29/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 2: DOMANDE.


Dovrò ricordarmi di non smettere mai di farmi domande.

Dovrò ricordarmi che ogni crescita, ogni apprendimento, ogni saggezza,  nasce da una domanda.

Dovrò ricordarmi che i bambini crescono facendo domande, e possono crescere solo e soltanto se qualcuno risponde alle loro domande, e soprattutto le prende in considerazione.

Il silenzio dopo una domanda può ferire, ma la domanda va posta lo stesso.

E le domande, sono, spesso – se sincere – più importanti delle risposte.

Quando si smette di farsi domande, si perde umanità.  Quando si smette di farsi domande  l’uomo diventa dis-umano. 

Non è un caso, forse, che le domande sono del tutto assenti nei discorsi degli uomini di governo, e nei dogmatici di ogni credo o bandiera, capaci di fornire solo risposte.

Invece le domande servono per ‘allenare’ la coscienza a riconoscere sempre cosa è bene e cosa è male. 

Come scriveva Don Giussani, “La domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà… E se è vera (cioè sincera) aggiunge bellezza anche alla bellezza più grande.” 

28/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 1- UMILTA’.


Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

19/06/11

Imparare a stare soli per prepararsi ad amare veramente.




L'uomo moderno crede di perdere qualcosa – il tempo – quando non fa le cose in fretta; eppure non sa che cosa fare del tempo che guadagna, tranne che ammazzarlo.

Così scriveva Erich Fromm in quel fortunatissimo libro - quasi una sorta di Bibbia per una intera generazione - che è L'arte di amare (pag.119).

Osservando i tempi confusi, la confusione di pensiero (che genera confusioni di emozioni e di sentimenti)  si resta colpiti dalla pre-veggenza di Fromm, del quale molte sentenze sembrano oggi chiarissimamente evidenti.

In quell'altro suo 'testo capitale' che è L'arte di vivere, Fromm partiva dall'analisi delle regole compulsive che regolano la società dei capitali, la società dei profitti.


È un dato di fatto che la maggior parte degli uomini siano oggi impiegati o simili di livello più o meno alto, che fanno ciò che qualcuno dice loro di fare o che è imposto dalle regole, evitando di provare sentimenti, perché i sentimenti disturberebbero il funzionamento armonico della macchina.

Il tratto distintivo di ogni società industriale è il suo corretto funzionamento, giacché ogni intoppo, ogni frizione nel meccanismo della macchina è uno spreco di denaro. Così gli uomini devono esercitarsi a provare quante meno emozioni sia possibile, perché le emozioni costano denaro.


Questa dis-abitudine alle emozioni alla quale abbiamo ridotto le nostre vite, è per Fromm la causa anche della nostra incapacità di amare, e di costruire relazioni stabili nel tempo, in un lungo tempo d'amore.

Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d'amare. Ma essere soli vuol dire imparare a conoscersi. Cioè fare i conti con le proprie disarmonie, con le ombre, con i lati peggiori, con le aperture e le risorse inaspettate, che costano fatica.  

E' però l'unica strada, avverte Fromm.

Perché se si gioca tutto sul piano del possesso, del tutto e subito, del 'meno emozioni possibili', la strada non potrà che essere lastricata di delusioni. Perché tutte le forme di unione sessuale hanno tre caratteristiche: sono intense, e perfino violente; coinvolgono tutto l'essere, mente e corpo; sono periodiche e transitorie.

Perché L'amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo. 

Ma chi, oggi, ha la forza e la pazienza, e l'educazione mentale di ascoltare se stesso, i propri desideri, ma soprattutto la capacità di essere e di dare ?  Senza questo, non si va lontani. La girandola delle passioni ci lascia l'amore in bocca, stancamente ci lascia naufragare nel lago di un tempo insensato.

Eppure ogni bellezza è lì, nella conoscenza di sé, nel canto liberato della nostra psiche. Che solo si completa -   quello che una volta si chiamava il gioco delle anime - nel prudente avvicinamento, nell'addomesticamento, nella conoscenza reale reciproca.

La psiche non ha mai detto che il sesso è la radice di tutto - scrive James Hillman ne il Linguaggio della Vita - è stato Freud a sostenerlo. La psiche dice di essere 'lei' la radice; 'lei' le sue immagini' .

Fabrizio Falconi

16/06/11

'Considerate ciò che c'è sulla terra !'


Nei giorni scorsi il Vicariato di Roma ha diffuso due dati che, mi sembra, siano passati un po’ sotto silenzio e che invece forse vale la pena di meditare. Sono due dati piuttosto eloquenti che riguardano la città simbolo del cattolicesimo:
1. i matrimoni celebrati con rito religioso a Roma si sono, nel giro del ventennio 1990-2010 quasidimezzati (da circa 8,500 a 5000), mentre quelli civili sono rimasti invariati.
2. 1 bambino su 2 che nasce oggi a Roma, non viene battezzato (14.000 battezzati su 25.200 nel 2010).   Questi dati vanno ad aggiungersi ad un terzo, secondo il quale poco meno del 10% della popolazione partecipa più o meno saltuariamente alla messa domenicale.
I dati potrebbero essere tranquillamente allargati al resto del paese e manifestano quel che già appare evidente e cioè una scristianizzazione in atto – già piuttosto avanzata – della società italiana.
I numeri sono importanti ma di per sé non spiegano tutto. Qualcuno, analizzandoli, anzi vi troverà perfino aspetti positivi: meglio pochi cristiani ma convinti, si dirà, pochi cristiani che credono veramente e che ricominciano daccapo, piuttosto che un cristianesimo ‘di massa’, ma costruito su formalismi, non sentito, e tutto sommato dannoso perché ipocrita.
E però, comunque la si rigiri, i dati sono inequivocabili: Cristo è scomparso – anche come problema, come questione, come interrogativo – per una grande parte di persone, che stanno diventando rapidamente maggioranza.
Ecco: ma perché questo è successo ?  Certamente non è questo un luogo dove si possa tentare un’analisi seria di un fenomeno che ha radici antropologiche, culturali, sociali, complessissime.
Per quanto mi riguarda poi, non vorrei dare risposte – che non ho, ma suscitare domande.
La mia domanda è questa: ma non sarà che il mondo – il nostro mondo – sta diventando meno cristiano perché, molto semplicemente, Cristo è scomparso dalle nostre vite ?
Non sarà che sta finalmente trionfando quel sistema secondo cui la fede è sostanzialmente un fatto privato (il contrario, mi sembra di quanto è stato fondamentalmente e storicamente il cristianesimo) ?
Non sarà che la scristianizzazione dipende semplicemente che il nome di Cristo – e le parole che lui ha professato – sono scomparse dai comportamenti collettivi, pubblici, sociali ?
“Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni” – constatava amaramente Lev Tolstoj nelle sue‘Confessioni’ – “è assolutamente impossibile  capire se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi.”
Se una persona si professa ‘di fede’, e cioè cristiana, diceva in sostanza Tolstoj, ma non è intelligente, non è onesta, non è buona, non è retta, non ha sentimento etico (tutte manifestazioni che si sostanziano in comportamenti pubblici), costui, che cristiano è ?
Se il nostro cristianesimo serve a farci stare bene, a farci sentire migliori, più buoni,  ma non produce nullaper il mondo, per il resto della collettività – se addirittura lo stesso nome di Cristo è tabù (io stesso lo sento pronunciare pochissimo anche dagli stessi religiosi, fuori dai riti e dalle messe), cancellato dal consesso della vita comune – a cosa serve ?
Sono le stesse domande che si poneva Dietrich Bonhoeffer in anni cruciali, nei quali il nome di Cristo oltre ad essere tabù rischiava di generare di per sé, una condanna a morte.
Bonhoeffer la sua scelta la fece, e già nel 1932, intravvedendo che la semplice scelta di un cristianesimo timido e individuale avrebbe portato conseguenze tragiche per l’intera società in cui viveva.  Togliere Cristo di mezzo, infatti, relegarlo nei nostri spazi privati, gli sembrava una limitazione colpevole, una rinuncia che tradiva lo spirito stesso dei Vangeli, la parola più rivoluzionaria mai udita su questa terra, per l’uomo e per il mondo.
“Considerate ciò che c’è sulla terra !” scrisse “Da ciò dipendono molte cose: se noi cristiani abbiamo forza sufficiente per testimoniare al mondo che non siamo visionari o sognatori.  Che non lasciamo che le cose rimangano come sono, che la nostra fede non è veramente quell’oppio che ci rende felici in un mondo ingiusto.  Ma che noi, proprio perché tendiamo a ciò che è lassù, protestiamo tanto più ostinati e risoluti su questa terra.”
Fabrizio Falconi

10/06/11

Ervin Laszlo: "Stiamo provocando il divorzio uomo-natura. Siamo a un bivio: o una svolta sostenibile o sarà autodistruzione."



Credo sia molto istruttivo ascoltare la voce di Ervin Laszlo, grande filosofo ungherese, fondatore della teoria dei sistemi.

Ormai, secondo il filosofo, siamo completamente interdipendenti a livello planetario - potremmo dire che si è realizzata la profezia di Lao-Tse secondo cui un battito d'ali qui può provocare un terremoto dall'altro lato del pianeta - ed è quindi necessaria la formazione di una coscienza planetaria che attui la svolta verso un'economia sostenibile. L'uomo va infatti verso l'autodistruzione, continuando ad introdurre elementi non naturali nel mondo, come il nucleare.

Stiamo provocando, insomma, una sorta di divorzio uomo-natura nonostante non vi siano mai state nella storia tante possibilità a livello economico, manageriale e tecnologico per cambiare veramente il modello di sviluppo. Per Laszlo, allora, la rivoluzione deve partire dalla società, dai cittadini, che anche singolarmente grazie al web, possono aiutare a creare questa nuova coscienza planetaria.


Qui l'originale dell'intervista a Laszlo realizzata dal sito Affari Italiani nel corso del convegno dell'8 giugno a Milano intitolato: "Nutrire il pianeta di immaterialità".

06/06/11

Baumann ieri a Trento: "Stiamo disimparando a riconoscere il dolore, il dolore morale."


Il sociologo di origini polacche Zygmunt Bauman, teorico della "società liquida", ha concluso ieri il festival dell'Economia di Trento 2011 con parole di fuoco. "Abbiamo sulle nostre spalle un fardello incredibile, che include i nostri obblighi morali, i nostri naturali impulsi ad occuparci degli altri, e cerchiamo di sgravarcene con i tranquillanti morali offerti dai negozi, dai supermercati".

"Entro il 2020 i prezzi degli alimenti raddoppieranno - ha spiegato il sociologo polacco - e gia' oggi vi è un aumento della disuguaglianza a livello globale, per certi versi incredibile. Il paese più ricco, il Qatar, ha uno standard 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. Il 20% più ricco dell'umanità controlla il 75% della ricchezza, il 20% più povero il 2%. Fino a 30-40 anni fa il trend era diverso, il divario fra i paesi sembrava destinato a colmarsi".    

Secondo il sociologo polacco ci sono "due fattori fondamentali, più culturali e sociali che economici, dietro questo: il voler godere di una vita ricca, abbiente che ci porta a vivere al di sopra dei nostri mezzi sulle spalle dei nostri figli; e la questione della risoluzione dei conflitti sociali, anche quelli legati alla diseguale distribuzione dei beni, aumentando la produzione, il pil. Quando il pil cala non viene messa a rischio la sopravvivenza alimentare - ha chiarito - ma nonostante ciò si sviluppa il panico, perchè la gestione dei conflitti è tutta basata sull'aumento della produzione e del consumo.    

Per Bauman oggi vi è "un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità . Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari mentre il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia  sfumato.

Siamo sempre al lavoro, abbiamo l'ufficio sempre in tasca. Al tempo stesso disimpariamo altre abilità 'primarie'. Ad esempio  a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perch è esso è  un sintomo che ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani.

Improvvisamente abbiamo persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici che abbiamo in internet. L'obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti.

Così, il limite è stato superato mercificando la moralità . Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione".

A corredo di queste parole su cui sarà, credo, utile per tutti meditare vorrei aggiungere che forse il primo passo di quel cammino autenticamente umano di cui parla Baumann potrebbe essere quello di ripartire da queste parole di Etty Hillesum, che nel silenzio e nell'ascolto di se stessa, fuori dai condizionamenti bui e terrificanti di quegli anni, trovava ogni volta quella forza di ripartire e di non perdersi. Così scriveva Etty:

'L'unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa.'

03/06/11

Tree of Life - Una bellezza che sussurra.



Ho visto il nuovo film di Terence Malick preparato dai pareri degli amici o conoscenti che l’avevano già visto, e che erano sostanzialmente spaccati in due fazioni: - capolavoro per gli uni; - polpettone intollerabile a base di melassa per gli altri.

Mi sono dimenticato di questi pareri quando il film è cominciato. E, come sempre mi accade di fronte ad un’opera, ho cercato di spegnere i pre-giudizi e lasciare aperti cuore e mente, per vedere cosa mi arrivava.

Tree of life è secondo me un film coraggioso e interessante, pieno di ‘anima’ se così si può dire, anche se non immune da pecche. Le pecche, in un film come questo, sono importanti quasi quanto le cose riuscite.

Tree of life è coraggioso e ambizioso perché iscrive una vicenda privata ordinaria – una famiglia media americana, padre madre e tre figli maschi – nel tutto della creazione.

Non c’è privato, dice Malick, perché è solo la nostra prospettiva molto limitata che ci porta a pensare di essere distinti dal resto del mondo, dalla storia intera del mondo.

E’ qualcosa che mi tocca molto da vicino. Quando sono diventato padre ho capito che io sono semplicemente un punto della linea. Ma il punto della linea – come è evidente anche dai fondamenti euclidei – E’ la linea stessa.

E’ la linea stessa, il punto, anche se ne è infinitesima porzione. E’ importante il punto. Perché ogni punto fa sì che la linea non sia spezzata. E sia, per l’appunto, una linea.

Il discorso religioso, secondo me, in questo film di Malick, non è centrale. Non lo è, nel senso che Tree of Life è un film di domande, e non di risposte.

Sono le domande che vengono recitate come un mantra in sottofondo durante il film – e che si rivolgono ad un Tu che non risponde – a fornire forse la cornice di una risposta possibile. Lo scopriremo alla fine.

Le domande della vita sono quelle di ognuno di noi. Sono quelle che riguardano i protagonisti di questa vicenda, dei quali scopriamo la storia, nonostante non vi siano che tre o quattro dialoghi in tutto il film. Eppure, è chiarissimo: la madre, figura bellissima, si immola, crede e contiene, è depositaria di ogni segreto e di ogni lutto. Il padre è il solito padre. Vuol bene, ma a un certo punto della vicenda, rovina tutto. Non è capace di controllare le sue ferite. Deve farsi schermo dell’autorità per imporsi. Deve farsi odiare, per essere. E i figli e la stessa moglie lo odieranno, come è giusto che sia.

Poi c’è l’imponderabile: uno dei figli muore a 19 anni. Lo sappiamo all’inizio del film, ma non sappiamo nemmeno perché. Sappiamo solo che succede e questo è l’importante.

Il vuoto inaccettabile di un dolore che non si può gestire, a cui non si può trovare posto, è il fardello che il fratello superstite – che da grande ha il volto di Sean Penn – si porterà dietro per sempre.

Come inscrivere ciò che è dato – e ingiusto, inaccettabile, come la morte di un figlio – in un contesto che abbia un senso, che non porti semplicemente alla conclusione più ovvia: ‘tutto è follia ?’

In questo senso il film di Malick non mi sembra né condito di melassa – non c’è, mi pare, nessuna consolazione preconfezionata – né volontaristico.

La domanda resta: a Malick non interessa dare risposte, interessa dire: ciò che ti turba NON è il tuo fardello, non è il tuo inciampo. Ciò che ti turba è la natura stessa del grande gioco in cui sei calato, in cui il tuo essere è heideggerianemente gettato.

Se non si capisce questo, dice Malick, se non si comprende l’esistenza di una storia e di un tutto, NULLA ha senso.

Il senso deriva dalla domanda che si ripete e nella stessa eco che produce, una eco che accompagna non solo l’uomo, ma il sorgere dei soli, la nascita del tempo, ogni cosa visibile e invisibile.

E’ solo grazie a questa eco – se le si permette di diffondersi – che la nostra crescita o maturità può trovare altre vie rispetto alla deriva nullista che sembrerebbe allora inevitabile. Il percorso di una Sapienza che questa eco contiene serve ad orizzontarsi. L’uomo non è mai stato del tutto solo con i suoi fantasmi. L’uomo è una storia. E nella storia ci sono gli uomini da cui ha imparato e quelli a cui imparerà. La vita è una meravigliosa e terribile prova che nessuno può vivere al posto nostro. La forza di una vibrazione finale ci impone di com-patire insieme agli altri. In questo – nei minuti finali del film è evidente, non è sogno, è cuore è realtà – nasce una nuova bellezza. Una bellezza che tutto contiene – anche il dolore, la perdita e la malinconia – una bellezza che sussurra: ‘nulla è perduto per sempre.’

Fabrizio Falconi

01/06/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 5


Comunque sia il gioco delle interpretazioni si può continuare all’infinito.
Quel che ci interessa accennare è la svolta avvenuta nel 1936 a Pompei, quando, durante gli scavi, un esemplare del Quadrato fu rinvenuto su una delle colonne della Palestra Grande. La scoperta, vero e proprio evento per gli archeologi, ha retrodatato l’invenzione del Quadrato Magico almeno al 79 dopo Cristo, e ha rinforzato una serie di teorie riguardante la controversa presenza dei cristiani a Pompei, nell’anno dell’eruzione.

Questo perché al Quadrato si è attribuito da più parti una sicura rilevanza di simbolo cristiano, legato al culto dei morti e alla Risurrezione.
Incredibile a credersi infatti, il Quadrato misterioso contiene al suo interno, come una fantastica scatola cinese, un ulteriore piccolo prodigio.
Tutte le parole del Quadrato, messe insieme – anagrammate - formano due Paternoster incrociati con due lettere alle estremità della croce, due A e due O, che rappresenterebbero due Alfa e Omega.

31/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 4


Lo dice, in modo ancora più esplicito, in modo ancora più secco, deciso, un altro grande poeta di questo secolo, Edmund Jabès ( Il Cairo 1912- Parigi 1991 ), nel suo ‘Libro dell’Ospitalità’.
Il rifiuto della morte è forse l’affermazione del nome, il suo avvento. Eppure: nominare non vuol dire concedere alla morte un nome ?

- … un nome a quel che è ? A quel che, ormai, è stato.

“ Maestro mio – diceva un saggio – han creduto, dal momento che no erano d’accordo con te, di sotterrare un vivo. Non sapevano che sotterravano un seme. “

…Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.



Colui che conosce il mio nome lo rivela a me.

30/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 3


In qualche caso l’Epitaffio è qualcosa di ancora ulteriore. Le parole usate come iscrizione funebre sono quelle pronunciate dallo stesso morente. Questo è avvenuto, avviene ancora oggi quando quelle parole rimandano ad un segno particolare, significativo.

Sembra ad esempio che le ultime parole pronunciate da Karl Barth il 10 dicembre del 1968 poco prima di morire, e incise quindi sulla sua lapide siano state queste:

Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi. Essi vivono tutti per Lui. Dagli apostoli fino ai padri dell’altro ieri, e di ieri.

Straordinario. Barth cita l’evangelo di Luca ( 20,38 ): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui.

E sceglie proprio un passo cruciale: un passo dove il Cristo sembra quasi ‘penalizzare’ i morti, in favore dei vivi. Ma poi, appena si prova a rileggere la frase, a farne fermentare il senso, si capisce invece che questa frase spiega invece proprio quel senso di ‘soglia’ di cui parla anche la De Monticelli: i morti, secondo il Cristo, sono vivi, attraverso la morte sono vivi, e vivono per Dio.

I vivi diventeranno morti e devono vivere per Dio, seguendo proprio l’esempio dei morti, di coloro che hanno oltrepassato la soglia.

In questo senso l’epitaffio di Karl Barth, le ultime parole pronunciate prima di morire, rappresentano una sorta di testamento esemplare, per uno dei più grandi e tormentati teologi dell’era moderna.

29/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 2


In epoca romana le iscrizioni erano privilegio delle classi patrizie, certo. I poveri, gli schiavi, morivano ‘senza nome’ e ‘senza parole ‘. Anche in questo vi era una pretesa di determinazione di classe tra chi lo spirito lo aveva, e poteva trasmetterlo, potendo continuare a vivere nella comunità dei vivi, attraverso le parole, e chi aveva negata questa possibilità, essendo ritenuto di classe – e di spirito – inferiore.

Queste iscrizioni, quelle numerosissime un tempo che si leggevano per esempio lungo la via Appia, continuano a riportarci ancora oggi, quando noi passanti di duemila anni dopo ci imbattiamo, il dolore, il rimpianto, lo stile di vita, lo scherzo persino nella morte, qualcosa di ineffabile, e allo stesso tempo di molto concreto, che riguarda quel luogo della morte.

Gli esempi sono tanti, e bellissimi.

Ne citiamo qualcuno:

• L’iscrizione a un tale Sesto Perpenna Fermo:

ho vissuto come ho voluto: per quale ragione sia morto, lo ignoro.
( vixi quaedammodum voluit; quare mortuus sum, nescio )

28/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 1



LE PAROLE DELLA SOGLIA

Vorrei parlare delle parole che girano intorno alla morte.
Intendo dire delle parole che vengono pronunciate in circostanze di morte, e che vengono scritte, ripetute, trasmesse in circostanze di morte.

Una volta veniva attribuita grande importanza alle parole pronunciate in punto di morte, nel deliquio della morte – e queste erano spesso interpretate come buono o cattivo segno per l’anima del morituro nel suo passaggio all’altra vita – ma anche alle parole che i sopravvissuti pronunciavano per la morte di una persona.
La parola Epitaffio già dall’etimologia ci spiega il suo senso: ‘sopra’ e ‘tomba’: parole pronunciate sopra una tomba.
L’epitaffio è l’equivalente greco di quella che i romani chiamavano oratio funebris , e solo in epoche relativamente recenti è stato riferito alla scritta, cioè alla iscrizione posta sopra le lapidi.

Originariamente l’epitaffio era il discorso che veniva pronunciato ‘a caldo’ , in rigor mortis , sul corpo appena toccato dalla morte.

Era quindi, per forza di cose, un discorso grave, ispirato, pronunciato da chi conosceva bene il morto, da chi poteva tesserne le lodi e onorarne il ricordo. Tutto ciò non solo per una scarna esigenza celebrativa. Il discorso in memoriam aveva un compito importante, quello di scandire le immagini della persona che non c’è più, di imprimerle nella memoria di chi resta, di chi gli sopravvive.

In mancanza di una immagine reale da poter trasmettere, l’orazione funebre era la ‘fotografia’ di colui che scompariva per sempre, il suo ricordo per le generazioni future, tramandato oralmente. E le parole divenivano dunque ricordo, si facevano carne ancora viva.

L’epitaffio è anche divenuto con il tempo una ‘formula’. Una formula che in qualche modo si pretendeva – e si pretende – possa racchiudere l’anima, lo spirito della persona che non c’è più.

Questa ‘formula’ è divenuta la stessa iscrizione posta sulla tomba, sulla lapide e molto spesso l’epitaffio era proprio una sintesi dell’orazione funebre pronunciata dopo la morte.

L’iscrizione funebre è divenuta subito però qualcosa di fondamentale, non di ‘ornamentale’ rispetto al luogo della morte: simbolo, segnale della presenza di uno spirito ‘ che parla ‘ e che continua a parlare a chi cammina, e a chi, camminando dimostra di essere vivo, e nel suo camminare ‘passa’ di fronte al luogo della morte.

In epoca romana le iscrizioni funebri hanno raggiunto vertici inarrivabili di creatività e questa tradizione, sebbene ridimensionata è giunta fino ai giorni nostri, una caratteristica che differenzia i nostri cimiteri di oggi rispetto a quelli ad esempio anglosassoni che si limitano generalmente a riportare solo il nome e le date di nascita e di morte.

Fabrizio Falconi  © riproduzione riservata

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27/05/11

Requiem del corpo bambino.




Si perderà quel corpo bambino
vagherà senza pace nei pascoli delle colline eterne

desidererà
essere ascoltato, in piedi col suo volto bianco

laverà ogni lacrima
resisterà

per non essere un’altra volta dimenticato.
Ottenebrati e miserevole

i gesti e le parole
di chi non sa vegliare e cova

la disperazione come un frutto germinoso
che produce invece vermi

la vita non è un indizio
non è accidente e non è svista

è misura, distanza
vera attesa quieto rimpianto

il corpo bambino è ora un passaggio,
è me che invecchio, è il tempo incerto
del suo ritorno.


 
 
 
Fabrizio Falconi -  maggio 2011 (proprietà riservata).

23/05/11

Due o tre cose su Elena, la bambina di 22 mesi dimenticata dal Padre.


Vorrei cercare di chiarire meglio alcuni pensieril sul tragico caso di Elena, la bimba di 22 mesi abbandonata in auto dal padre, che ieri è morta all’ospedale di Ancona, dopo giorni di agonia.

Di questo caso sento discutere tutta l’Italia, e anche io non ho fatto altro che parlarne, con i miei amici, le persone che ho incontrato, e in quel non-luogo che si chiama face book.

Ciò che mi ha sorpreso è innanzitutto è la grossolanità del pensiero, delle molte parole che ho sentito. “Non permettete a voi stessi di pensare in maniera grossolana”, ammoniva Pavel Florenskij.

La grossolanità è frutto a mio avviso di una vicenda così inaccettabile che suscita in noi repulsione e volontà di essere possibilmente giustificata e liquidata in fretta.

La prima caratteristica di questa grossolanità è il riduzionismo psicologico, o meglio lo psicologismo che ho sentito in tutti i commenti, anche (soprattutto?) da parte di chi era rimasto molto colpito dalle circostanze della morte di Elena.

Siamo talmente intrisi di psicologismo e di freudianesimi – da ‘Io ti salverò’ in poi – che la reazione più comune che ho sentito in giro è stata quella di spiegare la dimenticanza del padre – un professionista, un professore universitario, un padre presente e premuroso anche se indaffarato – con una sentenza di tipo psicologico: ‘un vuoto di memoria’, un ‘black out della mente’, una ‘rimozione dell’inconscio’, ‘un rifiuto non avvertito’: insomma, una formuletta qualsiasi – della quale noi nulla di nulla sappiamo, non essendo alcuno di noi esperto in psicologia - in cui rinchiudere un evento altrimenti non comprensibile, non giustificabile.

Queste definizioni però hanno ai miei occhi, una componente fortemente liquidatoria: una volta assegnato al gesto una categoria (‘non era già successo, in fondo ??’) siamo con l’anima in pace.

Il secondo aspetto che mi ha colpito molto è stato – nei commenti delle persone – l’immediata compassione per il padre, autore del gesto. La compassione per il padre ha sopravanzato in TUTTI i commenti che ho sentito, la compassione per la bimba di 22 mesi e per la sua agonia di 5 ore in una macchina surriscaldata, legata al suo seggiolino.

Anche questo è – a mio avviso – molto indicativo: nella fretta di compatire il padre c’è sostanzialmente la premura di compatire se stessi. Nessuno di noi, evidentemente, si sente al sicuro, si sente di poter escludere a priori di poter essere un giorno al posto di quel padre. E dunque, l’assoluzione per il padre, equivale anche all’auto-assoluzione preventiva, in nome delle più varie ed indistinte (anche qui il pensiero è del tutto grossolano) motivazioni/giustificazioni/alibi: la vita di merda che facciamo, la fretta, la nevrosi, ecc.. ecc..

Insomma, il refrain è sempre lo stesso, ormai, che usiamo per le nostre vite ad ogni piè sospinto: la colpa non è mai mia. La colpa è sempre di qualcos’altro: della vita, della fretta, della nevrosi, delle circostanze, del destino cinico e baro.

Ciò che invece secondo me la vicenda della piccola Elena ci chiede, è quello di interrogarci profondamente sulla nostra natura (dis)umana.

Che cosa sono diventate le nostre vite se l’antropologia supera l’etologia: se la fretta, la nevrosi, la distrazione (tutte caratteristiche dell’uomo, non animali) supera, viene prima e annienta l’istinto primario che è quello della conservazione, della cura, e della difesa ad ogni costo dei piccoli (che è tipica di ogni specie di mammiferi animali e noi fino a parola contrario questo siamo: animali, del genere dei mammiferi) ?

Che cosa resta dei valori umani (quelli scanditi dalle grandi tradizioni filosofiche occidentali e orientali, prima ancora che da quelle religiose) se la vita di un figlio nel suo ‘atto mancato’ equivale a quella di una busta della spazzatura che abbiamo dimenticato di gettare dal finestrino andando a lavoro e ci è rimasta in macchina ?

A che serve tutto questo psicologismo, questo ridurre tutto a psico-analisi, questa sterile mitizzazione della mente umana, se alla fine non siamo capaci di riconoscere nemmeno la nostra dis(umanità) – che ha che fare più con le nostre anime che con la mente – e se nemmeno quelli che sono vicini a noi sono capaci di riconoscerla in noi ?

La psicologia non è solo un nuovo espediente che abbiamo oggi (in sostituzione dei vecchi riti del passato) per tacitare le nostre sempre meno rumorose coscienze ??

Fabrizio Falconi

20/05/11

Cimiteri deserti luoghi, strade piene di fiori. Un segno dei tempi.


Girando, noto da tempo questo strano fenomeno: i nostri cimiteri ormai sono luoghi abbandonati. Eppure le strade pullulano di altari laici, memorie, scritte, fiori sempre freschi per ricordare qualcuno che si è spento.

Credo sia una cosa su cui poco si è riflettuto, che indica un cambiamento profondo della nostra mentalità. I cimiteri sono i luoghi dove i corpi dei morti riposano. Per noi, sembrano essere diventati luoghi poco interessanti. Una volta - fino a pochi decenni fa - i cimiteri erano sempre luoghi molto frequentati, molto curati dai congiunti, dai sopravvissuti di chi se n'era andato.

Non lo si faceva soltanto per compassione o per carità cristiana: lo si faceva perché si credeva che il luogo della sepoltura fosse molto importante. Lo si è creduto per millenni, dato che la stessa nascita della civiltà è correlata al culto dei morti e alla loro sepoltura - sepoltura sulla quale si edificavano case, templi, memorie, archi, università.

Oggi questi luoghi sono deserti: io che li frequento con una certa regolarità constato che sono del tutto abbandonati. Durante la settimana gli avventori sono pochissimi, pochissime le tombe che hanno fiori freschi, quasi nessuna. Molte ragnatele, molti tristissimi fiori finti, sbiaditi dal sole e dalla pioggia.

In compenso 'fioriscono' le nostre strade. E questo è molto interessante: il luogo dove una persona è morta, è diventato MOLTO più importante per noi, del luogo dove è sepolta.

E questo implica un rovesciamento completo della nostra forma mentis: siccome ci è molto difficile pensare, credere alla sopravvivenza dei morti in qualche forma che coinvolga il loro corpo morto, preferiamo negare questo luogo, cancellarlo dal nostro orizzonte immaginario e concentrarci sul luogo dove la VITA ha tessuto il suo ultimo istante.

E' insomma una delle forme con cui abbiamo fatto fuori la morte dal nostro orizzonte psicologico, scegliendo di celebrare la vita, seppure nel suo misterioso e drammatico istante ultimo.

E' una mutazione antropologica e culturale notevole. Di cui forse non siamo nemmeno coscienti.


Fabrizio Falconi.

19/05/11

Trio di fine millennio III.



III.

Come stenti a Rio de Janeiro,

come magici rilenti

abbandonati spenti venti sempiterni,

accaldati venti dell’entroterra arroventato


tra le macerie polverose dell’Impero

crollate sfere disfatte, spezzate,

come il cavallo sfinito bloccato

dalla canicola secca della Camargue,


come tutta questa pesantezza,

scrematura acida dell’universo

inutile biancastra

disegno d’arguzia affatto divina.


Guado atteso, intermezzo

di storia e d’avventura

russare di sogni così forte

da svegliarsi e morirne,


passa e ripassa il nostro sbaglio

sulle federe, sui cuscini

sul rumore distante dei disastri

disattesi dolorosi di strada,


sormontato dalla nausea grigia

di gabbiani, faticosamente sospinti

da venti affievoliti, distratti

stupidi venti calanti.


Agogniamo approdi

e non sappiamo nulla

di tenerezze e maree,

del pallore di bimbo,


della figuretta spersa

tra le mani della folla,

in veloce passaggio, esangue,

sul punto di morire.


da L'ombra del ritorno - Campanotto ed., Udine, 1996

18/05/11

Trio di fine millennio - II




II.

E qualcosa di sbagliato deve esserci

nell’invenzione che non risolve,

nel dubbio che non scorda

e commemora i tempi dello sbaglio,


una parola messa a caso,

indossata sulla pelle e consumata,

reato commesso solo a tratti

e poi perso per strada, senza strappi.


Qualcosa di sbagliato che addolora,

l’indifferenza tua magnifica

come se non mansueti agnelli, ma tigri

i nostri avi avessero domato.


Nello sbaglio di chi ha dirottato

un bene, progetto o utopia

c’era il mio e il tuo,

serrate fila, martiri di vita,


in quello sbaglio abbiamo creduto,

confessato piagato rapinato

il nostro fratello ammalato,

consunto e imputridito


dallo stesso porto disceso,

con lo stesso nostro odore

le vesti di seta ed il cappello

e la nostra stessa superbia.


Di tutto quanto abbiamo speso male

non è rimasto niente,

la scocca silenziosa e immobile

della pendola in soffitta.


Cosa è mai la colpa,

se accanto a noi, distesa

nella nostra stessa umida tomba

la seppelliremo, tremanti ?


da L'ombra del ritorno - Campanotto ed., Udine, 1996

17/05/11

Trio di fine millennio - I

Trio di fine millennio

I.

Molto prima che i Romani

accendessero fuochi e sparsi

marmi in questa terra di sale,

molto prima che divenisse azzurra


e molto avanti al desiderio

sbagliato e creato e ancora sbagliato

in me, e ancor prima che tu nascessi

e qualcuno pensasse il filo più tenue


dei pensieri pensabili. Molto prima

che tu fossi mio padre, io tuo figlio

e molto tempo prima che il mio sguardo

cieco affiorasse dal gorgo.


Dunque molto prima di tutto

il viandante che aveva ferite

le lasciò disegnate sulla terra

e dalle sue ferite comunque fu generata


la più assurda delle sconfitte,

la più invisibile delle presenze,

la più inutile delle cose tentate

e nemmeno iniziate.


Molto prima di tutto

c’era qui un vecchio albero

dalle vecchie foglie fredde

mai cadute.


E intorno all’albero

frettolosi vortici di pioggia,

ombre e una radura,

l’echeggiante risposta


a una domanda mai posta.

Rispondere dell’albero

Del suo fantasma ritornato,

della radura, che forse l’ha ucciso.


da L'ombra del ritorno - Campanotto ed., Udine, 1996