16/05/11

Lessico dei poeti 6 - 'Pioggia'.

Il mistero di un grande poeta non può mai essere del tutto svelato. Questa banale considerazione vale per casi esemplari come Leopardi, che in un ‘recinto chiuso’ di vita, hanno saputo scavalcare l’infinito. In America qualcosa di simile è accaduto con Walt Whitman. Che per esempio, pur non avendo mai viaggiato oltre i confini del suo stato, è secondo alcuni, il più europeo dei poeti americani. E lo è, forse, anche in certe piccole sottigliezze. Partendo dalla semplice parola ‘pioggia’ , Whitman imbastisce un segreto dialogo che porta oltre confini impensabili:

E tu chi sei? Chiesi alla pioggia che scendeva dolce,

e che strano a dirsi, mi rispose, come traduco di seguito:

sono il Poema della Terra, disse la voce della pioggia,
eterna mi sollevo impalpabile su dalla terraferma e dal mare insondabile, su verso il cielo, da dove, in forma labile, totalmente cambiata, eppur la stessa,
discendo a bagnare i terreni aridi, scheletriti, le distese di polvere del mondo, e ciò che in essi senza di me sarebbe solo seme, latente, non nato; e sempre, di giorno e di notte, restituisco vita alla mia stessa origine, la faccio pura, la abbellisco; perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il compimento, l’errare, sia che di esso importi o no, debitamente ritorna con amore.

Whitman interroga la pioggia, come se fosse un essere vivente. E la pioggia gli risponde. Manifestandosi come artefice di cambiamento, come restituzione di senso, potremmo dire: come ‘anima mundi’.

Qualcosa di diametralmente opposto, eppure di egualmente ‘catartico’ avviene nella poesia di Carlo Michelstaedter, l’infelice e geniale poeta goriziano, nato nel 1887 (cinque anni prima della morte di Whitman). In lui, pessimismo e desiderio di raggiungere quel mondo incondizionato che sta al di là dei limiti della vita umana si coniugano in una sorta di tragico eroismo, che ben sintetizza il titolo di una sua poesia: VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE. Qui troviamo un canto alla pioggia, ben diverso da quello di Withman:

Cade la pioggia triste e senza posa

a stilla a stilla

e si dissolve. Trema

la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa

sembra che debba

nell'ombra densa dileguare e quasi

nebbia bianchiccia perdersi e morire

mentre filtri voluttüosamente

oltre i diafani fili di pioggia

come lame d'acciaio vibranti.

Qui la pioggia è dunque non qualcosa che rinnova e ri-crea. Ma qualcosa che dilegua, fa perdere e morire, come in una specie di ‘voluttuoso oblio’.

Più vicino invece al senso whitmaniano della pioggia, miracolosa rinnovatrice, che consente un cambio di prospettiva, e di vita, è la poesia Anni dopo che Vittorio Sereni scrisse nel 1941 e che fa parte de: Gli strumenti umani:

La splendida la delirante pioggia s'è quietata,

con le rade ci bacia ultime stille.

Ritornati all'aperto

amore m'è accanto e amicizia.

E quello, che fino a poco fa quasi implorava,

dall'abbuiato portico brusìo

romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:

volti non mutati saranno, risaputi,

di vecchia aria in essi oggi rappresa.

Anche i nostri, fra quelli, di una volta?

Dunque ti prego non voltarti amore

e tu resta e difendici amicizia.

La pioggia è cessata, e noi siamo sopravvissuti. Non soltanto: il rombo che è alle spalle ci consente di apprezzare, di guardare negli occhi quello che abbiamo, quel che di certo abbiamo costruito, e non è poco. Anche se le ombre non sono scomparse. I nostri volti, infatti, potrebbero far parte ancora di quella ‘schiera del passato.’

Lo stesso soprassalto, impaurito – da pericolo scampato, da senso disperatamente ritrovato – lo ritroviamo in una poesia di poco anteriore, della grande Antonia Pozzi (1912-1938), una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano. La pioggia è questa volta nera, ed è anche ‘uno scroscio pazzo’, è un retaggio della notte. Qualcosa che è venuta a stravolgere, a confondere, a straniare. Qualcosa alla quale forse non è estraneo comunque quel senso di Whitman: anche la follia, anche l’urlo del vento ai vetri fecondano, nella vita di un essere umano, nella vita di un poeta, il germe coraggioso della vita. E della poesia.

RISVEGLIO

Riemersa da chissà che ombre,

a pena recuperi il senso

del tuo peso

del tuo calore

e la notte non ha, per la tua fatica,

se non questo scroscio pazzo

di pioggia nera

e l’urlo del vento ai vetri.

Dov’era Dio?


Fabrizio Falconi

12/05/11

Lessico dei poeti 5 - 'Spirito'.


Spirito.

Spirito, indefinibile e Uno, è sempre incombente nel canto poetico, come voce altra, come via di fuga, come diagonale o verticale, rispetto al procedere orizzontale dei versi. Un’incursione rapida e imprevedibile che agita di visioni improvvise il tracciato dei versi. Rapidità, già: lo spirito è Rapido. Come scrive Elias Canetti: La rapidità dello spirito – tutto il resto che si dice dello spirito sono scappatoie che vorrebbero mascherare la sua assenza. Si vive per questi istanti di rapidità che zampillano come pozzi artesiani dalla desolazione dell’indolenza, e solo per amor loro si è indolenti e desolati ( La rapidità dello Spirito, Adelphi, 1994 ). Nei suoi aforismi, Canetti sembra proprio esser preda di questa rapidità, della folgore che giunge a spezzare e a dare senso e adeguatezza all’indolenza e alla desolazione, prigioni della vita.

E più avanti, nello stesso libro, Canetti, con la consueta terribile ironia, proclama: Mi irrita ogni verità che io non abbia trovato fulmineamente, in questo istante. E a chi, a cosa l’uomo può affidare una simile sfida impossibile ? Un presagio, una sembianza di verità, un conforto illuminante così, solamente la poesia può concederlo, se è capace di farsi canto autentico, sintonizzato con l’Essenza.

Allora il canto può farsi, è fatto, profezia. Dichiara il vero, scandisce come i grani di un rosario il nostro esserci qui, ora.

Sono diversi i poeti che di questa rapidità si sono fatti tramite, prestando ad Essa, parola.

Eugenio Montale, nella famosa poesia Nel sonno, tratta da La Bufera e altro, chiude con quattro enigmatici versi, di poderosa forza:

Entra la luna

d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube

che gonfia: e quando il sonno la trasporta

più in fondo, è ancora sangue oltre la morte.

Cos’è quella nube che gonfia ? Trasportata dal sonno, dal regno dell’incoscienza, quella nube è fatta della sua stessa immateria. Tanto è vero, che ha il potere di portare ancora sangue, l’elemento più materiale, più umano, oltre i confini della morte.

La nube è rapida, come lo Spirito. Trasforma le cose, le purifica, le rende diverse, le trasfigura in un istante.

Qualche volta l’attesa di questa trasformazione, impressa nell’essere umano, è un accorato richiamo, come in una poesia di Ada Negri, Tu mi cammini a fianco scritta in tempi molto oscuri, nel 1937:

Fino a quando l’ultima mia notte

(fosse stanotte ! ) non discenda, colma

solo di te dalle rugiade agli astri;

e me trasmuti in goccia di rugiada

per la tua sete, e in luce

d’astro per la tua gloria.

Rugiada e luce, sono i termini di questa prodigiosa trasformazione operata dallo Spirito invocato.

E di questa stessa rapidità, è un inno Dall’immagine tesa, una famosa poesia di Clemente Rebora, contenuta in Canti Anonimi:

ma deve venire,

verrà, se resisto

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e del mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e delle sue pene,

verrà forse già viene

il suo bisbiglio.

Dunque questa cosa che viene, e trasforma, e viene in un istante, può, anzi deve venire in un bisbiglio. Bisogna essere attenti, svegli, non perdere tempo, non perdere l’occasione. L’occasione di dire addio alla vecchia figura di sé, e risvegliarsi nuovi.

E’ un tema che ricorre in molta della poesia recente di Marco Guzzi. In Figure dell’Ira e dell’Indulgenza ( Jaca Book, 1997 ), egli dà voce e canto a quel Vento nell’urna che, offrendo meravigliosa sintesi al mistero dello Spirito, viene a far vivere di nuovo, a ri-cominciare, a cambiare e per sempre il quadro.

I.

C’è vento nell’urna cineraria

Dei miei giorni.

Resurrezione

E’ l’oggi, è questa quercia

Impressa nella ghianda

Data ai porci.”

II.

Vivo nel giorno

In cui mi dissi addio.

11/05/11

Lessico dei Poeti 4 - 'Mare'.


Mare.

Una volta partecipai ad un corso nel quale si chiedeva ai partecipanti di associare a diverse parole una sensazione. Tra queste parole, molto comuni, vi era la parola “mare”. Al momento di svelare le risposte scoprimmo che molti avevano associato la parola “vita” alla parola “mare”. Ma, anche se in misura meno consistente, alcuni avevano invece associato la parola “morte”, e uno aveva scelto invece il verbo “perdersi”. Questi sentimenti estremi suscita in noi il mare. Paura dell’abisso, beatitudine dell’acqua che rigenera, senso di perdizione. Tutto questo esprimono, con la sintesi tipica che solo i grandi poeti possono avere, i versi scritti da Jacques Prevert (1900-1977), nella poesia “L’annegato” :

Per l’annegato la morte è il mare/ E per il mare l’annegato è forse un po’ della sua vita/Ma/ se domandate all’annegato cosa pensa del mare/ Se gli domandate cosa pensa del mare /Se gli domandate il suo parere/ sulla vita della morte e l’amore della vita/ sulla morte della vita/ sulla vita dell’amore/ la più leggera schiuma delle onde di questo mare/ del più lontano dei suoi nuovi e così vecchi fiumi/ sorride senza rispondervi/senza rispondere per lui.

In questi versi di un poeta che forse un po’ a torto è stato ritenuto troppo ‘facile’ e ‘popolare’, c’è tutto questo: il mare che per l’annegato è la morte; ma anche paradossalmente il mare che è vita anche in quel corpo dell’annegato; e quel senso di perdersi che è appunto “la più leggera schiuma delle onde che… sorride senza rispondere. “ Tutto trascina, tutto porta via, il mare, per i poeti. Tutto ricorda, tutto suggerisce, tutto rinnova. Tutto spegne e tutto accende, tutto spera, e tutto dispera.

Sentimento bene espresso da Giovanna Bemporad, grande poetessa italiana, in In riva al mare, contenuta nella sua raccolta di esordio, Esercizi, che resta una specie di miracolo nel panorama della poesia italiana del Novecento. Una raccolta uscita a Venezia nel 1948, quando la poetessa aveva vent’anni.

Dalla mia fronte io esco in riva al mare

Dove destreggia sommessa i suoi baci

L’onda e conchiglie, imbuti del rumore,

ci ascoltano pudiche e indifferenti.

Su me sospende il cielo la sua curva

Larga, ariosa, e modella i miei passi

Non di un’età, non di un attimo , un’ora

Ma di un’antichità: parola estratta

Dalla tua pausa, o mare, fronte colma.

Antichità. Un’altra parola chiave per capire il linguaggio del mare, il suo esercizio attrattivo nei confronti dei mortali. Il mito è metafora per interpretare la disperazione del vivere, in un’altra meravigliosa poesia, I figli del mare , una della ultime composizioni poetiche di Carlo Michelstaedter, scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare: Itti e Senia costretti ad attraversare la morte dei mortali.

Ritornate

Alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.

Ma a questo invito alla rassegnazione Itti replica che la morte così temuta dagli uomini altro non è che coraggio, e non abbandono: il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore, navigando verso il mare libero, scegliendo il rischio e la sfida.

Il mare che è attesa. Quel senso di sospensione, quello ‘stare sulla riva’ (dopo il fallimento delle passioni e delle ideologie), che un altro poeta italiano, Gianni d’Elia ( nato a Pesaro nel 1953) descrive propriamente in una lirica che dà il titolo a Sulla riva dell’epoca (pubblicata da Einaudi, nel 2000) :

Qui stiamo. Aspettiamo, sulla riva

Del mare, che appaia qualche segnale

Che ancora non sappiamo. Oltre il macello

Umano, anche oltre il sogno che avevamo

Nella mente e nel cuore, facendo pugno

Nella mano. …. Pure qui

Restiamo e insistiamo, fra mondo

E terra, a dare il fiore….

Il mare che non dà sonno e non dà requie. Che atterrisce e invita, che – visto da fermo – invita sempre e sempre a ricapitolare la propria vita, a ripercorrerne i passi, i ricordi, le attese, i gesti minimi. L’estate al mare, un altro “must” che i poeti italiani – gente che sa cosa vuol dire il mare – ha saputo raccontare con i toni più alti, e suggestivi.

Tra gli ultimi in ordine di tempo, Milo de Angelis, nato a Milano nel 1951, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, in Tema dell’Addio, pubblicato da Mondadori nel 2005:

Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza

di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.

E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria.

a tre secondi dalla fine. E Roberta

che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,

in un silenzio di ospedali, quando il tempo

rivela i suoi grandi paradigmi.

“Torneranno vivi gli amori tenebrosi

che in mezzo agli anni lasciarono una spina,

torneranno, torneranno luminosi."

Fabrizio Falconi

10/05/11

Il perdono, il ritorno - Lantana.





Qualche volta le immagini valgono più di mille parole. Il ritorno, il comprendere, il perdonare.

E' il bellissimo finale del film 'Lantana'. La canzone è 'Te busco', cantata da Celia Cruz.

Lessico dei Poeti 3 - 'Cuore'.


Cuore.

Scrive James Hillman, in Thought the Heart (pag. 24-33): “L’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. A “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’attività scientifica. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza e meraviglia. “

E questo riconoscimento, ci dice Hillman, lo fa il ‘cuore’: è lì che localizziamo da sempre, da quando l’uomo è nato, quella capacità di andare oltre le semplici sembianze, di ‘riconoscere’ l’intimo volto delle cose, la sua natura più reale, proprio perché extra-sensoriale.

A esemplificazione del suo discorso, Hillman nel testo stesso, riporta i versi di un grande poeta, e non è un caso. Petrarca.

In selve impraticabili,

mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti

o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,

oppure lo si vede emergere da una liquida fonte

o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara

o sembra erompere, vivo, da una dura rupe.


Si tratta della traduzione dal latino delle Epistolae Metricae (IV, 145-50).

“Questi versi,” scrive Hillman, “ non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personalizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano…”

Il cuore, insomma, sembra dirci Hillman, ci dà la descrizione dell’anima delle cose, riconosce quell’anima, la individua nelle forme in cui essa – anima – decide di manifestarsi.
Ed è perfino troppo ovvio che in questa capacità di discernimento del cuore, una via privilegiata la possiedano proprio i poeti. Sono loro a dare voce a quella voce del cuore, sin dalla notte dei tempi della tradizione.

Ma anche i poeti più vicini a noi, ovviamente. Seppure i loro testi non si trovano più – tranne in rari casi – nelle librerie-supermercato, essi continuano a parlare la lingua del cuore, se soltanto vi si concede ascolto.

Un poeta purtroppo legato al nostro doviziato scolastico, che non ne valorizza i toni moderni, così attuali, è Giovanni Pascoli. Nelle Myricae, l’occhio del cuore fa precipitare il poeta in un viaggio quasi allucinato:

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),

vedo nel cuore, vedo un camposanto

con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia

allo scirocco: a ora a ora in pianto

sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,

o casa di mio padre, unica e muta,

dove l’inonda e muove la tempesta;

E l’obiettivo di questo viaggio, non è soltanto dare voce alla memoria, è proprio ri-costruire quei volti, i loro veri volti, i volti del padre e della madre, i volti che il cuore ha conosciuto e quindi ha sentito come veri, reali, in grado di oltre-passare anche i territori della morte.

E’ del resto lo stesso Pascoli a scriverlo quasi esplicitamente, nella prefazione con dedica al padre Ruggiero, del poema: chiudere gli occhi stanchi di contemplare, e riporre e raccogliere nell’anima la visione…

E’ così che nel linguaggio poetico la lingua del cuore potrebbe diventare, potrebbe essere intepretata come lingua universale, una specie di esperanto capace di ri-nominare ogni cosa, di interpretare ogni cosa non più e non soltanto attraverso i veridici nomi d’abitudine, non più e non solo attraverso i segnali di consuetudine che spargiamo nel nostro mondo razionale, ma invece mediante i lampi fulminanti delle intermittenze del nostro cuore. Il quale – come un radar, come una geo-sonda – è capace di dare fisionomia agli oggetti, e perfino alla memoria.

Lo descrive molto bene Camillo Sbarbaro, che negli anni del trasferimento a Genova, negli anni dell’amicizia con Montale (intorno al 1928), scrive nei versi di Liquidazione:

Se la memoria fosse del cuore,

non un nome svegliandoti

ti verrebbe alle labbra.

Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.

Sono le parole di un poeta perfettamente cosciente del fatto che: La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo...” Quel senso ultimo che in nessun caso può provenire dalla contemplazione o dallo studio empirico-razionalistico. C’è sempre qualcosa che sfugge, e quel qualcosa è esattamente l’anima diffusa che ogni persona sparge nel suo tracciato esistenziale. E che si coglie, solo, mettendo in funzione il ‘cuore.’

Il linguaggio del cuore può diventare anche una condanna, per il poeta. Lo scrivono e lo testimoniano i percorsi tragici di molti testimoni dell’Ottocento e del Novecento che della loro smisurata sensibilità profetica hanno fatto un martirio. E’ la condanna di chi parla un linguaggio altro, di chi per esempio si sente obbligato a vivere una vita di corpi (e di sembianze) perché non può, non può più arrivare a quella via del cuore, incarnata dal modello insormontabile della propria genitrice. Così Pierpaolo Pasolini nella celebre Supplica a mia madre:

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.


Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.


L’angoscia che non era altro, come scriveva lo stesso Pasolini che quel troppo grande amore /nel cuore/ per il mondo.

Fabrizio Falconi.

08/05/11

Lessico dei Poeti 2 - 'Fuoco'.


Fuoco.

Per molto tempo ancora la critica di tutto il mondo continuerà a speculare sui meravigliosi Four Quartets di Thomas Stearn Eliot ( 1888 – 1965 ), caposaldo della letteratura poetica di tutti i tempi. E a ragione, perché se è vero – con tutti i limiti delle semplificazioni – che Eliot è ritenuto il poeta metafisico per eccellenza, i suoi densi versi dei Quattro Quartetti, scritti a cavallo della seconda guerra mondiale, rappresentano un testo capitale anche per le infinite implicazioni che vi si possono riscontrare su questioni umane e filosofiche: il senso del tempo, la speranza e la fede, la terra e il cielo, memoria e oblio.

Una delle parole chiave dei Quattro Quartetti è, indubbiamente Fuoco. A questa parola, Eliot ritorna più e più volte con diversi accenti, a tratti con una specie di meditazione, o come una invocazione. E’ quel che accade negli ultimissimi versi del poema, l’epilogo di Little Gidding, il quarto quartetto:

Non dovremmo smettere di esplorare/ E alla fine delle nostre esplorazioni/ Arriveremo là donde partimmo/ Come a un luogo sconosciuto…. Dove le lingue di fiamma si attorcigliano/ Dentro il coronato nodo di fuoco / E il fuoco e la rosa sono la stessa cosa.

In Inglese, e in modo molto più suggestivo:

When the tongues of flame are in-folded
Into the crowned knot of fire
And the fire and the rose are one
.

Molto si è scritto intorno a questa ‘unione’ quasi alchemica di fuoco e rosa. Due simboli così densi ed eloquenti. Non vi è dubbio che è la bellezza la meta ultima di questo viaggio a ritroso, la sintesi di apparenti antinomie, complementari. E il fuoco al quale ritorna spesso Eliot dovrebbe essere inteso appunto come il fuoco divino, che scaturisce, come scriveva Duns Scoto, il filosofo medievale irlandese, dal rapporto tra Dio e l’individualità delle cose.

La bellezza è il prodotto della fusione tra l’individualità umana e la potenza divina. Il fuoco è il motore di questo prodotto. Un fuoco miracoloso, che costa sofferenza. Anche il poeta vi partecipa, partecipa a questa sofferenza. Anche il poeta, i poeti, debbono consumare la propria voce nel fuoco divino della poesia. E’ per questo, forse, che la parola e il sentimento del fuoco ricorrono così spesso nelle lingue dei poeti, e dei poeti italiani.

Sei comparsa al portone

In un vestito rosso

Per dirmi che sei fuoco

Che consuma e riaccende

Giuseppe Ungaretti scrive questa poesia – 12 Settembre 1966 - al termine della sua lunghissima parabola artistica. Questo fuoco che “ consuma e riaccende “ non è solo il fuoco di una passione femminile venuta a rallegrare i giorni di un vecchio che ha molto vissuto e molto sofferto, ma anche un fuoco al quale arde il senso stesso della vita. Come nella poesia di qualche anno prima ( Canto a due voci, 1959 ) , in quei due meravigliosi primi versi:

Il cuore mi è crudele:

Ama né altrove troveresti fuoco

E’ così, dunque, amare è il fuoco che divora, e che ‘eliotianamente’ porta chi lo vive, in un ‘luogo ‘sconosciuto’, in prossimità di quella bellezza che per gli umani è perenne chimera.

Con toni simili, altri poeti hanno raccontato questa ansia di sciogliersi nel fuoco che brucia e trasforma. Come Sergio Solmi ( 1899 – 1981 ) che in Preghiera alla vita ( in Poesia, meditazione e ricordi, 1983) scrive:

Perché più bruci, per meglio sentirti,

perché sempre il cuor mi divida

…….

Perché più bruci, per meglio sentire

Questo tuo bacio che torce e scolora,

ogni fibra consuma al tuo fuoco,

ogni pensiero soggioga ed annulla,

ogni tuo dolce, la pace e la gioia,

negami ancora.

L’invocazione, qui, è in un senso di appropriazione totale della vita, che brucia al suo sacro fuoco l’essere, avvicinandolo al trascendente, una forma di consunzione che è condiviso da religioni diametralmente opposte, e che rimanda, eccome, ad echi orientali.

Ancora più chiaramente, e curiosamente negli stessi anni di Solmi, Biagio Marin ( 1891 – 1985 ) intitola una sua poesia ( Bruciare ! Bruciare ! E farsi solo fiamma ) contenuta in La vita xe fiama, Torino, 1982. E qui, Marin assolutizza il fuoco della vita in una specie di grande rogo cosmico:

Tutto il mondo è un fuoco

Che crea e dissolve i soli e le galassie,

la fiamma sola genera le grazie

e le frescure e i fiori d’ogni luogo.

Come non ricordarci subito del fuoco e della rosa di Eliot ? La fiamma genera il fiore. La fiamma e il fiore, come dice Eliot, e conferma Marin, sono la stessa cosa. E ancora:

Non temere di bruciare e consumarti,

di sparire nei silenzi dell’Eterno,

che la gloria di Dio si faccia inferno

quando l’albe s’annuncian delicate.

Lasciamo da parte le implicazioni metafisiche che su questi versi, pure, si potrebbero esercitare, con la ‘gloria di Dio che si fa inferno’ e giungiamo fino a Roberto Mussapi, uno dei migliori poeti di questa nostra generazione che al fuoco, e alla polvere ha dedicato una intera raccolta (La polvere e il fuoco, 1997 ). In uno dei componimenti, Lo sguardo del poeta, Mussapi spiega cosa è il mestiere di poeta: ascoltare, farsi tramite di quella voce che brucia e consuma e trasforma.

Lì, ascoltami, cadde lo sguardo,

ma non fu a caso, nulla accade per nulla,
fu la tua voce, la voce che sale dalle sponde abitate,
questo è il nostro unico margine,
confine e fuoco,
questa è la direzione dello sguardo.

Fabrizio Falconi

07/05/11

Lessico dei Poeti 1 - 'Ospitalità'


Ospitalità.

Quando morì Edmund Jabès, il 2 gennaio del 1991, si disse subito: uno dei massimi poeti contemporanei. Ma non solo, perché Jabès, l’esule egiziano trapiantato a Parigi, lasciando un corpus di riflessioni e testi filosofici, ha anche esplorato – sempre in modo poetico – alcuni temi capitali della contemporaneità. Uno di questi è il tema dell’accoglienza, dell’essere straniero, dell’ospitalità che sembra, mai come in questi tempi, cruciale per le sorti del mondo. All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ). E l’ospitalità di cui parla Jabès è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. E’ l’incontro, lo svelamento reciproco:

Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.

Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.

E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:

Tu esisti perché io ti attendo.

Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato.

L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini.

Il cammino di colui che arriva, e di colui che attende, dunque. I passi dei quali risuonano nei canti accorati di Antonia Pozzi ( 1912-1940), la poetessa del silenzio, dell’abbandono, dei paesaggi alpini incantati, ma anche dell’incontro, come in “Certezza”, del 9 gennaio 1938 (Parole – Antonia Pozzi, Garzanti, 1989):

Tu sei l’erba e la terra, il senso

Quando uno cammina a piedi scalzi

Per un campo arato.

….

So che un giorno

-il mezzogiorno sciamerà coi gridi

dei suoi fringuelli-

sgorgherà il tuo volto

nello specchio sereno, accanto al mio.

L’apparizione del volto di colui che si attende, dell’ospite amato, di colui che viene a sgorgare nello specchio, abituato a riflettere solo una immagine. E l’ospite è appunto colui che arriva così, a piedi scalzi, muovendo il paesaggio delle cose usuali, consuete, scontate. L’apparizione dalla quale proviene il cambiamento fruttifero, che consente anche a me, ospite che ospita, di vedere come se fosse nuovo, il mio viso.

Ma perché l’ospitalità sia piena, occorrono altri ingredienti: rispetto, distanza, lontananza. Due esseri non potranno mai essere uno. E il mistero dell’altro va pienamente osservato.

Velarsi sarà l’essenza dello slancio di ogni apparire ?

Scrive Toti Scialoja, grande pittore e grande poeta ( 1914- ), che intendeva anche l’arte pittorica, della luce e dell’ombra, come un gioco d’incontro, di mistero e di svelamento:

Allo schiudersi è necessario il suo mantenersi velato

Quel che viene visto la prima volta è il meno visibile

L’ospitalità è allora, interpretando queste parole di Scialoja ( Le costellazioni, Marsilio, 1997 ), un mantenersi velato, per permettere, appunto lo schiudersi, naturale, spontaneo, non traumatico. Quel che viene visto la prima volta è il meno visibile: l’ospitalità è pazienza, è cura dell’altro, è attenzione.

L’ospitalità è attesa, abbiamo detto, è pazienza. Ma è anche ricerca. Ricerca determinata dall’amore, potremmo dire, come sembrerebbero suggerire questi versi di Claudio Damiani (1957), tratti da “Eroi” ( Fazi Editore, 2000):

Perché tu a un certo punto mi hai cercato,

hai detto: dove è il mio amore ?

dove è colui che mi ha amato ?

colui che mi ha risvegliato

mentre dormivo nell’erba.

Io dormivo sotto la terra

e lui mi ha richiamato.

ero nel suono della fonte

e lui mi ha ascoltato.

Mi ha cercato, è venuto sulle mie tracce,

e mi ha catturato.

Io camminavo e non lo sentivo

ma lui era dietro di me

che mi seguiva.

Ospitalità dunque è anche, soprattutto, cercarsi, seguirsi da lontano, sulle tracce, ascoltarsi, richiamarsi. E siamo di nuovo a Jabès, al suo svelamento reciproco. Ri-chiamare è infatti anche chiamare di nuovo, ri-nominare. Lui mi ha richiamato, ha consentito che io possa essere nuovamente chiamato per nome, in modo ancora una volta nuovo, originale, autentico.

Fabrizio Falconi

27/04/11

La Resurrezione ha per teatro dei dormienti ?


Esiste la teologia (indagine di Dio) delle immagini. Sicuramente uno dei casi più limpidi è quello del celebre affresco dipinto da Piero della Francesca tra il 1450 e il 1463 e conservato nel Museo Civico di San Sepolcro (per celebrare il nome stesso di quel Borgo). Una immagine nota nel mondo – secondo Aldous Huxley “il più bel dipinto del mondo” - enigmatica e complessa seppure apparentemente elementare nella sua raffigurazione. La Resurrezione di Piero offre anche a noi – specie in questo tempo Pasquale – molti motivi di riflessione e meditazione.

Innanzitutto in questa che è a tutti gli effetti una icona – cioè espressione grafica del messaggio cristiano affermato nel Vangelo – viene celebrata la Resurrezione di Gesù. Ma come noi sappiamo bene,questa scena, la scena cioè in cui Gesù si solleva dal sepolcro mortale e lo lascia, è assente nei Vangeli.

In nessuno dei quattro racconti dei Vangeli c’è descritta la scena della Resurrezione, per il semplice fatto che la scena avviene, come si direbbe oggi, senza testimoni.

Il racconto che viene fatto della Resurrezione è ‘a posteriori’: noi conosciamo la storia dal dopo, da quando cioè la Maddalena prima e i discepoli poi, recatisi al sepolcro per omaggiare il Cristo sepolto, si trovano di fronte una verità inaudita e razionalmente inaccettabile. Al punto tale che la Resurrezione del Maestro porterà, nei loro cuori oltre allo stupore, anche confusione e sconcerto.

Piero dunque immagina e descrive una scena che ‘nessuno ha mai visto’. E ciò è particolarmente simbolico anche per noi. Il Gesù che per certi versi appare trionfante, uscire dal sarcofago – il gesto del braccio sul ginocchio, il vessillo impugnato nell’altra mano, lo sguardo fisso sull’osservatore – riemerge dalla morte nel silenzio e, sembrerebbe di poter dire, nella desolazione (il panorama circostante) e nella indifferenza: i quattro soldati di guardia al sepolcro dormono infatti pesantemente. Uno, addirittura usa il marmo del sepolcro come poggiatesta (e diversi critici sostengono si tratti dell’autoritratto di Piero). Non vedono e non odono. Gli uomini sono addormentati. La terra è addormentata e oscura.

In questa ‘Terra desolata’ (Eliot), umanamente e naturalmente, prorompe l’evento misterioso e stupefacente della Resurrezione: il Cristo – vivo più che mai, il sangue ancora fuoriesce dalla ferita al costato, le guance sono di porpora – torna ad affermarsi presente nel mondo, torna come prima e diverso da prima.

Torna potremmo dire come torna ogni ricorrenza pasquale, eppure torna senza che gli uomini avvertano la sua presenza. In fondo sembra realizzarsi la profetica domanda – retorica – che il Maestro stesso aveva fatto ai discepoli poco prima di morire: “Ma quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?” (Lc. 18,8).

Ed è piuttosto simbolico che i discepoli dormano profondamente sia nell’ultimo atto della vita terrestre di Gesù in mezzo al loro - nell’Orto di Getsemani quando Egli chiede di vegliare e loro non riescono a farlo nemmeno per un ora – sia nel primo atto della nuova vita di Gesù.

La sorte di Gesù, così come la sua venuta rivoluzionaria nella nuova veste nella quale dovrà venire per quel tempo in cui “saranno giudicati i vivi e i morti (e dunque ogni ingiustizia sarà appianata) e il suo Regno non avrà fine” ha come testimoni uomini che non hanno saputo fare di meglio che addormentarsi.

Verrà probabilmente un tempo nuovo anche per loro. E forse, quella chiamata nuova che comincia dal prodigio della Resurrezione e che scuote i discepoli a “darsi finalmente da fare” si trasmetterà ad ogni uomo. E’ il nostro compito anche oggi, sembrerebbe di poterlo dire: svegliarci da questo sonno profondo, prendere finalmente coscienza di una presenza viva, chiederci cosa vuole realmente da noi, cosa ci chiama a fare, non a sognare. Il tempo del sonno non è quello della nuova vita.

Fabrizio Falconi

20/04/11

La vita convulsa e il centro perduto.


Viviamo oramai tutti (o quasi) vite random: le cose non ci accadono perché le scegliamo, ma perché ci capitano addosso. Mentre facciamo una cosa, ce ne capita un’altra.

Sì, siamo impegnati a scrivere quella che sarebbe una calorosa mail a un nostro caro amico lontano, ma nel frattempo squilla il cellulare e c’è una telefonata che non possiamo mandare indietro; lampeggia un flash sul computer e il download della canzone che amiamo da I-Tunes è terminato, dobbiamo ricordarci di accendere la tv per sapere che tempo farà domani; ma nel frattempo un sms ci ricorda che non abbiamo rinnovato l’assicurazione e passiamo mezz’ora al call-center in cerca di un operatore che ci ascolti.

‘Troppe informazioni mi rendono pazzo’, cantava un celebre ritornello di Sting e soci.

Più che pazzi, poi – nel senso comunque di dissociati – sembrerebbe che la frammentazione inarrestabile delle vite porti ad un senso di infelicità latente. Se faccio mille cose, ma nessuna di queste mettendoci dentro TUTTO me stesso, come farò ad essere felice?

Non è che la ‘vita liquida’ scivola via dalle dita senza lasciarci nulla di solido in mano?

Eppure, quando ci succede qualcosa di inaspettato e brutale – un lutto, una perdita di lavoro, la fine di un rapporto – improvvisamente ci rendiamo conto che così non va, non può andare.

Ci ricordiamo che la nostra vita è (sarebbe) ancorata a un Centro. Il nostro Centro ha un suono solenne, come il sax di Jan Garbarek che svaria sulle voci del coro dell’Hilliard Ensemble. Il nostro Centro è come il galleggiante di una lenza. Le acque turbinose lo sbattono di qua e di là, ma non appena le onde si placano, il galleggiante si riposiziona nella sua posizione naturale. In quello che è e che dovrebbe essere il Centro. La vita random può anche andare bene. Ma sarà difficile, in una vita random, ascoltare un giorno il sussurro del Centro che palpita in ognuno di noi.

Fabrizio Falconi

18/04/11

QUANDO PIETRO DOMANDO’: “DOMINE, QUO VADIS?” – UN LUOGO DIMENTICATO.




Gli americani ci hanno realizzato sopra addirittura un kolossal, uno dei maggiori incassi di sempre al botteghino, quel "Quo vadis ?", regia di Mervyn LeRoy, che nel 1951, ricostruì una Roma antica di cartapesta, commuovendo le platee con la storia dell’amore impossibile tra il patrizio romano Marco Vinicio-Robert Taylor e la bella cristiana Licia-Deborah Kerr.

In realtà il ‘drammone’ sentimentale era solo il pretesto per raccontare, in forma popolare e romanzata, l’alba del Cristianesimo a Roma, il periodo più buio e terribile della sua storia, quando le persecuzioni dei Romani causarono migliaia di vittime presso gli adepti della nuova religione ‘importata’ dalla lontana Palestina.

Il film, basato sull’opera letteraria dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz che per l’omonimo romanzo ricevette il premio Nobel nel 1905, terminava con un famoso passo riportato dalla tradizione storica, quello di San Pietro che lascia Roma, a causa della persecuzione, e lungo la Via Appia incontra Gesù Cristo morto e risorto molti anni prima, che alla domanda di Pietro: “ Domine, quo vadis ? “ , “ Signore dove vai?” , risponde: “ Venio iterum crucefigi, “ , e cioè “ Vengo a farmi crocifiggere di nuovo “.

E’ un severo ammonimento, non il primo a dir la verità, anche leggendo i Vangeli, che il Signore rivolge al suo apostolo preferito, quello sul quale ha stabilito che venga costruita la sua Chiesa. Da questo ammonimento Pietro deduce che non è il caso, per lui, di fuggire il martirio. Cambia direzione di marcia, fa ritorno nell’Urbe, e poco tempo dopo finisce i suoi giorni sul Colle Vaticano nello stesso brutale modo imposto al Messia, e cioè crocefisso, ma, per sua stessa richiesta - giudicandosi indegno di questa emulazione - con la testa in giù.

Tutto ciò noi sappiamo appunto, da una tradizione prima orale, poi scritta, millenaria, giunta fino a noi dalla prima, primissima comunità cristiana.
In realtà del martirio di Pietro, dal punto di vista delle conferme storiche, nulla si sa. Nulla viene detto negli Atti degli Apostoli, così come della morte di San Paolo, che la tradizione vuole sia avvenuta sulla Via Ostiense, dove oggi sorge la Basilica a lui intitolata, e dove riposano le sue spoglie.

Le notizie su ciò che accadde nel primo secolo ai cristiani, nella Roma di Nerone, arriva ai nostri giorni con fonti unicamente pagane, che però, da un punto di vista filologico, sono ancora più attendibili delle credenze o dei racconti religiosi.

Così sia Tacito, che Lattanzio, o Sulpicio Severo, concordano nel racconto del martirio dei due apostoli, simboli della cristianità, nei modi e nei luoghi che la tradizione continua a perpetuare.
E oggi gli studiosi sono in grado anche di speculare sulle date esatte del sacrificio di Paolo, come di quello di Pietro.

Quindi, nonostante l’assenza di un racconto neo-testamentario, ci sono pochi motivi per dubitare che qualcosa debba essere successo in quel punto dell’Appia antica che ancora oggi esiste, quel punto esatto nel quale antica regina viarum si biforca dando vita alla via Ardeatina.
E’ un piccolo luogo di culto, oggi quasi del tutto dimenticato, soprattutto dai romani, anche se per molto tempo fu venerato come uno dei più insigni santuari della città.
Vi si ferma qualche raro torpedone di turisti giapponesi incuriositi dall’aneddoto che qui si celebra.

E invece è, ancora oggi, un luogo denso di fascino e di interesse.
Riedificata nel 1620 la chiesetta del ‘Domine quo vadis’ si chiama in realtà ‘ Santa Maria in Palmis ‘ , e anche questo nome si riferisce all’episodio dell’incontro di San Pietro con il Signore. Al termine di questo prodigioso incontro, infatti, riferisce la tradizione, il vecchio bastone nodoso usato dall’apostolo ormai in là con gli anni per camminare – un bastone scolpito nel legno di ulivo – miracolosamente fiorì, come se fosse appena stato reciso. E si sa che ‘palmis’ è appunto il nome latino della pianta di ulivo.

Entrando nella chiesetta oggi, si resta colpiti dall’atmosfera fuori dal tempo che vi si respira. Una sola piccola navata, e un modesto affresco nell’abside. Poi, facendo attenzione ai particolari, si scopre sul pavimento una striscia lastricata larga un paio di metri, che va da una parete all’altra della chiesa, dove campeggiano due affreschi, uno raffigurante San Pietro, e l’altro Gesù Cristo, nell’atto di quel famoso incontro.

La striscia lastricata, come avverte una lapide sul muro è stata realizzata, in occasione del rinnovo seicentesco della chiesa con i selci prelevati direttamente dalla Via Appia, distante del resto pochi metri.

Ed ecco, al centro di questa striscia, conservata sotto una arrugginita grata di ferro, una antica pietra del tutto consunta dall’adorazione dei fedeli, con l’impronta di due piedi. Cosa significa questo ? Si tratta di una delle reliquie più preziose e più misconosciute esistenti a Roma, perché si tratterebbe, secondo la tradizione millenaria, appunto, dell’impronta lasciata nientemeno che dai piedi di Gesù Cristo. Apparizione immateriale, spirito, ma abbastanza concreta da lasciare una così evidente traccia di sé.

Documentandosi meglio, si apprende poi che questa pietra, lasciata nella chiesa del Domine quo vadis al culto dei fedeli, è in realtà la sostituzione della vera pietra miracolosa che, dalla notte dei tempi fu spostata per una esigenza di maggiore protezione.

Spostata dove ? Non molto lontano, in realtà: la pietra sulla quale avrebbe posato i piedi il Dio dei Cristiani è attualmente sempre lungo la Via Appia, conservata nella chiesa di San Sebastiano, nella prima cappella a destra, detta appunto, cappella delle reliquie.

E’ curioso come molti cittadini italiani, e romani, credenti e praticanti, siano attratti dalla Terra Santa, dalla comprensibile attrattiva di visitare i luoghi che ‘parlano’ della presenza di Gesù, ignorando magari che a pochi metri da casa loro esistono testimonianze così suggestive della presenza del Cristo nella Città Eterna.

Una cosa che ben sapeva Henryk Sienckiewicz, che pure veniva da molto lontano, dalla Polonia, ma conosceva a menadito la storia e l’inesauribile tesoro che si cela nei luoghi di culto e nel sottosuolo di Roma.

Nel corso delle sue numerose visite, lo scrittore polacco visitava spesso, con un’opera di Tacito in mano, e con molto scrupolo, il Foro Romano. Poco prima di iniziare a scrivere “ Quo vadis ? “ , nella primavera del 1893, soggiornò a lungo all’hotel in via Bocca di Leone. Gli faceva da guida nelle sue visite romane un amico, il pittore Henryk Siemiradzki, anch’egli appassionato cultore della Roma antica. Fu proprio lui a condurlo in un giorno di quella primavera attraverso i segreti dell’Appia Antica. Sinckiewicz rimase colpito da quella piccola chiesa, al bivio con la via Ardeatina. Entrarono, e - dobbiamo presupporre – i due polacchi subirono quello stesso fascino che ancora oggi è possibile respirare in questo piccolo edificio dalla storia così alta.

Fu proprio lì, raccontò parecchi anni più tardi, che Sinckiewicz ebbe l’ispirazione per scrivere un grande romanzo storico sulla persecuzione dei cristiani e sulla Roma di Nerone.
“ Quo vadis ? “ battè i record mondiali per numero di traduzioni (uscì anche in arabo, giapponese, persiano ), oltre a coronare il primo premio Nobel per la Polonia. Niente male per un libro scritto in tre anni di lavoro. Sinckiewicz terminò di scrivere a Nizza, nel febbraio del 1896 e le ultime parole del suo romanzo sono ancora oggi molto toccanti:
“ E così trapassò Nerone, come passa il vento e la tempesta, fuoco, guerra o gelo, e la basilica di San Pietro domina da allora dalle vette del Vaticano, sulla città e sul mondo. “

Anche se oggi i romani appaiono piuttosto distratti riguardo la loro storia – ma questa forse è stata una costante nei secoli, con rare eccezioni – segni del passaggio di questo illustre ‘cittadino ad honorem ‘ restano e numerosi ancora oggi: a lui è intitolata una piazza, proprio al limitare di quella Villa Borghese che amava moltissimo. Così come non poteva mancare un ricordo in quella chiesa, che egli ha reso famosa nel mondo. Subito all’entrata di Santa Maria in Palmis, infatti, sulla sinistra, un busto in bronzo riproduce la sua effige, a perenne memoria.

Non solo: in Via Bocca di Leone, una lapide murata nel 1966 ( nel cinquantesimo anniversario della morte ) ricorda lo scrittore con questa dicitura: “Henryk Sinckiewicz, scrittore e patriota polacco, epico narratore delle eroiche gesta della sua nazione, autore del romanzo Quo vadis, premio Nobel per la letteratura, dimorò in questo albergo nell’anno 1893, nel cinquantenario della sua morte, Italiani e Polacchi posero. “


Fabrizio Falconi



15/04/11

Restiamo Umani - l'addio a Vittorio Arrigoni.



Il Mantello di Bartimeo si unisce al dolore per la morte di Vittorio Arrigoni, un uomo coraggioso. Ma forse varrebbe la pena definirlo semplicemente: un uomo.

Visto che il motto con il quale chiudeva ogni sua corrispondenza da Gaza era 'restiamo umani'.

Diamo l'ultimo saluto a questo compagno di viaggio, con le parole appena battute dalle agenzie dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano scritte alla signora Egidia Beretta, madre di Vittorio: ''Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili. Ho appreso con sgomento - afferma - la terribile notizia della vile uccisione di suo figlio Vittorio a Gaza. Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili. La comunita' internazionale tutta e' chiamata a rifiutare ogni forma di violenza e a ricercare con rinnovata determinazione una soluzione negoziale al conflitto che insanguina la Regione. Esprimo a lei e alla sua famiglia, in quest'ora di grande dolore, i sensi della mia piu' sincera e affettuosa vicinanza e del piu' grande rispetto per il generoso impegno di suo figlio''.

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09/04/11

IN HOC VINCES - Nuovo libro in uscita.


Sono molto contento di presentarvi l'uscita di questo nuovo libro, che ho scritto a quattro mani, insieme a Bruno Carboniero che è - materialmente - colui che ha compiuto una piccola grande scoperta, riferita ad una delle pagine più note della storia romana e della storia dell'Occidente tutta.

Tutto è cominciato quasi per caso proprio attraverso lo studio e il confronto tra appassionati che per lunghi mesi è andato in scena su un prolifico blog.

Dopo anni interi di lavoro, alla fine questi studi hanno preso forma in un libro che tra pochi giorni sarà in vendita nelle librerie. Questo è in sintesi, l'argomento.

La storia dell’Europa, e di tutto l’Occidente, è cambiata radicalmente con un un sogno premonitore: la notte del 27 ottobre dell’anno 312 d.C. l’imperatore romano Costantino è accampato con le sue truppe a poca distanza da Roma.

Il giorno seguente si scontra in battaglia col nemico Massenzio, schierato a difesa di Roma.

Durante il sonno, Costantino riceve la visione di Cristo che gli suggerisce di iscrivere sugli scudi il monogramma greco del Salvatore “XP” con la leggendaria promessa in hoc vinces (con questo vincerai).

Questo evento ha due fonti storiche principali, riferite da Eusebio di Cesarea (265 – 340) e Lattanzio (250 – 327).

I due resoconti hanno in comune un sogno che vide protagonista l’imperatore Costantino ed una croce, che gli sarebbe apparsa, presagio di vittoria.

La notte ed il cielo ci sono sembrati campi su cui indagare.

“In hoc vinces” è un avvincente viaggio nel tempo, alla ricerca di indizi archeologici, esoterici e astronomici nascosti dalla polvere dei secoli che, insieme al racconto della vita del leggendario imperatore romano e dei molti misteri legati alla vicenda storica che lo riguarda, offrono al lettore di oggi una nuova lettura e una inedita interpretazione di quel “segno”.

L’affermazione del Cristianesimo come religione dell’impero romano, la visione mistica prima della battaglia di Ponte Milvio, il lungo sodalizio con papa Silvestro I, la rivoluzione dell’architettura religiosa con la realizzazione delle prime grandi basiliche cristiane di San Giovanni in Laterano e San Pietro, il fondamentale contributo alla costruzione di una ortodossia teologica ed iconografica, le grandi vittorie ed il prezzo di sangue che tutto ciò comportò si arricchiscono, in questo studio, di nuovi e inaspettati contenuti.

a presto, dunque.

Intanto, altre notizie QUI.

06/04/11

Quel che può fare la poesia ai nostri cuori e ai nostri corpi - Cecco Angiolieri "batte" Dante nel produrre emozioni sui bimbi autistici.


Mi ha molto impressionato questa notizia, riportata recentemente dalla agenzia ANSA, che riguarda il potere 'taumaturgico' della parola poetica. Davvero abbiamo forse tutti dimenticato - persi nelle vite prosaiche che scegliamo o non scegliamo di vivere - la potenzialità realmente rivoluzionaria della vera poesia.

I versi di Cecco Angiolieri battono quelli di Dante nel produrre emozioni tra i bambini autistici.

E' il risultato ottenuto dalla nuova sperimentazione di comunicazione sensoriale sulle bambine con sindrome di Rett e autismo in corso al policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, seguita dai dottori Joussef Hayek, direttore dell'U.O.C. Neuropsichiatria infantile, e Claudio De Felice, neonatologo.

Lo studio, in corso da alcuni mesi, e' stato condotto grazie alla partecipazione di artisti fra i quali gli attori fiorentini Andrea Giuntini e Gloria Grazzini che hanno interpretato, davanti alle pazienti, due celebri sonetti medievali, 'S'i' fossi foco' di Angiolieri e 'Tanto gentile e tanto onesta pare' di Dante, davanti a diversi gruppi di piccole pazienti.

''I risultati ottenuti - afferma Hayek - sono stati sorprendenti soprattutto al momento della lettura dell'opera del poeta senese che ha suscitato forti emozioni nelle bimbe, indicate dall'aumento di due emoglobine non ossigenate nelle registrazioni pulsossimetriche e dalla comparsa del sorriso sui loro volti''.

La metrica dei versi e la sonorita' derivante dall'interpretazione del celebre sonetto senese sono riuscite a stimolare l'attenzione e ad emozionare le bambine affette da questa patologia.

''Questa sorta di vittoria di Angiolieri su Dante - conclude De Felice - dimostra che la poesia, in quanto 'musica delle parole' ha una straordinaria e piuttosto inaspettata capacita' comunicativa in questa particolare tipologia di pazienti''.

'Questo nuovo studio - spiega De Felice - legato alla sperimentazione che portiamo avanti da alcuni anni attraverso l'esplorazione della capacita' comunicativa dei cinque sensi, con ottimi risultati ottenuti con la musica e i profumi, e' basata sulla capacita' evocativa della poesia di emozionare e modificare addirittura i parametri vitali cardiorespiratori''.