Visualizzazione post con etichetta vangeli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta vangeli. Mostra tutti i post

20/08/23

Perché c'è il male nel mondo? La domanda senza risposta. O forse no.


Molti anni fa, quando nacqui, mio padre e mia madre mi battezzarono. Come avevano fatto i propri genitori con loro e risalendo indietro nel tempo, centinaia di generazioni prima di loro.

Quando sono cresciuto, dopo lunghi anni di sostanziale disinteresse, ho riconfermato il senso di questo segno ricevuto - l'ho fatto anche coi miei figli - perché alcune, molte, parole che si trovano nei Vangeli, mi sembrano anche oggi le più oneste e chiare in grado di suggerire una risposta ai dilemmi eterni della nostra vita umana: tra questi, il mistero della presenza del male, nel mondo, nella creazione.
Nella semplicità di questa parabola, Gesù il Nazareno, diede la risposta che per me è ancora oggi la più convincente:
Mt. 13,24-30
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”.
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».

Anche se nel suo linguaggio metaforico, ad uso dei discepoli che venivano dal volgo e non erano certo intellettuali, il senso appare chiaro: il padrone della casa (Dio) non è solo, nella creazione; la creazione non è un dominio incontrastato o una tirannia assoluta del padrone della casa; nella creazione esiste un nemico; un nemico che se ne va in giro di notte (quando tutti dormono) a seminare (anche lui), anche se semina zizzania, quindi un'erba fatta apposta per uccidere la semente buona.

Infine: di fronte a questo nemico che agisce, e che evidentemente controlla una parte di territorio della creazione, il padrone di casa non interviene subito, distruggendo la zizzania seminata, facendo razzia di ciò che quello ha seminato: piuttosto, lascia il buono e il cattivo a contatto, li lascia crescere insieme, perché alla fine arriverà il giorno in cui la malaerba verrà scartata e bruciata, e l'altra, riposta nel granaio.

Fabrizio Falconi - 2o23

05/04/22

Qual è il ruolo effettivamente avuto da Giuda Iscariota nella Passione e nella Morte di Gesù Cristo?


Da circa duemila anni teologi e filosofi disquisiscono su quale sia stato il ruolo effettivo avuto da Giuda l'apostolo Iscariota, nell'epilogo della Passione e nella morte di Gesù.

Il suo tradimento fu "opera del diavolo" come per secoli fu sostenuto oppure anche Giuda, dotato di libero arbitrio, scelse liberamente? Oppure il tradimento di Giuda fu "voluto" da Dio e Dio scelse Giuda dandogli questo ruolo, come a Maria conferì il ruolo di generare Gesù? Giuda tradì per troppo amore, perché amava troppo Cristo e lo aveva a tal punto idealizzato, aspettandosi che capeggiasse a fil di spada la rivolta contro gli invasori romani e quando non lo fece, decise di abbandonarlo (come sostiene una vulgata assai duratura che arriva fino a Jesus Christ Superstar)? Giuda non fu piuttosto "necessario" alla Passione e quindi non fece altro che "obbedire" a quanto gli fu chiesto da Cristo stesso, come raccontano i Vangeli gnostici (e in particolare Il Vangelo di Giuda)? In questo caso, sarebbe ben immeritato il ruolo riservato al "povero" Giuda da Dante nella Commedia.
Nel 1944 Jorge Luis Borges andò ancora oltre, nel racconto "Tre versioni di Giuda", nel quale espone le tesi di un fantasioso teologo, Nils Runenberg che adddirittura ipotizza una incarnazione di Dio proprio in Giuda (contemporanea a quella di Gesù? Alternativa? Non si comprende bene).
E' ovvio che il mistero di Giuda non verrà mai risolto. Il suo tradimento fu "così necessario?" Gesù Cristo non sarebbe stato comunque, in un modo o nell'altro, catturato e comunque eliminato fisicamente? Resta il suo ruolo sacrificale nell'economia della Passione: anche Giuda infatti muore, si suicida, e la sua morte favorisce (o accelera) in qualche modo quella di Gesù.
Gesù e Giuda sono legati, il bacio nell'Orto di Getsemani è il simbolo di ogni debolezza, di ogni dubbio, di ogni ambiguità umana. E' l'inadeguatezza dell'uomo dentro il piano di prospettiva divina, che solo la morte di un "dio fattosi uomo" può rovesciare.

Fabrizio Falconi - 2022

03/10/21

Franzen sul nuovo romanzo Crossroads: "I Vangeli sono un documento politico radicale che la sinistra americana ha completamente dimenticato"


Ci sono dei passaggi nella bella intervista a Jonathan Franzen pubblicata sul Corriere della Sera il 25 settembre scorso e realizzata da Cristina Taglietti a proposito del suo nuovo romanzo Crossroads (Einaudi) tra poco disponibile anche in Italia, nei quali ho trovato, espresso con molta chiarezza, uno dei temi (o dei fenomeni) fondamentali della società contemporanea (o post-contemporanea), che molti intellettuali, anche italiani, hanno finora ignorato. 

Franzen spiega la genesi del suo lungo romanzo a partire dallo spunto iniziale: All’origine del romanzo - dice - c’è un gruppo giovanile cristiano, mondo che conoscevo bene. Io stesso ho frequentato la chiesa per 12 anni e come Perry, il figlio di mezzo degli Hildebrandt, conoscevo ogni angolo della chiesa, ogni porta segreta, ogni passaggio, tutti i ministri. Per me è importante partire da ciò che conosco bene, da un luogo in cui mi sento a casa.

Aggiunge poi Franzen: 

Può sembrare sciocco, ma per me essere un romanziere non significa scrivere ciò che voglio, ma ciò che so scrivere. Non uso mai il materiale che potrei usare, ma quello che possiedo. Sono un grande fan di Dostoevskij, di Flannery O’Connor, amo l’arte religiosa, la scultura gotica italiana, l’architettura delle chiese romaniche. Per me tutto ciò è commovente anche se non sono credente. Anche questo è un mondo in cui mi sento a casa, non mi interessa tanto mettere al centro le grandi domande dell’esistenza. Diciamo che mi sento come un falegname che costruisce mobili e tutto ciò che ha a disposizione sono i pezzi di legno avanzati dal progetto precedente.

A Cristina Taglietti, che lo intervista, Franzen conferma che Crossroads, il nome del gruppo giovanile che dà il titolo al romanzo, ricorda molto Comunità, il gruppo che lo scrittore ha frequentato da ragazzo e di cui parla in «Zona disagio». 

Sì, ne sono stato membro attivo per sei anni. A dire il vero ci andavo più per socializzare, come credo la maggior parte dei ragazzi, ma è stata un’esperienza intensa. Molti dei dettagli del romanzo vengono da lì.

Nel passaggio successivo, Franzen spiega cosa lo ha particolarmente interessato della questione, del fenomeno religioso, di come abbia influito assai diversamente, nel passato e nel presente, nella vita politica occidentale. Negli anni '70 infatti, all'epoca in cui Crossroads si riferisce, la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. 

In seguito le cose sono radicalmente cambiate.

Che cosa si è dimenticato nel tempo? chiede l'intervistatrice.

Che allora la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. Uno dei piaceri di scrivere Crossroads è stato tornare alla Bibbia. Sono andato in chiesa per 12 anni, ho frequentato il catechismo, le funzioni religiose e, anche se non la rileggo da quarant’anni, mi sono reso conto di conoscerla bene. Io non credo ai miracoli, alla trascendenza, ma ci sono storie molto potenti dentro la Bibbia. L’intertestualità, per usare un parolone, mi interessa sempre e scrivere un libro nuovo in qualche modo legato a uno così antico mi piaceva. Negli anni Settanta, nella mia chiesa e soprattutto nei gruppi giovanili, c’era molta attenzione a ciò che Gesù aveva detto, ci si chiedeva che cosa avrebbe pensato della guerra in Vietnam, della segregazione razziale. I Vangeli sono un documento politico molto radicale che rivela il paradosso del cristianesimo: per tutta la storia umana si è creduto che bisogna cercare di essere ricchi e potenti, il Vangelo dice che essere poveri e deboli è il modo di trovare Dio. Oggi questa componente si è quasi completamente persa nella sinistra americana (anche in quella italiana o europea, nota mia). Il primo atto è stato la legalizzazione dell’aborto che ha attivato gli elementi religiosi più conservatori: i cristiani evangelici sono diventati una potente forza politica, hanno sostenuto Reagan e ogni presidente conservatore fin dalla metà degli anni Settanta. E oggi sono così aggressivi che la cristianità si identifica con le loro posizioni aberranti: l’omofobia, l’adorazione per la ricchezza, l’ingerenza in ogni decisione personale delle donne. A Santa Cruz, in California, dove vivo, se dici a un liberal che vai in chiesa si ritrae terrorizzato, meglio dire che adori Satana nel seminterrato.

Parole molto chiare e forti, che dovrebbero far molto riflettere, anche dalle nostre parti.

QUI l'intervista integrale a Jonathan Franzen del Corriere della Sera realizzata da Cristina Taglietti

02/12/20

Uno degli angoli più suggestivi di Roma: San Giovanni in Oleo, duemila anni di storia

 


San Giovanni in Oleo, la memoria dell’apostolo amato da Gesù

 

A Roma, si sa, si parla sempre di Pietro e di Paolo. Ma si ignora spesso l’importante passaggio di quelli che furono gli altri apostoli di Gesù, a cominciare di quelli più importanti: gli Evangelisti. Pochi romani saprebbero oggi rispondere alla domanda se risulta un passaggio a Roma di San Giovanni, l’Evangelista, quello che i Vangeli definiscono il prediletto da Gesù.

Eppure questa presenza non solo è documentata. Ma è anche testimoniata da un culto bi-millenario, mai decaduto.

Di Giovanni si ricorda l’attività di predicatore instancabile, dopo la morte di Gesù, e soprattutto della sua presenza a Patmos, nell’Egeo, dove scriverà le terribili ed enigmatiche visioni contenute nell’Apocalisse. Ma tra queste due fasi, Giovanni transitò anche a Roma.

E’ Tertulliano a raccontarci che nell’anno 89 d.C., mentre Giovanni si trovava ad Efeso, si scatenò una nuova ondata di persecuzioni nei confronti dei cristiani ad opera dell'imperatore Domiziano. Tertulliano racconta che Giovanni venne arrestato e condotto a Roma, quindi torturato nei pressi di Porta Latina e infine condannato a morte.

Di lì a poco questa pena però verrà commutata in quella dell'esilio nell'isola di Patmos.

Sul luogo dove venne sottoposto alla tortura dell’olio bollente venne costruita la chiesa di San Giovanni in Oleo. Non si tratta anzi, di una vera e propria chiesa, ma di un piccolissimo oratorio,  un tempietto  a pianta ottagonale, che sorge nei pressi della Porta Latina.  Nelle forme attuali fu costruito all’inizio del ‘500 su commissione del vescovo francese Benoit Adam, su un precedente martiryum costruito in epoca paleocristiana. Il piccolo edificio fu poi restaurato dal grande Borromini nel 1657 per incarico del cardinale Francesco Paolucci che intendeva trasformarlo in una cappella per la sua potente famiglia.

E’ opportuno riflettere sul fatto che Giovanni, secondo quanto tramandatoci dalle scritture e le fonti antiche fu l’unico degli apostoli che non morì subendo il martirio, ma per morte naturale, in età veneranda. 


Anche in questo senso , egli occupa dunque un posto a sé nella storia del Cristianesimo. Giovanni, come abbiamo detto, è il prediletto di Gesù e fratello di Giacomo il Maggiore. Dopo la resurrezione di Gesù è il primo, insieme a Pietro, a ricevere da Maria Maddalena l’annuncio del sepolcro vuoto, ed è il primo a giungervi, entrandovi poi dopo Pietro.


Dopo l’ascesa al cielo di Gesù,
  gli Atti degli Apostoli ce lo mostrano accanto a Pietro in occasione della guarigione dello storpio al Tempio di Gerusalemme e poi nel discorso al Sinedrio, dopo il quale fu catturato e poi con Pietro incarcerato.

Sempre insieme a Pietro si reca in Samaria. Nell’anno 53 d.C. Giovanni si trova ancora a Gerusalemme: Paolo infatti lo nomina (Gal 2, 9) insieme a Pietro e a Giacomo come una delle colonne della Chiesa. Ma verso il 57 Paolo nomina a Gerusalemme solo Giacomo il Minore: dunque Giovanni non c’è più, trasferitosi a Efeso, come concordemente testimoniano le fonti antiche, fra le quali basterà citare, per tutte, Ireneo (Contro le eresie, III, 3, 4): La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase fino all’epoca di Traiano, è testimone veritiera della tradizione degli apostoli.  La permanenza di Giovanni a Efeso, dove scrive il Vangelo (secondo quanto afferma ancora Ireneo), è interrotta, come le stesse fonti antiche ci dicono, dalla persecuzione subita sotto Domiziano (imperatore dall’81 al 96), probabilmente verso l’anno 95. Si innesta qui la tradizione, riportata anche da molti autori antichi, del suo viaggio a Roma e della sua condanna a morte in una giara di terracotta colma di olio bollente, dalla quale l’ormai vecchio apostolo uscì illeso, salvo dalle bruciature, suscitando lo sconcerto dei suoi aguzzini. 

E vediamo qui quali sono le fonti: la fonte più antica che ce ne parla è Tertulliano, intorno all’anno 200 d.C.: Se poi vai in Italia, trovi Roma, da dove possiamo attingere anche noi l’autorità degli apostoli. Quanto è felice quella Chiesa, alla quale gli apostoli profusero tutta intera la dottrina insieme con il loro sangue, dove Pietro è configurato al Signore nella passione, dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni il Battista, dove l’apostolo Giovanni, immerso senza patirne offesa in olio bollente, è condannato all’esilio in un’isola (La prescrizione contro gli eretici, 36).


Un’altra testimonianza è quella di
 Girolamo, che alla fine del IV secolo scrive: Giovanni terminò la sua propria vita con una morte naturale. Ma se si leggono le storie ecclesiastiche apprendiamo che anch’egli fu messo, a causa della sua testimonianza, in una caldaia d’olio bollente, da cui uscì, quale atleta, per ricevere la corona di Cristo, e subito dopo venne relegato nell’isola di Patmos. Vedremo allora che non gli mancò il coraggio del martirio e che egli bevve il calice della testimonianza, uguale a quello che bevvero i tre fanciulli nella fornace di fuoco, anche se il persecutore non fece effondere il suo sangue (Commento al Vangelo secondo Matteo, 20, 22). Alle antiche fonti cristiane sul martirio di Giovanni a Roma si può poi aggiungere con buona attendibilità anche l’allusione del pagano Giovenale (inizi del II secolo), che, nella IV Satira, critica Domiziano raccontando l’episodio della convocazione del Senato per decidere che fare di un enorme pesce, venuto da lontano e portato all’imperatore, che viene destinato a essere cotto in una profonda padella.

Come nello stile delle Satire, il pesce sarebbe appunto Giovanni, il povero pazzo cristiano.  E' una ipotesi affascinante frutto dello studio pubblicato recentemente da una ricercatrice italiana, Ilaria Ramelli.

Se la ipotesi fosse giusta, ci troveremmo di fronte alla clamorosa conferma da parte di una fonte pagana, di una lunga tradizione prima orale e poi scritta, tutta cristiana. Il che ancora una volta avvalorerebbe la tesi che alla base di testimonianze così antiche ci sono sempre riscontri reali, storici, effettivi.


Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013, 2018

17/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 36. "Il Vangelo secondo Matteo" di Pierpaolo Pasolini (1964)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 36. "Il Vangelo secondo Matteo" di Pierpaolo Pasolini (1964)

Pasolini scopre il Vangelo quasi per caso, durante un soggiorno ad Assisi nel quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII

Ne rimane subito profondamente colpito, per due motivi principali: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione.  Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo.» 

C’è poi il Pasolini marxista che da quindi una lettura più politica del Cristo, ma mai dogmatica, sempre personalissima e aperta ai temi universali dell’uomo: «Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione

Il Vangelo doveva essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo.» 

 E’ interessante vedere come le scelte registiche del film prendano una direzione inaspettata per lo stesso Pasolini, come se la materia sacra lo avesse trascinato verso una direzione diversa da quella che si era prefissato di seguire:

"Il Vangelo mi poneva il seguente problema: non potevo raccontarlo come una narrazione classica perché non sono credente ma ateo. D’altra parte io volevo filmare Il Vangelo secondo Matteo, dunque raccontare la storia del Cristo figlio di Dio, dunque raccontare una storia alla quale non credevo. Dunque non potevo essere io a raccontarla. E’ così che, senza precisamente volerlo, sono stato portato a rovesciare tutta la mia tecnica cinematografica e che è nato questo magma stilistico che è proprio al “cinema di poesia”. Perché, per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto tuffarmi nell’anima di qualcuno che crede. Qui è il discorso libero indiretto: da una parte la narrazione è vista attraverso i miei occhi, dall’altra attraverso gli occhi del credente. Ed è l’utilizzazione di questo discorso libero indiretto che è causa della contaminazione stilistica, del magma in questione.»

Pasolini però, con grande pudore e rispetto, si ferma nel punto in cui il suo sguardo di ateo e il mezzo cinematografico stesso non possono arrivare: «Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, nei rapporti tra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzato dal romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso che è il mistero del mondo. Quello non è demistificabile».

Un film, il film, a mio avviso più straordinariamente fedele - nella sua infedeltà - al racconto dei Vangeli e alla inaudita vicenda della vita del Cristo.






27/06/18

Il più grande Programma politico che sia mai stato scritto.


sono passati 2.000 anni eppure non conosco programma politico più grande di questo.
(Discorso della Montagna, Mt, 5)


Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.



Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.



Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.


Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.


Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.



Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.



Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.



Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!


Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella GeennaE se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.


Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran reNon giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.



Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dentema io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.  E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. 


Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalleAvete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiustiInfatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.


27/03/16

La Resurrezione di Grunewald, un quadro meraviglioso e misterioso.


La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim

I Vangeli sono tutti di una sconvolgente discrezione: annunciano la Risurrezione senza descriverla; ne proclamano la realtà senza dire come Cristo è risorto dai morti

Essi preservano così il cuore del mistero e scelgono di comunicarlo attraverso le apparizioni di Cristo che, dopo la Risurrezione, è in un’altra condizione — può essere presente senza essere riconosciuto, può attraversare le porte sbarrate — e si rivela rivolgendosi ai suoi, come fa con Maria di Magdala, quando la chiama per nome, o attraverso le parole che accendono in quelli che ascoltano il fuoco della fede. Cristo risorto si comunica già attraverso una sottigliezza della parola in grado di farci vedere con gli occhi dello spirito e del cuore. 

È lo stesso e tuttavia è diverso, portatore di un’alterità che non altera l’identità della persona, ma la colloca in una realtà in cui il corpo non veste lo spirito, ma lo svela; non è contro lo spirito, ma ne è proprio l’espressione e manifesta il volto interiore.

Il mondo che Cristo rende presente attraverso la sua Risurrezione è il mondo della trasparenza, della piena coincidenza del corpo con lo spirito, della loro unità trasfigurata attraverso la vittoria sulla morte. Ciò che i Vangeli non dicono non è rimasto, tuttavia, nella zona dell’ineffabile e dell’invisibile, non era possibile. La storia del cristianesimo è anche una storia delle forme che riflettono significati che attribuiamo alla Risurrezione.

In questa prospettiva, tra i maestri dell’arte occidentale, Matthias Grünewald (1480-1528) trasmette in modo diverso il mistero della Risurrezione, con un’intensità e una profondità teologale mai raggiunte prima di lui.

Sull’altare di Isenheim la sua singolarità artistica si manifesta pienamente nella rappresentazione del Cristo risorto che non vediamo uscire vittorioso dal sepolcro mentre solleva il vessillo crociato come, per esempio, in Piero della Francesca o in tanti altri.

Sebbene la parte inferiore della tavola conservi la scena tradizionale delle guardie del sepolcro, sorprese dal sonno e terrorizzate da ciò che accade, Grünewald dipinge un Cristo trasfigurato che infilza il “velo” della notte cosmica del silenzio e dell’attesa.

Il suo corpo diffonde la luce interiore della natura divina; è, di fatto, una concentrazione di luce, un «riflesso della divinità», come diceva Gregorio Nazianzeno, che si fa visibile attraverso una creatura trasparente, di una mitezza infinita, la cui vittoria ha il volto eterno dell’amore.

Il potere di Cristo risorto è, nella visione di Grünewald, l’espressione del suo amore che si mostra ai nostri occhi attraverso la manifestazione riconciliata — sotto la forma di una croce che comprende tutto l’universo — dei segni della sofferenza divenuti sorgente di luce.

fonte Osservatore Romano, 4 aprile 2015.

La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim, particolare

13/01/16

Guénon, Altheim, Evola: La vera rinascita è in inverno, non in primavera. Significato Alchemico del Solstizio d'Inverno.

Athanasius Kircher, Sciaterium Selenorum

Ricorderete la citazione del Vangelo di Giovanni, là dove Cristo dice se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv.12-23).  E' solo dalla morte, dice, che la vita nasce o rinasce.  Per questo motivo, per la tradizione dei miti, ripresa dalla tradizione alchemica, forse oggi dimenticata, la vera rinascita personale e del mondo comincia non in primavera, come si ritiene comunemente, ma in pieno inverno.
Questo bellissimo articolo di Visonealchemica.com lo spiega in modo comprensibile ed esauriente. 

Il periodo natalizio nasconde un significato arcano ai più, ma profondamente sentito nell’antichità. Per gli iniziati è una porta, l’ingresso simbolico, rappresentato dal solstizio d’Inverno, a uno stato superiore di consapevolezza. Pochi sanno, che, intorno alla data del 25 dicembre quasi tutti i popoli hanno sempre celebrato la nascita dei loro esseri divini o soprannaturali: in Egitto si festeggiava la nascita del dio Horus, e il padre Osiride si credeva fosse nato nello stesso periodo; nel Messico pre-colombiano nasceva il dio Quetzalcoatl e l’azteco Huitzilopochtli; Bacab nello Yucatan; il dio Bacco in Grecia, nonché Ercole e Adone o Adonis; il dio Freyr, figlio di Odino e di Freya, era festeggiato dalle genti del Nord; Zaratustra in Azerbaigian; Buddha, in Oriente; Krishna, in India; Scing-Shin in Cina; in Persia, si celebrava il dio guerriero Mithra, detto il Salvatore ed a Babilonia vedeva la luce il dio Tammuz, “Unico Figlio” della dea Ishtar, rappresentata col figlio divino fra le braccia e con intorno al capo, un’aureola di dodici stelle, proprio come la Vergine della cristianità.

Creare e ricreare:

Nel giorno di Natale, il Sole nel suo moto annuo lungo l’eclittica – il cerchio massimo sulla sfera celeste che corrisponde al percorso apparente del Sole durante l’anno – viene a trovarsi alla sua minima declinazione nel punto più meridionale dell’orizzonte Est della Terra, che culmina a mezzogiorno alla sua altezza minima (a quell’ora, cioè, è allo Zenit del tropico del Capricorno) e manifesta la sua durata minima di luce (all’incirca, 8 ore e 50-55 minuti). Raggiunto il punto più meridionale della sua orbita e facendo registrare il giorno più corto dell’anno, riprende, da questo momento, il suo cammino ascendente.

Nella Romanità, in una data compresa tra il 21 e il 25 dicembre, si celebrava solennemente la rinascita del Sole, il Dies Natalis Solis Invicti (il giorno del Natale del Sole Invitto). Ciò avvenne dopo l’introduzione, sotto l’Imperatore Aureliano, del culto del dio indo-iraniano Mithra nelle tradizioni religiose romane, e l’edificazione del suo tempio nel campus Agrippae, l’attuale piazza San Silvestro a Roma.

Il tempio era praticamente incluso all’interno di un più vasto ciclo di festività che i Romani chiamavano Saturnalia, festività dedicate a Saturno, Re dell’Età dell’Oro, che, a partire dal 217 a.C. e dopo le successive riforme introdotte da Cesare e da Caligola, si prolungavano dal 17 al 25 Dicembre e finivano con le Larentalia o festa dei Lari, le divinità tutelari incaricate di proteggere i raccolti, le strade, le città, la famiglia.

Il mito romano narra che il misterioso Giano, il dio italico, regnava sul Lazio quando dal mare vi giunse Saturno, che potrebbe essere inteso come la manifestazione divina che crea e ricrea il cosmo a ogni ciclo, colui che attraversa le acque, ovvero la notte e la confusione-caos successiva alla dissoluzione del vecchio cosmo, per approdare alla nuova sponda, ovvero alla luce del nuovo cosmo, del nuovo creato.

Come sostiene René Guénon (1), vi è una qualche analogia fra il dio romano e il vedico Satyavrata, testimoniata dalla comune radice “sat”, che in sanscrito significa l’Uno. Nel Lazio, inoltre, nel corso del mese di dicembre, il dio Conso era festeggiato il 15 dicembre, nel corso delle Consualia, le feste dedicate alla “conclusione sacrale del vecchio anno”.

Segnaliamo come dal latino, “condere”, indica l’azione del “nascondere” e/o del “concludere”. Il già citato Giano, associato a Conso, poi, era l’antica divinità latina dalle “due facce”, “dio del tempo” e, specificamente, “dell’anno”, e il cui tempietto, a Roma, consisteva in un corridoio con due porte, chiuse in tempo di pace e aperte in tempo di guerra, corridoio che, sulla base della sua ancestrale accezione, designa “l’andare” e, più particolarmente, la “fase iniziale del camminare” e del “mettersi in marcia”.

Giano regolava e coordinava l’inizio del nuovo anno, da cui lanuarius, il mese di Gennaio. Come ci conferma Franz Altheim (2), “Ianus e Consus, nella realtà religiosa romana, si riferivano all’inizio ed alla fine di un’azione” e facevano ugualmente riferimento «ad eventi fissati nel tempo, ma che si ripetevano periodicamente», quelli dell’eterno ritorno della luce a discapito delle tenebre.

Non dimentichiamo, quindi, che come la tradizione romana della festa del dies solis novi affondava le sue radici sia nel passato preistorico delle genti indoeuropee, a cui i Romani e la maggior parte delle genti Italiche appartenevano, che in quello delle sue stesse basi cultuali. Julius Evola ci ricorda come “Sol, la divinità solare, appare già fra i dii indigetes, cioè fra le divinità delle origini romane, ricevute da ancor più lontani cicli di civiltà” (3)

Continua a leggere qui.

12/09/15

La Visitazione di Pontormo, un quadro assoluto.



Pura intensità.

Jacopo Carucci (o Carrucci), detto il Pontormo lo dipinse tra il 1528 e il 1530 per l'altare della famiglia Pinadori ed è rimasto per cinque secoli sempre nello stesso luogo per cui era destinato: la Cappella Capponi nella propositura dei Santi Michele e Francesco a Carmignano, in provincia di Prato.

L'episodio evangelico raffigurato è la Visitazione di Maria a Sant'Elisabetta.

Ricordiamo i fatti raccontati: nell'Annunciazione, il Signore per mezzo dell'arcangelo Gabriele chiedeva la disponibilità di Maria a ricevere un figlio, il Cristo; ma avendo Maria desiderato la verginità, l'angelo spiegò che la concezione sarebbe stata miracolosa per opera dello Spirito Santo, e per esemplificare la potenza di Dio, annunciava l'incredibile maternità di sua cugina Elisabetta, già al sesto mese di gravidanza, nonostante la sua presunta sterilità e anzianità.

Elisabetta era sposata con Zaccaria, sacerdote del tempio di Gerusalemme, e quindi della tribù di Levi.

Dopo l'annunciazione e ricevuto lo Spirito Santo, Maria si recò da Nazaret in Galilea a trovare Elisabetta in Giudea, in una città tradizionalmente ritenuta Ain-Karim situata 6 km ad occidente di Gerusalemme.

Quando Maria giunse nella casa di Zaccaria, Elisabetta ebbe la percezione di trovarsi di fronte alla donna che portava in grembo il Cristo, lodando Maria per essere stata degna e disponibile al progetto di Dio.

In risposta alla lode, la Vergine Maria espresse il ringraziamento a Dio attraverso quello che è conosciuto come il "Magnificat" riportato dall'evangelista Luca e denso di reminiscenze bibliche. Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, cioè fino alla nascita di suo nipote Giovanni, il futuro Battista.

Pontormo ambienta questa scena in una anonima via oscura.  In uno spazio imprecisato e metafisico, quattro donne sembrano quasi avvolte in un'unica figura. I loro drappi, di diversi colori, definiscono in primo piano l'incontro tra Maria ed Elisabetta, mentre altre due misteriose donne assistono sullo sfondo con lo sguardo rivolto fissamente all'osservatore del quadro.

L'incrocio delle braccia segue l'incrocio degli sguardi, di una intensità quasi insostenibile.


Tra Maria ed Elisabetta c'è un muto sguardo che dice tutto. La terza donna, tra le due, ci osserva come interrogandoci. 

La composizione del quadro - a rombo - è puro genio. I colori, come sempre in Pontormo, parlano una loro lingua specifica, un dialogo di consistenza e proporzioni. 

Le quattro donne - nella corrispondenza due anziane, due giovani, nei due sguardi, due allacciati, due dispersi oltre il quadro - sembrano suggerire una rappresentazione che oltrepassa il tempo e che si fissa nella ricerca di un punto esatto di destini e di eternità (assoluto).

Nel 1995 Bill Viola ha celebrato questo grandioso quadro in una sua installazione.



Fabrizio Falconi

27/05/15

La Vita è un’Opera d’Arte - Decalogo per vivere.


Se non si vuole sprecare la propria vita terrestre – dal momento che per quel che ne sappiamo, è solo una, ed è anche breve – bisogna essere consapevoli del fatto che Vivere è un’opera d’arte.

E per vivere bene, per vivere una vita degna di essere vissuta – una vita umana – bisogna trattare la propria vita come il compimento di un’opera d’arte. ‘Opera d’arte’ non vuol dire necessariamente la Gioconda, o i fiori di ciliegio di Van Gogh.

L’opera d’arte non dipende dalle dimensioni: è un’opera d’arte il Giudizio Universale, ma lo è anche il centrino fatto ad uncinetto dalla vecchia.

E’ opera d’arte anche il buon vino del vignaio ed è opera d’arte anche la poesia notturna, nascosta in un cassetto.

Ciascuno è chiamato – con la sua vita – a offrire l’opera che può, a seconda del talento che gli è stato dispensato per mistero a noi in-conoscibile, come viene eloquentemente descritto nella celebre parabola evangelica. 

Il valore non è nel talento, ma nell’uso che se ne fa. La vita è dunque secondo me un talento dato a tutti. E a tutti sta trasformare questo talento in un’opera d’arte. 

Le dieci regole d’oro per trasformare una vita in Opera d’Arte e far sì che essa sia degna di essere vissuta, e sia perciò umana, sono quelle che regolano la creazione di ogni Opera d’Arte

1. Ogni Opera d’Arte deve avere un Senso. Un’opera in-sensata – come una vita in-sensata – non serve a niente e a nessuno. 

2.Ogni Opera d’Arte deve avere un Doppio Senso: un senso per chi la realizza (la vita) e un senso per gli altri (che vedono la tua vita, perché tu vivi in una comunità di umani). 

3. Ogni Opera d’Arte necessita di una Cura . Nessuna opera d’arte – e quindi neanche nessuna vita – si realizza con la trasandatezza, con la disattenzione, con il laissez-faire. 

4. Ogni Opera d’Arte ha bisogno, per nascere, di una ispirazione. L’ispirazione – come la vita – è dentro di te, ma è necessario che tu ti identifichi in lei, la ascolti, e la lasci parlare. 

5. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di metodo. Non basta da sola l’ispirazione. La vita – come l’opera d’arte – ha bisogno che tu organizzi le cose, che tu persegui il tuo progetto. 

6. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di Tempo. Senza tempo, che vuol dire pazienza – nessuna opera d’Arte e nessuna Vita sarà mai completata. 

7. Ogni Opera d’Arte deve essere nuova. L’originalità della tua vita è la stessa di una qualsiasi opera d’arte umana, che prima di essere creata, non esisteva. 

8.Ogni Opera d’Arte deve avere un valore. Un valore per chi l’ha creata, e uno per chi l’apprezza. Una vita senza valore, come un’Opera senza valore, non interessa nessuno. 

9. Ogni Opera d’Arte deve possedere fiducia. Fiducia che qualcuno saprà apprezzare, valutare, rendere, testimoniare, la nostra vita, come la nostra Opera. 

10. Ogni Opera d’Arte, una volta creata, è eterna. Perché, anche se sarà distrutta, continuerà a vivere nella memoria e nelle opere che essa ha – a sua volta – generato. 

Fabrizio Falconi – 22 maggio 2009 (C) riproduzione riservata 2015

01/12/14

Il cammello e l'ago. Solo quello che passa, serve.




Un ago è la nostra vita.

Come aghi, siamo strumenti potenzialmente duttili.

La nostra cruna è sufficientemente ampia per lasciar passare qualcosa di sottile e flessibile, ma non abbastanza da accogliere qualcosa di s-misurato, di eccessivo.

La nostra punta ci permette di infilarci, di pungere, di far sanguinare.
Ma anche, meravigliosamente, di cucire, di tenere unito, di stringere in forma permanente.

Una abilità è quel che si richiede per fare dell'ago uno strumento utile. Un senso grossolano è quello che permette all'ago di diventare un oggetto scarno e pericoloso.

Un cammello non passerà mai dalla cruna dell'ago (Mt, 19-24), ma niente che serva veramente (di duraturo e creativo) potrà non passare attraverso quella fessura.

Conoscere i rischi, imparare, essere abili. E' il cammino quasi zen, che la nostra vita continuamente ci ri-chiede.



Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata

02/05/14

I tiepidi vanno all'inferno.




I tiepidi vanno all'inferno, ammonisce il titolo di un libro scritto da un volenteroso prete di strada di Marsiglia, Michel-Marie Zanotti-Sorkine, il quale è riuscito - sembra - nell'impresa di tornare a far riempire la sua parrocchia, parlando di cose semplici e di un vangelo quasi pasoliniano. 

Zanotti-Sorkine è convinto che l'uomo serio, di fronte al destino, non può stare tranquillo.  E in effetti, come si sa, Gesù Cristo non amava affatto i rinunciatari, i passivi, gli ignavi, i farisei e tutti quelli che seppelliscono il loro talento, invece di farlo fruttare. 

Ma implicazioni religiose a parte, anche per chi non crede, questa faccenda della tiepidezza è diventata centrale nella nostra epoca. 

Tiepidi sono quelli - sempre più numerosi - che vivono vite anestetizzate, vagheggiano passioni - di qualunque natura - ma ne hanno paura.  Non riescono mai a mettersi in gioco veramente, né in discussione, ad abbandonarsi alle domande che il destino - o la vita - sottopone, non riescono né a piangere veramente né a godere di una vera gioia.
  
Preferiscono quella che Thoreau chiamava una mite disperazione.  Una disperazione soffusa, tiepida. Come il ronzio di un frigorifero in funzione. Non si vede esteriormente. La si vive come un rumore di fondo, di accompagnamento della propria vita.

Vivere così può apparire triste, ma è sicuramente più vantaggioso sotto molti aspetti: si rischia di meno, o non si rischia affatto.

I tiepidi, però, visto che abbiamo parlato di mite disperazione, non vanno confusi con i miti. Una tipologia che si va facendo molto rara.

Per capire qualcosa della vera mitezza di cuore, bisognerebbe leggere il celebre racconto di Dostoevskij.

Il mite di cuore non è affatto un tiepido. Vive le passioni intensamente, spesso anche più intensamente degli altri, ma rinuncia a - egoisticamente - affermarle. A farne vanto. Preferisce che sia la vita ad aprire le porte, spesso - come nel caso del racconto dostoevskiano - pagandone il più crudele dei prezzi.

Essere miti, dunque, non significa affatto rinunciare a vivere. Soltanto i tiepidi lo fanno. Preferendo una vita a scartamento ridotto, piuttosto che una ondata di pienezza che potrebbe sommergere.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

28/10/13

Il distacco (e il Senso).





Ieri sera ho sentito in televisione Eugenio Scalfari, che ormai da parecchio tempo, ama rivestire i panni del teologo (disquisisce di questioni cattoliche con la competenza di un vescovo), parlare della morte e del senso della vita.  Senza molti problemi ha affermato che "il senso della vita è la vita".  E che l'unica difficoltà, in fondo, è il distacco.

Anni fa ho letto uno straordinario libretto di Michel Serres, intitolato Distacco.

Cosa è esattamente il distacco ? E perché le diverse tradizioni mistiche fanno riferimento a questo ?

Il termine mistico deriva dal greco myo. Che significa letteralmente chiudere (le labbra, gli occhi, lo stesso chiudersi, ad esempio, delle ferite).

Dalla stessa radice my , d’altronde, provengono sia il greco mysterion , sia il latino mutus

La mistica nasce dunque dalla necessità – per l’uomo – di convivere con il chiudere, cioè con il finire, che è connaturale alla vita stessa.

La cosa più difficile per un uomo, per ogni uomo è accettare il distacco

Il distacco che è al termine di ogni vita. Distacco dalle cose che abbiamo amato su questa terra: beni, cose, immagini, ma soprattutto persone amate, sentimenti, emozioni, ricordi. 

Le religioni propongono approcci diversi per governare questo distacco, che all’uomo risulta doloroso, inaccettabile: una specie di dittatura della morte, che porta a privarsi di tutto ciò che si è sperimentato in vita. 

Se l’uomo religioso, soprattutto in ambito cristiano, tenta di  abbandonarsi al distacco rispetto al mondo, al fine di giungere a un rapporto più puro con quel Dio con il quale, in realtà, egli si sente o si vuol sentire già in rapporto, il buddhista, invece, si distacca dalle cose, dalla sfera dell’apparenza, per trovare il vero sé: per giungere, in altre parole, all’illuminazione.

In un certo senso, il buddhista si esercita – nella vita – si prepara al grande distacco della morte, sperimentandolo qui in vita.

Ma anche molte delle parole pronunciate da Cristo nei Vangeli spingono assai chiaramente nella direzione del non attaccamento: 

In verità, in verità vi dico: Se il grano di frumento caduto per terra non muore esso resta solo. Ma se muore, porta molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. (Gv,12,24) 

 Più esplicito (o più duro) di così.. 

Tutto quello che passiamo in questa vita (anche il sorriso dei nostri figli, anche i nostri amori, le nostre albe, e i nostri tramonti) dovrebbe dunque avere una prospettiva diversa da quella che noi immaginiamo qui. 

Che non può essere goduta appieno, se non distaccandosene.