20/10/10

Il tempo perduto - di Fabrizio Falconi.




IL TEMPO PERDUTO



Fermati un attimo
sospendi il corso inutile delle cose
sorprenditi, resta a sedere
a lungo finché la tua schiena non sarà
spezzata
sdràiati tra il bambù
e quel silenzio assordante
lascia fare
lascia a lei di fare
il compito
per cui sei nato,
fermati un attimo
fermati
ritrova il sorriso
che hai sotterrato
nel diluvio di lacrime,
rivendica la forza
smarrita delle tue mani
ritrova il tesoro
che ti fu donato,
fermati
non pensare più
alla tempesta che ha dissipato
i tuoi sogni
sulla spiaggia,
come animali morti
ti guardano,
fermati
senza più brama di conoscere,
senza vanto,
senza tutti gli inutili
muri che hai alzato,
arrenditi,
e fermati per un solo istante,
che durerà per sempre,
chiudi gli occhi.



Fabrizio Falconi - 30 maggio 2010

17/10/10

Le cose che il Cile ha insegnato (a noi e al mondo).


Avendo seguito la vicenda dei minatori cileni sin dall’inizio, anche per ragioni di lavoro, in modo approfondito, vorrei sottoporvi queste piccole riflessioni.

La vicenda, ha secondo me offerto insegnamenti importanti. Molto spesso mi è capitato di pensare a cosa sarebbe successo se questa storia fosse capitata in Italia, oggi.

Ed ecco ciò che ho notato:

1. Innanzitutto il Cile – un paese che per molti degli italiani esiste solo in quanto patria di calciatori o di vaghi ricordi legati a Pinochet – ha fornito una incredibile dimostrazione di efficienza. La macchina dei soccorsi è stata tempestiva, efficace e direi quasi miracolosa, ricordando che questo del disastro cileno è un caso UNICO nella storia, e sin dall’inizio si era compreso che era necessario ricorrere a tecnologie (macro e micro) del tutto nuove, primo per identificare il luogo dove i minatori si trovavano, se sopravvissuti alla catastrofe, secondo per tirarli fuori di lì. I cileni hanno bruciato i tempi. Si parlava di Natale, all’inizio: hanno tirato fuori tutti i minatori due mesi prima, con una operazione tecnicamente perfetta.

2. Il paese, il Cile, ha dimostrato in questi due mesi e mezzo, una compattezza straordinaria: dal momento in cui si è saputo che i minatori erano vivi, nessuno più si è messo di traverso. La politica ha smorzato i toni, il premier e il governo sono stati sostenuti in ogni modo (possiamo immaginare cosa sarebbe successo in Italia ?). I giornali hanno lavorato per i minatori. La gente, il popolo, si è stretto intorno ai minatori, facendoli sentire vivi e necessari.

3. Al momento del salvataggio vero e proprio, i 1700 giornalisti di tutto il mondo accreditati (più di quanti ce ne erano per la morte di Woytila) – ma non li avevano invitati i cileni, erano venuti loro perché si tratta di una storia unica – sono stati tenuti in considerazione, ma lontano dalla botola del pozzo.

4. Intorno a questa botola, c’erano pochissime persone. Il presidente era uno di loro, e non aveva un posto privilegiato. Aspettava il suo turno per abbracciare i minatori che uscivano.

5.I minatori hanno mantenuto per tutta la durata della loro prigionia sottoterra, una dignità spaventosa: pur collegati in diretta, con la video via cavo, hanno evitato sceneggiate, mai crisi di nervi, mai appelli, mai richieste inappropriate, non un litigio, non una prevaricazione. La solidarietà esistente tra di loro è stata anzi completa fino all’ultimo – ognuno di loro aveva espresso il desiderio di uscire per ultimo dal pozzo.

6.Anche una volta usciti, i minatori hanno manifestato una gioia contenuta, sobria, vera. Gli abbracci sotto le telecamere sono stati perfino pudichi. Nessuno di loro ha parlato a vanvera, nessuno di loro ha ‘esternato’. Uno solo, anzi, ha tenuto a precisare di voler essere considerato per quello che è, e cioè ‘un operaio’ e non un artista.

7. Si è detto che le mogli e i parenti erano stati agghindati per le telecamere: niente di più falso. Erano donne che si erano preparate per i loro uomini, per i loro mariti o fidanzati, la cosa più naturale del mondo. Avevano i capelli in ordine e un filo di trucco perché volevano essere belle per loro. E loro, si erano sbarbati e pettinati per venir fuori. Non lo hanno fatto certo per le telecamere.

8.La vicenda è entrata nel cuore dei telespettatori di tutto il mondo per questo: perché ha raccontato la vita vera, le persone vere, le situazioni vere. Il rischio, la morte, la paura, l’abisso, la speranza, la fede, la solidarietà, l’amicizia, la fraternità, la sopravvivenza, il riscatto. Un piccolo compendio di umanità. Di tutto ciò che è legato all’essere umano, alla sua vera essenza.

9. E’ per questo che ieri, seguendo le notizie sui siti e sui TG italiani sono rimasto davvero basito, e mi sono intristito, per l’ennesima volta. La notizia dei minatori cileni – prima notizia in tutti i siti del mondo, ieri, dalla CNN all’ultimo sperduto sito indiano – ha resistito da noi come prima notizia solo poche ore, fino al terzo o quarto salvato. Già a partire dalle undici del mattino, sui siti la notizia è scivolata al secondo posto, scalzata dalla notiziona degli incidenti tra tifosi alla partita Italia-Serbia. I tg della sera hanno aperto tutti con Italia-Serbia (anche Mentana, che ha dato la notizia dei minatori quasi in chiusura di edizione). Davvero una tristezza: ancora una volta la dimostrazione di quanta fatica faccia il bene – tutto ciò che ho riassunto nell’elenco precedente – a diventare notizia, specie nel nostro cortiletto italico. Per noi la notizia degli ennesimi scontri ad una partita di calcio, dell’energumeno serbo incappucciato (nessun morto, per fortuna, ma va bene lo stesso..) è più importante di una storia epica di disgrazia che diventa riscatto e salvezza grazie alla forza di un intero popolo, alla solidarietà di un intero popolo. No, no, per noi vale sempre di più, e meglio, il rosario delle nostre cattive notizie quotidiane.

Fabrizio Falconi

06/10/10

L'isola sommersa del domani - di Fabrizio Falconi


L'isola sommersa del domani


L'isola è lontana ed è gialla
come la terra inghiottita dall'acqua,
spingono i tuoi bambini
perché vorrebbero farla volare
con le capre, i letti di canne
e il bidone viola, nell'altrove
di altre terra dimenticate e distratte
ma più fortunate
che si ubriacano al sogno demente
di altre isole dove anime disperate
consumano giochi mentre il mondo va in rovina.

Spiegalo tu, ad Hassan, tuo figlio
che la vostra casa di Sukkur
era bella un giorno e gonfia di profumi
e di fiori, e lenta di luce
al tramonto, dorata e lucente
e vuota gaia e silenziosa
come ogni casa dove è entrato l'amore.

Ora non c'è più
e naviga nel limbo di un sogno
aspettando che qualcuno la racconti
che qualcuno, da Occidente
spalanchi gli occhi
per sussurrare le uniche parole
- quelle uniche parole vere -
che si possono sussurrare
alle orecchie di chi muore.


Fabrizio Falconi - 28 agosto 2010

13/08/10

"E Voi, Amatevi di più !" un testo da meditare a lungo, di Lev Tolstoj.

Nella sterminata produzione tolstojana c'è sempre qualche piccola gemma da scoprire o riscoprire. Questo testo, quasi del tutto sconosciuto in Italia, è una sorta di breve testamento spirituale, lasciato dal grande scrittore tre anni prima di morire. E' un testo straordinario, che meriterebbe di essere scolpito nel cuore di ognuno, e di essere condiviso il più possibile e meditato. E' un piccolo regalo de 'Il mantello di Bartimeo' per la vostra vacanza.


Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta.

Tutto dipende da come uno concepisce la propria esistenza. Se uno pensa: tutta la vita è nel mio corpo, cioè il corpo di Ivan, Pietro, Maria e lo scopo della vita consiste nel procurare la maggior quantità di piaceri e soddisfazioni a questo mio io, cioè a Ivan, Pietro, Maria, allora la vita sarà sempre e per tutti infelice e amara.

Essa sarà infelice e amara, perché tutto quello che ciascuno vuole per sé, lo vogliono anche tutti gli altri per loro. Se ciascuno vuole ogni genere di beni materiali per sé e nella maggior quantità possibile, siccome questi beni sono limitati, essi non saranno mai sufficienti per tutti. E perciò quando gli uomini vivono, pensando ciascuno solo a se stesso, non possono fare a meno di portarsi via l’un l’altro questi beni, di lottare ed essere nemici tra loro: per questo la loro vita diviene infelice. La vita ci è stata data perché sia per noi un bene e noi questo ci attendiamo da lei. Ma perché sia così, dobbiamo capire che la vera vita non è nel corpo, ma in quello spirito che abita dentro il nostro corpo, dobbiamo capire che il nostro bene non consiste nei piaceri del corpo e nel fare ciò che chiede il corpo, ma nel fare ciò che esige quell’unico spirito, che abita in tutti noi.

Questo spirito vuole il suo proprio bene, cioè il bene dello spirito, e poiché questo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice.

Di conseguenza gli uomini, per quanto facciano, non sono mai in grado di soddisfare i loro desideri materiali, perché ciò che serve al corpo non sempre è possibile procurarselo e per procurarselo bisogna lottare contro gli altri; al contrario, l’anima, che ha bisogno solo d’amore, può essere soddisfatta facilmente: per amare non dobbiamo lottare contro nessuno, anzi più amiamo, più andiamo d’accordo con gli altri.

Nulla poi ostacola l’amore e più uno ama, più diventa felice e allegro, non solo, ma rende felici e allegri anche gli altri. Ecco, cari fratelli, quello che volevo dirvi, prima di lasciare questa terra.

Al giorno d’oggi si sente dire da ogni parte che la nostra vita è amara e infelice perché mal organizzata, dobbiamo trasformare le strutture sociali e la nostra vita diverrà felice. Non credete assolutamente a ciò, cari fratelli !

Non illudetevi che l’una o l’altra struttura sociale migliorerà la nostra vita. Intanto, tutte queste persone, che si stanno impegnando per migliorare l’organizzazione della società, non sono d’accordo fra loro. Gli uni propongono un progetto come il più adatto, gli altri affermano che quello è pessimo e che solo il loro va bene, i terzi bocciano anche questo e ne propongono uno ancora migliore.

Poi, anche ammettendo che si trovasse l’organizzazione sociale ideale, come farla accettare da tutti, e come realizzarla, se la gente è piena di vizi ?

Per costruire una vita migliore, devono divenire migliori i singoli individui.


Lev Tolstoj – ‘Amatevi gli uni gli altri’ – scritto nel 1907, tre anni prima della morte.




08/07/10

Non voglio sprecare niente del tempo che resta.



Che cosa facciamo del nostro tempo ?
E’ deprimente constatare lo scialo che spesso riusciamo a farne.
Sembra, anzi, che l’alibi del nostro tempo sia questa frase: “non ho tempo.”

“Non ho tempo” ci permette di restare inchiodati, al punto che ci conviene. “Non ho tempo” ci permette di non metterci mai in discussione, in gioco veramente.

Facciamo mille cose, la gran parte inutili.

Siamo impegnati, ci dedichiamo anima e corpo a lavori inutili, a servire gente inutile, a fare turni inutili, a partecipare a riunioni inutili, a studiare organigrammi inutili, strategie inutili, pianificazioni inutili. Siamo impegnati a fare più soldi inutili che spenderemo per cose inutili.

Perciò “non ho tempo” per vedere un amico, per leggergli negli occhi, per fare con lui una bella conversazione, per vedere le nuvole passare, per ascoltare il rumore del vento, per godere la pioggia, per sentire cosa ho dentro, per capire cosa è questo vuoto apparente che abbiamo intorno, per immaginare lo straordinario universo.

“Non avere tempo” vuol dire essere eternamente sospesi tra il rimpianto e il ricordo del passato, e l’aspettativa frenetica di un sempre nuovo futuro, che magari non arriva mai.

“Non avere tempo” vuol dire cancellare il presente, che è l’unica condizione che conta veramente. L’unica condizione che ci è dato abitare.

Scrive Schopenhauer: “ La forma dell’apparizione della volontà è solo il presente, non il passato né il futuro. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: il presente è la forma di ogni vita, è un possesso che nessun male può strapparle… “

Invece, sembra spesso che abbiamo abdicato al nostro presente.

Cerchiamo distrazioni virtuali, vie di fuga parallele, oppure avanti o indietro. E tutto il bello che la vita offre, ci sfugge – mentre siamo occupati a fare altro – come grani di sabbia tra le dita.

Il tempo, però, ha sempre l’ultima parola. Perché il tempo è reale. Ogni ‘confutazione’ del tempo, infatti, non regge alla prova.

Anche il grande J.L. Borges, che provò a confutarlo, dovette alla fine del suo saggio ammettere: “ Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume.; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. “
Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.

Riprendiamoci il tempo. In questo tempo propizio d'estate, riprendiamoci il nostro tempo.

Da qui inizia ogni rivoluzione possibile delle nostre vite.


24/06/10

Saramago, un grande maestro, e il cattivo trattamento dell'Osservatore Romano.


Davvero sono rimasto piuttosto basito nel leggere il commento che l'Osservatore Romano ha dedicato alla scomparsa di José Saramago, quello che secondo molti - compreso chi vi scrive - era il più grande scrittore contemporaneo.

Con il titolo L'onnipotenza (presunta) del narratore, il quotidiano vaticano ha dedicato un duro pezzo di commiato - completamente privo fra l'altro di qualunque pìetas - al grande scrittore, premio Nobel, nel quale si legge fra l'altro: un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle 'purghe', dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.

Ora io dico: ma come si fa ad essere così ciechi ? Davvero quelli dell'Osservatore sembrano usciti dal romanzo-capolavoro di Saramago: Cecità.

Chi minimamente conosca l'opera (e anche la vita) di Saramago, sa che - pur dichiarandosi e professandosi ateo - egli ha sempre avvicinato e attraversato il mistero metafisico, in ogni opera. Anche Cecità è un grande affresco metafisico, dove tutto ciò che accade può essere letto come una grande parabola sulla verità e sulla presunzione umana di credere soltanto a ciò che si vede.

Ma poi come non ricordare tutte le grandi opere nelle quali Saramago ha affrontato a suo modo la figura di Cristo, o di Maria. Tutta la sua opera letteraria non esisterebbe se non fosse esistito il cristianesimo: tutta la sua opera è un dialogo - a tratti sfrontato, assoluto, provocatorio, ma anche rispettoso, mai volgare, mai pretestuoso - con il cristianesimo.

L'Osservatore, invece di scagliare il suo anatema contro i grandi dissolutori di princìpi che scorrazzano liberamente nel confuso mondo di oggi, spesso mascherandosi proprio dietro le sembianze di attributi pii, sbaglia ancora una volta obiettivo, e spara a zero, nel giorno della sua morte, contro un grande spirito libero che forse - più di ogni altro - aveva davvero nostalgia di Dio.


13/06/10

La conferenza dei Medici Cristiani indaga sui benefici della fede.


Circa 270 medici e personale paramedico di 40 nazioni si sono riuniti per partecipare alla Settima conferenza internazionale dei medici cristiani del WCDN (World Christian Doctors Network) che si è svolta presso lo Sheraton Roma Hotel & Conference Center di Roma, il 21 e 22 maggio scorsi.

Diversi medici hanno partecipato a questa conferenza internazionale dei medici cristiani nei luoghi del martirio dell’apostolo Paolo incentrata sul tema "Spiritualità e medicina", per discutere diversi casi di guarigione divina sulla base di dati medici e scientifici.

Con l’aiuto di una presentazione video sono stati illustrati sette casi di guarigione divina, selezionati attraverso un attento esame analitico e studiati confrontando i dati diagnostici ottenuti prima di ricevere la preghiera e i dati della valutazione eseguita dopo la preghiera stessa.

Il dott. Cesare Ghinelli, pediatra dell’ospedale universitario di Parma in Italia, ha presentato casi di guarigione divina nell’ambito pediatrico e della chirurgia pediatrica.

Il dott. Eydna Eysturskard, chirurgo delle Isole Faroe (Danimarca) ha esposto il caso di guarigione dagli effetti postumi della frattura del polso di un violinista. Il dott. Chauncey Crandall, medico specializzato in patologie cardiovascolari, operante nella Palm Beach Cardiovascular Clinic di Palm Beach Gardens (Florida, Stati Uniti), ha presentato il caso della risurrezione di un paziente a seguito di un infarto.

Sono stati illustrati anche i casi di guarigione riferiti dal dott. Jaerock Lee, fondatore & presidente di WCDN e autore del libro "Understanding the Message of the Cross of Jesus Christ". Il caso di un paziente guarito da un cancro allo stomaco con la sola preghiera, senza la somministrazione di farmaci, presentato dal dott. Fidel Fernandez patologo delle Filippine, ha stupito molti partecipanti. La dott.ssa Teh Mii Lii, ostetrica e ginecologa della Malesia ha esposto il caso di guarigione di una donna a cui è stata riscontrata la rottura della placenta alla diciannovesimo settimana di gravidanza; la paziente, che a causa del suddetto problema rischiava un aborto spontaneo o un parto prematuro ha invece ha partorito un figlio sano al termine della gravidanza senza particolari complicanze grazie alla preghiera del dott. Jaerock Lee.

Il World Christian Doctors Network è un movimento internazionale fondato per discutere i numerosi casi di guarigione divina avvenuti in tutto il mondo ed esortare medici e scienziati a testimoniare l’esistenza di Dio e l’autenticità della Bibbia. Dal 2004 a oggi le conferenze annuali internazionali dei medici cristiani si sono tenute a Chennai (India), Cebu (Filippine), Miami (Stati Uniti), Trondheim (Norvegia), Kiev (Ucraina) e Roma; Ottava conferenza si svolgerà a Brisbane (Australia) nel 2011.

Per ulteriori informazioni, visitare il sito web http://www.wcdnaustralia.org

02/06/10

Pavel Florenskij il pensiero contro l' ideologia.


Pavel Florenskij il pensiero contro l' ideologia

un articolo di Vito Mancuso per Repubblica.


L' incontro con Pavel Florenskij ha segnato profondamente la mia vita e quindi questo articolo lo si deve intendere come una dichiarazione d' amore. L' occasioneè la nuova edizione del capolavoro del 1914 La colonna e il fondamento della verità grazie al contributo encomiabile di Natalino Valentini, al quale si deve la cura di molti altri scritti, tra cui Bellezza e liturgia, l' epistolario dal gulag Non dimenticatemi e le memorie Ai miei figli.

Come ogni dichiarazione d' amore, anche questa si rivolge alla più intima umanità dell' interessato, a quel mistero personale non riassumibile nelle sue conoscenze. Dico questo per liberare Florenskij dall' incanto della sua genialità («il Leonardo da Vinci della Russia») per l' essere stato matematico, fisico, ingegnere, e, sull' altro versante, teologo, filosofo, storico dell' arte. Marito e padre di cinque figli, fu anche sacerdote ortodosso, status che gli costò la vita nel 1937.

Essere sacerdote e insieme scienziato era una smentita vivente dell' ideologia comunista, per la quale la fede era solo ignoranza: la dittatura non poteva tollerarlo e non lo tollerò. Da una lettera del 1917 emerge la sua inconfondibile personalità: «Nello spazio ampio della mia anima non vi sono leggi, non voglio la legalità, non riesco ad apprezzarla... Non mi turba nessun ostacolo costruito da mani d' uomo: lo brucio, lo spacco, diventando di nuovo libero, lasciandomi portare dal soffio del vento».

Eccoci al cospetto di un nesso incandescente: dedizione assoluta per «la colonna e il fondamento della verità» e insieme vibrante ribellione a ogni legaccio della libertà. Si comprende così come non solo per il regime ma anche per la Chiesa gerarchica il suo pensiero era ed è destabilizzante, tant' è che ancora oggi, nonostante il martirio, Florenskij non è stato beatificato. Durante la prigionia scriveva al figlio Kirill: «Ho cercato di comprendere la struttura del mondo con una continua dialettica del pensiero».

Dialettica vuol dire movimento, pensiero vivo, perché «il pensiero vivo è per forza dialettico», mentre il pensiero che non si muove è quello morto dell' ideologia, che, nella versione religiosa, si chiama dogmatismo. Il pensiero si muove se è sostenuto da intelligenza, libertà interiore e soprattutto amore per la verità, qualità avverse a ogni assolutismo e abbastanza rare anche nella religiosità tradizionale. Al riguardo Florenskij racconta che da bambino «il nome di Dio, quando me lo ponevano quale limite esterno, quale sminuimento del mio essere uomo, era in grado di farmi arrabbiare tantissimo». La sua lezione spirituale è piuttosto un' altra: la fede non è un assoluto, è relativa, relativa alla ricerca della verità. Quando la fede non si comprende più come via verso qualcosa di più grande ma si assolutizza, si fossilizza in dogmatismo e tradisce la verità.

La dialettica elevata a chiave del reale si chiama antinomia, concetto decisivo per Florenskij che significa «scontro tra due leggi» entrambe legittime. L' antinomia si ottiene guardando la vita, che ha motivi per dire che ha un senso e altri opposti. Di solito gli uomini scelgono una prospettiva perché tenerle entrambe è lacerante, ma così mutilano l' esperienza integrale della realtà. Ne viene che ciò che i più ritengono la verità, è solo un polo della verità integrale, per attingere la quale occorre il coraggio di muoversi andando dalla propria prospettiva verso il suo contrario. Conservando la propria verità, e insieme comprendendone il contrario, si entra nell' antinomia. «La verità è antinomica e non può non essere tale», scrive Florenskij nello straordinario capitolo della Colonna dedicato alla contraddizione dove convengono Eraclito, Platone, Cusano, Fichte, Schelling, Hegel. Ma è per Kant l' elogio più alto: «Kant ebbe l' ardire di pronunciare la grande parola "antinomia", che distrusse il decoro della pretesa unità. Anche solo per questo egli meriterebbe gloria eterna».

In realtà questa celebrazione della vita aldilà del concetto è il trionfo dell' anima russa, quella di Puskin, Gogol' , Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Pasternak, e che pure traspare da molte pagine di Florenskij cariche di poesia. Per lui anche la Bibbia e la dottrina sono colme di antinomie, in particolare la Lettera ai Romani è «una bomba carica di antinomie». Ma di ciò si deve preoccupare solo chi ha una concezione dottrinale del cristianesimo, non chi, come Florenskij, lo ritiene funzionale alla vita. Tra i due nomoi dell' antinomia non c' è però per Florenskij perfetta simmetria: operativamente egli privilegia il polo positivo. Pur sapendo bene che «la vita non è affatto una festa, ma ci sono molte cose mostruose, malvagie, tristi e sporche», non cede mai alla rassegnazione o al cinismo; al contrario insegna ai figli che «rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinnanzi allo sguardo interiore l' armonia e cercare di realizzarla». Tale armonia non può venire dal mondo, dove regna l' antinomia, ma da una dimensione più profonda.

La voglio illustrare con alcune righe del testamento spirituale, iniziato nel 1917, l' anno della rivoluzione, avendo subito intuito la minaccia che incombeva su di lui: «Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso sull' animo, guardate le stelle o l' azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all' aria aperta e intrattenetevi, da soli, col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete».

VITO MANCUSO

31/05/10

L'attacco ai Pacifisti a Gaza : una meditazione attuale di Carlo Maria Martini.


Leggendo oggi le spaventose notizie giunte da Israele con l'attacco assurdo alla flottiglia dei pacifisti, che ha lasciato per terra 19 morti (!) mi sono tornate alla mente queste parole del Cardinale Carlo Maria Martini, sulle quali forse oggi più che mai è importante meditare.

Il Cardinale Carlo Maria Martini, tornando da Gerusalemme

Torno da Gerusalemme avendo ancora negli orecchi il suono sinistro delle sirene della polizia e delle ambulanze dopo il terribile attentato di martedì 19 agosto. Ma ciò che sempre più ascolto dentro di me non è soltanto il dolore, lo sdegno, la riprovazione, che si estende a tutti gli atti di violenza, da qualunque parte provengano. È una parola più profonda e radicale, che abita nel cuore di ogni uomo e donna di questo mondo: non fabbricarti idoli! Questa parola risuona nella Bibbia a partire dalle prime parole del Decalogo e la percorre tutta quanta, dalla Genesi all'Apocalisse.

È dunque un comandamento che tocca profondamente il cuore di ebrei e cristiani e segna un principio irrinunciabile di vita e di azione. Ed è un comandamento anche molto caro all'Islam, che ne fa uno dei pilastri della sua concezione religiosa: c'è un Dio solo, potente e misericordioso, e nulla è comparabile a lui. Ma è anche un precetto segreto che risuona nel cuore di ogni persona umana: chi adora o serve in ogni modo un idolo ha una coscienza almeno vaga di voler «usare» la divinità o comunque un principio assoluto per i propri scopi, sente che sta strumentalizzando e sottoponendo ai propri interessi un sistema di valori a cui occorre invece rendere onore. Per questo chiunque adora un idolo intuisce che in qualche modo si degrada, sta facendo il proprio male e sta preparandosi a fare del male agli altri.

Ma non ci sono soltanto gli idoli visibili. Più radicati e potenti, duri a morire, sono gli idoli invisibili, quelli che rimangono anche quando sembra escluso ogni riferimento religioso. Tra essi vi sono gli idoli della violenza, della vendetta, del potere ( politico, militare, economico...) sentito come risorsa definitiva e ultima. E' l'idolo del volere stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche cosa in vista di un bene complessivo. Questi idoli, anche se si presentano con le vesti rispettabili della giustizia e del diritto, sono in realtà assetati di sangue umano.

Essi hanno una duplice caratteristica: schiavizzano e accecano. Infatti, come dice tante volte la Bibbia, chi adora gli idoli diviene schiavo degli idoli, anche di quelli invisibili: non può più sottrarsi ad esempio alla spirale perversa della vendetta e della ritorsione. E chi è schiavo dell'idolo diventa cieco riguardo al volto umano dell'altro. Ricordo la frase con cui alcuni giovani ex - terroristi degli anni '80 cercavano di descrivere come avessero potuto sparare e uccidere: "non vedevamo più il volto degli altri".

Le violenze che si scatenano oggi in tante parti del mondo sono il segno che c'è un'adorazione di questi idoli e che essi ripagano con la loro moneta distruttrice chiunque renda loro omaggio. Chi ha fiducia solo nella violenza e nel potere prima o poi tende a eliminare e distruggere l'altro e alla fine distrugge se stesso. Già san Paolo ammoniva: "se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!". E ancora: "Non vi fate illusioni: non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato" (Lettera ai Galati 5,15 e 6,7).

Siamo nel vortice di una crisi di umanità che intacca il vincolo di solidarietà fra tutto quanto ha un volto umano. Nell'adorazione dell'idolo della potenza e del successo totale ad ogni costo è l'idea stessa di uomo, di umanità che viene offesa, è l'immagine stessa di Dio che viene sfigurata nell'immagine sfigurata dell'uomo. Ma proprio da questa situazione, dalla presa di coscienza di trovarsi in un tragico vicolo cieco di violenza - a cui ha fatto più volte allusione il Papa Giovanni Paolo II - può scaturire un grido di allarme salutare e urgente, più forte dell'idolatria del potere e della violenza.

È un grido che si traduce concretamente nel proclamare che non vi sono alternative al dialogo e alla pace. Lo sta da tempo ripetendo in tanti modi Giovanni Paolo II. Ma esso è un grido che precede le dichiarazioni pubbliche, per quanto accorate. Risuona infatti nel cuore di ogni uomo o donna di questo mondo che si ponga il problema della sopravvivenza umana. Di alternativo alla pace oggi vi è solo il terrore, comunque espresso. Quando la sola alternativa è il male assoluto, il dialogo non è solo una delle possibili vie di uscita, ma una necessità ineludibile. Per questo i leader di tutte le parti tra loro contrastanti debbono rischiare senza esitazioni il dialogo della pace.

Tutto ciò fa emergere ancora più chiaramente le responsabilità della comunità internazionale, quelle dell'Onu e quelle dell'Europa, quelle degli Stati Uniti, della Russia e dei paesi arabi. È necessario che tutti aiutino il processo di pace che si era appena iniziato, con una pressione forte e convinta a favore della Road Map e anche con la prontezza a fornire un sostegno politico e finanziario alle comunità che hanno il coraggio di rischiare la pace. Alla costruzione di muri di cemento e di pietra per dividere le parti contrastanti è preferibile un ponte di uomini che, pur garantendo la sicurezza di entrambe le parti, consenta alle due comunità di comunicare e di intendersi sempre più sulle cose essenziali e su quelle quotidiane.

Certamente l'odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l'idolo dell'odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell'altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l'odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta.

Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell'altro, dell'estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l'inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace. Non fabbricarti idoli: idolo è anche porre se stesso e i propri interessi al disopra di tutto, dimenticando l'altro, le sue sofferenze, i suoi problemi. Il superamento della schiavitù dell'idolo consiste nel mettere l'altro al centro, così da creare quella base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative.


26/05/10

Preghiera per i figli.


Su un vecchio libro di preghiere, vecchio di molti anni, ho ritrovato questa Preghiera per i figli, che ho trovato bellissima e che vi invito a copiare, tenere, e a recitare spesso.

O signore, custodisci sotto la tua paterna protezione i figli che tu stesso mi hai concesso.
Io so che tu li ami con un amore più grande e più puro del mio.
Tu hai per loro silenziose parole e forze soavi, a me sconosciute; tu sei con loro ogni momento e ne scruti la mente e il cuore. A te dunque, o Signore, affido la loro inesperta giovinezza.
Sii per essi "la via, la verità e la vita," l'amico vero che non tradisce mai. Non permettere che ti offendano col peccato: fanne degli eletti per il cielo. E salva anche l'anima mia e del mio sposo/a.
Perdona, Signore, le mie debolezze e colma le mie lacuna, e fa' che possa compiere meno indegnamente la mia missione nella famiglia e nella società.
Mantieni tutta la mia famiglia nello spirito di fede, nella pace e nell'unità dell'amore e concedici che un giorno ci ritroviamo uniti nella società dei Santi, con te, in eterno. Amen.

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20/05/10

Wonderland - Il meraviglioso che non vediamo mai.


Sahara Wonderland from zoomion on Vimeo.

Ho letto recentemente le dichiarazioni di Woody Allen al festival in corso a Cannes, dove il grande regista presenta il suo ultimo film.

In vecchiaia, il grande Woody si è sempre più incupito, e ogni volta che in conferenza stampa qualcuno gli domanda in cosa creda, quale è la sua concezione del mondo, il senso della nostra vita, la sua risposta è sempre più brutale: Woody dichiara - sempre più implacabilmente - che non crede in nulla, che la vita non ha nessun senso, che l'esistenza è un inferno caotico, del quale forse sarebbe stato meglio non fare mai parte - tranne poi aggiungere con la sua consueta ironia alla inevitabile domanda sulla morte, che "è fortemente contrario".

A parte dunque che chi odia così tanto la vita, chi la ritiene un incubo o un inferno dovrebbe desiderare solo di uscirne il più presto possibile, e quindi agognare la morte, mi sembra che Woody incarni molto lo spirito dei tempi: non a caso dichiara che il suo autore preferito è Philip Roth, al quale è accomunato da una stessa visione filosofica della vita.

Questa visione così cupa mi lascia sempre interdetto. Non bisogna sentirsi religiosi - tutt'altro - per considerare la vita come una esperienza formidabile.

Io credo fortemente che il nostro destino su questa terra sia quello di essere felici - o almeno di tentare di esserlo.

Quello di cui disponiamo è un bene immenso, che mirano - o tendono - ad una compiutezza e a un senso che hanno un nome: vita.

Basterebbe passare una notte nel Sahara, forse.


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10/05/10

Marco Guzzi: Un mondo decrepito da ringiovanire.


Carissime amiche e carissimi amici,

uno dei segni più evidenti della natura terminale della nostra società è il suo costante e ineluttabile invecchiamento.

Il 1° Rapporto realizzato dal Forum nazionale dei Giovani, in collaborazione col CNEL e con Unicredit, e presentato nel marzo del 2009, che si chiama non a caso “URG! Urge Ricambio Generazionale”, ci mostra un’Italia completamente governata da una inossidabile gerontocrazia, un paese che invecchia e che affida a classi dirigenti sempre più attempate il proprio destino. Un paese in cui i deputati sotto i 35 anni non raggiungono mai il 10%; in cui nelle Università su 61929 docenti e ricercatori solo un misero 7,6% è costituito da under35, e di questi un miserrimo 0,5% sono professori associati, e un ridicolo 0,03 sono ordinari; in cui il 56% dei medici è over50, l’11,5% over65, e solo il 12% è under35; in cui 1.900.000 giovani tra i 25 e i 35 anni non studia né lavora, paralizzando un patrimonio immenso di energie creative, e così via.

Tutto ciò è evidente e denota una caratteristica preminentemente italiana di una crisi generazionale, o direi meglio di Ri-Generazione, che riguarda però l’intera civiltà occidentale. L’Europa, in particolare, da cui è partito questo grande ciclo storico, sembra ogni giorno di più una specie di cronicario, abitato da vecchi, la cui unica preoccupazione è quella di procurarsi giovani badanti straniere e al contempo di tenere fuori dalle proprie città chiunque possa disturbare la quiete dell’ospizio.

Ci occupiamo ormai ossessivamente soltanto del tempo del nostro pensionamento, o di come porremo fine alla nostra vita, mentre i filosofi, gli scrittori, e i registi di questa terra desolata cantano la nenia straziante del puro non senso, vanno da Fazio a raccontare lo squallore irrimediabile delle nostre società, ed edificano le loro carriere sulle macerie di ciò che fu la cultura occidentale. Talmente decrepiti ormai, e anche spudorati, da non accorgersi più del ruolo ridicolo al quale si sono ridotti: numeri da circo nell’osceno varietà dell’intrattenimento universale, come aveva visto con chiarezza Pasolini già alla fine degli anni ’60: “L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole. In altre parole, l’intellettuale non è più guida spirituale di popolo o borghesia in lotta, ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli”.

E non facciamoci illusioni: non basta cambiare generazione nei ruoli direttivi per collaborare attivamente alla Ri-Generazione in atto.

I giovani sono spesso più vecchi e più mummificati dei loro padri!

Il kamikaze 18enne che si fa esplodere nella piazza del mercato di Kabul nell’illusione di combattere la sua guerra santa è vecchio decrepito come il giovanissimo fondamentalista cattolico o pentecostale, arroccato nelle sue rigidissime certezze di cartapesta. Il ragazzino no-global che crede ancora di cambiare il mondo fracassando l’ennesima vetrina di una banca o incendiando l’ennesimo cassonetto della spazzatura è vecchio come il cucco, appartiene ad un’epoca finita, a quella sinistra novecentesca, pacifista a senso unico e profondamente violenta e guerrafondaia, sbriciolata insieme al muro di Berlino vent’anni fa. Il 30enne che sniffa cocaina per reggere i ritmi della sua carriera suicida a New York, a Tokio, o a Milano è un matusalemme, appartiene ancora a quell’era produttivistica e schizoide, che sta mostrando la propria insostenibilità nei tracolli climatici come nei collassi psichici, nelle depressioni di borsa come in quelle che dilagano da un polo all’altro della terra, tanto che l’OMS ha previsto che per il 2020 una persona su 4 o al massimo su 5 sull’intero pianeta sarà affetta da gravi problemi psichiatrici.

Ma allora chi è per davvero giovane oggi?

Io direi così:

giovane è chi sa che stiamo vertiginando sul crinale di un rivolgimento antropologico, e che è venuto il tempo di decidere da che parte stare, dalla parte del Morente o da quella del Nascente, perché i tempi dei compromessi e delle mezze misure stanno scadendo;

giovane è chi sta incominciando a comprendere che ogni modalità bellica di incarnare la propria identità, contra-ponendosi rispetto all’altro da sé, risulta ormai improduttiva e alla fine letale;

giovane è chi è consapevole che la nuova forma di identità umana, che sta emergendo, è relazionale, e questo significa che io sono tanto più me stesso (maschio, italiano, cristiano, etc.) quanto più entro in relazione con l’altro da me (dentro e fuori di me), accogliendo il travaglio trans-formativo permanente che questa apertura relazionale comporta;

giovane è chi sa che questo rivolgimento possiede per davvero una portata antropologica, in quanto tutte le civiltà e tutte le religioni fino ad ora si sono consolidate proprio per mezzo della contrapposizione polemica e la guerra;

giovane è chi perciò è consapevole che il passaggio non è affatto facile né di breve durata, e implica contestualmente una riforma costante della propria interiorità (propensa per natura al conflitto e alla guerra), per dar vita ad inedite forme di cultura, di convivenza, e quindi alla fine anche di politica;

giovane è quindi chi è consapevole che oggi più che mai la vera ricchezza non consiste nell’accumulo di denaro o di potere, ma nella disponibilità del proprio tempo da dedicare appunto ai processi della propria liberazione, all’approfondimento delle proprie relazioni, a partire da quella coniugale, e quindi al vero godimento della vita, che è innanzitutto relazione, gratuità, creazione, prima di essere scambio economico.

E questa giovinezza in verità non dipende affatto dall’età anagrafica delle persone, ma dalla loro qualità spirituale intrinseca.

E’ di questa giovinezza che abbiamo urgente bisogno, di questo fuoco che tutto rinnova, di questa mente poetica, più libera e più felice, che sta cantando anche adesso nel frastuono di tutti questi crolli, come in questi versi di Adrienne Rich: “Io sono io/ io sono la mente viva/ che nessuna lingua morta/ è capace di descrivere/ il nome perduto/ il verbo che sopravvive solo all’infinito/ le lettere del mio nome/ sono iscritte sotto le palpebre/ del bambino appena nato”.

Marco Guzzi

28/04/10

La fiducia è una questione di Fede.


Per comprendere la vita, non abbiamo molti mezzi, se non affidarci agli altri.

Mi è venuto in mente, osservando una puntata del serial Lost, che ha tratti di genialità. Sembrerebbe che quasi tutta questa grande opera di fiction contemporanea sia basata sul concetto e sul sentimento della fiducia.

Quando è che posso fidarmi di qualcun'altro ? Quand'è che posso avere fiducia in lui ? Fiducia e fede hanno la stessa radice semantica.


La fede dei primi cristiani si basò su una conoscenza che derivava soltanto da coloro 'che avevano visto'. C'erano dei testimoni. Questi raccontarono quel che avevano visto. Ma tutto sarebbe finito lì, se qualcuno non avesse creduto al loro racconto, se non si fossero fidati di loro.

L'unica osservazione, conoscenza, sapienza che possiamo avere in questa vita, dipende dalla condivisione ( e dall'affidamento) che abbiamo negli/con gli altri. Il motto della intera serie di Lost è 'si vive insieme, si muore soli'.

Per un cristiano questo non è condivisibile, perché anche quando moriremo ci sarà Qualcuno con cui/ a cui affidarci. Ma se quello è un affidamento che potremo probabilmente rifiutare o accettare, l'affidamento in questa vita non è possibile per nessuno, evitarlo. Significherebbe vivere da esclusi o da esiliati su questa terra, che è meno grande di quel pensiamo, ed è popolata di tanti noi, che hanno molto da dire... a noi.


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23/04/10

Hans Kung - Papa Benedetto XVI ha fallito.


Penso ci siano molti, molti spunti di riflessione in questo articolo firmato da Hans Kung che ripercorre e sintetizza tutte le critiche mosse a questo papato, nella conduzione della Chiesa, da uno dei più grandi teologi contemporanei. Articolo che del resto ha già suscitato molte reazioni, anche da parte dello stesso Osservatore Romano.

Negli anni 1962-1965 Joseph Ratzinger - oggi Benedetto XVI - ed io eravamo i due più giovani teologi del Concilio. Oggi siamo i più anziani, e i soli ancora in piena attività. Ho sempre inteso il mio impegno teologico come un servizio alla Chiesa. Per questo, mosso da preoccupazione per la crisi di fiducia in cui versa questa nostra Chiesa, la più profonda che si ricordi dai tempi della Riforma ad oggi, mi rivolgo a voi, in occasione del quinto anniversario dell'elezione di papa Benedetto al soglio pontificio, con una lettera aperta. È questo infatti l'unico mezzo di cui dispongo per mettermi in contatto con voi.

Avevo apprezzato molto a suo tempo l'invito di papa Benedetto, che malgrado la mia posizione critica nei suoi riguardi mi accordò, poco dopo l'inizio del suo pontificato, un colloquio di quattro ore, che si svolse in modo amichevole. Ne avevo tratto la speranza che Joseph Ratzinger, già mio collega all'università di Tübingen, avrebbe trovato comunque la via verso un ulteriore rinnovamento della Chiesa e un'intesa ecumenica, nello spirito del Concilio Vaticano II. Purtroppo le mie speranze, così come quelle di tante e tanti credenti che vivono con impegno la fede cattolica, non si sono avverate; ho avuto modo di farlo sapere più di una volta a papa Benedetto nella corrispondenza che ho avuto con lui.

Indubbiamente egli non ha mai mancato di adempiere con scrupolo agli impegni quotidiani del papato, e inoltre ci ha fatto dono di tre giovevoli encicliche sulla fede, la speranza e l'amore. Ma a fronte della maggiore sfida del nostro tempo il suo pontificato si dimostra ogni giorno di più come un'ulteriore occasione perduta, per non aver saputo cogliere una serie di opportunità:



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19/04/10

Susanna Tamaro: Il femminismo non ha liberato le donne. Le ragazze oggi meno libere di 40 anni fa.


vi propongo l'articolo pubblicato ieri, domenica 18 aprile 2010 da Susanna Tamaro su Il Corriere della Sera.

Il femminismo non ha liberato le donne
Tutti i messaggi si concentrano sul corpo: siamo passati dall’angelo del focolare alla mistica della seduzione

Appartengo alla generazione che ha combattuto, negli anni della prima giovinezza, la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell’aborto. La generazione che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro. È difficile, per chi non li ha vissuti, capire l’eccitazione, l’esaltazione, la frenesia di quegli anni. La sensazione era quella di trovarsi sulla prua di una nave e guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole di un progresso foriero di ogni felicità. Alle spalle avevamo l’oscurità, i tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell’epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione. Erano gli anni Settanta.

Personalmente, non sono mai stata un’attivista, ma lo erano le mie amiche più care e, per quanto capissi le loro ragioni, non posso negare di essere stata sempre profondamente turbata da questa pratica che, in quegli anni, si era trasformata in una sorta di moderno contraccettivo. Mi colpiva, in qualche modo, la leggerezza con cui tutto ciò avveniva, non perché fossi credente — allora non lo ero — né per qualche forma di moralismo imposto dall’alto, ma semplicemente perché mi sembrava che il manifestarsi della vita fosse un fatto così straordinariamente complesso e misterioso da meritare, come minimo, un po’ di timore e di rispetto. Come sono cambiate le cose in questi quarant’anni? Ho l’impressione che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte. La difesa della vita sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società, che continua a pretendere di influenzare la libera scelta dei cittadini. Chi è per il progresso, invece, pur riconoscendo la drammaticità dell’evento, non può che agire in contrapposizione a queste continue ingerenze oscurantiste. Naturalmente, un Paese civile deve avere una legge sull’aborto, ma questa necessaria tutela delle donne in un momento di fragilità non è mai una vittoria per nessuno. I dati sull’interruzione volontaria di gravidanza ci dicono che le principali categorie che si rivolgono agli ospedali sono le donne straniere, le adolescenti e le giovani. Le ragioni delle donne straniere sono purtroppo semplici da capire, si tratta di precarietà, di paura, di incertezza—ragioni che spingono spesso ormai anche madri di famiglia italiane a rinunciare a un figlio, ragioni a cui una buona politica in difesa della vita potrebbe naturalmente ovviare.
Ma le ragazze italiane? Queste figlie, e anche nipoti delle femministe, come mai si trovano in queste condizioni? Sono ragazze nate negli anni 90, ragazze cresciute in un mondo permissivo, a cui certo non sono mancate le possibilità di informarsi. Possibile che non sappiano come nascono i bambini? Possibile che non si siano accorte che i profilattici sono in vendita ovunque, perfino nei distributori automatici notturni? Per quale ragione accettano rapporti non protetti? Si rendono conto della straordinaria ferita cui vanno incontro o forse pensano che, in fondo, l’aborto non sia che un mezzo anticoncezionale come un altro? Se hai fortuna, ti va tutto bene, se hai sfortuna, te ne sbarazzi, pazienza. Non sarà che una seccatura in più. Qualcuno ha spiegato loro che cos’è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili? Chi conosce il mondo degli adolescenti di oggi sa che la promiscuità è una realtà piuttosto diffusa. Ci si piace, si passa la notte insieme, tra una settimana forse ci piacerà qualcun altro. I corpi sono interscambiabili, così come i piaceri. Come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie, così accumulano, spinte dal vuoto che le circonda, partner sempre diversi. Naturalmente non tutte le ragazze sono così, per fortuna, ma non si può negare che questo sia un fenomeno in costante crescita.

Sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant’anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso. Non occorre essere sociologi né fini pensatori per accorgersi che ai giorni nostri tutti i messaggi rivolti alle bambine si concentrano esclusivamente sul loro corpo, sul modo di offrirsi agli altri. Si vedono bambine di cinque anni vestite come cocotte e già a otto anni le ragazzine vivono in uno stato di semi anoressia, terrorizzate di mangiare qualsiasi cosa in grado di attentare alla loro linea. Bisogna essere magre, coscienti che la cosa che abbiamo da offrire, quella che ci renderà felici o infelici, è solo il nostro corpo. Il fiorire della chirurgia plastica non è che una tristissima conferma di questa realtà. Pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po’ più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela. Il risultato di questa chirurgia di massa è già sotto ai nostri occhi: siamo circondate da Barbie perfette, tutte uguali, tutte felicemente soddisfatte di questa uguaglianza, tutte apparentemente disponibili ai desideri maschili. Sembra che nessuno abbia mai detto a queste adolescenti che la cosa più importante non è visibile agli occhi e che l’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo.

Siamo passati così dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l’offerta del proprio corpo siano l’unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo. Nella latitanza della famiglia, della chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media e i media hanno una sola legge. Omologare. Ma questo lato apparentemente così comprensibile, così frivolo — voler essere carine o anche voler mitigare i segni del tempo — che cosa nasconde? Il corpo è l’espressione della nostra unicità ed è la storia delle generazioni che ci hanno preceduti. Quel naso così importante, quei denti storti vengono da un bisnonno, da una trisavola, persone che avevano un’origine, una storia e che, con la loro origine e la loro storia, hanno contribuito a costruire la nostra. Rendere anonimo il volto vuol dire cancellare l’idea che l’essere umano è una creatura che si esprime nel tempo e che il senso della vita è essere consapevoli di questo. La persona è l’unicità del volto. L’omologazione imposta dalla società consumista—e purtroppo sempre più volgarmente maschilista — ha cancellato il patto tra le generazioni, quel legame che da sempre ha permesso alla società umana di definirsi tale. Noi siamo la somma di tutti i nostri antenati ma siamo, al tempo stesso, qualcosa di straordinariamente nuovo e irripetibile. Cancellare il volto vuol dire cancellare la memoria, e cancellare la memoria, vuol dire cancellare la complessità dell’essere umano. Consumare i corpi, umiliare la forza creativa della vita per superficialità e inesperienza, vuol dire essere estranei dall’idea dell’esistenza come percorso, vuol dire vivere in un eterno presente, costantemente intrattenuti, in balia dei propri capricci e degli altrui desideri. Senza il senso del tempo non abbiamo né passato né futuro, l’unico orizzonte che si pone davanti ai nostri occhi è quello di una specchio in cui ci riflettiamo infinite volte, come nei labirinti dei luna park. Procediamo senza senso da una parte, dall’altra, vedendo sempre e soltanto noi stessi, più magri, più grassi, più alti, più bassi. All’inizio quel girare in tondo ci fa ridere, poi col tempo, nasce l’angoscia. Dove sarà l’uscita, a chi chiedere aiuto? Battiamo su uno specchio e nessuno ci risponde. Siamo in mille, ma siamo sole.

Susanna Tamaro


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11/04/10

Il perdono, l'auto-assoluzione, le parole di Cristo.


Le parole di Gesù Cristo sono sempre di fuoco, sono sempre nette, e sempre precise, e sempre chiare e vanno dritte ai cuori, e a quelle bisogna ritornare, sempre.

Ed è così che mi hanno fatto molto riflettere quelle parole che Gesù appena risorto indirizza ai suoi apostoli che sono sconcertati dalla sua presenza viva. Gesù, dopo aver detto 'Pace a voi' e dopo aver mostrato le mani e il fianco con le piaghe ancora fresche, impone quel famoso e tremendo mandato (in base al quale molti di loro andranno dritti incontro al martirio): "come il Padre ha mandato me, io ho mando voi."

Ma subito dopo aggiunge: " Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati." (Giovanni 20,19-31).

Sono parole che fanno molto riflettere, e che non ammettono equivoci. Ci dicono che il perdono - il vero perdono - non è mai scontato, non è mai gratuito, non è mai incondizionato, non è mai per tutti, sempre.

E' una cosa che nella mentalità del cattolicesimo moderno sembra del tutto dimenticata. L'introduzione del sacramento della confessione ha fatto ritenere, fa ritenere, che TUTTO possa/debba essere perdonato.

Non è così. Il facile perdono è più dannoso del male originario, a quanto pare. Perdonare troppo facilmente - senza che vi sia un vero, autentico pentimento - o peggio ancora auto-perdonarsi, auto-assolversi è qualcosa che è molto difficile giustificare nell'ottica del Cristo.

Bisognerebbe ricordarlo, ricordarselo sempre, quando - in presenza di omissioni e peccati, anche molto gravi - la prima cosa che si fa è scaricare la colpa sugli altri, su presunti o veri nemici, e pretendere o, peggio ancora, concedersi un facile e immediato perdono auto-assolutorio.


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09/04/10

Ci mancava solo lui, il pastore ateo, e fiero di esserlo.


Cari amici de Il Mantello,

vorrei commentare con voi, se ne avete voglia, questa notizia, che qui in Italia abbiamo appreso qualche giorno fa, e che riguarda un certo Klaas Hendrikse, un pastore protestante olandese di 63 anni che si dichiara fieramente ateo e che però non solo non rinuncia a fare il pastore, ma proclama anche di avere la sua chiesa piena di 'fedeli' (fedeli ??).


Mi sembra davvero un caso di schizofrenia eclatante della nostra epoca, ma sarei curioso di sapere cosa, la notizia, vi suscita.


04/04/10

Domenica di Pasqua - Notturno di Margherita Guidacci




Col viso vòlto ad Oriente
per aspettare l'alba
e il cuore vòlto ad un più chiaro Oriente
da cui verrà la risurrezione,

io mi sono coricata. Che importa
se per una sola notte o per tutte ?
Uno stesso Signore mi è guida
verso l'alba e la risurrezione !



Margherita Guidacci (1921-1992)
La preghiera nella poesia italiana, Caltanissetta-Roma 1969, p.515



E Buona Santa Pasqua di Resurrezione a tutti da Il Mantello di Bartimeo !