lo ritrae molto più ricciuto del vero: diresti Sor Pampurio. Sediamo nel bar accanto a quello dove Irazoqui, giocatore precocissimo e temibile, batteva a scacchi Duchamp: «Era stato un asso, ma ormai aveva i suoi anni. Alla fine, la moglie Teeny mi pregò: Evita le partite con Marcel, che poi la notte sta lì a rimuginare e non mi dorme». C'era anche John Cage: «Simpa­ticissimo. Mai visto scacchista peggiore» sogghigna Gesù. E punzecchia: «Vediamo se anche lei mi farà la domanda che tutti mi ri­volgono nelle interviste. Quale? Glielo dirò alla fine». 

intervista pubblicata dal Venerdì di Repubblica e ripresa da Pasolini.net

03/09/13

Il conto delle disillusioni e delle illusioni.






Quelli che vivono di disillusioni, sono gli stessi che coltivano le illusioni.  O che le inanellano nelle loro vite, senza nemmeno accorgersene, perché è nella natura stessa della loro anima. 

Vivono apparentemente meglio i cinici, che si proteggono dalle disillusioni illudendosi di fare a meno delle illusioni, ma poi li trovi di notte a mendicare uno spicciolo di qualcosa da un pusher di passaggio, uno straccio di flebile illusione che aiuti anche loro a passare una notte senza guardare il soffitto. 

E in realtà non v'è soluzione. Perché, come dice Demostene, nulla è più facile che illudersi e l'uomo crede vero ciò che desidera. 

Alla fine però il conto delle disillusioni e delle illusioni è sempre in parità. Ed è giusto che sia così. La tara è l'essenza stessa del gioco, cioè la vita.

E alla vita, al suo stretto, difficile fascino irresistibile, a quanto pare, è molto difficile rinunciare.


02/09/13

Carlo Cassola, un autore dimenticato.


In tempi in cui è così difficile fare critica letteraria in Italia - pochi che leggono, pochissimi che posseggono gli strumenti della critica, ancora di meno che ricordano, può essere indicativa la vicenda di Carlo Cassola, nato a Roma il 17 marzo 1917, un narratore oggi sparito - o quasi - dalle librerie e che pure conobbe un grande successo commerciale, il che gli attirò le furie della critica di allora, che invece pretendeva di decidere tutto - oggi non decide più niente - e di stabilire una volta per tutte i valori assoluti in un campo scivoloso come quello della produzione letteraria.

                                       
(Carlo Cassola con Pasolini)

Cassola, riletto oggi sembra molto meno ingenuo di come appariva allora (implacabilmente impallinato da Calvino e soci) e soprattutto messo a paragone con molta della narrativa che si fa e si stampa oggi in Italia, appare perfino un gigante.

Questo è il ritratto che traggo dal sito Italialibri, forse una occasione per tornare su un autore oggi quasi del tutto dimenticato.

Carlo Cassola nasce a Roma nel 1917. La madre è originaria di Volterra mentre il padre è lombardo, ma vissuto a lungo anch’egli nella cittadina toscana. E infatti, proprio la Toscana, in particolare la Maremma, diventerà la patria poetica e spirituale dello scrittore, che vi si trasferirà nel ’40, partecipandovi anche alla Resistenza.

L’attività letteraria era già cominciata negli anni ’30: tra il ’37 e il ’40 Cassola aveva composto una serie di brevi racconti, in parte pubblicati sulle riviste «Meridiano di Roma» e «Letteratura» e poi raccolti in un volume dal titolo La visita. 

Dopo l’interruzione della guerra, durante la quale il lavoro di scrittura era stato quasi completamente interrotto, Cassola si dedica con continuità alla narrativa, affiancata all’insegnamento di filosofia in un liceo di Grosseto. Pubblicò i racconti lunghi Baba (1946), I vecchi compagni (1953), Fausto e Anna (1952), tutti di argomento partigiano e ambientati in quel particolare paesaggio letterario che per Cassola fu la zona compresa nel triangolo Volterra - Marina di Cecina - Grosseto: una terra arida, avara, crudele, che nelle pagine dei suoi romanzi diventa un simbolo della condizione umana, quasi un “correlativo oggettivo” della fatica di vivere.

 (Carlo Cassola)

Lo ha detto in modo efficace il poeta Mario Luzi quando, riferendosi allo sfondo geografico dell’opera di Cassola, afferma: «Per affetto e per organica intelligenza di poesia, Cassola ne ha fatto non una provincia, e sia pure la sua provincia, ma un luogo, anzi il luogo dell’anima».

Con il racconto lungo Il taglio del bosco, scritto tra il ’48 e il ’49, ma pubblicato nel 1954, la prosa cassoliana si allontana dalle tematiche storiche per assumere un tono più dimesso e intimistico, che rimarrà tipico dell’autore anche nella sua produzione successiva.

Cassola mette a punto la sua poetica del “realismo subliminare”, ossia uno sguardo letterario attento a cogliere le vibrazioni più sottili e umbratili della realtà, spesso nascoste dalle apparenze banali del quotidiano, relegate «sotto la soglia della coscienza pratica» ma che racchiudono il significato vero e profondo della vita umana.

In questa sua ricerca, Cassola tende ad isolarsi dal panorama letterario italiano, riconoscendo il suo unico maestro in Joyce, particolarmente nel Joyce di Gente di Dublino. «In Joyce — dice — scoprii il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della vita che per me erano sempre stati i più importanti e di cui gli altri sembravano non accorgersi nemmeno» .

Questo netto distacco dal naturalismo tradizionale segnerà d’ora in poi tutte le opere dello scrittore, determinando anche una nuova visione della storia, considerata sempre meno come il teatro di grandi eventi e di ideali alti, ma piuttosto sempre proiettata nella dimensione interiore e privata dei soggetti che in essa si trovano a vivere, spesso loro malgrado.

Così, se Il soldato (con cui Cassola vince il Premio Salento nel 1958) tratta il tema della solitudine e dell’elegia amorosa, nella raccolta di racconti La casa di Via Valadier (1956) il motivo politico si colora di forti implicazioni esistenziali, in un quadro che all’elemento storico contingente, si tratti della condizione operaia (come nel racconto Esiliati) o della caduta degli ideali della Resistenza (come nel racconto eponimo dell’intera raccolta), sempre viene anteposto lo stato d’animo che ne scaturisce, spesso segnato da un senso di inerzia ed abbandono dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. In questa scia si viene a collocarsi anche il romanzo La ragazza di Bube, pubblicato nel 1960 ed insignito del Premio Strega.

Le scelte poetiche di Cassola non mancarono di suscitare numerose ed accese polemiche, e si attirarono a più riprese l’accusa di sfuggire all’impegno letterario e civile rifugiandosi in un vuoto lirismo e in un realismo facile, idilliaco, privo di conflitti. Rimangono emblematiche le parole a cui ricorse un Calvino particolarmente caustico per rispondere ad alcuni interventi di poetica pubblicati da Cassola sul «Corriere della Sera»: «La poetica dell’ineffabilità dell’esistenza è e resterà legata a esperienze individuali rare, a particolari congiunture storiche. Cassola dice che ha trionfato: non si rende conto che questo trionfo è una sconfitta? Cosa può voler dire questo trionfo, oggi? Romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto dei sentimenti ricucinati».

Nonostante l’animosità a volte carica di acrimonia evocata dalla sua opera, il lavoro di Cassola si mantenne fedele alla propria poetica chiusa, minimale e volutamente astorica, anche nella produzione degli ultimi anni che, tra romanzi e racconti, si mantenne regolare e costante:

continua a leggere qui.


24/08/13

I nomi, le cose - di Fabrizio Falconi




I nomi, le cose

Gelidi rimpianti
amorevoli degradazioni
tutto comincia così
rosseggia l'albero di cemento
allunga le sue vene
                           dissotterrate
aspetta un vecchio segnale
la radura, un battito di mani
una spoglia
un campo di riso seccato
                           è il suo cuore
che non sverna e
non si rinfresca

deserti luoghi, lugubri coscritti
il passo non s'adegua
s'invelenisce il frutto
scoppia e scolora l'imbrunire

attimo per attimo
il conto delle cose
si perde,

anche se
nulla appare invano

tutto sfiorisce
nel contorno dell'ombra
e solo la tua linea
del collo e dello sguardo
propone un nome alle cose
assegna loro un posto
nell'ordine concreto
della divina sopravvivenza.


Fabrizio Falconi © (Milano, febbraio 2011, inedito)

16/08/13

Four russians (Quattro russi) di Fabrizio Falconi - traduz. di Lynne Lawner.




Four russians 


Four Russians
at a concert of Beethoven
out of breath,
hair cut short.
Why were you crying?
and most important why did he,
with white transversal lines
going everywhere,
avoid your hook of a glance
supplicant, proud and final,
pretending he was listening
to nothing but the complex
ascendance to glory that the quintet made?
(traduz. di Lynne Lawner)

testo originale:

Quattro russi

Quattro russi
al concerto di Beethoven,
respiro di affanno
capelli corti.
Perché piangevi ?
E soprattutto perché
- linee bianche trasversali
dappertutto -
lui, ignorando  il tuo sguardo a uncino
supplicante, fiero e finale,
fingeva di seguire soltanto
la complicata ascesa
alla gloria, del quintetto ?

da L'ombra del ritorno (1996).

14/08/13

A swarm of thoughts - di Fabrizio Falconi (traduz. Lynne Lawner).




A swarm of thoughts


A swarm of thoughts
dissipates in a flash,
from multiple orations of pallid,
sunken hours
dawn emerges,
as usual the windiest time—
shrugged shoulders,
a calm awakening—
the phantasm’s axe far off;
calmly I go sit down
on an azure armchair in the empty house.

Within the messy drapery of sky
no snow falls, no bird flies:
merely a thread of white smoke.

The game of dominos that objects play around us lacks one
piece—the very one you moved,
as left hanging the air
was your incipient laughter.

(traduz. di Lynne Lawner)

testo originale:

La messe di pensieri

La messe di pensieri
dipana improvvisa, tra molte
orazioni di ore pallide
e sommerse, una: all'alba,
come sempre,
nell'attimo più ventoso
uno scrollare di spalle,
quieto risveglio
al riparo dalla scure dei fantasmi;
quieto nella casa vuota
venni a sedermi sulla poltrona azzurra.

Nel drappo disadorno
del cielo, senza neve
o senza uccelli
un solo filo di fumo bianco.

Nel dominio degli oggetti
intorno, manca un pezzo: quello
che tu spostavi,
in un inizio di riso
lasciato a risplendere nell'aria.

da L'ombra del ritorno (1996).




13/08/13

Folgoranti citazioni dal "Dell'amore" di Stendhal.






Niente è interessante quanto la passione, perché tutto è imprevisto, e colui che agisce è anche quello che subisce. Niente è piatto, quanto l'amore-gusto dove tutto è calcolo come in tutti gli affari prosaici della vita.
(p.201)

A Roma, a causa del poco interesse degli avvenimenti di ogni giorno, a causa del sonno della vita esterna, la sensibilità si accumula a favore delle passioni.
(p.122)

ciò che è accidentale fa molto in amore.
(p.260)

Non si può arrestare l'amore se non agli inizi. 
(p.107)

si è quel che si può, ma si sente quello che si è.
(p.80)

a meno che non si tratti di una passione nata poco a poco e nella prima giovinezza, una donna di spirito non ama mai a lungo un uomo comune.
(p.87)

ci sono due disgrazie al mondo: quella della passione contrastata e quella del vuoto assoluto.
(pag.70)

citazioni tratte da Stendhal, Dell'amore, ediz. Garzanti, 1982, traduz. Maddalena Bertelà.

12/08/13

In viaggio con la zia - di Graham Greene. Una riscoperta.





Mi piace andare controcorrente. Mi piace rileggere vecchi libri che nessuno legge più. E qualche volta anche libri di autori considerati snobisticamente troppo popolari, troppo di successo. 

Graham Greene (1904-1991) è uno scrittore meraviglioso.  Che, un po' come accadde a William Somerset Maugham o a Simenon, capitò in vita l'accidente di avere molto, molto successo. 

Cosa che, per la critica militante e benpensante dell'epoca, era imperdonabile. 

Greene ha venduto milioni di copie di libri in tutto il mondo, tradotti in ogni lingua. E quasi ogni suo romanzo, dei molti che ha scritto, sono diventati film e a loro volta grandi successi al cinema. 

E' accaduto anche a In viaggio con la zia, scritto nel 1969 e divenuto un grande successo internazionale con il film girato da George Cukor nel 1972 per la MGM che aveva come protagonista la grande Maggie Smith.

Come è accaduto a Maugham e a Simenon (ma un po' più a rilento rispetto a loro), anche per Greene è cominciata l'epoca della riscoperta. 

La scrittura facile di Greene, non è mai facile

E come sa bene chi scrive, scrivere bene facile è molto, molto più difficile che scrivere difficile (o complicato). 

Greene possedeva un talento naturale per la leggerezza (che non è mai superficialità).  Ha scritto romanzi importanti e di argomento molto serio e storie apparentemente più esili o divertenti, a cui apparterrebbe anche In viaggio con la zia. 

Che riletto oggi è però, un grande romanzo. 

Un romanzo nel quale il puro divertimento della lettura  si unisce all'intelligenza, alla sagacia, alla comprensione profonda delle leggi umane. 

Il pretesto è noto: Greene mette al centro di questa storia  la zia Augusta (modello neanche tanto nascosto della Zia Mame del recente romanzo che ha avuto successo notevole internazionale), dama smisuratamente eccentrica, formidabile esemplare di quella galleria di vecchie anticonformiste che sono una specialità della letteratura inglese. Insieme con noi ne fa la conoscenza il cinquantacinquenne Henry Pulling, suo nipote, educato, ironico, un po' timido, e che, dopo aver trascorso una decorosa esistenza in una banca della City, già pregusta un tranquillo life-end trascorso coltivando dalie nel suo giardinetto. 

L'incontro, al funerale della madre, sconvolgerà i suoi piani: recatosi a casa della zia avrà la sorpresa di vedere l'urna con le ceneri della madre trasformata in un contenitore di marijuana; verrà poi coinvolto in uno sfrenato carosello che lo trascinerà ai quattro angoli del mondo, al seguito sempre della terribile parente, e gli farà conoscere un variegato universo di loschi trafficanti, di ragazzine hippie in via per Katmandu, di decrepiti avventurieri italici, di agenti della CIA.

Il tutto scandito da una narrazione pirotecnica, sempre brillante, che nella seconda parte del libro diventa sempre più grave e introspettiva, con il lento dipanarsi del segreto che il lettore non tarda a scoprire (prima del protagonista).

Se siete alla ricerca di un libro per l'estate (ma anche per l'inverno), non vi pentirete di aver scelto questo romanzo.  

Fabrizio Falconi

11/08/13

Libro sotto l'ombrellone: lasciate a casa le orride trilogie e portatevi dietro Conrad, Stendhal o Fitzgerald.




L'estate è la stagione dei lettori occasionali.  

Chi legge molto, di solito legge tutto l'anno.   In tanti invece, riescono a leggere soltanto d'estate. Interpretano, molti tra costoro, la lettura, come una delle forme diversive,  di divertimento o di svago.  Al pari del cruciverba, della rivista facile e dei vari compendi tecnologici che si infilano nella stessa borsa della spiaggia. 

Eppure un libro non è (solo) un diversivo. 

Un libro può arricchire - e di molto - la nostra vita reale.  Non bisognerebbe dunque sprecare l'occasione, almeno un mese all'anno, di conoscere, di crescere.  Attraverso un buon libro.

Vedo sotto la spiaggia in tanti violentarsi inutilmente con le trilogie trash o con il giallo un tanto al chilo d'importazione o fatto in casa.  E fuoriuscire da queste letture ancora più instupiditi di prima. 

Si pensa che un libro importante sia necessariamente  pesante o noioso
Ma lo dice soprattutto gente che non ha mai nemmeno provato a leggere qualcosa di un pochino più evoluto. Si tratta semplicemente di pigrizia mentale.  E come in tutte le cose simili, basterebbe cominciare, per scoprire un mondo. Per scoprire quanto ci si può arricchire. 

Provate anche con i vostri amici. Fatevi promotori dei buoni libri e della buona lettura. 

Chi legge male, di solito, vive anche male. 

Fatelo anche per loro.  Lasciate a casa, e fate lasciare a casa, o nell'ignobile dispenser dell'autogrill, il brutto seller americano, la puntatona della saga finto-medievale, il polpettone erotico a basso voltaggio. 

Portatevi dietro e consigliate all'amico di portare dietro un grande romanzo.  L'ultimo Conrad ristampato in Italia, per esempio (Il Caso, Adelphi, un romanzo straordinario dove sembra non accadere nulla e invece il lettore è risucchiato in un meccanismo narrativo perfetto), lo Stoner di John Williams (di cui, dopo un anno, si sono accorte finalmente, dopo un anno, addirittura, anche le pagine culturali di Repubblica),  La Certosa di Parma di Stendhal, Tenera è la notte di Fitzgerald. 

Vi divertirete anche, è sicuro.  Ma quando chiuderete uno di questi libri, sarete anche un uomo (o una donna) diversi. E scusate se questo è poco.  

Fabrizio Falconi


04/08/13

Notte ai Fori e il progetto del sindaco Marino. Un commento.





Avevo molte perplessità sulla chiusura dei Fori, annunciata come prioritaria nei provvedimenti del neo sindaco di Roma Ignazio Marino e della sua giunta, ma ho voluto sperimentare di persona, ieri la nuova sistemazione viaria. 

Confermo che si tratta di un provvedimento incomprensibile e del tutto velleitario. 

Tre semplici rilievi vengono subito in mente:

1. la zona è una FALSA pedonalizzazione. Bus (i più inquinanti) e taxi continuano a transitare (oltre, presumo alle auto NCC). Che senso ha ? Se si ha il coraggio, si fa una vera zona pedonale con le aiuole e il divieto per tutti.
2. Il transito per chi proviene da piazza venezia resta più o meno uguale, anche se diventa una gimcana di sensi unici e saliscendi e i tempi aumenteranno notevolmente. 
3. diventa un delirio invece per chi viene da Roma Sud raggiungere il centro, Piazza Venezia ecc. che diventerà raggiungibile solo se si possiede un motorino. Chi arriva in auto dovrà fare il giro del mondo del colle oppio (dentro orribili recinti in cemento armato innalzati a trenta metri dal Colosseo, lungo Via Labicana, tanto per rispettare il decoro di quei monumenti. 

In sostanza: è stupefacente che un tale obbrobrio sia la priorità quasi ossessiva di una giunta e di un sindaco insediatosi da 3 mesi in una città dove le emergenze, vere, reali e anche drammatiche, sono in ogni angolo.

Se davvero si voleva e si vogliono poi valorizzare gli splendori di Roma bisognerebbe avere il coraggio di varare un vero piano di pedonalizzazione, e non la solita soluzione all'italiana, puramente di immagine, che scontenta tutti e non risolve nulla.

Fabrizio Falconi

02/08/13

Mirabilia Urbis XII - Cripta dei morti di Sant'Ignazio.





Mirabilia Urbis

XII - Cripta dei morti di Sant'Ignazio

Discesa, dimenticanza di secoli
vita segreta, dentro le viscere
del tempio buio
tutti riposano in fila,
riposano i nomi
scritti col nerofumo
un ricordo una prece
un posto nell'Ordine
dei dimenticati.


Testi per la mostra Petrology (dipinti di Justin Bradshaw) - Chiostro del Bramante, 15 novembre/4 dicembre 2005.  Da Fabrizio Falconi, Il respiro di oggi, Terre Sommerse, Roma 2009.

01/08/13

Mirabilia Urbis XI - Sant'Agnese in Agone di Fabrizio Falconi.




Mirabilia Urbis

XI. Sant'Agnese in Agone

Ovunque il vento insegue
la terra in un canto sotterraneo
e terso, la morte attende
il percorso dei vivi è arte
finzione e architettura,
scende i gradini del tempo
umido e oscuro
è il ventre del passato,
su di esso altitudini
hanno lanciato inutili sfide
a rinnovare il cielo.

Testi per la mostra Petrology (dipinti di Justin Bradshaw) - Chiostro del Bramante, 15 novembre/4 dicembre 2005.  Da Fabrizio Falconi, Il respiro di oggi, Terre Sommerse, Roma 2009.