07/05/11

Lessico dei Poeti 1 - 'Ospitalità'


Ospitalità.

Quando morì Edmund Jabès, il 2 gennaio del 1991, si disse subito: uno dei massimi poeti contemporanei. Ma non solo, perché Jabès, l’esule egiziano trapiantato a Parigi, lasciando un corpus di riflessioni e testi filosofici, ha anche esplorato – sempre in modo poetico – alcuni temi capitali della contemporaneità. Uno di questi è il tema dell’accoglienza, dell’essere straniero, dell’ospitalità che sembra, mai come in questi tempi, cruciale per le sorti del mondo. All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ). E l’ospitalità di cui parla Jabès è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. E’ l’incontro, lo svelamento reciproco:

Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.

Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.

E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:

Tu esisti perché io ti attendo.

Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato.

L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini.

Il cammino di colui che arriva, e di colui che attende, dunque. I passi dei quali risuonano nei canti accorati di Antonia Pozzi ( 1912-1940), la poetessa del silenzio, dell’abbandono, dei paesaggi alpini incantati, ma anche dell’incontro, come in “Certezza”, del 9 gennaio 1938 (Parole – Antonia Pozzi, Garzanti, 1989):

Tu sei l’erba e la terra, il senso

Quando uno cammina a piedi scalzi

Per un campo arato.

….

So che un giorno

-il mezzogiorno sciamerà coi gridi

dei suoi fringuelli-

sgorgherà il tuo volto

nello specchio sereno, accanto al mio.

L’apparizione del volto di colui che si attende, dell’ospite amato, di colui che viene a sgorgare nello specchio, abituato a riflettere solo una immagine. E l’ospite è appunto colui che arriva così, a piedi scalzi, muovendo il paesaggio delle cose usuali, consuete, scontate. L’apparizione dalla quale proviene il cambiamento fruttifero, che consente anche a me, ospite che ospita, di vedere come se fosse nuovo, il mio viso.

Ma perché l’ospitalità sia piena, occorrono altri ingredienti: rispetto, distanza, lontananza. Due esseri non potranno mai essere uno. E il mistero dell’altro va pienamente osservato.

Velarsi sarà l’essenza dello slancio di ogni apparire ?

Scrive Toti Scialoja, grande pittore e grande poeta ( 1914- ), che intendeva anche l’arte pittorica, della luce e dell’ombra, come un gioco d’incontro, di mistero e di svelamento:

Allo schiudersi è necessario il suo mantenersi velato

Quel che viene visto la prima volta è il meno visibile

L’ospitalità è allora, interpretando queste parole di Scialoja ( Le costellazioni, Marsilio, 1997 ), un mantenersi velato, per permettere, appunto lo schiudersi, naturale, spontaneo, non traumatico. Quel che viene visto la prima volta è il meno visibile: l’ospitalità è pazienza, è cura dell’altro, è attenzione.

L’ospitalità è attesa, abbiamo detto, è pazienza. Ma è anche ricerca. Ricerca determinata dall’amore, potremmo dire, come sembrerebbero suggerire questi versi di Claudio Damiani (1957), tratti da “Eroi” ( Fazi Editore, 2000):

Perché tu a un certo punto mi hai cercato,

hai detto: dove è il mio amore ?

dove è colui che mi ha amato ?

colui che mi ha risvegliato

mentre dormivo nell’erba.

Io dormivo sotto la terra

e lui mi ha richiamato.

ero nel suono della fonte

e lui mi ha ascoltato.

Mi ha cercato, è venuto sulle mie tracce,

e mi ha catturato.

Io camminavo e non lo sentivo

ma lui era dietro di me

che mi seguiva.

Ospitalità dunque è anche, soprattutto, cercarsi, seguirsi da lontano, sulle tracce, ascoltarsi, richiamarsi. E siamo di nuovo a Jabès, al suo svelamento reciproco. Ri-chiamare è infatti anche chiamare di nuovo, ri-nominare. Lui mi ha richiamato, ha consentito che io possa essere nuovamente chiamato per nome, in modo ancora una volta nuovo, originale, autentico.

Fabrizio Falconi

27/04/11

La Resurrezione ha per teatro dei dormienti ?


Esiste la teologia (indagine di Dio) delle immagini. Sicuramente uno dei casi più limpidi è quello del celebre affresco dipinto da Piero della Francesca tra il 1450 e il 1463 e conservato nel Museo Civico di San Sepolcro (per celebrare il nome stesso di quel Borgo). Una immagine nota nel mondo – secondo Aldous Huxley “il più bel dipinto del mondo” - enigmatica e complessa seppure apparentemente elementare nella sua raffigurazione. La Resurrezione di Piero offre anche a noi – specie in questo tempo Pasquale – molti motivi di riflessione e meditazione.

Innanzitutto in questa che è a tutti gli effetti una icona – cioè espressione grafica del messaggio cristiano affermato nel Vangelo – viene celebrata la Resurrezione di Gesù. Ma come noi sappiamo bene,questa scena, la scena cioè in cui Gesù si solleva dal sepolcro mortale e lo lascia, è assente nei Vangeli.

In nessuno dei quattro racconti dei Vangeli c’è descritta la scena della Resurrezione, per il semplice fatto che la scena avviene, come si direbbe oggi, senza testimoni.

Il racconto che viene fatto della Resurrezione è ‘a posteriori’: noi conosciamo la storia dal dopo, da quando cioè la Maddalena prima e i discepoli poi, recatisi al sepolcro per omaggiare il Cristo sepolto, si trovano di fronte una verità inaudita e razionalmente inaccettabile. Al punto tale che la Resurrezione del Maestro porterà, nei loro cuori oltre allo stupore, anche confusione e sconcerto.

Piero dunque immagina e descrive una scena che ‘nessuno ha mai visto’. E ciò è particolarmente simbolico anche per noi. Il Gesù che per certi versi appare trionfante, uscire dal sarcofago – il gesto del braccio sul ginocchio, il vessillo impugnato nell’altra mano, lo sguardo fisso sull’osservatore – riemerge dalla morte nel silenzio e, sembrerebbe di poter dire, nella desolazione (il panorama circostante) e nella indifferenza: i quattro soldati di guardia al sepolcro dormono infatti pesantemente. Uno, addirittura usa il marmo del sepolcro come poggiatesta (e diversi critici sostengono si tratti dell’autoritratto di Piero). Non vedono e non odono. Gli uomini sono addormentati. La terra è addormentata e oscura.

In questa ‘Terra desolata’ (Eliot), umanamente e naturalmente, prorompe l’evento misterioso e stupefacente della Resurrezione: il Cristo – vivo più che mai, il sangue ancora fuoriesce dalla ferita al costato, le guance sono di porpora – torna ad affermarsi presente nel mondo, torna come prima e diverso da prima.

Torna potremmo dire come torna ogni ricorrenza pasquale, eppure torna senza che gli uomini avvertano la sua presenza. In fondo sembra realizzarsi la profetica domanda – retorica – che il Maestro stesso aveva fatto ai discepoli poco prima di morire: “Ma quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?” (Lc. 18,8).

Ed è piuttosto simbolico che i discepoli dormano profondamente sia nell’ultimo atto della vita terrestre di Gesù in mezzo al loro - nell’Orto di Getsemani quando Egli chiede di vegliare e loro non riescono a farlo nemmeno per un ora – sia nel primo atto della nuova vita di Gesù.

La sorte di Gesù, così come la sua venuta rivoluzionaria nella nuova veste nella quale dovrà venire per quel tempo in cui “saranno giudicati i vivi e i morti (e dunque ogni ingiustizia sarà appianata) e il suo Regno non avrà fine” ha come testimoni uomini che non hanno saputo fare di meglio che addormentarsi.

Verrà probabilmente un tempo nuovo anche per loro. E forse, quella chiamata nuova che comincia dal prodigio della Resurrezione e che scuote i discepoli a “darsi finalmente da fare” si trasmetterà ad ogni uomo. E’ il nostro compito anche oggi, sembrerebbe di poterlo dire: svegliarci da questo sonno profondo, prendere finalmente coscienza di una presenza viva, chiederci cosa vuole realmente da noi, cosa ci chiama a fare, non a sognare. Il tempo del sonno non è quello della nuova vita.

Fabrizio Falconi

20/04/11

La vita convulsa e il centro perduto.


Viviamo oramai tutti (o quasi) vite random: le cose non ci accadono perché le scegliamo, ma perché ci capitano addosso. Mentre facciamo una cosa, ce ne capita un’altra.

Sì, siamo impegnati a scrivere quella che sarebbe una calorosa mail a un nostro caro amico lontano, ma nel frattempo squilla il cellulare e c’è una telefonata che non possiamo mandare indietro; lampeggia un flash sul computer e il download della canzone che amiamo da I-Tunes è terminato, dobbiamo ricordarci di accendere la tv per sapere che tempo farà domani; ma nel frattempo un sms ci ricorda che non abbiamo rinnovato l’assicurazione e passiamo mezz’ora al call-center in cerca di un operatore che ci ascolti.

‘Troppe informazioni mi rendono pazzo’, cantava un celebre ritornello di Sting e soci.

Più che pazzi, poi – nel senso comunque di dissociati – sembrerebbe che la frammentazione inarrestabile delle vite porti ad un senso di infelicità latente. Se faccio mille cose, ma nessuna di queste mettendoci dentro TUTTO me stesso, come farò ad essere felice?

Non è che la ‘vita liquida’ scivola via dalle dita senza lasciarci nulla di solido in mano?

Eppure, quando ci succede qualcosa di inaspettato e brutale – un lutto, una perdita di lavoro, la fine di un rapporto – improvvisamente ci rendiamo conto che così non va, non può andare.

Ci ricordiamo che la nostra vita è (sarebbe) ancorata a un Centro. Il nostro Centro ha un suono solenne, come il sax di Jan Garbarek che svaria sulle voci del coro dell’Hilliard Ensemble. Il nostro Centro è come il galleggiante di una lenza. Le acque turbinose lo sbattono di qua e di là, ma non appena le onde si placano, il galleggiante si riposiziona nella sua posizione naturale. In quello che è e che dovrebbe essere il Centro. La vita random può anche andare bene. Ma sarà difficile, in una vita random, ascoltare un giorno il sussurro del Centro che palpita in ognuno di noi.

Fabrizio Falconi

18/04/11

QUANDO PIETRO DOMANDO’: “DOMINE, QUO VADIS?” – UN LUOGO DIMENTICATO.




Gli americani ci hanno realizzato sopra addirittura un kolossal, uno dei maggiori incassi di sempre al botteghino, quel "Quo vadis ?", regia di Mervyn LeRoy, che nel 1951, ricostruì una Roma antica di cartapesta, commuovendo le platee con la storia dell’amore impossibile tra il patrizio romano Marco Vinicio-Robert Taylor e la bella cristiana Licia-Deborah Kerr.

In realtà il ‘drammone’ sentimentale era solo il pretesto per raccontare, in forma popolare e romanzata, l’alba del Cristianesimo a Roma, il periodo più buio e terribile della sua storia, quando le persecuzioni dei Romani causarono migliaia di vittime presso gli adepti della nuova religione ‘importata’ dalla lontana Palestina.

Il film, basato sull’opera letteraria dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz che per l’omonimo romanzo ricevette il premio Nobel nel 1905, terminava con un famoso passo riportato dalla tradizione storica, quello di San Pietro che lascia Roma, a causa della persecuzione, e lungo la Via Appia incontra Gesù Cristo morto e risorto molti anni prima, che alla domanda di Pietro: “ Domine, quo vadis ? “ , “ Signore dove vai?” , risponde: “ Venio iterum crucefigi, “ , e cioè “ Vengo a farmi crocifiggere di nuovo “.

E’ un severo ammonimento, non il primo a dir la verità, anche leggendo i Vangeli, che il Signore rivolge al suo apostolo preferito, quello sul quale ha stabilito che venga costruita la sua Chiesa. Da questo ammonimento Pietro deduce che non è il caso, per lui, di fuggire il martirio. Cambia direzione di marcia, fa ritorno nell’Urbe, e poco tempo dopo finisce i suoi giorni sul Colle Vaticano nello stesso brutale modo imposto al Messia, e cioè crocefisso, ma, per sua stessa richiesta - giudicandosi indegno di questa emulazione - con la testa in giù.

Tutto ciò noi sappiamo appunto, da una tradizione prima orale, poi scritta, millenaria, giunta fino a noi dalla prima, primissima comunità cristiana.
In realtà del martirio di Pietro, dal punto di vista delle conferme storiche, nulla si sa. Nulla viene detto negli Atti degli Apostoli, così come della morte di San Paolo, che la tradizione vuole sia avvenuta sulla Via Ostiense, dove oggi sorge la Basilica a lui intitolata, e dove riposano le sue spoglie.

Le notizie su ciò che accadde nel primo secolo ai cristiani, nella Roma di Nerone, arriva ai nostri giorni con fonti unicamente pagane, che però, da un punto di vista filologico, sono ancora più attendibili delle credenze o dei racconti religiosi.

Così sia Tacito, che Lattanzio, o Sulpicio Severo, concordano nel racconto del martirio dei due apostoli, simboli della cristianità, nei modi e nei luoghi che la tradizione continua a perpetuare.
E oggi gli studiosi sono in grado anche di speculare sulle date esatte del sacrificio di Paolo, come di quello di Pietro.

Quindi, nonostante l’assenza di un racconto neo-testamentario, ci sono pochi motivi per dubitare che qualcosa debba essere successo in quel punto dell’Appia antica che ancora oggi esiste, quel punto esatto nel quale antica regina viarum si biforca dando vita alla via Ardeatina.
E’ un piccolo luogo di culto, oggi quasi del tutto dimenticato, soprattutto dai romani, anche se per molto tempo fu venerato come uno dei più insigni santuari della città.
Vi si ferma qualche raro torpedone di turisti giapponesi incuriositi dall’aneddoto che qui si celebra.

E invece è, ancora oggi, un luogo denso di fascino e di interesse.
Riedificata nel 1620 la chiesetta del ‘Domine quo vadis’ si chiama in realtà ‘ Santa Maria in Palmis ‘ , e anche questo nome si riferisce all’episodio dell’incontro di San Pietro con il Signore. Al termine di questo prodigioso incontro, infatti, riferisce la tradizione, il vecchio bastone nodoso usato dall’apostolo ormai in là con gli anni per camminare – un bastone scolpito nel legno di ulivo – miracolosamente fiorì, come se fosse appena stato reciso. E si sa che ‘palmis’ è appunto il nome latino della pianta di ulivo.

Entrando nella chiesetta oggi, si resta colpiti dall’atmosfera fuori dal tempo che vi si respira. Una sola piccola navata, e un modesto affresco nell’abside. Poi, facendo attenzione ai particolari, si scopre sul pavimento una striscia lastricata larga un paio di metri, che va da una parete all’altra della chiesa, dove campeggiano due affreschi, uno raffigurante San Pietro, e l’altro Gesù Cristo, nell’atto di quel famoso incontro.

La striscia lastricata, come avverte una lapide sul muro è stata realizzata, in occasione del rinnovo seicentesco della chiesa con i selci prelevati direttamente dalla Via Appia, distante del resto pochi metri.

Ed ecco, al centro di questa striscia, conservata sotto una arrugginita grata di ferro, una antica pietra del tutto consunta dall’adorazione dei fedeli, con l’impronta di due piedi. Cosa significa questo ? Si tratta di una delle reliquie più preziose e più misconosciute esistenti a Roma, perché si tratterebbe, secondo la tradizione millenaria, appunto, dell’impronta lasciata nientemeno che dai piedi di Gesù Cristo. Apparizione immateriale, spirito, ma abbastanza concreta da lasciare una così evidente traccia di sé.

Documentandosi meglio, si apprende poi che questa pietra, lasciata nella chiesa del Domine quo vadis al culto dei fedeli, è in realtà la sostituzione della vera pietra miracolosa che, dalla notte dei tempi fu spostata per una esigenza di maggiore protezione.

Spostata dove ? Non molto lontano, in realtà: la pietra sulla quale avrebbe posato i piedi il Dio dei Cristiani è attualmente sempre lungo la Via Appia, conservata nella chiesa di San Sebastiano, nella prima cappella a destra, detta appunto, cappella delle reliquie.

E’ curioso come molti cittadini italiani, e romani, credenti e praticanti, siano attratti dalla Terra Santa, dalla comprensibile attrattiva di visitare i luoghi che ‘parlano’ della presenza di Gesù, ignorando magari che a pochi metri da casa loro esistono testimonianze così suggestive della presenza del Cristo nella Città Eterna.

Una cosa che ben sapeva Henryk Sienckiewicz, che pure veniva da molto lontano, dalla Polonia, ma conosceva a menadito la storia e l’inesauribile tesoro che si cela nei luoghi di culto e nel sottosuolo di Roma.

Nel corso delle sue numerose visite, lo scrittore polacco visitava spesso, con un’opera di Tacito in mano, e con molto scrupolo, il Foro Romano. Poco prima di iniziare a scrivere “ Quo vadis ? “ , nella primavera del 1893, soggiornò a lungo all’hotel in via Bocca di Leone. Gli faceva da guida nelle sue visite romane un amico, il pittore Henryk Siemiradzki, anch’egli appassionato cultore della Roma antica. Fu proprio lui a condurlo in un giorno di quella primavera attraverso i segreti dell’Appia Antica. Sinckiewicz rimase colpito da quella piccola chiesa, al bivio con la via Ardeatina. Entrarono, e - dobbiamo presupporre – i due polacchi subirono quello stesso fascino che ancora oggi è possibile respirare in questo piccolo edificio dalla storia così alta.

Fu proprio lì, raccontò parecchi anni più tardi, che Sinckiewicz ebbe l’ispirazione per scrivere un grande romanzo storico sulla persecuzione dei cristiani e sulla Roma di Nerone.
“ Quo vadis ? “ battè i record mondiali per numero di traduzioni (uscì anche in arabo, giapponese, persiano ), oltre a coronare il primo premio Nobel per la Polonia. Niente male per un libro scritto in tre anni di lavoro. Sinckiewicz terminò di scrivere a Nizza, nel febbraio del 1896 e le ultime parole del suo romanzo sono ancora oggi molto toccanti:
“ E così trapassò Nerone, come passa il vento e la tempesta, fuoco, guerra o gelo, e la basilica di San Pietro domina da allora dalle vette del Vaticano, sulla città e sul mondo. “

Anche se oggi i romani appaiono piuttosto distratti riguardo la loro storia – ma questa forse è stata una costante nei secoli, con rare eccezioni – segni del passaggio di questo illustre ‘cittadino ad honorem ‘ restano e numerosi ancora oggi: a lui è intitolata una piazza, proprio al limitare di quella Villa Borghese che amava moltissimo. Così come non poteva mancare un ricordo in quella chiesa, che egli ha reso famosa nel mondo. Subito all’entrata di Santa Maria in Palmis, infatti, sulla sinistra, un busto in bronzo riproduce la sua effige, a perenne memoria.

Non solo: in Via Bocca di Leone, una lapide murata nel 1966 ( nel cinquantesimo anniversario della morte ) ricorda lo scrittore con questa dicitura: “Henryk Sinckiewicz, scrittore e patriota polacco, epico narratore delle eroiche gesta della sua nazione, autore del romanzo Quo vadis, premio Nobel per la letteratura, dimorò in questo albergo nell’anno 1893, nel cinquantenario della sua morte, Italiani e Polacchi posero. “


Fabrizio Falconi



15/04/11

Restiamo Umani - l'addio a Vittorio Arrigoni.



Il Mantello di Bartimeo si unisce al dolore per la morte di Vittorio Arrigoni, un uomo coraggioso. Ma forse varrebbe la pena definirlo semplicemente: un uomo.

Visto che il motto con il quale chiudeva ogni sua corrispondenza da Gaza era 'restiamo umani'.

Diamo l'ultimo saluto a questo compagno di viaggio, con le parole appena battute dalle agenzie dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano scritte alla signora Egidia Beretta, madre di Vittorio: ''Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili. Ho appreso con sgomento - afferma - la terribile notizia della vile uccisione di suo figlio Vittorio a Gaza. Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili. La comunita' internazionale tutta e' chiamata a rifiutare ogni forma di violenza e a ricercare con rinnovata determinazione una soluzione negoziale al conflitto che insanguina la Regione. Esprimo a lei e alla sua famiglia, in quest'ora di grande dolore, i sensi della mia piu' sincera e affettuosa vicinanza e del piu' grande rispetto per il generoso impegno di suo figlio''.

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09/04/11

IN HOC VINCES - Nuovo libro in uscita.


Sono molto contento di presentarvi l'uscita di questo nuovo libro, che ho scritto a quattro mani, insieme a Bruno Carboniero che è - materialmente - colui che ha compiuto una piccola grande scoperta, riferita ad una delle pagine più note della storia romana e della storia dell'Occidente tutta.

Tutto è cominciato quasi per caso proprio attraverso lo studio e il confronto tra appassionati che per lunghi mesi è andato in scena su un prolifico blog.

Dopo anni interi di lavoro, alla fine questi studi hanno preso forma in un libro che tra pochi giorni sarà in vendita nelle librerie. Questo è in sintesi, l'argomento.

La storia dell’Europa, e di tutto l’Occidente, è cambiata radicalmente con un un sogno premonitore: la notte del 27 ottobre dell’anno 312 d.C. l’imperatore romano Costantino è accampato con le sue truppe a poca distanza da Roma.

Il giorno seguente si scontra in battaglia col nemico Massenzio, schierato a difesa di Roma.

Durante il sonno, Costantino riceve la visione di Cristo che gli suggerisce di iscrivere sugli scudi il monogramma greco del Salvatore “XP” con la leggendaria promessa in hoc vinces (con questo vincerai).

Questo evento ha due fonti storiche principali, riferite da Eusebio di Cesarea (265 – 340) e Lattanzio (250 – 327).

I due resoconti hanno in comune un sogno che vide protagonista l’imperatore Costantino ed una croce, che gli sarebbe apparsa, presagio di vittoria.

La notte ed il cielo ci sono sembrati campi su cui indagare.

“In hoc vinces” è un avvincente viaggio nel tempo, alla ricerca di indizi archeologici, esoterici e astronomici nascosti dalla polvere dei secoli che, insieme al racconto della vita del leggendario imperatore romano e dei molti misteri legati alla vicenda storica che lo riguarda, offrono al lettore di oggi una nuova lettura e una inedita interpretazione di quel “segno”.

L’affermazione del Cristianesimo come religione dell’impero romano, la visione mistica prima della battaglia di Ponte Milvio, il lungo sodalizio con papa Silvestro I, la rivoluzione dell’architettura religiosa con la realizzazione delle prime grandi basiliche cristiane di San Giovanni in Laterano e San Pietro, il fondamentale contributo alla costruzione di una ortodossia teologica ed iconografica, le grandi vittorie ed il prezzo di sangue che tutto ciò comportò si arricchiscono, in questo studio, di nuovi e inaspettati contenuti.

a presto, dunque.

Intanto, altre notizie QUI.

06/04/11

Quel che può fare la poesia ai nostri cuori e ai nostri corpi - Cecco Angiolieri "batte" Dante nel produrre emozioni sui bimbi autistici.


Mi ha molto impressionato questa notizia, riportata recentemente dalla agenzia ANSA, che riguarda il potere 'taumaturgico' della parola poetica. Davvero abbiamo forse tutti dimenticato - persi nelle vite prosaiche che scegliamo o non scegliamo di vivere - la potenzialità realmente rivoluzionaria della vera poesia.

I versi di Cecco Angiolieri battono quelli di Dante nel produrre emozioni tra i bambini autistici.

E' il risultato ottenuto dalla nuova sperimentazione di comunicazione sensoriale sulle bambine con sindrome di Rett e autismo in corso al policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, seguita dai dottori Joussef Hayek, direttore dell'U.O.C. Neuropsichiatria infantile, e Claudio De Felice, neonatologo.

Lo studio, in corso da alcuni mesi, e' stato condotto grazie alla partecipazione di artisti fra i quali gli attori fiorentini Andrea Giuntini e Gloria Grazzini che hanno interpretato, davanti alle pazienti, due celebri sonetti medievali, 'S'i' fossi foco' di Angiolieri e 'Tanto gentile e tanto onesta pare' di Dante, davanti a diversi gruppi di piccole pazienti.

''I risultati ottenuti - afferma Hayek - sono stati sorprendenti soprattutto al momento della lettura dell'opera del poeta senese che ha suscitato forti emozioni nelle bimbe, indicate dall'aumento di due emoglobine non ossigenate nelle registrazioni pulsossimetriche e dalla comparsa del sorriso sui loro volti''.

La metrica dei versi e la sonorita' derivante dall'interpretazione del celebre sonetto senese sono riuscite a stimolare l'attenzione e ad emozionare le bambine affette da questa patologia.

''Questa sorta di vittoria di Angiolieri su Dante - conclude De Felice - dimostra che la poesia, in quanto 'musica delle parole' ha una straordinaria e piuttosto inaspettata capacita' comunicativa in questa particolare tipologia di pazienti''.

'Questo nuovo studio - spiega De Felice - legato alla sperimentazione che portiamo avanti da alcuni anni attraverso l'esplorazione della capacita' comunicativa dei cinque sensi, con ottimi risultati ottenuti con la musica e i profumi, e' basata sulla capacita' evocativa della poesia di emozionare e modificare addirittura i parametri vitali cardiorespiratori''.

27/03/11

Il discorso del Re - La forza morale di un popolo.



E' un bellissimo film, Il Discorso del Re, di Tom Hooper, che ha fatto man bassa di premi nella notte degli Oscar. E' un bellissimo film non solo per il suo valore cinematografico, ma perché ricostruisce - senza compiacimenti o voli pindarici - la figura del re Giorgio VI di Inghilterra, padre di Elisabetta, che ebbe un ruolo così importante negli anni della IIa guerra mondiale, quando l'Inghilterra resistette alle bombe di Hitler, e insieme agli alleati americani e russi riuscì a sconfiggere il demone nazista che minacciava di impadronirsi del mondo.

Re Giorgio, nato Albert Frederick Arthur George Windsor viene descritto con le sue umane debolezze, le sue paure, i suoi scatti di rabbia. E' un re 'suo malgrado', che diventa re - a posteriori potremmo dire 'provvidenzialmente'... chissà altrimenti la storia come sarebbe andata - solo in seguito alle bizzarrìe del fratello primogenito, il famoso e chiacchierato Edoardo VIII - un numero cardinale che non porta molto bene ai regnanti inglesi - che rinunciò al trono per sposare Wallis Simpson.

Re Giorgio trova dentro se stesso - e soprattutto nel suo popolo - le qualità morali che gli permetteranno di diventare un simbolo nella lotta contro i tedeschi. Le troverà grazie anche al logopedista/guru Lionel Logue - realmente esistito - che lo aiuterà a sconfiggere la penalizzante balbuzie e a renderlo degno del suo ruolo di sovrano.

Un film che fa molto riflettere, su quali sono le cose realmente importanti della vita. E da cui si apprende la lezione che la semplicità, il fare il proprio dovere, è quel che si richiede alle nostre esistenze - a qualsiasi lignaggio si appartenga - per far sì che esse siano degne di essere vissute.

22/03/11

L'enigma millenario del Quadrato Magico.




Quando nel 1960, durante gli scavi nei sotterranei della Basilica di Santa Maria Maggiore, durante i quali fu rinvenuta una piccola necropoli, gli archeologi si imbatterono in uno strano graffito, inciso sul bordo di un muro di sostegno, rimasero in un primo momento interdetti.

In breve, però, si resero conto di aver scoperto un esemplare di quella che gli studiosi considerano una ‘vecchia conoscenza’ dell’archeologia conosciuto sotto diversi nomi: Quadrato Magico, o Quadrato Rotas, o Latercolo pompeiano.

Un enigma risalente agli albori della civiltà occidentale, che ha avuto una notevole diffusione in tutta Europa. Ma certo il fatto di averne finalmente rinvenuto un esemplare nella città santa, Roma, costituiva – e capiremo tra breve perché – un importante tassello per la risoluzione di un così ostico rompicapo.

Ma cos’è, innanzitutto il Quadrato Magico ?

Si tratta di cinque parole leggibili sia da sinistra a destra, che da destra a sinistra, ovvero cinque palindromi, che però - è questa la particolarità - possono essere lette anche verticalmente, cioè dall’alto in basso e dal basso in alto:

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

Le parole centrali, i due TENET incrociantesi, e palindromi, formano fra l’altro una perfetta croce.

Su questo Quadrato dal significato misteriosole cinque parole latine formano una frase apparentemente priva di senso – sono fiorite le teorie più bizzarre nel corso dei secoli: per alcuni è solo un gioco enigmistico, per altri una formula alchemica, per altri ancora nientemeno che il lasciapassare, la parola d’ordine che usavano, per riconoscersi tra di loro, gli appartenenti all’Ordine dei Templari.

Fra l’altro il Quadrato è stato rinvenuto in diverse versioni. Con, ad esempio la prima parola RATOS, anziché SATOR.

La difficoltà nella traduzione dipende dal termine AREPO che non esiste in latino. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si tratti di un nome proprio. In questo caso la frase suonerebbe più o meno: “ il contadino Arepo conduce l’aratro nei campi.“

Questo secondo alcuni studiosi, come Margherita Guarducci, proverebbe l’origine pagana del quadrato: un semplice gioco enigmistico.

Qualcun altro ha sottolineato che leggendo invece il Quadrato in modo bustrofedico, cioè a serpentina, cambiando direzione ad ogni riga, si otterrebbe:
Sator opera tenet – tenet opera Sator. Cioè: “ Il Seminatore possiede le Opere," ovvero “ Dio è il signore del Creato." Significato religioso, ispirato.

Sono questi i due grandi partiti che si sono accapigliati per molto tempo intorno al Quadrato Magico.

E il gioco delle interpretazioni potrebbe continuare all’infinito.

Quel che ci interessa qui accennare è la svolta avvenuta nel 1936 a Pompei, quando, durante gli scavi, un esemplare del Quadrato fu rinvenuto su una delle colonne della Palestra Grande.

La scoperta, vero e proprio evento per gli archeologi, ha retrodatato l’invenzione del Quadrato Magico almeno al 79 dopo Cristo, e ha rinforzato una serie di teorie riguardante la controversa presenza dei cristiani a Pompei, nell’anno dell’eruzione.

Questo perché a rinforzare l’ipotesi di una rilevanza del Quadrato come simbolo cristiano, legato al culto dei morti e alla Risurrezione, c’è un ulteriore particolare.

Incredibile a credersi infatti, il Quadrato misterioso contiene al suo interno, come una fantastica scatola cinese, un ulteriore piccolo prodigio.

Tutte le parole del Quadrato, messe insieme – anagrammate - formano due Paternoster incrociati con due lettere alle estremità della croce, due A e due O, che rappresenterebbero due Alfa e Omega, secondo la tradizione contenuta nell’Apocalisse di Giovanni. (VEDI SECONDA FOTO IN TESTA ALL'ARTICOLO).

Esemplari del Quadrato Magico sono stati ritrovati :

- a Verona, nell’Oratorio di Santa Maria Maddalena di Campomarzio.
- In Gran Bretagna su in intonaco di rovine romane risalenti al III sec. a Cirencester ( l’antica Corinium ), dove fu rinvenuta anche una gran quantità di tombe.
- A Pescarolo, in provincia di Cremona, sul pavimento della bellissima chiesa di S. Giovanni Decollato.
- A Siena, nel Duomo di S. Maria Assunta.
- A Fabriano, nella chiesa di S. Maria in plebis flexiae.
- A Santiago de Compostela, in Spagna.
- In Austria, nell’attuale Altofen, l’antica Buda.
- In Ungheria, graffito su una tegola, negli scavi dell’antica Aquincum, graffito databile al 107, 108 d.c.

Sono solo alcuni esempi. Dall’XI secolo in poi il quadrato ha cominciato ad invadere l’Europa, ma almeno i tre ritrovamenti, quello di Pompei, quello di Cirencester, e quello di Aquincum smentiscono in modo categorico la teoria che vorrebbe il quadrato come una invenzione medievale.

In realtà il Quadrato è molto più antico. E oggi quasi tutti gli studiosi sono concordi nel ritenerlo un’espressione ingegnosa della prima comunità cristiana stabilitasi in Italia alla fine del I secolo dopo Cristo.

Il simbolo della croce è inserito due volte nel Quadrato: con i due Paternoster incrociati come abbiamo visto, e con le due parole TENET che si intersecano formando una croce, nella lettera N che starebbe per NAZARENUS.

Importante, come consolidamento di questa tesi, la scoperta del Quadrato a Santa Maria Maggiore, uno dei simboli della cristianità, la quarta delle basiliche patriarcali, una volta chiamata Liberiana, perché costruita da Papa Liberio nel punto indicatogli da una visione e da una miracolosa nevicata estiva.

Oggi quasi tutti gli storici concordano nel ritenere che la vecchia basilica Liberiana si trovasse in un altro posto, ma la tradizione legata alla nevicata resiste ed è giunta fino ai giorni nostri, sotto le sembianze delle spettacolari macchine realizzate dall’architetto Cesare Esposito per l’Estate Romana.

La Basilica attuale fu invece eretta da Sisto III nel 432, subito dopo il Concilio di Efeso, svoltosi l’anno precedente che aveva rivendicato alla Madonna il titolo di Madre di Dio. Il ritrovamento del Quadrato Magico in questo suolo, in una delle strutture più antiche della basilica, confermava dunque l’attendibilità del Quadrato come simbolo cristiano.

D’altronde qualcuno si è cimentato anche in un calcolo statistico per stabilire le probabilità che esistono di formare un quadrato con cinque parole palindrome. Bassissime. Se a questo si aggiunge la possibilità di formare con le stesse lettere del quadrato, due frasi di senso compiuto incrociate, il calcolo fornisce un risultato praticamente uguale allo zero.

Di qui l’ipotesi, sostenuta da alcuni, dell’ispirazione divina del Quadrato. Il quadrato non sarebbe cioè stato inventato da un uomo, ma ispirato da Dio, esattamente come una profezia.

Il significato esatto di questa profezia rimane – peraltro – assolutamente misterioso, e contribuisce a rinnovare il fascino di questo che è ben più, molto di più, di un semplice, sublime gioco di parole, ma un segno invece che ha accompagnato il cammino dell’uomo moderno, dai primi anni dopo la morte del Cristo.

Fabrizio Falconi

18/03/11

Tempo di Quaresima: distacco e unione, Jean Guitton.


C’è nel Vangelo una parola molto profonda, quando Gesù dice: “Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà donato in sovrappiù.”

E’ quel che realizzano migliaia di religiosi e religiose in giro per il mondo appresso agli umili, agli ultimi, dei quali mai nessuno parla.

Ma è una cosa che riguarda anche noi, specie in questo tempo propizio di Quaresima. Un distacco dai bisogni e dall’egocentrismo, dalla pervicace, maniacale ossessione che rivolgiamo a noi stessi, che difficilmente può portarci lontano, difficilmente può portarci a percepire un Senso dentro il mistero nel quale siamo calati.

Ma come realizzare questo distacco, come arrivarci concretamente ?
Questa era la formula – ammesso che ne esista una, perché si tratta di un lavoro iniziatico, continuo, che dura tutta la vita – suggerita da Jean Guitton, il grande filosofo e scrittore francese, morto nel 1999 a quasi cento anni d’età:

Il primo gesto è purificare il proprio essere – scriveva Guitton – renderlo più distaccato, più leggero, e rompere gli ormeggi. Essere già in abbandono e in desiderio, quello che si sarà domani, quello che si è sempre stati !

“In modo tale che in noi stessi finalmente l’eternità ci cambi”, dice Mallarmé. Una cosa è sicura: si possiede solo ciò a cui si è rinunciato.

Siccome mi lamentavo di non poter dormire, un asceta mi diede questo consiglio: “Rinuncia a dormire !” E in realtà, avendo rinunciato a dormire, subito mi addormentai. A chi vuole andare più lontano, io direi: per essere veramente libero, dobbiamo sempre, nel corso delle nostre vite quotidiane, interessarci alle cose e distaccarcene. Fare del proprio meglio ma non essere ansiosi dei risultati.

Dobbiamo distaccarci da tutto e contemporaneamente unirci a tutto. Non è un paradosso. Il mistero indicibile dell’esistenza sta nell’intreccio di questi due movimenti dello spirito, di questi due fili che compongono il nostro tessuto quotidiano: familiare e sublime. Prima di tutto il distacco è semplicità.

E’ quella semplicità della quale la storia della spiritualità cristiana offre molti esempi, da San Francesco d’Assisi a San Bernardo a Charles de Foucald.

Senza arrivare a questi vertici di perfezione, ciascuno di noi, può provare a spogliare, giorno dopo giorno la propria vita e ad unirla ogni giorno a qualcosa di nuovo, che ci parla, e che è più grande di noi, e ognuno di noi contiene.

Scrisse Jiddu Krishamurti nel suo Taccuino, contemplando e descrivendo un fiore: una cosa chiara, luminosa, aperta al cielo: il sole, la pioggia, il buio della notte, i venti, il tuono, la terra hanno preso parte alla creazione di quel fiore. Ma il fiore non è nessuna di queste cose. E’ l’essenza di tutti i fiori.

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13/03/11

La poesia della Domenica - Arsenij Tarkovskij, poesie da 'Lo Specchio''


3.

Nei presentimenti non credo,
e i presagi non temo.
Non fuggo la calunnia né il veleno,
non esiste la morte:
immortali siamo tutti, e tutto è immortale.
Non si deve temere la morte,
né a diciassette né a settant'anni.
Esistono solo realtà e luce:
le tenebre e la morte non esistono.
Siamo tutti ormai del mare su la riva,
e io sono tra quelli che traggono le reti,
mentre l'immortalità passa di sghembo.
Se nella casa vivrete,
la casa non crollerà.
Un secolo qualsiasi richiamerò,
e una casa vi costruirò.
Ecco perché, con me, i vostri figli
e le vostre donne siederanno
alla stessa tavola
la stessa per l'avo ed il nipote.
Si compie ora, il futuro.
E se io una mano levo
i suoi cinque raggi rimarranno a voi.
Del passato ogni giorno,
come una fortezza,
io con le spalle ho retto.
Da agrimensore ho misurato il tempo,
e attraversato io l'ho
come gli Urali.
Il mio secolo l'ho scelto a mia misura.
Andavamo a Sud,
sostenendo la polvere della steppa,
il fumo delle erbacce.
Scherzavano i grilli
sfiorando i ferri dei cavalli con le loro antenne,
come monaci profeti di sventura.
Ma il mio destino fissato avevo alla mia sella,
e ancora adesso,
nei tempi futuri,
come un fanciullo sulle staffe
io mi sollevo.
La mia immortalità mi basta,
ché da secolo in secolo scorre
il mio sangue...
Per un angolo sicuro di tepore
darei la vita di mia volontà
qualora la sua cruna alata
non mi svolgesse più,
come un filo,
per le strade del mondo.


Arsenij Tarkovskij (Elisavetgrad,25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989) 'Poesie da 'Lo Specchio'.

02/03/11

Umberto Galimberti e Marco Guzzi - Il più inquietante degli ospiti: il Nichilismo - parte 2.



ecco dunque il secondo capitolo del Dialogo tra Marco Guzzi e Umberto Galimberti.

A partire da QUI potete poi ricostruire tutti gli altri capitoli del confronto, dall'uno - che abbiamo pubblicato ieri - fino al capitolo n.12, conclusivo.

Buon ascolto.

01/03/11

Umberto Galimberti e Marco Guzzi - Il più inquietante degli ospiti: il Nichilismo - parte 1.



Vi propongo - e vi proporrò nei prossimi giorni - i video di questo incontro, Il più inquietante di tutti gli ospiti: il nichilismo. E' un dialogo tra Umberto Galimberti e Marco Guzzi, andato in scena nell'ambito della rassegna curata da Gustavo Cecchini per la Biblioteca Comunale di Misano Adriatico lo scorso 25 novembre. Credo sia giusto proporlo perché è un moderno, attualissimo dialogo filosofico - ad alto livello (a me ha ricordato l'eterna diatriba tra Settembrini e Nephta ne La Montagna Incantata di Thomas Mann) sul tema centrale della nostra questione umana. Del nostro essere qui, su questa terra.

27/02/11

Il cielo della Memoria - di Marcel Proust.




Qualcuno l'ha definita la poesia più bella che sia mai stata scritta. E certamente non è così difficile convenirne, nella magnifica traduzione qui sotto. 


Tutto cancella il tempo come l’onda cancella
i giochi dei fanciulli sulla sabbia spianata.
Dimenticheremo le vaghe, le precise parole
che schermavano, tutte, un poco d’infinito.

Tutto il tempo cancella, ma non offusca gli occhi,
sia chiari come l’acqua o d’opale o di stella.
Belli come nel cielo o dentro un lapidario,
brilleranno per noi d’un fuoco triste e gaio.

Gli uni, a un vivente scrigno trafugati gioielli,
duri raggi di pietra mi getteranno in cuore,
come quando nella palpebra conflitti, sigillati,
lucevano d’un raro, illusorio splendore.

Ad altri dolci fuochi da Prometeo rapiti
la scintilla d’amore che in esso palpitava
per soave tormento abbiam portato via,
gioie troppo preziose o luci troppo pure.

Il cielo della mia memoria costellate in eterno,
inestinguibili occhi delle donne che ho amate !
Sognate come morti, brillate come glorie,
scintillerà il mio cuore come a maggio la notte.

Simile a una nebbia d’oblio cancella i volti,
i gesti che altra volta adorammo al divino,
che ci resero folli, che ci resero saggi,
grazie di perdizione, e simboli di fede.

Tutto cancella il tempo, le sere confidenti,
le mani ch’io posavo sul suo collo di neve,
i suoi sguardi che l’arpa dei miei nervi sfioravano,
la primavera che su noi scuoteva i suoi turiboli.

Altri occhi, pur essendo d’una donna gioiosa,
al pari dei rimorsi erano vasti e neri,
spavento delle notti, mistero delle sere.
Fra le sue belle ciglia c’era l’anima intera,

e come un gaio sguardo era vano il suo cuore.
Altri, simili al mare così dolce e cangiante,
ci smarrivano all’anima che in essi è prigioniera
come incalza l’ignoto nelle sere marine.

Solcammo, mar degli occhi, i tuoi limpidi flutti.
Gonfiava il desiderio le rattoppate vele;
delle antiche tempeste dimentichi, andavamo
sull’onda degli sguardi a scoprire altri cuori.

Tanti sguardi diversi, così simili i cuori !
Vecchi, delusi ostaggi degli occhi,
dovevamo restarcene a dormire sotto le fronde… Ma anche
sapendo tutto voi vi sareste imbarcati

per avere quegli occhi gravidi di promesse
come un mare che a sera fantastica del sole.
In inutili imprese vi siete prodigati
per giungere al paese del sogno che, vermiglio,

si lamentava d’estasi oltre le acque vere,
sotto la santa arca d’una nube, profeta
crudele. Ma è pur dolce avere per un sogno
queste piaghe, e festoso brilla il vostro ricordo.


Traduzione di Giovanni Raboni - Gallimard, 1982.

26/02/11

Il senso apocalittico di Heidegger e l'oggi - Jeanne Hersch.


Una delle più lucide critiche al pensiero di Martin Heidegger che ha potentemente illuminato e condizionato il pensiero filosofico occidentale del Novecento - da destra e da sinistra, come è stato ed è evidente anche in Italia - è quella formulata da Jeanne Hersch, filosofa svizzera nata nel 1900, e morta novantenne nel 2000, allieva di Husserl, che come è noto fu il maestro di Heidegger. E' davvero molto interessante rileggere oggi questa citazione tratta da Il dibattito su Heidegger: la posta in gioco testo pubblicato dall'editore Carocci nel 2004.


“Nel cuore della filosofia di Heidegger troviamo questa forza, la più viva del suo pensiero, che non è, come è stato detto, la meraviglia di fronte all’essere, ma il disprezzo per tutto quello che non è questa meraviglia, nella sua nudità e sterilità.

Un disprezzo ardente, appassionato, ossessivo per tutto ciò che è comune, medio e generalmente ammesso; per il senso comune, per la razionalità; per le istituzioni, le regole, il diritto; per tutto quello che gli uomini hanno inventato, nello spazio in cui debbono convivere, per confontare i loro pensieri e le loro volontà, dominare la loro natura selvaggia, attenuare l’impero della forza.

Disprezzo globale, dunque, per la civiltà occidentale, cristallizzata in tre direzioni: la democrazia, la scienza e la tecnica - per tutto ciò che, generato dallo spirito dell’Illuminismo, fa assegnamento su ciò che può esserci di universale nel senso di Cartesio, in tutti gli esseri umani.

Tutto questo è vuoto. … Tutta l’epoca è vissuta come superficiale, vana, senza spessore né profondità. Tutto shallow” .


24/02/11

La "divina bellezza" di C.G.Jung, sulle note di Kjetil Bjornstad.



E' una sorta di testamento spirituale, quello scritto da Carl Gustav Jung nell'ultima pagina di 'Ricordi, sogni, riflessioni', pubblicata nel 1961 E' sempre meraviglioso rileggere queste parole.

Sono stupito, deluso, compiaciuto di me; sono afflitto, depresso, entusiasta. Sono tutte queste cose insieme, e non so tirare le somme. Sono incapace di stabilire un valore o un non-valore definitivo; non ho un giudizio da dare su me stesso e la mia vita. Non vi è nulla di cui mi senta veramente sicuro. Non ho convinzioni definitive, proprio di nulla. So solo che sono venuto al mondo e che esisto, e mi sembra di esservi stato trasportato. Esisto sul fondamento di qualche cosa che non conosco. Ma, nonostante tutte le incertezze, sento una solidità alla base dell'esistenza e una continuità nel mio modo di essere.

Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. Se la mancanza di significato fosse assolutamente prevalente, a uno stadio superiore di sviluppo la vita dovrebbe perdere sempre di più il suo significato; ma non è questo - almeno così mi sembra - il caso. Probabilmente, come in tutti i problemi metafisici, tutte e due le cose sono vere: la vita è - o ha - significato, e assenza di significato. Io nutro l'ardente speranza che il significato possa prevalere e vincere la battaglia.

Quando Lao Tse dice: "Tutti sono chiari, io solo sono offuscato", esprime ciò che io provo ora, nella mia vecchiaia avanzata. Lao Tse è l'esempio di un uomo di una superiore intelligenza, che ha visto e provato il valore e la mancanza di valore, e che alla fine della sua vita desidera tornare nel suo proprio essere, nell'eterno inconoscibile significato. L'archetipo dell'uomo vecchio che ha visto abbastanza è sempre vero. Questo tipo appare a qualsiasi livello di intelligenza, e i suoi tratti sono sempre gli stessi, sia egli un vecchio contadino o un grande filosofo come Lao Tse. Così è la vecchiaia, dunque limitazione. Eppure vi sono tante cose che riempiono la mia vita: le piante, gli animali, le nuvole, il giorno e la notte, e l'eterno nell'uomo. Quanto più mi sono sentito incerto su di me stesso, tanto più si è sviluppato in me un senso di affinità con tutte le cose. Mi sembra, infatti, che quell'alienazione che per tanto tempo mi ha diviso dal mondo si sia trasferita nel mio mondo interiore, e mi abbia rivelato una insospettata estraneità con me stesso.»


22/02/11

Cosa è il Buono.



Entrare in casa di una povera vecchia, cieca, e derubarla di una macchina fotografica è una azione moralmente buona ? Certamente no, si direbbe.
Invece, nel "Racconto di natale" di Paul Auster, mirabilmente reso da un grande attore come Harvey Keitel, e poi sceneggiato in bianco e nero, sulle note di Tom Waits - "Innocent when you dream" - si scoprono molte cose.
Si può scoprire che una azione apparentemente malvagia - un furto, di nascosto ad una anziana cieca - può essere inserita in un contesto e quindi in un significato totalmente positivo, totalmente buono.
Buono è la parola giusta oggi. Buono. In un momento nel quale, in questo paese, sembriamo aver smarrito anche la via più semplice al buon senso (lo scetticismo etico che sembra aver ottenebrato le menti), a ciò che è bene e ciò che è male, a ciò che anche un bambino sa, e noi facciamo finta di aver dimenticato, nelle nostre vite alienate, prive di senso.