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05/12/23

Il capolavoro di Martin Amis: "La storia da dentro", un libro che si vorrebbe non finisse mai

 



Ho chiuso oggi pag. 680 e il libro è finito.

Mi sono accorto di rallentare, mano a mano che procedevo, perché questo è uno di quei rari libri che vorresti non finissero mai per davvero e continuassero ancora, con quel rumore di fondo e quelle continue sollecitazioni che danno corpo alle tue giornate, restano dentro, non smettono di parlarti come una bella conversazione.
Martin Amis, un paio d'anni prima di morire a 73 anni - ci ha lasciato il 23 maggio di quest'anno - della stessa identica malattia di due dei 3 amici dei quali questo libro parla: cancro all'esofago, ha scritto l'ultimo libro e il più bello.
E' un libro che è memoriale, romanzo, saggio sulla letteratura, cronaca, autobiografia, confessione e l'insieme di queste cose, quello che una volta si sarebbe chiamato "testamento spirituale" e che in questo caso non può andare bene perché Amis era - come il suo più grande amico Christopher Hitchens, uno dei tre protagonisti del libro, oltre all'autore - convintamente ateo e rigorosamente refrattario ad ogni forma di credenza spirituale o sovrannaturale.
Ho pensato spesso che in questo personalissimo amalgama, la scrittura di Amis ricorda, con alcune sostanziali differenze, quella di Carrère. Differenze evidenti: Amis è formalmente più "alto", la sua è letteratura concentrata e distesa, ma sempre di altissimo livello, in ogni riga. Carrère è, da francese, più ironico e narrativo, innamorato della storia che vuole raccontare, senza cambi di direzione, fino alla fine. Amis è più (apparentemente) sommesso; Carrère è più ostentato (quando serve): entrambi sono scrittori che non se ne restano dietro, e vogliono stare sulla scena con quello che scrivono e con quello che vivono.
Il fuoriclasse Amis imbastisce dunque un lungo (il SUO lungo) commiato della vita, quasi presentendo (e lo scrive espressamente) che presto andrà a far compagnia ai 3 amici morti prima di lui: il poeta Philip Larkin, il romanziere e premio Nobel Saul Bellow e il saggista e polemista Christopher Hitchens.
Scorrono lungo il racconto di queste meravigliose pagine, il senso umano della vita, l'amicizia più profonda, la sofferenza lacerante e l'amore, la gioia della sessualità e delle donne e degli amori, la bellezza sconfinata della vera letteratura, capace di trasformare tutto e di rendere sopportabile perfino le più grandi infamie della storia.
La storia di Amis è (anche) quella del mondo contemporaneo, gli argomenti della storia, che Hitchens, l'amico ribelle e iconoclasta, amava cavalcare e vivere sulla pelle (come quando decide di sottoporsi alle tecniche di tortura per annegamento utilizzate a Guantanamo): l'11 settembre, il fondamentalismo islamico, l'elezione di Trump in America, la Brexit, la furia ideologica del Novecento, il comunismo sovietico, il declino occidentale. E naturalmente l'eterna questione ebraica, l'antisemitismo, le guerre in medio oriente, i palestinesi (come sempre di strettissima attualità). La storia che sembra diventare sempre più incomprensibile e che pure bisogna cercare di comprendere, perché noi ci siamo dentro tutti. Il punto di vista di Amis, i brani delle sue conversazioni su tutto questo con Hitchens e con Saul Bellow, sono di livello assoluto.
Ma è la storia anche di uomini e soprattutto di letteratura. Amis, che nella letteratura e dalla letteratura è nato - il padre era Kingsley Amis, la matrigna Elizabeth Jane Howard, due enormi scrittori - ha questo da offrire e da lasciare al mondo.
I capitoli del libro, infatti, specie nella terza parte, sono alternati a "lezioni di scrittura" che vengono impartiti a un misterioso e (si suppone) giovane ospite.
Su tutto quanto, aleggia la morte. Una morte priva di senso - perché come Amis ripete spesso: "la morte è il nulla" - eppure che apre crepe di senso nel sentimento che ci lega misteriosamente agli amici, alle loro sofferenze e alla loro leale esistenza, alle donne, ai figli, alla celebrazione di una avventura esistenziale che vogliamo vivere sempre e fino al fondo, perché forse non esiste qualcuno di più fortemente legato alla vita di Amis stesso (e di Saul Bellow, gigante di vita e di scrittura, e di Hitchens, attaccato in modo furibondo alla vita e alle passioni che la vita dipana).
E' un libro vitale, vivo, creaturale. Perché è di questo che è fatta la vita. E nessuna cosa più della letteratura - quando è come "questa" letteratura - è capace di restituirne la materia e la sostanza (visibile e invisibile).
Il libro più bello degli ultimi anni.

Fabrizio Falconi - 2023

20/03/23

Epicuro per la disperazione dei nostri giorni - Uno scritto di Robert P. Harrison da Los Angeles Review of Books


Epicuro per la nostra epoca

di Robert Pogue Harrison

"Il deserto cresce", scriveva Nietzsche più di un secolo fa. "Guai a chi nasconde deserti interni." Da allora, la terra desolata è cresciuta sempre più indiscriminatamente, sia all'interno che all'esterno. Le nostre vite sociali e spirituali appassiscono sugli schermi dei nostri cellulari. Le nostre città, i nostri ambienti e le nostre arene pubbliche soffrono di un degrado le cui cause rimangono oscure, mentre gli effetti sono fin troppo evidenti. Il "piccolo giardino" dello spirito umano cade in rovina.
Il termine "piccolo giardino" allude all'Ho Kepos, ovvero il piccolo giardino privato dove Epicuro diede vita a una delle scuole più belle, influenti e longeve dell'antichità. Egli visse in tempi bui, simili ai nostri, quando la sfera pubblica e politica della democrazia ateniese era in piena decadenza. I filosofi greci che lo avevano preceduto - primo fra tutti Aristotele - credevano che la felicità umana fosse possibile solo all'interno della polis e delle attività della cittadinanza. Epicuro invece credeva che la felicità dovesse essere ricercata lontano dalla follia e dalla faziosità del regno pubblico. Questo è uno dei motivi per cui fondò la sua scuola appena fuori dalle mura di Atene nel 306 a.C.
La nostra epoca ha bisogno di una forte dose di epicureismo creativo e rivitalizzato, perché Epicuro ci offre una filosofia di come le persone possano, di propria iniziativa, creare piccole sorgenti di felicità in mezzo alla terra desolata. Per noi, ciò significa trovare modi silenziosi ma decisivi per resistere al modellamento e all'amministrazione dei desideri privati da parte del capitalismo surrealista; per resistere alla mentalità di branco e alla superficialità intellettuale promossa dai gruppi di pari, dagli opinionisti e dalla cacofonia dei social; per resistere all'autoassorbimento in tutte le sue forme sottili e volgari; e soprattutto per resistere al richiamo delle sirene del successo. Resistere, tuttavia, non è sufficiente, ed è qui che entra in gioco l'epicureismo, come filosofia positiva.
I giardini epicurei fioriscono dove persone affini coltivano varie virtù sociali, psicologiche ed esistenziali che rendono la vita più gradevole, più "dolce" (hedys, la radice greca di "edonismo") e più degna di essere vissuta, e la cui coltivazione equivale a una forma di cura spirituale. Queste virtù includono: l'amicizia, un valore epicureo supremo; la conversazione, l'ingrediente principale di un'amicizia significativa; una vita mentale attiva, che Epicuro intendeva come un vivaio di quelle idee che arricchiscono la conversazione e la rendono piacevole; la soavità, o una certa gradevolezza dei modi e del contegno personale; e la serenità, o la calma interiore e la padronanza di sé.
Queste virtù epicuree scarseggiano al giorno d'oggi. Le concepiamo perfino come abitudini e pratiche da coltivare? La maggior parte di noi crede di dover acquisire e coltivare amicizie, ma quanti di noi credono che si debba innanzitutto imparare l'arte dell'amicizia, proprio curando quelle altre qualità che arricchiscono l'esperienza dell'amicizia? Nel mondo antico, essere un epicureo significava impegnarsi in un programma di auto-miglioramento e "cura di sé" per tutta la vita. Facendo ciò che è necessario per diventare una persona più riflessiva, preparata, competente e attraente, divento più degno dell'amicizia. L'amico è soprattutto una fonte di generosità.
Per quanto queste virtù sociali e personali fossero importanti per la buona vita, come la concepiva Epicuro, ancora più importante era la coltivazione di tre disposizioni esistenziali primarie: speranza, pazienza e gratitudine. Epicuro intendeva questa trinità come modi di rapportarsi alle tre dimensioni del tempo. Esaminiamole a turno, anche se solo brevemente.
Epicuro riteneva che l'ansia per il futuro, soprattutto per il futuro ultimo della morte, fosse il più grande ostacolo alla felicità umana. Il futuro ci preoccupa, ci perseguita e spesso ci tormenta, perché non possiamo sapere esattamente cosa ci riserva: un rovescio di fortuna, la perdita di persone care, una malattia, un disastro. Ci viene incontro alla cieca e il più delle volte la aspettiamo con timore, nonostante il richiamo delle sue terre promesse. Contro questo timore, l'epicureo coltivava un atteggiamento di speranza: la speranza che la prospettiva di felicità seminata nel presente fiorirà a tempo debito. La speranza non insegue una terra promessa. Porta a compimento un potenziale interiore realizzato nel tempo, trasformando la morte in un culmine piuttosto che nell'estinzione di una possibilità.
La pazienza, nella sua lenta coltivazione della possibilità interiore, confida nel futuro per soddisfare le devozioni e gli sforzi del presente. Trasfigura il nostro rapporto con il presente riempiendo i suoi giorni con il frutto invisibile delle cose sperate. Per riprendere la definizione di bellezza di Stendhal, la pazienza è una promessa di felicità.
Quanto alla gratitudine, è la virtù esistenziale principale che cresce nell'humus epicureo. È anche la più rara e la più bisognosa di cure e nutrimenti quotidiani, sia ai tempi di Epicuro che ai nostri. Abbiamo un'inclinazione naturale a ignorare le benedizioni del passato e a rimanere sempre affamati di qualcosa in più. "La vita dello stolto", scriveva Epicuro, "è segnata dall'ingratitudine e dall'apprensione; la deriva del suo pensiero è esclusivamente verso il futuro". Questa ingrata "deriva del pensiero" verso il futuro ha poco a che fare con la speranza epicurea. La sua apprensione non si basa sulla pazienza nel presente, né sulla gratitudine per ciò che è già stato dato, ma su un'ansiosa insoddisfazione i cui fremiti oscurano il futuro, dimenticano il passato e turbano il presente. L'ingrato si relaziona con il tempo come fonte di privazioni piuttosto che di benedizioni, quindi è essenzialmente goloso: "È l'ingratitudine dell'anima che rende la creatura ghiotta di abbellimenti nella dieta". La gratitudine, al contrario, consacra il passato, addolcisce il presente e rasserena il futuro.
La filosofia epicurea non ha quasi nulla in comune con la filosofia edonistica del "mangia, bevi e stai allegro, perché domani moriremo". Per Epicuro il piacere era innanzitutto l'assenza di dolore, ma era anche molto di più. Era un particolare tipo di "dolcezza" che accompagnava uno stato di serenità. La serenità, a sua volta, era il frutto delle virtù promosse dalla Scuola del Giardino. Verso la fine della sua vita Epicuro soffrì di una morte lenta e dolorosa causata da un calcolo vescicale nelle vie urinarie, eppure affrontò allegramente sia il dolore che la morte imminente, grazie alla coltivazione per tutta la vita della suprema virtù della gratitudine. Sul letto di morte, come chiarì nelle sue lettere a vari compagni, trasse uno squisito piacere dalla gratitudine per quei momenti di comunione e di conversazione che aveva consumato in passato con gli amici.
Ogni giardiniere sa che la speranza, la pazienza e la gratitudine sono le disposizioni interiori che sostengono le sue attività. È la speranza che getta i semi, la pazienza che attende il loro sviluppo e la gratitudine che testimonia i cicli di vita del giardino. Dove la terra desolata cresce all'interno, ci relazioniamo al presente con impazienza, al futuro con disperazione e al passato con ingratitudine. Nella terra desolata il piacere equivale al consumo e la felicità all'autocompiacimento. Il consumo e l'autocompiacimento possono forse farci superare la vita, ma solo un'attenta coltivazione ci permetterà di consumarla con l'atteggiamento a cui aspiravano Epicuro e i suoi seguaci, cioè di congedarsi da essa come dopo un banchetto, grati per l'abbondanza e non affamati di altro. Noi, al contrario, viviamo in un'epoca di desiderio. Se Epicuro non è in grado di guarirci completamente dalla nostra cupidigia, la sua filosofia della speranza, della pazienza e della gratitudine, così come l'amicizia, la conversazione e lo scambio di idee, ci mostra un altro modo di possedere la nostra mortalità e di diventare giardinieri della nostra felicità.

Robert P. Harrison
pubblicato su Los Angeles Review of Books, 9 marzo 2023

21/12/22

Krishnamurti: L'amore non è un contratto

 



Volete forse una prova dell'amore?

Quando amate qualcuno, cercate una prova? Se chiedete una prova d'amore, è amore quello ? Se amate vostra moglie, vostro figlio, e volete una prova, allora l'amore è senz'altro un contratto. 

Così, la vostra preghiera a Dio è un mero contrattare. Chi pone la domanda si accosta a ciò che egli chiama Dio mediante l'implorazione e la supplica.  Non potete trovare la realtà mediante il sacrificio, mediante il dovere, mediante la responsabilità, perché questi sono mezzi per raggiungere un fine, e il fine non è diverso dai mezzi. I mezzi sono il fine. 

.... 

Per comprendere la sofferenza occorre la cessazione di ogni fuga, perché solo allora sarete in grado di riconoscere voi stessi in atto; e nel comprendervi in atto - vale a dire in rapporto - troverete un modo per liberare del tutto il pensiero da ogni conflitto e per vivere in una condizione di felicità, di realtà. 


Tratto da: Krishnamurti - Verso la Liberazione Interiore, Guanda Editore, Milano, 1998 





07/12/22

Krishnamurti: "Come agire rettamente, senza conflitto?"

 



Quando capite che, per sua natura, la relazione può esistere solo quando non c'è attaccamento e non ci si creano immagini degli altri, allora esiste una comunione completa.

Agire rettamente implica una precisione e una cura che non si basano su alcun motivo; e significa agire senza imporre né una direzione né uno scopo. Capire che cosa significa agire rettamente e in che cosa consiste una vera relazione, porta con sé l'intelligenza. Non l'intelligenza che viene dall'intelletto, ma quella intelligenza che viene da profondità che non sono quelle vostre né mie.

Quella intelligenza stabilirà che cosa dovete fare per guadagnarvi da vivere; quando c'è quella intelligenza potrete fare il giardiniere, o il cuoco, non importa. Senza quell'intelligenza saranno le circostanze a disporre della vostra vita.

C'è un modo di vivere nel quale non esiste conflitto; proprio perché non ci sono conflitti, c'è l'intelligenza che mostra qual è il modo giusto di vivere. 


J. Krishnamurti, Domande e risposte, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1983, p.73




27/06/22

La paura della Morte? Come vincerla secondo Elisabeth Kübler Ross


Elisabeth Kübler-Ross
, nata a Zurigo, 8 luglio 1926 e morta a Scottsdale, il 24 agosto 2004 è una psichiatra svizzera, considerata la fondatrice della psicotanatologia e uno dei più noti esponenti dei death studies, cioè degli studi sui meccanismi psicologici che caratterizzano il lutto. 

Dopo gli studi in Svizzera, nel 1958 si è trasferì negli Stati Uniti dove lavorò per molti anni presso l'Ospedale Billings di Chicago. 

Dalle sue esperienze con i malati terminali trasse il libro La morte e il morire pubblicato nel 1969, che fece di lei una vera autorità sull'argomento. 

Celebre la sua definizione delle cinque fasi di reazione alla prognosi mortale: diniego (denial and isolation), rabbia (anger), negoziazione (bargaining), depressione (depression), accettazione (acceptance). 

Chiave del suo lavoro fu la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica. Usava anche praticare la tecnica dell'uscita fuori da corpo (OBE), che aveva appreso da Robert A. Monroe. 

Negli anni settanta ha tenuto numerosi seminari e conferenze. 

Le cinque fasi dell'elaborazione del lutto, il suo "modello a cinque fasi", elaborato nel 1970, permette di capire le dinamiche mentali più comuni della persona cui si è diagnosticata una malattia terminale. 

Gli psicoterapeuti lo hanno trovato valido anche quando si debba elaborare un lutto affettivo o ideologico.

La grande scienziata il 9 settembre del 1999 fu protagonista di una delle "grandi interviste di Liberal", e così rispose a una delle ultime domande:

 - Lei nega che la paura di morire sia un fattore naturale?

- Sì, tale paura è artificiosa, un fattore causato dal progresso tecnologico ed aggravato dalla medicina scientifica, che ha sempre più allontanato i morenti dalle loro famiglie. A coloro che sono tormentati da questa paura, consiglio di vivere giorno per giorno. Se io in questo momento vivo veramente, perché mai dovrei avere paura della morte ? Se gli esseri umani si liberassero dalla paura, potremmo giungere tutti alla consapevolezza piena e totale che la tanto temuta morte è in realtà una esperienza bellissima, attraverso della quale ci liberiamo dal nostro corpo come una farfalla dal bozzolo. Paura della morte e paura della vita sono in fondo due facce della stessa medaglia. Abbiamo troppa poca fiducia nella vita, nella creazione, siamo troppo aridi spiritualmente, ecco il vero problema.

Parole che dovrebbero farci molto riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022


22/12/21

Quali sono le cose per cui vale la pena vivere? Risponde Woody Allen

E' una scena cult, di un film cult. 

Considerato uno dei capolavori di Woody Allen, Manhattan uscì nel 1979 e presentato fuori concorso al 32º Festival di Cannes, ottenne un enorme successo in tutto il mondo. 

Oggi è considerato un classico, al punto che nel 2001 il film è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Come si ricorderà, il film racconta le vicende di Isaac Davis (lo stesso Allen), autore televisivo di 42 anni che abita a Manhattan e che ha appena divorziato dalla sua seconda moglie, Jill, che l'ha lasciato per un'altra donna, Connie, e che sta scrivendo un libro su quel matrimonio fallimentare. 

A sua volta, Isaac frequenta una ragazza di 17 anni, Tracy, in una relazione che egli immagina breve, a causa della differenza di età e a causa dell'attrazione che prova per Mary, una giornalista divorziata e sofisticata.

Nella scena in questione, Allen è alle prese, da solo in casa sua, con le sue questioni esistenziali, nuove idee da scrivere e soprattutto un bilancio sulla sua vita. 

Ed è così che, utilizzando un registratore, ad un certo punto prende a elencare i motivi, o meglio le cose per cui vale la pena vivere. 

Un gioco che forse ciascuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita. 

Ed è interessante riflettere sulle cose scelte da Allen.

Riportiamo per intero il brano del suo monologo sul divano:

Idea per un racconto sulla gente a Manhattan, che si crea costantemente dei problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali. Ah, ehm… Deve essere ottimistico. Perché vale la pena di vivere? È un’ottima domanda. Be’, ci sono certe cose per cui valga la pena di vivere. Ehm… Per esempio… Ehm… Per me… boh, io direi… il vecchio Groucho Marx per dirne una e… Joe DiMaggio e… secondo movimento della sinfonia Jupiter e… Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues e… i film svedesi naturalmente… L’educazione sentimentale di Flaubert… Marlon Brando, Frank Sinatra… quelle incredibili… mele e pere dipinte da Cézanne… i granchi da Sam Wo… il viso di Tracy

Dunque ricapitolando. Ecco i must alleniani:

1. Groucho Marx, uno dei più grandi attori e autori comici di sempre e vero feticcio per Allen.

2. Joe Di Maggio (ma qui potrebbe essere un qualsiasi campione sportivo a cui si è legati)

3. Il secondo movimento della Sinfonia Jupiter di Mozart.  (lo puoi ascoltare qui). 

4. Louis Armstrong (e la sua Potato Head Blues, che puoi ascoltare qui). 

5. I film svedesi (si intende ovviamente soprattutto Ingmar Bergman, vero mito per Allen).

6. L'educazione sentimentale, un grandioso, bellissimo romanzo di Flaubert (che puoi acquistare qui). 

7. Marlon Brando.

8. Frank Sinatra.

9. Le mele e pere dipinte da Cézanne (che puoi vedere qui).

10. I granchi di Sam Wo (immaginiamo sia il suo piatto preferito, e qui ciascuno potrebbe scegliere il suo piatto e il suo ristorante).

11. Il viso di Tracy, che nel film ha le fattezze di Mariel Hemingway (e che puoi vedere qui).

Questa dunque la Lista di Woody

Naturalmente, ciascuno di voi può fare la sua. 

Qua sotto la sequenza del film.

Fabrizio Falconi - 2021 


01/11/21

L'uomo è una creatura assurda - Dostoevskij





L'uomo è creatura avventata ed assurda, e forse a lui come al giocatore di scacchi interessa soltanto il processo di raggiungimento dello scopo, non già lo scopo stesso. 

E chissà forse lo scopo a cui tende l'umanità consiste unicamente nel mantenere ininterrotto questo processo di raggiungimento, in altre parole è la vita medesima, e non propriamente la meta da raggiungere. 

La quale meta non può essere altro che il due più due quattro, ossia una formula, ma questo due più due quattro non è più la vita, signori, bensì, il principio della morte.

L'uomo ha sempre avuto paura di questo due più due quattro. Poniamo anche che l'uomo non faccia altro che cercare questo due più due quattro, e solchi gli oceani e sacrifichi la vita in tale ricerca, ma trovarlo poi di fatto, vero Iddio, ne ha paura.

E invero sente che quando lo avesse trovato non gli rimarrebbe più nulla da cercare.
Si rivela in lui, ogni volta che raggiunge uno scopo, come un senso di disagio.
Darsi da fare per raggiungere uno scopo gli piace, sì, ma raggiungerlo poi per nulla e questo è, s'intende, un fatto terribilmente comico.

E' noto che molti amatori del genere umano, prima o poi verso la fine della loro vita mutarono registro, facendosi protagonisti di qualche storia, dite pure, talvolta delle più scandalose.

Rovesciate su un uomo, rovesciategli anche addosso tutti i beni terreni, immergetelo fino ai capelli nella felicità, tanto che alla superficie della felicità, come da un'acqua, non affiorino che bolle d'aria; dategli anche tale prosperità economica che non gli resti nient'altro da fare se non dormire, mangiar pampepato e provvedere a che la storia universale non abbia a finire lì;

E anche allora lui, l'uomo, anche allora, per mera sconoscenza, per mera monellaggine, farà qualche porcheria. Rischierà perfino il pampepato e a bella posta desidererà la più rovinosa sciocchezza, l'assurdità più antieconomica, unicamente per mescolare a tanta positiva saggezza il proprio pernicioso elemento fantastico.
Vorrà tenersi le sue fantasticherie e la sua indegna stupidaggine appunto e unicamente per dimostrare a se stesso che gli uomini son sempre uomini.

Fedor Dostoevskij - Ricordi dal Sottosuolo - circa 1864.

12/04/21

Libro del Giorno: "La società senza dolore" di Byung-Chul Han

 


Come scrive Davide Sisto, Byung-Chul Han, " “Il filosofo tedesco più letto nel mondo” (El Pais), “La punta di diamante di una nuova, accessibile filosofia tedesca” (The Guardian), “Uno dei più importanti filosofi contemporanei” (Avvenire), è, senza dubbio, uno dei pensatori attualmente più apprezzati a livello internazionale. 

I suoi libri sono letti e studiati non solo dagli addetti ai lavori nel campo della filosofia, ma in ogni settore disciplinare intento a decifrare con lucidità le caratteristiche del presente. Addirittura, Der Spiegel usa il termine “gratitudine” per l’audacia con cui il filosofo sudcoreano cerca di interpretare quella complessità del reale che, quotidianamente, rischia di sopraffarci e di soffocarci. Il segreto dell’universale entusiasmo nei confronti di Han è riconducibile, soprattutto, alla sua capacità di vestire plausibilmente i panni di un Günther Anders del XXI secolo, quindi di un critico radicale, pessimista e apocalittico delle principali tendenze politiche, sociali, culturali e tecnologiche odierne, adottando però uno stile di scrittura tanto cristallino quanto fascinoso e attraente. "

La conferma arriva dal suo ultimo saggio, La società senza dolore, pubblicato in Italia da Einaudi.

Il mondo contemporaneo, sostiene Byung-Chul Han, nato in Sud Corea e docente di Filosofia a Berlino, è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è cosí pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo.

E l’attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. 

Una rimozione che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze. 

E nel farlo ci consegna nuovi e piú efficaci strumenti per leggere la realtà e la società che ci circondano.

01/02/21

Imparare a gestire le frustrazioni, non a evitarle

 


Dal momento in cui l'uomo, l'essere umano viene gettato nell'esistenza, per dirla con Heidegger, egli è chiamato a partecipare a una partita impari, che non potrà mai vincere contro tre avversari che hanno mezzi più potenti dei suoi: la natura (ivi compreso "il caso"), la massa degli altri uomini e se stesso.
Dal momento che gli avversari sono così potenti, l'uomo può aspirare solo a parziali - e molto limitate - vittorie, con esclusione degli eroi e dei santi che suppliscono al fallimento con un sovradimensionamento della parte dell'onore e della moralità.
E dal momento che le sconfitte saranno molte, l'esperienza più comune dell'essere umano è quella della frustrazione (cioè del non esaudimento dei propri desideri/aspirazioni).
Ecco dunque che nella vita la cosa più importante da insegnare non sarebbe la fuga o la rimozione dalle/delle frustrazioni. Ma la loro gestione.
Saper gestire le frustrazioni è ciò che rende un essere umano evoluto nel suo cammino durante la vita.
Ci sono molti modi per imparare a gestire le frustrazioni. La tradizione orientale punta alla radice: per eliminare le frustrazioni si punta alla riduzione crescente fino alla totale eliminazione dei desideri, ritenuti inganni della mente e dell'io.
In Occidente tutto è più complicato, perché l'occidentale non sa - o non può - rinunciare facilmente alle aspirazioni e ai desideri.
L'occidentale è antropologicamente aduso a costruire la propria individualità sulla realizzazione dei desideri e delle aspirazioni.
L'unica via che si presenta allora davanti all'essere occidentale è quella del discernimento, dell'imparare a districarsi nella giungla dei desideri e delle aspirazioni (e delle relative frustrazioni).
La saggezza risiede in questa lezione che si impara giorno per giorno, che insegna a giocare con la propria frustrazione come con l'istinto di un animale che si deve con dolcezza e fermezza addomesticare realizzando il prototipo di una giusta misura.


Fabrizio Falconi - 2021 

29/01/21

"Quando ho cominciato ad amarmi" di Charles Chaplin

 


Quando ho cominciato ad amarmi -  Charles Chaplin

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono reso conto che il dolore e la sofferenza emotiva
servivano a ricordarmi che stavo vivendo in contrasto con i miei valori.
Oggi so che questa si chiama autenticità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho capito quanto fosse offensivo voler imporre a qualcun altro i miei desideri,
pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta,
anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama rispetto.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho smesso di desiderare una vita diversa
e ho compreso che le sfide che stavo affrontando erano un invito a migliorarmi.
Oggi so che questa si chiama maturità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho capito che in ogni circostanza ero al posto giusto e al momento giusto
e che tutto ciò che mi accadeva aveva un preciso significato.
Da allora ho imparato ad essere sereno.
Oggi so che questa si chiama fiducia in sé stessi.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
non ho più rinunciato al mio tempo libero
e ho smesso di fantasticare troppo su grandiosi progetti futuri.
Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e felicità,
ciò che mi appassiona e mi rende allegro, e lo faccio a modo mio, rispettando i miei tempi.
Oggi so che questa si chiama semplicità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono liberato di tutto ciò che metteva a rischio la mia salute: cibi, persone, oggetti, situazioni
e qualsiasi cosa che mi trascinasse verso il basso allontanandomi da me stesso.
All’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma
oggi so che questo si chiama amor proprio.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho smesso di voler avere sempre ragione.
E cosi facendo ho commesso meno errori.
Oggi so che questa si chiama umiltà.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono rifiutato di continuare a vivere nel passato
o di preoccuparmi del futuro.
Oggi ho imparato a vivere nel momento presente, l’unico istante che davvero conta.
Oggi so che questo si chiama benessere.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono reso conto che il mio Pensiero può
rendermi miserabile e malato.
Ma quando ho imparato a farlo dialogare con il mio cuore,
l’intelletto è diventato il mio migliore alleato.
Oggi so che questa si chiama saggezza.

Non dobbiamo temere i contrasti, i conflitti e
i problemi che abbiamo con noi stessi e con gli altri
perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.
Oggi so che questa si chiama vita.


Charles Chaplin

06/08/20

Cosa è l'amore di una madre. (da Romain Gary)


Soltanto quando raggiunsi la quarantina cominciai a capirlo. Non è bene essere tanto amati, così giovani, così presto.

Ci vengono delle cattive abitudini. Si crede che ci sia dovuto. Si crede che un amore simile esista anche altrove e che si possa ritrovare. Ci si fa affidamento. Si guarda, si spera, si aspetta. 

Con l'amore materno la vita ci fa all'alba una promessa che non manterrà mai. 

In seguito si è costretti a mangiare gli avanzi, fino alla fine. Ogni volta che una donna ci prende tra le braccia e ci stringe al cuore, si tratta solo di condoglianze. Si ritorna sempre a guaire sulla tomba della propria madre come un cane abbandonato.  

Mai più, mai più, mai più.  Braccia adorabili si chiudono intorno al nostro collo e labbra dolcissime ci parlano d'amore, ma noi sappiamo già tutto. Noi siamo stati alla sorgente troppo presto e abbiamo bevuto tutto. 

Quando ci riprende la sete, si ha un bel cercare da ogni parte: non ci sono più pozzi, ma solo miraggi. Abbiamo fatto, alla prima luce dell'alba, uno studio approfondito dell'amore e ci siamo documentati troppo bene.

Dovunque andremo, porteremo con noi il veleno dei confronti; e passiamo il tempo aspettando ciò che abbiamo già avuto. 

Non dico che dobbiamo impedire alle madri di voler bene ai loro piccoli. Dico semplicemente che sarebbe bene avessero qualcun altro, oltre i figli, a cui voler bene. Se mia madre avesse avuto un amante non avrei passato la vita a morir di sete dietro ogni fontana. Disgraziatamente per me, io so distinguere i veri diamanti. 

Romain Gary, da La promessa dell'alba 


16/03/20

Cosa sono i virus? Quel poco che ne sappiamo



Quando sentite parlare di relativismo, ricordatevi che - ce lo insegna la pandemia attuale - il relativismo riguarda da vicino anche la scienza, che non è portatrice di verità assolute, ma solo di risultati parziali, validi fino a prima della prossima scoperta scientifica. 

Il fatto è che l'uomo - e dunque la scienza -  sa ancora pochissimo dei virus, che sono l'entità biologica in assoluto di gran lunga più abbondante sulla Terra.

Ma anche il concetto di "entità biologica" applicato ai virus è fonte di parecchi problemi: 

I virus infatti sono acellulari. Nel senso che non sono fatti di cellule, ma si replicano solo all'interno di altre cellule.

Il primo virus è stato scoperto nel 1892.

Attualmente si conoscono SOLO 5.000 specie di virus, descritte in dettaglio. Si ritiene però che ne esistano MILIONI di diversi tipi e che esistano in tutti gli ecosistemi della terra, anche i più estremi.

Nella storia dell'evoluzione, le origini del virus sono sconosciute.

I virus sono considerati da alcuni biologi come forme di vita, anche se in effetti, non essendo dotati  né di cellule proprie, né di metabolismo, sono spesso indicati come organismi "ai margini della vita", qualunque cosa questo significhi. 

I virus possono infettare tutti i tipi di forme di vita, dagli animali, alle piante, ai microrganismi (compresi batteri e archeobatteri).

La gran parte dei virus sono talmente piccoli da essere invisibili anche al microscopio, essendo dell'ordine di  grandezza di un centesimo di un normale batterio.

I virus, come è noto, pur aggregandosi a forme biologiche - cellule - sono immuni dagli antibiotici. E un piccolissimo, quasi insignificante organismo "ai margini della vita" è ancora oggi in condizione di mettere in ginocchio una intera comunità - mondiale - di esseri umani.

In conclusione, la scienza sa ancora pochissimo di cosa sono e come funzionano i virus. Dovremmo tenerlo a mente quando sovraccarichiamo la scienza di aspettative quasi fosse la nuova divinità.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 

18/02/20

La buona vita non è non avere rimpianti, non avere rimorsi




Non il dire che si è vissuta una vita senza rimpianti o senza rimorsi, ma il contrario, è secondo me l'indice dell'aver vissuto una buona vita

Viviamo immersi dentro una retorica narcisistica che ci esalta sulla chimera dell'essere noi "padroni assoluti del nostro destino", insufflata da quell'altra finta epica esistenzialista delle canzoni - da My way a Je ne regrette rien - che decreta il trionfo assoluto delle scelte - giuste o sbagliate che siano non importa - come orgoglio di una vita degna di essere vissuta

Ma invece non la mancanza di rimpianti o rimorsi, ma il fatto di averli vissuti, elaborati e superati (quelli che possono esserlo) è motivo di gioia e di vanto, nella economia di una vita. 

Una vita senza rimpianti e senza rimorsi non è possibile, non è autentica e non è nemmeno una bella vita, perché non è umana

Essere umani vuol dire essere fragili, vuol dire anche cadere e sbagliare, vuol dire spesso giudicare male le persone che si hanno vicine, vuol dire non essere grati, non mostrare l'amore che serve, fare del male anche quando non si vorrebbe farlo

Non nutrire rimpianto o rimorso per questo è, questo sì, inumano. La vita non è NON AVERE RIMPIANTI. La vita- il senso vero della vita - è avere e avere avuto una vita consapevole, cioè autentica; anche nel rimorso, anche nel rimpianto.

Fabrizio Falconi
- febbraio 2020

14/02/20

L'irripetibile: ciò che rende la vita degna di essere vissuta

Robert Capa, Saint-Moritz



Non potrai mai più tenere in braccio il tuo figlio bambino; non potrai mai più parlare con tuo padre e tua madre dopo che sono morti (se non in quella forma impalpabile che ti sembra di poter continuare a praticare); non potrai mai più baciare quell'amore come fu quella volta, in quel momento che era oro fuso e mentre lo vivevi sentivi già che stava scivolando via; non potrai mai più rivivere quel giorno su quella pista da sci con quegli amici, in quella disposizione di eventi che resero quella lunga e breve giornata, magica...

L'irripetibile è ciò che rende una vita inestimabile, e ciò che in fondo cerchiamo: vivere per quelle cose che sappiamo non potranno più tornare. Vivere con quella gioia e quel dolore che sono le due facce della stessa medaglia.

L'irripetibile, unico valore che abbiamo durante questa vita.

Fabrizio Falconi
- febbraio 2020

15/09/19

"Ragazzi senza scopo e Genitori non più autori delle loro azioni", La decadenza moderna (finale?) secondo Umberto Galimberti intervistato oggi dal Corriere della Sera



Filosofo. Antropologo. Psicologo. Psicoanalista. Sociologo. Dal professor Umberto Galimberti ti aspetteresti un eloquio iniziatico all’altezza delle materie che ha insegnato, compendiate nelle 1.637 pagine del Nuovo dizionario di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Feltrinelli), alla cui stesura ha faticato per 15 anni. Invece parla ancora come «il numero 8» — si definisce così — dei 10 figli di Ernesto, ex partigiano, venditore di cioccolato Theobroma improvvisatosi impiegato bancario, che in un paio di locali aprì a Biassono la prima agenzia del Credito artigiano e morì di tumore il giorno dell’inaugurazione. «Da bambino andavo in ufficio ad aiutarlo: mi faceva timbrare gli assegni. Avevo 14 anni quando mancò. Sognavo di diventare medico. Ma due borse di studio mi spalancarono le porte di Filosofia alla Cattolica di Milano. Lì trovai i miei maestri: Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Righi ed Emanuele Severino, con il quale mi laureai. C’erano anche Gianfranco Miglio e Francesco Alberoni. Poi lavorai per tre anni nel manicomio di Novara, dove conobbi il primario Eugenio Borgna. Fui io a obbligarlo a scrivere, prima non lo conosceva nessuno. Li sento ancora, Severino e Borgna. Ci vogliamo molto bene. Non ho mai capito il parricidio».
Fortunato ad avere dei padri così.
«Aggiunga Karl Jaspers, che frequentai a Basilea e che mi avviò alla psicopatologia. E Mario Trevi, con cui feci il percorso psicoanalitico. Oggi l’analisi non è più possibile. L’ultimo che ho accompagnato per cinque anni è stato il regista Luca Ronconi. Ma solo perché lì c’era un uomo. Capace di riflettere, incuriosito dalla sua vita».
Eppure qui nello studio vedo che c’è ancora il lettino dello psicoanalista.
«Non ho mai smesso di ricevere. La gente mi chiede di risolvergli i problemi. Invece la psicoanalisi è conoscenza di sé: sapere chi sei è meglio che vivere a tua insaputa. Quanto al dolore, non lo puoi cancellare con i farmaci».
L’angoscia più frequente qual è?
«Quella provocata dal nichilismo. I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca. Non potendo fare nulla, erodono la ricchezza accumulata dai padri e dai nonni».
Stanno male anche i genitori?
«Eccome. Senza che lo sappiano, non sono più autori delle loro azioni. Nell’età della tecnica sono diventati funzionari di apparato. Vengono misurati solo dal grado di efficienza e produttività. Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista, le problematiche erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».
La mia è la prima generazione che consegna ai suoi figli un futuro ben peggiore di quello lasciatoci in eredità dai nostri padri, spesso nullatenenti.
«Fino a 37 anni ho insegnato storia e filosofia nei licei. Guadagnavo 110.000 lire al mese. Un appartamento ne costava 75.000 al metro quadro. In famiglia abbiamo tutti studiato. Le mie cinque sorelle frequentavano l’università e intanto facevano le colf. Oggi mi tocca aiutare la mia unica figlia, che ha tre bambini».