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04/04/21

Pasqua insolita a Roma: Parlando di Resurrezione, la visita alle incredibili cripte dei Cappuccini in Via Veneto

 


Una visita a Roma nei giorni di Pasqua, può riservare molte sorprese

Ne è un esempio la cosiddetta Chiesa dei Cappuccini in Via Veneto – il cui nome esatto è in realtà Santa Maria dell’Immacolata - celebre soprattutto per l’antico cimitero nel sotterraneo dell’edificio: la cripta,  le cui cinque cappelle sono interamente ricoperte e decorate con parti di scheletri – omeri, femori, vertebre, teschi, scapole, clavicole -  appartenenti a frati cappuccini che vissero per secoli nell’adiacente convento: più di quattromila scheletri formano una fantasmagorica e lugubre scenografia che serviva come memento mori, come ammonimento riguardo alla caducità della vita terrena.

Oggi alle cripte si accede attraverso un modernissimo e funzionale Museo dedicato alla confraternita dei Cappuccini (adiacente alla Chiesa), molto interessante, che ricostruisce la storia dell’Ordine attraverso i suoi personaggi, le curiosità, i luoghi e  gli strumenti della predicazione, sull’esempio del Santo assisiano.

Noi eravamo quello che voi siete e quello che noi siamo voi sarete, ammonisce un cartello all’entrata, piantato direttamente nella terra delle sepolture.

Ma i cappuccini professavano la loro fede nella Resurrezione e l’ultima delle Cappelle è in questo senso, liberatoria, perché si assiste, in una tela, alla raffigurazione del miracolo della resurrezione di Lazzaro. L’intera cripta è quindi un passaggio pasquale, attraverso la morte, nella sua rappresentazione più gotica,   fino alla Resurrezione. E non è un caso che questo luogo nei secoli abbia suscitato l’interesse di illustri e diversi artisti, da Nathaniel Hawthorne e Goethe, fino al Marchese De Sade, che ne rimase fortemente impressionato.
Ma se ancora oggi la Chiesa richiama molti visitatori per questa particolarità,
molti altri sono i motivi di interesse, prima di tutto quella grande tela d’altare nella prima cappella a destra firmata dal genio di Guido Reni e raffigurante San Michele Arcangelo che schiaccia con il piede la testa di Satana. 

Questo dipinto ha una storia molto particolare, che pochi conoscono.  Il bolognese Guido Reni era quel che si dice uno spirito inquieto. Ammirato e ricercatissimo nella Roma di allora, era quello che si potrebbe definire un dandy ante-litteram. Sempre elegante e azzimato, orgoglioso e curioso, si sentiva attratto dal soprannaturale, dalla magia e dall’azzardo. 

Quando nel 1635 ricevette da Antonio Barberini, che era il fratello del Papa di allora – Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini – l’incarico di realizzare una grande pala d’altare per la Chiesa dell’Ordine al quale lo stesso Antonio apparteneva, Guido Reni pensò bene di prendersi una rivincita, a modo suo, nei confronti di uno dei personaggi più influenti della Capitale, quel Giovanni Battista Pamphilj, destinato a diventare qualche anno più tardi anch’esso Papa, succedendo ad Urbano VIII con il nome di Innocenzo X.

Barberini e Pamphilj si contendevano la scena a Roma, in quel periodo. Erano le due famiglie più facoltose, le più potenti, quelle che con più numeri ambivano alla elezione del Pontefice. 

Guido Reni era dalla parte dei Barberini. Anche per motivi personali che gli avevano reso inviso Giovanni Battista Pamphilj, brillante avvocato di curia. Non si conosce bene il motivo di questa antipatia: se si trattò di un affronto personale,  di una maldicenza o  di un danno alla reputazione del pittore.  Forse per vendicarsi di qualche torto subito, Guido Reni ritrasse nella tela della Chiesa dei Cappuccini la testa del demonio schiacciata dall’Arcangelo con i lineamenti di Giovanni Battista Pamphilj: lo stesso viso allungato, la fronte stempiata e quel pizzetto che lo rendevano un ottimo soggetto per la rappresentazione del Diavolo..

Quel che è certo è che sin da quando il quadro fu esposto, la somiglianza parve a molti innegabile.  E lo stesso Giovanni Battista, all’epoca Cardinale, ne rimase scandalizzato, chiedendo anche per vie diplomatiche che si provvedesse a nasconderlo.  Ma quella Chiesa era territorio dei Barberini e nonostante le rimostranze, furono creduti i motivi di discolpa dell’artista il quale si giustificò dicendo che si era semplicemente ispirato all’immagine del Demonio che più volte aveva segnato, nel corso dei suoi incubi notturni..

Dunque il quadro non fu mai spostato. Anche se i motivi di imbarazzo crebbero ulteriormente qualche anno più tardi quando Giovanni Battista divenne addirittura Papa. 

E qualche voce maligna, nella Roma di allora, si affrettò a constatare che “anche se in quella città si era visto di tutto, dall’epoca di Romolo e poi di Nerone, non s’era mai visto un Papa assomigliare così tanto ad un Demonio!”


Fabrizio Falconi - riproduzione riservata 2021 




02/02/19

Storie Romane: Via Veneto e la vicenda di Fra' Pacifico, il frate che "dava i numeri".



Via Veneto e i numeri di Fra’ Pacifico.

Era la più elegante via di Roma, lo è anche oggi forse, anche se il suo fascino sembra essere decaduto, dopo il magico decennio degli anni ’60 dove per una serie di circostanze questa strada di Roma si trovò ad essere additata come il centro del mondo, il centro del mondo che contava: Via Veneto è universalmente nota. Eppure il suo nome completo è Via Vittorio Veneto.  La strada infatti, pur essendo ubicata nel dedalo di vie dedicate alle diverse regioni italiane, cambiò la sue denominazione dopo il 1918, quando si scelse di dedicarla al comune di Vittorio Veneto, teatro della gloriosa e decisiva battaglia vinta dagli italiani contro gli austriaci durante il primo conflitto mondiale.

Fu scelta dunque, forse per mera praticità, la Via che esisteva già dal 1886 quando era sorto il quartiere Ludovisi, dallo smembramento della bellissima Villa (vedi il capitolo precedente) e che era intitolata alla regione veneta.

Tra il 1890 e il 1960, la Via si arricchì di elegantissimi palazzi e ville (la più celebre è la Villa Margherita, oggi sede dell’Ambasciata degli Stati Uniti) divenuti con il tempo sontuosi alberghi, sedi diplomatiche o di istituti bancari.

Fu però il genio di un artista, Federico Fellini, a trasformare questa strada un mito. C’è qualcuno che oggi sostiene che la Via, in realtà, non fu mai un vero e proprio punto di aggregazione degli intellettuali di allora. E’ pur vero che i tavolini degli eleganti caffè ospitavano molti dei registi e degli scrittori più in voga, nel dopoguerra italiano, come racconta anche Eugenio Scalfari in un suo famoso libro di memorie.  Ma  Fellini ci mise molto del suo, inventando letteralmente un luogo, tanto è vero che pretese ed ottenne dalla produzione di allora di ricostruire la Via, così come era, fedelmente, nel rassicurante spazio dell’amatissimo teatro di posa numero 5 di Cinecittà dove il regista riminese girò la gran parte dei suoi film.

Federico Fellini seduto ai tavoli di Doney

E a Via Veneto, Fellini era in effetti un habitué come è possibile verificare dalle molte foto d’epoca che lo ritraggono seduto ai tavolini dei caffè.

Oggi la Via non ha più sicuramente lo charme di allora, anche se resta una meta privilegiata del turismo internazionale e presenta molti motivi di interesse e di curiosità, che riportano ai secoli del passato, come la celebre Fontana delle Api scolpita nel 1644 da Gian Lorenzo Bernini e commissionata da Papa Urbano VIII o come la celebre chiesa di Santa Maria della Concezione, eretta da Antonio Casoni nel 1626 per il cardinale Antonio Barberini, cappuccino, a sua volta fratello di Urbano VIII, che per i romani è la Chiesa dei Cappuccini (della quale parliamo anche in un altro capitolo di questo Rione) con il suo cimitero con più di quattromila scheletri di frati.

A proposito di questa Chiesa è poco conosciuta la vicenda di un converso del convento, un cappuccino, tale Fra Pacifico, vissuto nell’Ottocento, che a Roma divenne una vera e propria celebrità per una sua dote molto particolare: sembra infatti che avesse una incredibile capacità di predire numeri del lotto regolarmente vincenti.


Divenne una tale fenomeno, in città, che il popolo sembra si riunisse in vere calche e assembramenti di fronte alla Chiesa per poter avere dal fraticello le agognate combinazioni vincenti.  La cosa, ovviamente, suscitò ad un certo punto la contrarietà delle autorità ecclesiastiche: la notizia anzi arrivò direttamente all’orecchio di Papa Gregorio XVI (1831-1846), il quale dispose il trasferimento di Fra’ Pacifico.

La qual cosa fu accolta con vero e proprio dolore dalla popolazione, che si raccolse davanti a Santa Maria della Concezione per implorare un’ultima combinazione vincente.   In quella occasione, però, il frate sorprese tutti, declamando una frase sibillina che però i popolani non fecero molta fatica ad interpretare:  Roma, SE SANTA SEI/ perché crudel SE’ TANTA?/ SE DICI che SE’ SANTA/ certo bugiarda SEI !

Che, decrittato, significava una bella cinquina di numeri: 66,70,16,60,6. 

Le cronache riferiscono che anche stavolta il Frate non sbagliò e una buona parte di Romani festeggiò una cospicua vincita.