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15/05/14

'La giovinezza è sopravvalutata' - Tilda Swinton.






In una recente intervista ad Alessandra Venezia (per IoDonna/Corriere della Sera), Tilda Swinton, che è una grande attrice e una donna molto intelligente, ha espresso un pensiero molto interessante:

'La giovinezza è sopravvalutata. La vita diventa molto più interessante col passare degli anni e arrivare a 97 anni, come mia nonna - che è ancora la mia stella polare - a me piacerebbe. Chi disse che la gioventù nei giovani è sprecata aveva ragione. Sì, d'accordo, l'energia dei giovani.. ma tutto il resto è un disastro. Le cose migliorano e continuano a migliorare col passare del tempo. Almeno per me.' 

Mi sembra una considerazione profonda e coraggiosa in un'epoca che ha deificato la giovinezza - e la bellezza esteriore ad essa legata - al punto tale che si pretende di imporre - nei linguaggi della pubblicità, dei media.. - il modello di una età eternamente giovane, quasi come se la vecchiaia (parola scomparsa dal vocabolario) non esistesse più.

Invece, avverte la Swinton - che incarna sullo schermo spesso personaggi fuori dal tempo e dal genere - la gioventù è un'età immatura.   In particolare, oggi. 

E' il (nostro) tempo mortale a definire il passaggio ad una vita più piena, più autentica e quindi più gustosa. 

Oggi ne abbiamo tutti i mezzi. 

Ripeness is all,  scriveva Shakespeare.  La maturità è tutto. 

L'energia giovanile, la forza, la ribellione, l'istinto, la bellezza, l'esibizione, la sfrontatezza, sono ben poca cosa se non si è capaci di capire che ogni conquista di sé - e del Sé - passa attraverso la relazione con l'altro.

Con tutto ciò che - in termini di godimento e sofferenza, di consapevolezza e prova - esso comporta. 

Ma soltanto quando si cresce le cose continuano a migliorare col passare del tempo. 


Fabrizio Falconi 

10/05/10

Marco Guzzi: Un mondo decrepito da ringiovanire.


Carissime amiche e carissimi amici,

uno dei segni più evidenti della natura terminale della nostra società è il suo costante e ineluttabile invecchiamento.

Il 1° Rapporto realizzato dal Forum nazionale dei Giovani, in collaborazione col CNEL e con Unicredit, e presentato nel marzo del 2009, che si chiama non a caso “URG! Urge Ricambio Generazionale”, ci mostra un’Italia completamente governata da una inossidabile gerontocrazia, un paese che invecchia e che affida a classi dirigenti sempre più attempate il proprio destino. Un paese in cui i deputati sotto i 35 anni non raggiungono mai il 10%; in cui nelle Università su 61929 docenti e ricercatori solo un misero 7,6% è costituito da under35, e di questi un miserrimo 0,5% sono professori associati, e un ridicolo 0,03 sono ordinari; in cui il 56% dei medici è over50, l’11,5% over65, e solo il 12% è under35; in cui 1.900.000 giovani tra i 25 e i 35 anni non studia né lavora, paralizzando un patrimonio immenso di energie creative, e così via.

Tutto ciò è evidente e denota una caratteristica preminentemente italiana di una crisi generazionale, o direi meglio di Ri-Generazione, che riguarda però l’intera civiltà occidentale. L’Europa, in particolare, da cui è partito questo grande ciclo storico, sembra ogni giorno di più una specie di cronicario, abitato da vecchi, la cui unica preoccupazione è quella di procurarsi giovani badanti straniere e al contempo di tenere fuori dalle proprie città chiunque possa disturbare la quiete dell’ospizio.

Ci occupiamo ormai ossessivamente soltanto del tempo del nostro pensionamento, o di come porremo fine alla nostra vita, mentre i filosofi, gli scrittori, e i registi di questa terra desolata cantano la nenia straziante del puro non senso, vanno da Fazio a raccontare lo squallore irrimediabile delle nostre società, ed edificano le loro carriere sulle macerie di ciò che fu la cultura occidentale. Talmente decrepiti ormai, e anche spudorati, da non accorgersi più del ruolo ridicolo al quale si sono ridotti: numeri da circo nell’osceno varietà dell’intrattenimento universale, come aveva visto con chiarezza Pasolini già alla fine degli anni ’60: “L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole. In altre parole, l’intellettuale non è più guida spirituale di popolo o borghesia in lotta, ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli”.

E non facciamoci illusioni: non basta cambiare generazione nei ruoli direttivi per collaborare attivamente alla Ri-Generazione in atto.

I giovani sono spesso più vecchi e più mummificati dei loro padri!

Il kamikaze 18enne che si fa esplodere nella piazza del mercato di Kabul nell’illusione di combattere la sua guerra santa è vecchio decrepito come il giovanissimo fondamentalista cattolico o pentecostale, arroccato nelle sue rigidissime certezze di cartapesta. Il ragazzino no-global che crede ancora di cambiare il mondo fracassando l’ennesima vetrina di una banca o incendiando l’ennesimo cassonetto della spazzatura è vecchio come il cucco, appartiene ad un’epoca finita, a quella sinistra novecentesca, pacifista a senso unico e profondamente violenta e guerrafondaia, sbriciolata insieme al muro di Berlino vent’anni fa. Il 30enne che sniffa cocaina per reggere i ritmi della sua carriera suicida a New York, a Tokio, o a Milano è un matusalemme, appartiene ancora a quell’era produttivistica e schizoide, che sta mostrando la propria insostenibilità nei tracolli climatici come nei collassi psichici, nelle depressioni di borsa come in quelle che dilagano da un polo all’altro della terra, tanto che l’OMS ha previsto che per il 2020 una persona su 4 o al massimo su 5 sull’intero pianeta sarà affetta da gravi problemi psichiatrici.

Ma allora chi è per davvero giovane oggi?

Io direi così:

giovane è chi sa che stiamo vertiginando sul crinale di un rivolgimento antropologico, e che è venuto il tempo di decidere da che parte stare, dalla parte del Morente o da quella del Nascente, perché i tempi dei compromessi e delle mezze misure stanno scadendo;

giovane è chi sta incominciando a comprendere che ogni modalità bellica di incarnare la propria identità, contra-ponendosi rispetto all’altro da sé, risulta ormai improduttiva e alla fine letale;

giovane è chi è consapevole che la nuova forma di identità umana, che sta emergendo, è relazionale, e questo significa che io sono tanto più me stesso (maschio, italiano, cristiano, etc.) quanto più entro in relazione con l’altro da me (dentro e fuori di me), accogliendo il travaglio trans-formativo permanente che questa apertura relazionale comporta;

giovane è chi sa che questo rivolgimento possiede per davvero una portata antropologica, in quanto tutte le civiltà e tutte le religioni fino ad ora si sono consolidate proprio per mezzo della contrapposizione polemica e la guerra;

giovane è chi perciò è consapevole che il passaggio non è affatto facile né di breve durata, e implica contestualmente una riforma costante della propria interiorità (propensa per natura al conflitto e alla guerra), per dar vita ad inedite forme di cultura, di convivenza, e quindi alla fine anche di politica;

giovane è quindi chi è consapevole che oggi più che mai la vera ricchezza non consiste nell’accumulo di denaro o di potere, ma nella disponibilità del proprio tempo da dedicare appunto ai processi della propria liberazione, all’approfondimento delle proprie relazioni, a partire da quella coniugale, e quindi al vero godimento della vita, che è innanzitutto relazione, gratuità, creazione, prima di essere scambio economico.

E questa giovinezza in verità non dipende affatto dall’età anagrafica delle persone, ma dalla loro qualità spirituale intrinseca.

E’ di questa giovinezza che abbiamo urgente bisogno, di questo fuoco che tutto rinnova, di questa mente poetica, più libera e più felice, che sta cantando anche adesso nel frastuono di tutti questi crolli, come in questi versi di Adrienne Rich: “Io sono io/ io sono la mente viva/ che nessuna lingua morta/ è capace di descrivere/ il nome perduto/ il verbo che sopravvive solo all’infinito/ le lettere del mio nome/ sono iscritte sotto le palpebre/ del bambino appena nato”.

Marco Guzzi

30/11/09

La vecchiaia e la Sintesi di una Vita - Vito Mancuso rilegge Wittgenstein.

Vorrei oggi riportarvi questo bellissimo articolo, scritto da Vito Mancuso, che racchiude alcune delle ultime riflessioni del Card. Carlo Maria Martini. Penso ci sia davvero molto su cui meditare. A partire dalla vicenda descritta all'inizio dell'articolo che sfiora una delle personalità centrali del Novecento filosofico, Ludwig Wittgenstein.

LA SINTESI DI UNA VITA

Nei primi mesi del 1916 Ludwig Wittgenstein, volontario nell' esercito austriaco, si trovava in Galizia sul fronte orientale col reggimento impegnato a sostenere il più grande attacco nemico, la cosiddetta Offensiva Brusilov. In mezzo a perdite altissime la sua azione dovette essere di un certo rilievo visto che il 1° giugno venne promosso caporale e il 4 decorato al valor militare. Pochi giorni dopo, l' 11giugno, colui che diventerà uno dei più grandi logici e filosofi delNovecento, annota sul suo quaderno: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. Pregare è pensare al senso della vita».

Io penso che per ogni essere umano la vecchiaia sia paragonabile a una trincea della Prima guerra mondiale. Sono finite le cerimonie, le marce, le sfilate, gli inni, le retoriche che fanno da preambolo non solo alla vita militare delle retrovie, ma anche alla vita quotidiana nella gran parte dei suoi momenti. Giunge il momento del redde rationem, il leopardiano «apparir del vero». Chi arriva alla vecchiaia non ha più nessuno davanti, è in prima linea sul fronte dell' essere o del nulla. E penso sia naturale in questa stagione dell' esistenza guardare al senso complessivo della vita, della propria e di tutti gli amici che si sono visti cadere, con un'intensità esistenziale paragonabile a quella di un soldato in trincea.

Ciò che Wittgenstein percepì a 27 anni di fronte al fuoco dell'esercito russo ogni uomo che prenda sul serio l' esistenza è destinato a sperimentarlo quando inizia a sentire arrivare il termine dei suoi giorni. Non è un caso quindi che il cardinale Carlo Maria Martini,riflettendo sulla preghiera dall' alto dei suoi 82 anni, abbia sentito anzitutto il richiamo di un grande vecchio della letteratura biblica quale Qohèlet ricordandone la celebre descrizione allegorica degli effetti fisici della vecchiaia, quando le mani («i custodi dellacasa»), le gambe («i gagliardi»), i denti («le donne che macinano»), gli occhi («quelle che guardano dalle finestre»), le orecchie («ibattenti sulla strada») non funzionano più come prima, preludio al momento in cui l' uomo se ne andrà "nella dimora eterna".

In questa prospettiva la preghiera di chi è anziano per Martini è anzitutto ricerca di consolazione interiore di fronte alla crescente fragilità che la vecchiaia comporta, è richiesta della ragione e del sentimento che un senso definitivo della vita ci sia e che a questo senso si possa personalmente partecipare. Il cardinal Martini però aggiunge un'ulteriore considerazione sulla preghiera di chi è anziano, rivolta ora non più al futuro ma al passato, e qui a mio avviso egli tocca il momento più alto del suo scritto.

Mi riferisco a quando egli parla degli anziani come di coloro che hanno raggiunto «una certa sintesi interiore» e che per questo possiedono «uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza». Aver compiuto un lungo cammino non significa solo vederne la fine, significa anche potersi voltare e vederne per intero il percorso. Da questa altezza può scaturire «una lettura sapienziale della storia e del mondo», per descrivere la quale Martini giunge a coniare in perfetto stile evangelico una vera e propria beatitudine, una nona beatitudine che non sfigurerebbe come prosieguo delle otto beatitudini proclamate da Gesù nel celebre Discorso della montagna: «Beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente inconfronto con quelli passati!». Martini sa bene che il giudizio negativo sul presente è una delle tipiche malattie che affliggono lo spirito della vecchiaia, quando la consapevolezza che presto per sé sarà la fine conduce spesso a un rapporto amaro e risentito con ilpresente, valutato solo come progressiva decadenza rispetto "ai miei tempi".

Ma il cardinale aggiunge che a un uomo può capitare di peggio,cioè di guardare indietro alla propria esistenza e di vedere solo macerie (talora anche le ricchezze e gli onori ricevuti non sono altroche macerie perché costruiti con la frode e a prezzo dell' onestà personale). Ne viene che non solo il futuro ma anche il passato
risultano avvolti da un disperato senso di vuoto. Può capitare, e se capita è forse la più grande disgrazia per la vita di un uomo. Per questo «beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio», cioè come dotato di senso, di logicità, di sincerità, di rettitudine.

Pregare è pensare al senso della vita, scriveva Wittgenstein; pregare è pensare con riconoscenza e con gioia alla storia della propria vita, aggiunge il cardinal Martini. Felice quindi chi ha lavorato su di sé per essere in grado di coltivare questi sentimenti, essendo diventato così libero dal proprio ego da poter dire grazie alla vita anche al cospetto della fine cui il proprio ego inevitabilmente va incontro.

Per quanto concerne la modalità concreta della preghiera, Martini ne distingue due forme fondamentali, quella vocale fatta di recitazione di formule e di partecipazione alla liturgia comunitaria, e quella mentale, più personale, intima, colloquiale. Egli dice che generalmente col progredire dell' età «diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione» e quindi aumenta la preghiera vocale, con la conseguenza che si ritorna a pregare quasi come si faceva da bambini,quando si ripetevano formule misteriose sentite dai grandi. Si trattadi una considerazione molto cattolica da cui emerge il valore dellacomunità. Nella trincea di fronte all' essere e al nulla non si è da soli, ma si può contare sulla relazione con altri, su ciò che ladottrina chiama "comunione dei santi", e che a me, e penso anche al cardinal Martini, piace allargare abbracciando santi per nulla canonici, tra cui il caporale Wittgenstein e tutti i giusti che primadi noi hanno lasciato questo mondo.

VITO MANCUSO