25/02/10

Ricominciare a dire Amen.


La parola Amen è una parola straordinaria.

So tratta di una traslitterazione dall'ebraico biblico al greco del Nuovo Testamento, poi in latino ed in italiano e in molte altre lingue, così che è in pratica una parola universale.

È stata definita la parola più conosciuta nel parlare umano.


E' utile ricordare che l'avverbio ebraico אמן ámén significa soprattutto "certamente", "in verità", ma etimologicamente è connesso con il verbo אמן ámán, che significa (in forma base, cioè qal) "educare".


Da una parte, quindi, quando noi diciamo amen, ci riferiamo ad un "esser certo, sicuro", "esser veritiero, vero" - il sostantivo derivato אמת emet significa infatti "ciò che è stabile e fermo", quindi "verità" .


Amen è proprio la parola che Gesù pronuncia nel Nuovo testamento, quando introduce i suoi discorsi: "Amen, amen, dico a voi" - con il significato: "In verità vi dico", "Ciò che dico, è vero e certo".

Se ripetuta al termine dell'ascolto della parola divina, quindi 'amen' ha un significato che esprime con forza il concetto di affidamento.

Può essere tradotta: così è, così sia, in verità.

Quando diciamo Amen diciamo due cose insieme: è la verità, è questa la verità. E poi (non meno importante, anzi): io mi affido a questa verità.


Af-fidarsi è oggi l'esercizio più difficile. Che possiamo sperimentare nel silenzio dei nostri pensieri, quando siamo in grado di riconoscere la verità e di pronunciare - con una semplice, antichissima parola (quasi primordiale) - il nostro intero credo.

20/02/10

Una società senza modelli muore - Marco Guzzi.


Cari amici de Il Mantello di Bartimeo, voglio proporvi oggi un assai interessante, secondo me, articolo di Marco Guzzi, il filosofo-poeta, che l'ha scritto proprio pochi giorni fa. Su questi temi io credo sia opportuno, per ognuno di noi, interrogarsi. E come sempre è uno spunto davvero molto interessante, specialmente oggi.

L’essere umano ha sempre avuto bisogno di modelli da imitare, anzi si può dire che le culture storiche si formino proprio attraverso l’imitazione di specifici modelli di umanità.

L’antropologia ci insegna che gli uomini sono dominati da intensissimi desideri, che però spesso non hanno alcun oggetto predefinito. René Girard precisa: “Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida”.

Da qui la necessità dell’imitazione.
Il bambino impara molto presto a desiderare ciò che gli adulti considerano importante, e ad imitarne il desiderio. Il desiderio mimetico crea così i linguaggi e le culture.

Uno dei segni dell’esaurimento della nostra cultura occidentale è proprio che non possediamo più modelli di umanità da imitare, per cui i desideri dei nostri bambini non vengono più indirizzati verso l’imitazione di una qualche grandezza umana, e possono perciò scatenarsi tra gli oggetti del supermercato tecnologico ed il caleidoscopio accecante delle più varie, e spesso oscene e folli, immagini virtuali.
Se poi un gruppo di dodicenni violenta una coetanea tutti sembrano scandalizzarsi, quando non facciamo altro che educare i nostri bambini a credere che non ci sia più nessuno che valga la pena di imitare, se non forse qualche calciatore o ragazzina sculettante sul video, condannandoli così letteralmente a uscire dalla civiltà umana, e a divenire dei miseri, insaziabili e infelici, consumatori in-civili appunto.

In realtà noi umani abbiamo un bisogno straziante di imitare modelli che ci aiutino a diventare noi stessi. Chi, come i corifei delle culture postmoderne, pretende di non imitare nessuno, e di “farsi tutto da sé”, finisce irrimediabilmente per imitare il peggio dell’umano, quella galleria di mostriciattoli più o meno ributtanti che le televisioni continuano a propinarci giorno e notte, e di cui i giallognoli e acidi Simpson sono forse la rappresentazione più nobile e luminosa…
Così il postmoderno newyorkese o milanese finisce per farsi per davvero “tutto da sé”, self made man appunto, ma per farsi “tutto di merda”, come cantava amaramente Gaber una trentina d’anni fa.

Come possiamo allora ricostruire modelli umani credibili e affascinanti, dopo tutte le dissoluzioni, le contestazioni antiretoriche, e le perdite di ogni tipo di aura, proprie della modernità e del nichilismo?
Chi potrà essere l’Uomo Vero e la Vera Donna da imitare, mentre questo teatro di marionette, questo mondo di figurine d’altri tempi, già scadute e andate a male, precipita nel suo caos “liquido”, e cioè nel suo liquame fognario?
E’ come chiederci: quale cultura umana saremo in grado di costruire sulla terra a partire dal XXI secolo, in questo terribile e affascinante spartiacque eonico?

Io credo che il nuovo modello umano da imitare, e quindi da diventare, si stia già formando in noi, e nasca da una sintesi inedita tra i caratteri più autentici della santità della tradizione cristiana e quelli più nobili propri dell’uomo moderno.

Il modello umano che si sta formando in noi è cioè un modello di nuova integrazione, di armonizzazione tra caratteri apparentemente opposti, quali la più ampia autonomia soggettiva e la più stretta inter-relazione non solo umana ma addirittura cosmica, la passività dell’ascolto e la creatività imprenditoriale, la libertà e l’obbedienza.

Questa nuova figura di umanità, per limitarci ad un solo esempio, è perfettamente consapevole che lo scopo della vita è la libertà, la sempre più libera espressione del proprio essere, e che l’obbedienza è solo una virtù condizionata, utile cioè solo se finalizzata all’ampliamento delle sfere della nostra liberazione. Ma sa anche che una libertà intesa come sequela caotica dei propri capricci momentanei, e cioè svincolata dall’ob-audienza di ciò che di più profondo è in noi, non conduce affatto alla nostra realizzazione umana, ma all’abbrutimento e alla schiavitù.

Nel 2002 la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM) tenne a Collevalenza un convegno proprio sul possibile rilancio del concetto di santità, e mi chiese di svolgere un intervento introduttivo, una sorta di provocazione, che svolsi in 3 tesi, in cui appunto tentavo di coniugare il modello tradizionale di santità cristiana con i concetti moderni di autenticità e di auto-realizzazione.

Le 3 tesi/provocazioni erano queste:

1) il santo è la persona più libera e più creativa che ci sia al mondo: la persona che realizza la propria sovranità rispetto ad ogni potere politico o religioso;
2) il santo celebra e trans-figura tutta la vita terrena senza condannare alcun aspetto vitale;
3) diventiamo santi guarendo da tutte le distorsioni e le dipendenze interiori, anche da quelle religiose: la santità è salute e salvezza sperimentate e condivise.

Potranno questo Uomo e questa Donna maggiormente integri divenire i nuovi modelli di umanità da imitare, e cioè i paradigmi di una nuova cultura planetaria?
Potrà l’integrità – che è pienezza umana, salute, creatività, pace, potenza, in base alla catena etimologica che dal greco solfos/olon, attraverso il latino salus, arriva fino a sano, salvo, integro appunto, health, holy, heilige, wohl, etc. – divenire il carattere principale del nuovo modello di umanità nascente?

Io credo di sì, io credo che questa umanità più integra e quindi più felice si stia già formando in noi, e che saprà conciliare e sintetizzare in forme nuove e inedite i grandi tesori della tradizione spirituale ebraico-cristiana, le grandi acquisizioni, anch’esse sostanzialmente evangeliche, della modernità, insieme agli straordinari insegnamenti che ci vengono da tutte le altre tradizioni culturali e spirituali della terra.

E non sarà questa una forma nuova e più radicale di imitazione dell’Uomo pienamente realizzato nella sua natura divina, e cioè di Imitatio Christi?

06/02/10

Vito Mancuso sulla vicenda Boffo e sugli intrighi vaticani.


Davvero consiglio la lettura di questo articolo di Vito Mancuso pubblicato qualche giorno fa su La Repubblica. Riassume in termini sintetici ma anche molto drastici e duri quel che sta succedendo e che è successo nelle ultime settimane dentro una Chiesa che appare sempre più lacerata e per la quale occorre davvero pregare molto. Lo pubblico integralmente.
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso
( "la Repubblica" del 4 febbraio 2010 )

Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l'insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?

Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po' di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l'allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all'interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l'ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l'abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c'è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico.

Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni. La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all'interno.

Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all'interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d'animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l'ardore della carità, ma l'obbedienza all'autorità sempre e comunque. Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate.

Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell'Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all'imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.

Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell'amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L'imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa.

Secondo l'impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell'uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l'uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia. È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI?

Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall'obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l'Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.


fonte La Repubblica - http://www.repubblica.it

03/02/10

Mirjana, una delle veggenti di Medjugorje, ieri a Napoli. Il video.



Erano circa 15mila le persone assiepate nel Palavesuvio di Ponticelli per assistere alla visione del 2 del mese di Mirijana Dragicevic, una dei sei veggenti di Medjugorie. In pulmann, gia' da questa notte, malati, religiosi e pellegrini erano arrivati a Napoli in via Argine soprattutto dalle regioni meridionali (una cinquantina i bus) ma anche dal Nord Italia, Lombardia e Veneto in particolare.

La 44enne veggente, che era in citta' da ieri con il marito e altri parenti, e' arrivata al palazzetto dello sport intorno alle 8, mentre la gente intonava canti e recitava il rosario. Poi la Messa celebrata da don Luigi Russo, cappellano degli Incurabili, e la trance di Mirijana che ogni secondo giorno del mese entra in contatto con la Madonna che le ha affidato la missione di parlare a chi non crede.

Silenzio assoluto e commozione nel Palavesuvio, tranne che per le urla di quelli che vengono definiti indemoniati da presenti. Infine il messaggio della Madre di Cristo affidato alla donna di
Sarajebo, un invito a credere e alla pace .




02/02/10

La forza del 'piccolo' contro lo strapotere del mondo.


Molto spesso sento esprimere dai cristiani veri che mi capita di incontrare, una specie di grande scoramento nei confronti dello stato del mondo, insieme ad un senso di impotenza. "Se il mondo va in un certo modo, cioè in senso contrario alla morale evangelica," è questo, in soldoni, il ragionamento, "come potrò io fare, nella mia piccolezza, nel mio piccolo posto nel mondo, fare qualcosa di utile, qualcosa che possa servire veramente ?"

Quando sento questa lamentela - che da un certo punto di vista è ampiamente comprensibile - mi ricordo della lezione che ho appreso grazie a Carl Gustav Jung, che nel suo testo Aion - una vera miniera per la spiritualità cristiana - parla del simbolo rappresentato da un piccolo pesce che nell'antichità era denominato Echeneis.

Echeneis, scrive Jung, è il nome latino di un pesce molto particolare. Di esso racconta Plinio nella sua Historia Naturalis. E oggi il nome di questo pesce è Remora.

“ La remora “ scrive Jung, “ piccola per statura e grande per la potenza costringe le superbe fregate del mare a fermarsi: avventura che come ci racconta Plinio in modo interessante e ameno tocco' 'ai nostri tempi’ alla quinqueremi dell’imperatore Caligola. Mentre questi ritornava dall’Astura ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l'arresto. Tornato a Roma, dopo questo viaggio, Caligola venne assassinato dai suoi soldati. L’ Echeneis “ continua Jung, “ agì dunque come praesagium, come piscis auspicalis.

Un tiro analogo esso lo giocò a Marc’Antonio, prima della battaglia navale contro Augusto, in cui dovette soccombere. Plinio non finisce mai di stupirsi del potere dell’ Echeneis. La sua meraviglia impressionò evidentemente gli alchimisti al punto di indurli a identificare il ‘pesce rotondo del nostro mare’ con il nome di Remora. La Remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio. Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è IL PIU’ PICCOLO DEL PICCOLO, PIU’ GRANDE DEL GRANDE. “

La storiella riferita da Jung è assai significativa anche per noi, oggi. Anche se il mare ci sembra immenso, e le forze che lo abitano ancora più immense; anche se la grande nave dell'Imperatore Caligola ci sembra un emblema insuperabile di potere, anche se le condizioni sono proibitive, la forza di un piccolo pesce (la Remora) riesce a ottenere risultati incredibili, con la forza morale di un presagio, o con la forte resistenza contraria alla corrente.

Dovremmo forse ricordarcene più spesso, noi cristiani, quando ci arrendiamo troppo facilmente alla potenza del mondo.


24/01/10

Tutti abbiamo nel cuore questo desiderio: che cresca il dialogo. Il Card. Carlo Maria Martini.


Può esserci pace laddove c'è paura ? Scopro, andando avanti con gli anni, che molti sapienti, di diversi credo e di diverse confessioni religiose, sono unanimi nel considerare la paura, la paura individuale e quella che si tramuta in paura sociale come il maggior ostacolo alla costruzione della pace, della convivenza felice e costruttiva tra gli uomini.


"Il dialogo in Italia è difficile, perché oggi la gente vive di paure".

Queste parole le ha pronunciate ieri il cardinale Carlo Maria Martini visitando a Milano la mostra Giusti dell'islam.

"Fate bene a impegnarvi con tenacia sulla via del dialogo, senza spaventarvi delle difficoltà. La gente oggi vive di paure, di episodi singoli amplificati dall'opinione pubblica; e invece bisogna portarli a conoscere le situazioni concrete, le persone di buona volontà", ha detto il cardinale a quanto riferito dal 'Sir', il Servizio informazione religiosa della Cei.

"Tutti abbiamo nel cuore questo desiderio che cresca il dialogo, la mutua comprensione", ha aggiunto il porporato che ha ricordato i suoi anni a Gerusalemme: "Là ho potuto vedere dal vivo le sofferenze, le difficoltà e anche alcune realizzazioni molto belle. Tra queste 'Parents circle', persone che hanno perduto un loro caro ucciso o per il terrorismo o per la guerra. Invece di pensare alla vendetta si cercano e dialogano sulla pace".

La mostra Giusti dell'islam, promossa dal centro Pime di Milano, in questi giorni, su iniziativa delle Acli di Varese e della locale comunità islamica, ha fatto tappa all'Aloisianum di Gallarate, la casa dei gesuiti dove l'arcivescovo emerito di Milano vive.

15/01/10

Haiti: la morte che fa dimenticare il resto.


Una tragedia come quella dello spaventoso terremoto di Haiti ci costringe sempre a ripensare il nostro rapporto personale con il senso dell'esistenza, con la morte, e con quello che ci nascondiamo, ogni giorno.

Come ha fatto notare infatti Massimo Gramellini sulla Stampa, se si va "in cerca di informazioni per scoprire com'era la vita nell'isola, fino all'altro ieri, si apprende che l'ottanta per cento degli haitiani vive (viveva) con meno di un dollaro al giorno. Che il novanta per cento abita (abitava) in baracche senza acqua potabile né elettricità. Che l'aspettativa di vita è (era) di 50 anni. Che un bambino su tre non raggiunge (raggiungeva) i 5 anni. E che, degli altri due, uno ha (aveva) la certezza pressoché assoluta di essere venduto come schiavo."

Se questa è (era) la vita, si chiede Gramellini, è poi tanto peggio la morte? Ma soprattutto perché la loro morte ci sconvolge tanto, mentre della loro vita non ci è mai importato un granché?

Devo dire che personalmente, la situazione di Haiti non era sconosciuta, soltanto perché essendo affiliato da tempo con Save the Children, e avendo come zona di competenza proprio Haiti, mi arrivavano continui aggiornamenti su quello che è senza alcun dubbio uno dei paesi più poveri del mondo.

Ma quel che dice Gramellini è vero. Per me è stata fondamentale la lettura di un magnifico saggio del filosofo Henning Ritter, Sventura Lontana - pubblicato da Adelphi - che ha per oggetto proprio come la nostra percezione dell'altro - e dei guai dell'altro, dei problemi dell'altro, delle tragedie dell'altro - abbia una strettissima relazione con la vicinanza.

Vicinanza intesa proprio in senso fisico, terrestre.

Le cose che sono lontane, non ci toccano o ci toccano molto meno - anche se enormemente più gravi - di quelle che accadono vicino a noi.

C'è una specie di legge bio-fisica che distorce completamente la nostra percezione, e ci rende faticosa - a tratti impossibile - la realizzazione, la coscienza, e in definitiva, la comprensione di ciò che accade ed esiste lontano da noi.

In questo senso, proprio anche per il nostro crederci e professarci cristiani, dovremmo invece SEMPRE tenere aperto il cuore all'intero mondo, anche se è una impresa titanica, potenzialmente assurda. Ma è lo stesso Cristo che ci ha insegnato a pensare così. E dovremmo sempre ricordarcelo.

11/01/10

IL DRAMMA DI ROSARNO.


Il rapporto ONU 2009 contiene dati eloquenti, molto poco conosciuti. Da esso risulta che chi oggi lascia l'Africa per tentare la sorte in Occidente, vede in media un incremento pari a 15 volte il proprio reddito, e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile.

Serve altro per spiegare e comprendere perché le popolazioni d'Africa sono spinte a raggiungere il nostro paese - e gli altri europei ?

Ciò che sta succedendo a Rosarno è una vergogna per tutti, per lo Stato Italiano, per gli abitanti della Calabria - quelli moderati e tiepidi che non muovono dito, e quelli onesti e volenterosi che non sanno come fermare il dramma che si consuma davanti a loro - e per gli stessi immigrati, che sono trattati da bestie, e non da esseri umani, nei lavori che vengono loro offerti; da bestie nello stesso uso delle parole - 'negri! -; e da bestie nel trasferimento coatto, verso altri lidi che non saranno maggiormente sicuri.

E' una sconfitta più grande di quello che appare. E' la NOSTRA sconfitta. E' la sconfitta della modernità. La sconfitta conseguente alle disuguaglianze del mondo - sempre più spaventose - e alla nostra incapacità non solo di fermarle, ma anche di porvi minimo rimedio.

E' la sconfitta dei nostri letti tiepidi, delle nostre camere confortevoli e sempre più in-animate, della nostra attenzione, persa in un sonno vagheggiato e inutile, che ci sta portando in una terra priva di carità, e quindi anche di speranza.
.

30/12/09

Capodanno 2010 - Che mondo verrà ?

Che mondo ci lasciamo alle spalle ? Che mondo ci aspetta ? Sono domande rituali alla fine di un anno solare, e ogni volta ce le riproponiamo. Non rimpiangeremo molto, io credo, questi Anni Zero. Alcuni grandi problemi del mondo si sono aggravati. Altri, come la disuguaglianza delle ricchezze e delle povertà, restano immutati. Eppure a me sembra più evidente che nessun cambiamento collettivo sarà possibile - per Occidente, Oriente, e per il mondo intero - se non sarà preceduto e accompagnato da un cambiamento individuale interiore. Ed è con questa convinzione che vi porgo i migliori auguri di pienezza per l'anno che viene - il primo degli anni '10 - riproponendovi queste illuminanti parole scritte da Teilhard de Chardin nel 1947 in risposta ad un questionario dell'Unesco sui diritti dell'Uomo.

Per innumerevoli motivi convergenti, l'elemento umano si trova definitivamente impegnato in un processo irresistibile, tendente allo stabilimento di un sistema organico-psichico su tutta la terra. Volente o nolente, l'umanità si collettivizza, si totalizza sotto l'influsso di forze psichiche, fisiche e spirituali di ordine planetario. Ne consegue, nel cuore stesso di ogni essere umano, il conflitto attuale tra l'elemento, sempre più cosciente del proprio valore individuale, e i legami sociali sempre più esigenti.

A pensarci bene, tale conflitto è solo apparente, biologicamente noi lo vediamo ora, l'elemento umano non è autosufficiente. In altri termini, non è isolandosi, ma associandosi in modo conveniente con tutti gli altri che l'individuo può sperare di giungere alla pienezza della sua persona.

Collettivizzazione e individualizzazione non rappresentano pertanto due movimenti contraddittori. Tutta la difficoltà sta soltanto nel regolare il fenomeno affinché la totalizzazione umana si attui non sotto una pressione esterna, meccanizzante, ma per effetto interno di armonizzazione e di simpatia.

23/12/09

Pavel Florenskij - Buon Natale dal Mantello di Bartimeo.


L'11 aprile del 1917, Pavel Florenskij, alla vigilia della rivoluzione che si annunciava, scrisse questo Testamento per i suoi figli. Mi sembra un modo diverso dal solito per porgervi i miei auguri per le festività che arrivano, nelle quali celebriamo, ricordandola, la venuta del Signore e l'importanza della Sua presenza per noi - che oggi tutto sembrerebbe spingere a mettere in secondo piano. Un grande abbraccio a tutti i lettori e agli amici de Il Mantello di Bartimeo, grazie per la vostra vicinanza e il vostro affetto, per l'anno che siamo stati insieme, e per i futuri che ci aspettano.

1. Vi prego, miei cari, quando mi seppellirete, di fare la comunione in quello stesso giorno o, se questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi. E in generale vi prego di comunicarvi spesso dopo la mia morte.

2. Non rattristatevi e non soffrite per me, se potete. Se sarete lieti e forti, con ciò mi darete la pace. Io sarò sempre con voi in spirito e, se il Signore me lo concederà, verrò spesso da voi e vi guarderò. Voi però confidate sempre nel Signore e nella sua Purissima Madre, e non rattristatevi.

3. Non dimenticate la vostra stirpe, il vostro passato, studiate quanto riguarda i vostri nonni e antenati, adoperatevi e rafforzatene la memoria.

4. La cosa più importante che vi chiedo è di ricordarvi del Signore, e di vivere al suo cospetto. Con ciò è detto tutto ciò che voglio dirvi, il resto non sono che dettagli o cose secondarie, ma questo non dimenticatelo mai”.

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12/12/09

La Gioia che esiste, e che non vediamo.



Attraverso i mass media "il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci." Radio e televisioni sono 'colpevoli' di 'intossicare' i cuori, "perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono". I mass media, - ha insistito papa Benedetto XVI - "tendono a farci sentire sempre 'spettatori', come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti "attori" e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri". Un meccanismo che aggiunge all'inquinamento dell'aria nelle città, "che in certi luoghi è irrespirabile", e che richiede "l'impegno di tutti", un vero e proprio "inquinamento dello spirito".

Sono le durissime parole che Benedetto XVI ha pronunciato martedì scorso nel tradizionale omaggio alla Immacolata, in Piazza di Spagna a Roma. Parole sulle quali forse varrà la pena continuare a interrogarsi tutti.

Dov'è finita la gioia, nel nostro tempo ? Quella gioia che sappiamo esistere, che è un riflesso della creazione, che è bellezza, che è aprirsi all'altro. Quella gioia di cui nessuno - tantomeno chi detiene il bastone del comando - mai parla.

Quella gioia che Beethoven ha espresso invincibilmente nella sua musica. Quella gioia che così descrive Clive Staples Lewis:

Quanto a Dio, dobbiamo ricordare che l'anima è solo una cavità che egli riempie. Non è forse vero - domanda Lewis - che le vostre amicizie più durevoli sono nate nel momento in cui finalmente avete incontrato un altro essere umano che aveva almeno qualche sentore di quel qualcosa che desiderate fin dalla nascita e che cercate sempre di trovare, sotto il flusso di altri desideri e in tutti i temporanei silenzi tra le altre passioni più forti, notte e giorno, anno dopo anno, fino alla vecchiaia?... Se questa cosa dovesse finalmente manifestarsi - se mai dovesse sentirsi un'eco che non si spegnesse subito ma si espandesse nel suono stesso - voi lo sapreste. Al di là di ogni dubbio possibile direste: "Ecco finalmente quella cosa per cui sono stato creato". Non possiamo parlarne gli uni agli altri. E’ la firma segreta di ogni anima, l'incomunicabile e implacabile bisogno”. Quello che voi agognate vi invita a uscire da voi stessi. Questa è la legge suprema - il seme muore per vivere

08/12/09

Ancora sulla Croce e sul Crocefisso - di Enzo Bianchi.


Vorrei invitarvi a leggere con attenzione questo splendido pezzo scritto da Enzo Bianchi su La Stampa del 7 dicembre, in particolar modo gli ultimi due paragrafi.

Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e omunitariamente il diritto alla libertà di culto.

Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.

Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?

La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante.

Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.

In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo... Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione.

Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.

Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri.

Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.


Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

Enzo Bianchi

30/11/09

La vecchiaia e la Sintesi di una Vita - Vito Mancuso rilegge Wittgenstein.

Vorrei oggi riportarvi questo bellissimo articolo, scritto da Vito Mancuso, che racchiude alcune delle ultime riflessioni del Card. Carlo Maria Martini. Penso ci sia davvero molto su cui meditare. A partire dalla vicenda descritta all'inizio dell'articolo che sfiora una delle personalità centrali del Novecento filosofico, Ludwig Wittgenstein.

LA SINTESI DI UNA VITA

Nei primi mesi del 1916 Ludwig Wittgenstein, volontario nell' esercito austriaco, si trovava in Galizia sul fronte orientale col reggimento impegnato a sostenere il più grande attacco nemico, la cosiddetta Offensiva Brusilov. In mezzo a perdite altissime la sua azione dovette essere di un certo rilievo visto che il 1° giugno venne promosso caporale e il 4 decorato al valor militare. Pochi giorni dopo, l' 11giugno, colui che diventerà uno dei più grandi logici e filosofi delNovecento, annota sul suo quaderno: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. Pregare è pensare al senso della vita».

Io penso che per ogni essere umano la vecchiaia sia paragonabile a una trincea della Prima guerra mondiale. Sono finite le cerimonie, le marce, le sfilate, gli inni, le retoriche che fanno da preambolo non solo alla vita militare delle retrovie, ma anche alla vita quotidiana nella gran parte dei suoi momenti. Giunge il momento del redde rationem, il leopardiano «apparir del vero». Chi arriva alla vecchiaia non ha più nessuno davanti, è in prima linea sul fronte dell' essere o del nulla. E penso sia naturale in questa stagione dell' esistenza guardare al senso complessivo della vita, della propria e di tutti gli amici che si sono visti cadere, con un'intensità esistenziale paragonabile a quella di un soldato in trincea.

Ciò che Wittgenstein percepì a 27 anni di fronte al fuoco dell'esercito russo ogni uomo che prenda sul serio l' esistenza è destinato a sperimentarlo quando inizia a sentire arrivare il termine dei suoi giorni. Non è un caso quindi che il cardinale Carlo Maria Martini,riflettendo sulla preghiera dall' alto dei suoi 82 anni, abbia sentito anzitutto il richiamo di un grande vecchio della letteratura biblica quale Qohèlet ricordandone la celebre descrizione allegorica degli effetti fisici della vecchiaia, quando le mani («i custodi dellacasa»), le gambe («i gagliardi»), i denti («le donne che macinano»), gli occhi («quelle che guardano dalle finestre»), le orecchie («ibattenti sulla strada») non funzionano più come prima, preludio al momento in cui l' uomo se ne andrà "nella dimora eterna".

In questa prospettiva la preghiera di chi è anziano per Martini è anzitutto ricerca di consolazione interiore di fronte alla crescente fragilità che la vecchiaia comporta, è richiesta della ragione e del sentimento che un senso definitivo della vita ci sia e che a questo senso si possa personalmente partecipare. Il cardinal Martini però aggiunge un'ulteriore considerazione sulla preghiera di chi è anziano, rivolta ora non più al futuro ma al passato, e qui a mio avviso egli tocca il momento più alto del suo scritto.

Mi riferisco a quando egli parla degli anziani come di coloro che hanno raggiunto «una certa sintesi interiore» e che per questo possiedono «uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza». Aver compiuto un lungo cammino non significa solo vederne la fine, significa anche potersi voltare e vederne per intero il percorso. Da questa altezza può scaturire «una lettura sapienziale della storia e del mondo», per descrivere la quale Martini giunge a coniare in perfetto stile evangelico una vera e propria beatitudine, una nona beatitudine che non sfigurerebbe come prosieguo delle otto beatitudini proclamate da Gesù nel celebre Discorso della montagna: «Beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente inconfronto con quelli passati!». Martini sa bene che il giudizio negativo sul presente è una delle tipiche malattie che affliggono lo spirito della vecchiaia, quando la consapevolezza che presto per sé sarà la fine conduce spesso a un rapporto amaro e risentito con ilpresente, valutato solo come progressiva decadenza rispetto "ai miei tempi".

Ma il cardinale aggiunge che a un uomo può capitare di peggio,cioè di guardare indietro alla propria esistenza e di vedere solo macerie (talora anche le ricchezze e gli onori ricevuti non sono altroche macerie perché costruiti con la frode e a prezzo dell' onestà personale). Ne viene che non solo il futuro ma anche il passato
risultano avvolti da un disperato senso di vuoto. Può capitare, e se capita è forse la più grande disgrazia per la vita di un uomo. Per questo «beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio», cioè come dotato di senso, di logicità, di sincerità, di rettitudine.

Pregare è pensare al senso della vita, scriveva Wittgenstein; pregare è pensare con riconoscenza e con gioia alla storia della propria vita, aggiunge il cardinal Martini. Felice quindi chi ha lavorato su di sé per essere in grado di coltivare questi sentimenti, essendo diventato così libero dal proprio ego da poter dire grazie alla vita anche al cospetto della fine cui il proprio ego inevitabilmente va incontro.

Per quanto concerne la modalità concreta della preghiera, Martini ne distingue due forme fondamentali, quella vocale fatta di recitazione di formule e di partecipazione alla liturgia comunitaria, e quella mentale, più personale, intima, colloquiale. Egli dice che generalmente col progredire dell' età «diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione» e quindi aumenta la preghiera vocale, con la conseguenza che si ritorna a pregare quasi come si faceva da bambini,quando si ripetevano formule misteriose sentite dai grandi. Si trattadi una considerazione molto cattolica da cui emerge il valore dellacomunità. Nella trincea di fronte all' essere e al nulla non si è da soli, ma si può contare sulla relazione con altri, su ciò che ladottrina chiama "comunione dei santi", e che a me, e penso anche al cardinal Martini, piace allargare abbracciando santi per nulla canonici, tra cui il caporale Wittgenstein e tutti i giusti che primadi noi hanno lasciato questo mondo.

VITO MANCUSO

23/11/09

Lettera aperta ai Cristiani - di Daniele Garrone.

Vorrei oggi postarvi questa dura Lettera aperta ai Cristiani, scritta da Daniele Garrone, che è uno dei maggiori biblisti italiani, di fede cristiana valdese. Credo che contenga molti spunti su cui riflettere.


Cari fratelli e care sorelle,

scrivendo queste righe ho davanti agli occhi le centinaia di cristiani cattolici con cui negli ultimi decenni ho avuto la gioia di condividere il cammino ecumenico: laici impegnati, docenti universitari, sacerdoti, vescovi, religiosi e religiose, teologi, giornalisti. Potrei rivolgermi ad ognuno di voi, ma il mio intento non è di sfidare qualcuno, ma di sollevare con franchezza un problema, a mio avviso drammatico.


Con molti di voi ho più volte verificato come siate a disagio di fronte alla piega presa dalla Curia e dai vertici della Chiesa cattolica italiana, ad esempio riguardo al fine vita e al testamento biologico, alla reintroduzione della messa tridentina, alla riabilitazione dei lefebvriani … Eppure tacete. Veniamo a sapere che è stato avviato un provvedimento disciplinare contro 41 sacerdoti e religiosi che hanno espresso una posizione del tutto simile a quella espressa nel “Testamento biologico cristiano” approntato dall’episcopato tedesco in collaborazione con la “Chiesa evangelica in Germania” e già sottoscritto da quasi 2 milioni di cristiani (dunque, presumibilmente da circa 1 milione di cattolici), eppure tacete. Vi viene urlato che quello che è possibile ad un cattolico in Germania in Italia è non solo vietato, ma anatemizzato, e che chi manifesta il suo dissenso dev’essere rimesso in riga. Viene così negato ogni pluralismo all’interno della chiesa (quel pluralismo reale che è sotto gli occhi di tutti, ma che alla fine non si manifesta) e l’Italia viene sempre più ridotta ad un orticello vaticano, certo anche grazie alla interessata e solerte (e nel caso della sinistra, oltretutto totalmente vana, perché nessuna “messa” le procurerà mai nessuna “Parigi”) acquiescenza della classe politica. Eppure tacete. Avete davanti agli occhi uno strategico e massiccio processo di normalizzazione delle aperture che il Concilio Vaticano II al tempo stesso esprimeva ed avviava, e che so essere un elemento centrale del vostro modo di vivere il cristianesimo. Eppure tacete.

Vi scrivo perché non voglio concludere affrettatamente da protestante che nella chiesa di Roma è giocoforza che avvenga così, visto che per voi l’obbedienza alle gerarchie – anche molto tormentata - è, se non proprio una virtù, un dovere. Vi chiedo però di riflettere su un punto: chi pretende di vincolare le vostre coscienze esercita un potere di cui Dio non fa uso. Di più: nella fede Dio ci costituisce come soggetti liberi e responsabili, solo nei suoi confronti e nei riguardi del prossimo.

La maggior parte di voi sono personalità pubbliche, anche con incarichi importanti: una vostra parola chiara (ad es. un appello per la sottoscrizione di una versione italiana del “testamento biologico cristiano” della Germania; oppure la rivendicazione della liceità delle posizioni espresse dai 41) farebbe del bene alla vostra chiesa, che amate, alla cultura italiana, a cui contribuite, e ne sono certo, anche a voi, che vorreste un’altra parola cristiana alla città e ai credenti. Vi prego, alzate la vostra voce. La vostra fede ve ne dà il diritto. Non vi fate conculcare dagli uomini la libertà che Dio vi ha donato. Pensate al vostro battesimo come suggello di questa libertà.

Fraternamente

Daniele Garrone


16/11/09

E' finito lo Spirito del Concilio ?


E' davvero finito lo Spirito del Concilio ? Davvero il mondo sembra non poter andare - anche nel campo spirituale - che verso la rigidità, la chiusura all'altro, al diverso, la negazione di ogni sintesi possibile ? E' quello che si ricaverebbe da questo interessante articolo di Alberto Melloni pubblicato oggi dal Corriere della Sera, che riporta una notizia passata stranamente sotto silenzio dai media del nostro paese, troppo indaffarati a commentare l'ultimo scandalo di turno.

Vi riporto l'articolo integralmente.

Quel vento contro l'ecumenismo che soffia dentro tutte le Chiese
di Alberto Melloni

in “Corriere della Sera” del 16 novembre 2009


Un piccolo documento che circola nel mondo ortodosso da mesi merita molta attenzione. Si chiama «confessione di fede contro l’ecumenismo» ed è una dichiarazione che da aprile ad oggi è stata firmata da sei metropoliti ortodossi di Grecia, Serbia, Kosovo e Stati Uniti. È un assalto violento contro il dialogo fra le religioni e la ricerca dell’unità fra le Chiese dai toni non inediti, ma duri e simili — sinistramente simili — a quelli che usano i tradizionalismi in tutte le Chiese.

I firmatari dicono chiaro e tondo che come «Cristiani che credono alla Santa Trinità noi non abbiamo lo stesso Dio di nessun’altra religione, né quello delle cosiddette religioni monoteiste, Giudaismo e Maomettanesimo che non credono alla Santa Trinità»; che dopo «il trionfo sui nemici esterni — cioè gli Ebrei e gli idolatri» la Chiesa ha goduto pace, ma che dal secondo millennio le eresie l’hanno divisa. Eretico è il Cristianesimo «papista, culla di tutte le eresie e di tutti gli errori», partito male nel medioevo è andato addirittura peggiorando, esagerando le proprie dottrine ecclesiologiche, mariologiche e col concilio Vaticano II arrivando a corrompere la liturgia: quel concilio che ha inventato la «pan-religione» e ha riconosciuto una «vita spirituale» nelle altre fedi, ha perfino protetto i gruppi carismatici e la new age, ricevendo in cambio la vergogna della corruzione.

Peggio ancora i Protestanti che hanno perduto i sacramenti. Secondo i firmatari di questa «confessione di fede», dunque, l’unico dialogo ammissibile con questi eretici passa dal loro battesimo (quello che hanno ricevuto non vale niente per la mancanza di una vera confessione trinitaria): e il patriarcato di Costantinopoli e il santo sinodo che hanno impegnato la Chiesa d’Oriente nel cammino ecumenico — la «pan-eresia» — andrebbero trattati come eretici e loro favoreggiatori.


La risposta del patriarca ecumenico Bartholomeos I e del santo sinodo è arrivata da qualche settimana sul tavolo dell’arcivescovo ortodosso di Atene al quale si chiede di prendere posizione contro queste «tendenze zelote» presenti non da oggi nell’ortodossia greca. Costantinopoli chiede di uscire dall’ambiguità: se la «confessione» dicesse la verità tutta la gerarchia dell’Oriente si sarebbe macchiata del crimine contro la fede che sarebbe l’ecumenismo. Ma i metropoliti che l’hanno firmata verrebbero a dire che il Credo non è sufficiente, ma ha bisogno di una ulteriore espansione, per l’appunto di tipo antiecumenico. E in nome della tradizione violerebbero la disciplina della tradizione. Il santo sinodo usa parole chiare: «Vogliamo credere che i Gerarchi che hanno firmato non abbiano compreso che stanno guidando uno scisma» e ricorda che l’impegno ortodosso nel dialogo ecumenico è stato preso sinodalmente da tutte le Chiese nel 1986.


Così, con una presa di posizione ancora per un attimo interlocutoria ma assai severa nella sostanza, prova il rischio di divisione contenuto in quell’assalto che esaspera una tendenza da sempre presente negli ambienti monastici. Cosa accadrà fra le sponde dell’Egeo è difficile a dirsi: ma il senso più profondo di questa iniziativa contro l’ecumenismo, il dialogo con l’Ebraismo e con l’Islam non sta in una questione infraortodossa.


La mossa degli zeloti d’Oriente ricorda troppo da vicino — per lessico e perfino per obiettivi polemici — il tradizionalismo cattolico, l’integrismo luterano, il fondamentalismo congregazionalista, i fuoriusciti anglicani. È come se il grande desiderio di unità che le Chiese avevano letto nel Vangelo durante il Novecento producesse la stessa insofferenza dentro tutte le Chiese: al punto che si può dire se c’è una cosa oggi ecumenicamente condivisa fra le Chiese è l’antiecumenismo di minoranze riottose, il ribellismo di sacche resistenti al dialogo, eccitate dalla presunzione di rappresentare la tradizione e l’identità, anche a costo di cercarla nel fondo del proprio ombelico.


Un sociologo direbbe che è naturale così: man mano che procede la globalizzazione della cultura e
dei costumi (quella dei mercati in fondo è almeno vittoriana...) ogni appello alle piccole patrie, alle
lingue, alla nobilitazione identitaria delle tradizioni guadagna ascolto. Che questo capiti nelle Chiese e fra le fedi dunque non meraviglia: dice soltanto che le risorse interiori e la lungimiranza spirituale con la quale, in contesti non meno difficili, altre generazioni avevano capito che ogni divisione prepara la catastrofe sono finite, o forse non sono state alimentate in tempo.


10/11/09

I muri di Ogni Giorno.


Davvero, osservando ieri le immagini in diretta da Berlino, con la rievocazione in grande del crollo del muro, trent'anni fa, pensavo che la Storia sembra non insegnarci niente. L'uomo, inteso come animale sociale, sembra spinto spesso da una specie di insopprimibile coazione a ripetere.

Gli errori del passato sembrano cancellati. E mentre si festeggia in tutto il mondo la caduta del Muro più odioso, pure, in diverse parti del mondo, muri altrettanto odiosi vengono innalzati quasi ogni giorno. Spesso non sono poi muri fatti di mattoni, ma di pregiudizio, di paure, di esclusione, di diffidenza, di razzismo. Lo sperimentiamo anche nel nostro paese, nei confronti di chi viene da posti dis-eredati in cerca di condizioni di vita più dignitose.

Immemori di quel che noi eravamo, fino a pochissimo tempo fa, ci prodighiamo nella costruzione di muri, pensando di conservare gelosamente quel po' di 'tesoro' che supponiamo ci resti. Eppure, basterebbe visitare le sale del meritevole Museo dell'Emigrazione Italiana (MEI), del quale ho già scritto qualche post fa, appena inaugurato a Roma, al Vittoriano- Altare della Patria, per prendere coscienza e conoscenza di una intera epopea che ha visto protagonisti 25 milioni (!) di nostri connazionali, sulle rotte oceaniche alla ricerca di una nuova e più umana vita. Tra i reperti esposti c'è anche questo, che farà bene rileggere a tutti, credo.


Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali."


"Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

(Dalla relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano
sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912)
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31/10/09

Gli altri non sono specchio, ma porta.


Siamo abituati, per forma mentis, a considerare gli altri come mezzo, e non come fine, questo lo sappiamo. Quando abbiamo di fronte qualcuno, anche qualcuno che conosciamo, pensiamo quasi sempre "cosa posso ottenere da lui?" e quasi mai "cosa posso fare io per lui."

Ma gli altri, che noi consideriamo semplicemente in nostra funzione, possono essere anche una enorme risorsa della nostra vita.

Joseph Conrad scriveva: "Vivere secondo le aspettative dei propri amici".

Se provassimo a chiederci ogni giorno: "che cosa si aspetta questo mio caro amico, da me ?" "Cosa si aspetta che io faccia ? Non per lui, ma semplicemente cosa vorrebbe che io facessi della mia vita, nella mia vita ?" come diventerebbe allora la nostra vita ?

E' un rovesciamento ardito. Ma è, niente più e niente meno, che il rovesciamento del cristianesimo. E di quel primo comandamento, quello che viene prima di tutti gli altri, che il Nazareno offrì nel Discorso della Montagna, per tramutare l'inferno della vita reale quotidiana in possibile paradiso in terra (stante che il vero paradiso lo troveremo soltanto oltre).

Scriveva Dag Hammarskjold - di cui abbiamo già parlato in questo blog: "Il mio incontro con gli altri è forse qualcosa di più di uno specchio ? Chi, che cosa, mi darà l'occasione di tramutarlo in porta ? L'occasione o la necessità ? Non sono io forse troppo "razionale ed equilibrato", ossia troppo egocentrico, per cedere dinnanzi ad altro che la necessità ? Una necessità di cui render conto !"

Ecco, se riuscissimo a tramutare l'incontro con gli altri come porta e non come specchio, non solo e soltanto sotto la spinta della necessità, ma anche e soprattutto come occasione personale di crescita, forse la nostra vita sarebbe più piena e più degna.
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26/10/09

Il Vangello di ieri - Bartimeo.


Proprio ieri la Liturgia domenicale ci ha sottoposto come lettura il brano del Vangelo dal quale il titolo stesso di questo blog è ispirato.

E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!» E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?» E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!» E Gesù gli disse: «Và, la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

Non è stato un caso che io abbia scelto questo brano evangelico, e la figura di Bartimèo, per questo blog.
Mi sembra che Bartimèo rappresenti, come meglio non si potrebbe, la situazione dell'uomo oggi, specie in Occidente. Bartimèo è cieco, innanzitutto. E' un uomo che non può più vedere, che non sa più vedere. E', oltretutto, un mendicante. Quale - da un punto di vista simbolico - siamo un po' tutti, oggi. Mendicanti di una qualsiasi verità, che ci sembra inesistente, e di cui abbiamo smarrito il senso e la via.

Ma Gesù, il Cristo, con il suo passaggio, sembra riportare luce nell'oscurità. E' singolare che Bartimèo vada da lui abbandonando perfino il mantello, che è tutto ciò che ha: casa, letto, coperta, rifugio. Si presenta da Lui nudo. Gesù non lo guarisce semplicemente: vuole che sia lui ad esprimersi. Gesù non prevarica mai, non agisce mai imponendo se stesso. Lascia sempre l'arbitrio. Chiede espressamente al cieco: " che vuoi che io ti faccia ", anche se sembra evidente che il desiderio di Bartimèo possa essere uno ed uno soltanto.
Solo quando il cieco si esprime e rimette la sua fede nelle mani del Cristo, chiamandolo 'Rabbunì', Cristo lo guarisce. Lo guarisce quasi con naturalezza, con spontaneità.

Ricordiamoci che Gesù è sulla strada di Gerusalemme, dove lo aspetta il supplizio. Ricordiamoci che Gesù, il Salvatore non è venuto per guarire tutti indistintamente.
Non guarisce TUTTI i malati di Gerusalemme. Ha bisogno di qualcosa per farlo. Ha bisogno di disponibilità, ha bisogno di un affidarsi, ha bisogno di fede.
La fede è una relazione, sempre.
Il cieco Bartimèo lo sapeva, ed è stato salvato in virtù di questa relazione.

Nessuno si salva da solo, verrebbe da dire. E forse un giorno anche noi potremo esultare insieme a Bartimèo.
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