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02/11/23

"Il Regno" di Emmanuel Carrère, l'investigazione (teologica) come forma d'arte


Con un po' di anni di ritardo, dalla sua uscita, ho letto Il Regno, di Emmanuel Carrère, che al pari degli altri suoi libri ebbe una diffusa eco alla sua pubblicazione e traduzione in Italia.

E' un libro importante e confermo che - come forse altri lettori - sono stato messo fuori strada all'inizio dalle recensioni italiane uscite all'epoca (2014), che ne sottolineavano un carattere da "pamphlet", sostanzialmente anticristiano.
Il Regno non è così: è un testo molto serio, documentato, impegnativo (più di 400 pagine), dal quale - anche per chi è cristiano o si professa tale - si imparano moltissime cose.
La seconda cosa che non è vera, è che il protagonista del libro sia Paolo di Tarso. Non è così. Il vero protagonista è Luca, il giovane medico macedone, che fu discepolo di Paolo e che è l'autore del Terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, quella "miscellanea" di eventi del dopo-morte di Gesù che racconta i primissimi anni del cristianesimo e che si ferma prima dell'Apocalisse di Giovanni.
In Luca, Carrère, palesemente finisce anche per identificarsi, in questa investigazione a tutto tondo: genere nel quale Carrère non conosce rivali. Luca arriva a scrivere il suo Vangelo, basandosi su quello - precedente - di Marco, ma - secondo Carrère - "romanzando" là dove lui stesso è in grado di riferire cose nuove, che Marco non sapeva o non ha scritto. La stessa "accusa" potrebbe essere rivolta a Carrère, il quale pur documentatissimo, deve fermarsi di fronte alle enormi lacune - e incoerenze, vuoti, piccoli e grandi misteri - di cui il racconto della Vita di Gesù è pieno. E Carrère, travestendosi da Luca, ed essendo (anche) un romanziere, riempie, ipotizza, aggiunge, interpreta, ma con grande sincerità intellettuale. E sempre con un alto grado di plausibilità e di "coerenza" di racconto.
Ne viene fuori il ritratto di Paolo, di cui Luca fu il più vicino collaboratore per molti anni: cittadino romano, prima persecutore poi convertito, uomo severo e ostinato, instancabile e appassionato. Le Lettere di Paolo sono come si sa, i documenti scritti, temporalmente più vicini alla vita di Gesù, risalendo ad appena 15-20 anni dopo la sua morte.
E lo si segue - mediante Luca - lungo i suoi avventurosi viaggi attraverso il Mediterraneo, e poi fino a Roma dove a Paolo - essendo cittadino romano - viene risparmiato il supplizio della croce (riservato ai senza patria cristiani), e comminata la "pietosa" decapitazione eseguita alle Tre Fontane (ad aquas salvias) .
Dopo la morte di Paolo, Il Regno si occupa a lungo delle vicende di Luca e della scrittura del suo Vangelo, l'unico tra i sinottici a gettare luce sulla nascita e infanzia del Maestro.
Carrère, essendo Carrère, intreccia come sempre questo dotto e avventuroso racconto - in cui si incontrano anche molti studiosi moderni del cristianesimo tra cui il grande Paul Veyne - con le sue vicende personali: la sua conversione al cristianesimo, avvenuta parecchi anni prima, e durata solo 3 anni, al termine della quale lo scrittore è tornato convintamente a essere un agnostico (e praticante di discipline orientali come lo Yoga).
E pur scritto da un agnostico, Il Regno si rivela come uno dei migliori, e più acuti, libri scritti negli ultimi anni sul cristianesimo, dal punto di vista storico, come e da quello filosofico. Carrère, pur non potendo oggi dichiararsi cristiano, ha capito meglio di molti altri lo spirito "autentico" del cristianesimo, quello delle origini, quello di Gesù e quello dei discepoli e degli apostoli, e ne ha un profondissimo rispetto.
Il suo punto debole, in un libro quasi impeccabile come questo, è forse credere, come fanno molti, che una storia "inventata a tavolino" (anche se questo non è quello che pensa Carrère) e messa in buona forma da volenterosi "segretari" come Luca (segretario di Paolo) e Marco (segretario di Pietro), possa aver rapidamente conquistato il mondo, e l'intero occidente per duemila anni (l'istituzione della chiesa cattolica cristiana è, come è noto, l'istituzione umana più antica, esistente).
Carrère sa, e lo scrive: che questo racconto pieno di buchi, incongruenze, cose inverosimili, miracoli, contraddizioni, questo racconto che ha per protagonisti un gruppo di analfabeti, umili pescatori e scappati di casa, e un presunto dio ammazzato come un capretto su una croce, delirante e pazzo nelle sue affermazioni contro ogni senso comune; questo racconto aveva ogni probabilità di essere cancellato dalla storia in qualche giorno o settimana, dopo la morte del Profeta, così come era successo a centinaia di altri racconti simili, inghiottiti dall'oblio.
Il vero mistero è, invece, come sia stato possibile che questa collezione di assurdità (Creo quia absurdum, scriveva Tertulliano), di "favola per donne, raccontata da donne" [specie la Resurrezione] quindi quanto di più inattendibile al mondo potesse esistere, di epopea degli ultimi, abbia potuto non soltanto diffondersi in pochissimo tempo capillarmente in ogni angolo di un immenso impero, ma addirittura nel giro di "appena" un paio di centinaia di anni, diventare creduta da milioni di persone, e così per duemila anni e fino ad oggi.
In questo senso Carrère, pensando "pro domo sua" attribuisce troppa importanza agli evangelisti, a quelli cioè che "scrissero" il Vangelo, immaginandoli come fossero scrittori di oggi, con gli stessi loro tic e metodi:
sembra una visione ingenua. Gli studiosi del cristianesimo sanno che i quattro Vangeli furono "messi per iscritto" per motivi pratici molto concreti che sono sostanzialmente due: 1. quando si capì che la fine del mondo non era imminente, come sembravano invece intendere le parole di Gesù (gli apostoli erano convinti che Lui sarebbe tornato con loro ancora in vita) 2. quando si capì che l'attesa - molto più lunga del previsto - metteva a serio rischio il racconto orale (orale perché "scrivere di Gesù" durante le persecuzioni anticristiane non era esattamente una buona idea) e quindi era opportuno scriverle, perché restassero.
Per questi motivi nella scrittura di questi testi non contò così tanto la personalità degli "scrittori" che furono più che altro i "redattori" chiamati a mettere per iscritto, quanto più fedelmente possibile, un racconto orale (di gruppo, di comunità) che si tramandava di bocca in bocca, e da padre a figlio.
Il mistero è dunque un altro.
Un mistero che non si spiega, e in cui anche Carrère, con la sua penna affilata e degna, evita di addentrarsi. Lo Spirito non è e non può essere materia di indagine, e Carrère è il primo a saperlo. A lui interessano i fatti. E siccome la storia, specialmente quella del primo cristianesimo, è fatta di molti, molti fatti lui si dedica con passione a quelli.
Per lo Spirito, bastano e avanzano le ultime cinque pagine de Il Regno: ho finito di leggerle con i brividi sulla schiena e mi sono reso conto che quasi mai, nella mia lunga vita di lettore, un libro mi ha procurato brividi sulla schiena, mentre lo leggevo.

Fabrizio Falconi - 2023

09/12/22

Vito Mancuso compie oggi 60 anni: il suo libro "L'anima e il suo destino" rimarrà

 


Compie oggi 60 anni Vito Mancuso.

Ex docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano dal 2004 al 2011; dal 2022 è editorialista del quotidiano La Stampa. Attualmente insegna al master di Meditazione e neuroscienze dell’Università di Udine.

I suoi scritti hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico, in particolare "L’anima e il suo destino" (Raffaello Cortina, 2007), destinato a restare a lungo. 

Nato il 9 dicembre 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani, dopo il liceo classico statale a Desio (Milano), ha iniziato lo studio della teologia nel Seminario arcivescovile di Milano dove al termine del quinquennio ha conseguito il Baccellierato, primo grado accademico in teologia, ed è stato ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini all’età di 23 anni e sei mesi. 

A distanza di un anno ha chiesto di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo studio della teologia

Dietro indicazione del cardinal Martini ha vissuto due anni a Napoli presso il teologo Bruno Forte. 

Ha quindi iniziato a lavorare in editoria (Piemme, Mondadori, San Paolo, ancora Mondadori) proseguendo lo studio della teologia per il terzo e conclusivo grado accademico, il Dottorato.

Ricevuta la dispensa papale, si è sposato in una parrocchia milanese con Jadranka Korlat, ingegnere civile. Dal matrimonio sono nati Stefano nel 1995 e Caterina nel 1999.

L'anima e il suo destino è un magnifico saggio sull’anima, “la cosa più eterea, più imprendibile che ci sia”, secondo la definizione del Cardinale Carlo Maria Martini, ed ha come obbiettivo di “sostenere l’esistenza di un futuro di vita personale oltre la morte”, problema che tocca cruciali questioni dottrinarie. 

Il teologo indaga con coraggio il delicato argomento alla luce della coscienza laica presente in ogni uomo e che “cerca la verità per se stessa” e vuole aderirvi senza alcuna “forzatura ideologica” e senza nulla derogare alla ragione intesa come “intelletto e coscienza morale”.

In tal modo dà un’impostazione nuova alla sua teologia che chiama universale. "Con teologia universale intendo un discorso su Dio e la nostra reale relazione con lui, quindi vera e propria teologia, ma tale da essere condotta a partire dai dati della ragione." 

Il suo argomentare “si basa sulla filosofia e sulla scienza oltre che sulle fonti tradizionali della teologia” nella coscienza che nessuna opposizione e incompatibilità può esserci tra le affermazioni della teologia e quelle della scienza. 

Il saggio è un viaggio avventuroso e intenso che si svolge nella delineazione dell’interessante teoria dell’anima a partire dalla natura-physis, dal basso, dove, attraverso il lavoro dell’energia, avviene la trasformazione di forme di vita sempre più ampie ed ordinate fino al livello superiore dell’essere che diviene consapevole e giunge ad un superiore grado di ordine, lo spirito, “la punta dell’anima”, capace di attuare tutte le sue potenzialità, di ordinarsi liberamente e creativamente e disciplinarsi “verso il bene”, che genera una mutazione più alta verso la pienezza dell’essere. 

A questo punto è plausibile pensare che questo livello possa produrre uno stadio superiore dell’essere a noi ignoto che dopo la morte continui nella stessa direzione. Su questa base si ripensa l’intera soteriologia. Il destino di vita immortale della persona viene strappato alla religione e consegnato all’etica, di cui la religione deve essere al servizio. L’etica a sua volta però non si fonda su se stessa, ma rimanda all’ordine naturale, all’essere del mondo, e si spiega come traduzione, al livello cosciente delle relazioni umane, della medesima logica simmetrica e ordinata che è alla base del cammino dell’essere, dagli informi gas primordiali fino alla ricca informazione dell’intelligenza




25/12/17

"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale". L'intervista di Massimo Cacciari a Huffington Post.


Huffington Post Italia online ci fa un bel regalo di Natale, offrendoci una intervista a Massimo Cacciari sui temi del Natale cristiano e su ciò che di esso è rimasto nel nostro tempo. 
La parola del Vangelo l'ha ascoltata fuori dal tempio: "Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l'opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: 'Chi credete che io sia?'". Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: "Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione".
Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d'elefante, Marcuse, l'eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: "Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – "Quaderni Rossi", "Contropiano" – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche". Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: "Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto". Nel suo libro, "Generare Dio" (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell'incarnazione di Dio c'è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l'Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento.
Invece?
Quando l'Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall'angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull'ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina.
Nessuno se n'era accorto prima?
Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Balthasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio.
Cosa riesce a mostrare?
Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l'incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all'ascolto è in realtà un'iper libertà.
Perché iper?
Quando – nel giardino dell'Eden – Adamo mangia il frutto dell'albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s'interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell'altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall'amor proprio?
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l'oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?
Possiamo riuscirci?
Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s'incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l'anti cristiano Nietzsche: nell'impossibile.
Ma se è impossibile, perché provarci?
Perché l'impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L'impossibile è l'estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità.
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: "È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché dovremmo farlo?
Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo.
Come lo definirebbe?
Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d'Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell'ombra?
È tutto davvero così esposto?
Al contrario. Quella della trasparenza è solo un'ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell'apparenza, la nostra è l'epoca dell'occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d'ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l'oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell'anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato.
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c'è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere.
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo.
Anche il Papa?
Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l'etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l'assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti.
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
Perché anche loro – benché protagoniste dell'ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell'incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c'è oltre.

07/03/17

"Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento..." Dietrich Bonhoeffer, 1944.



Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento che interessa tutti gli strati sociali; e nello stesso tempo ci troviamo di fronte alla nascita di un nuovo stile di nobiltà che coinvolge uomini provenienti da tutti gli strati sociali attualmente esistenti. 

La nobiltà nasce e si mantiene attraverso il sacrificio, il coraggio e la chiara cognizione di ciò cui uno è tenuto nei confronti di se e degli altri; esigendo con naturalezza il rispetto dovuto a se stessi e con altrettanta naturalezza portandolo agli altri, sia in alto che in basso. 

Si tratta di riscoprire su tutta la linea esperienze di qualità ormai sepolte, si tratta di un ordine fondato sulla qualità

La qualità è il nemico più potente di qualsiasi massificazione. 

Dal punto di vista sociale questo significa rinunciare alla ricerca delle posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta della cerchia intima degli amici, significa saper gioire di una vita nascosta ed avere il coraggio di una vita pubblica. 

Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dallo snobismo alla modestia, dall’esagerazione alla misura.  
Le quantità si contendono lo spazio, le qualità si completano a vicenda


Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.

31/01/17

Esce "Siamo tutti diversi!" di Teresa Forcades, una radicale riflessione sulla diversità umana.






E' davvero un pensiero profondo e originale quello di Teresa Forcades, esposto in questo volume appena pubblicato da Castelvecchi. 

Teresa Forcades si racconta e, mentre la sua biografia si dipana nella narrazione, emergono in modo dirompente i temi della sua riflessione: dall’originale interpretazione teologica del concetto queer e della radicale differenza di ciascun essere umano al pensiero femminista, dalla mercificazione del corpo all’omosessualità. 

Uno sguardo acuto sul percorso che ogni essere umano compie per diventare adulto e trovare la propria unica e irriducibile identità. E poi ancora: unioni civili, utero in affitto, medicalizzazione della società, fede e Vangeli, cattolicesimo e ruolo della donna nella Chiesa, amore e libertà, clericalismo e patriarcato, religione, psicanalisi e lotta politica. 

In filigrana, attraverso il flusso di una vita d’eccezione, una domanda spiazzante: cosa significa essere una teologa femminista nel XXI secolo?



Teresa Forcades 
Monaca benedettina di origine catalana, medico, teologa femminista e attivista politica, si è specializzata in Medicina Interna a Buffalo (Stato di New York), ottenendo poi un Master of Divinity a Harvard

Ha conseguito un dottorato in Salute pubblica e un dottorato in Teologia Fondamentale a Barcellona; successivamente, un post-dottorato presso la Humboldt-Universität di Berlino, dove ha poi insegnato Teologia della Trinità e Teologia queer. 

Nel 2012 ha fondato il movimento politico Procés Constituent per l’indipendenza della Catalogna. 

La sua popolarità si è imposta all’attenzione internazionale per la sua ferma critica alle industrie farmaceutiche e le sue coraggiose posizioni sia all’interno della Chiesa sia nel dibattito politico contemporaneo.

Teresa Forcades 
Siamo tutti diversi! 
Per una teologia queer 
a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco
pagine 192 prezzo € 16.50
Castelvecchi, 2017

27/09/16

L'Angelo di Francesco De Gregori - Una poesia-canzone da interpretare.




C'è una canzone sempre sottovalutata di Francesco De Gregori, contenuta nel suo album Calypsos, del 2006, che come altre sue, è una elegante poesia. 

Il testo, nella sua disarmante semplicità, si presta ad essere interpretato - nonostante le reali intenzioni di De Gregori, note soltanto ai poeti - come un piccolo trattato teologico-poetico.

Se L'angelo degregoriano non è soltanto una persona in carne e ossa, metaforizzato sotto forma divina, questa creatura che compare nel testo e nelle note del brano ha tutte le fattispecie di un essere trascendente che nessuno può vedere. 

Anche se nessuno può vedere, questo Angelo però fa segno di tacere. Dunque, pur essendo invisibile agli altri, è visibile al poeta, così come è a chiunque egli si manifesti, nello scorrere della vita quotidiana. 


E' dunque una presenza-assenza. Ma cosa vuole, esattamente questo angelo ?


Il suo scopo - come la sua essenza - è misterioso.  Egli infatti è venuto per sciogliere (e non per legare, né per spezzare).  Se tra sciogliere e legare la differenza è evidente, molto più sottile è quella tra sciogliere e spezzare.   Questo Angelo dunque non vuole legare (ricordiamo che legare è nell'etimo stesso della parola religione: re-ligo). Non vuole asservire sotto forma di dogmi, e non vuole spezzare, quindi creare fratture, dividere.  Egli vuole semmai sciogliere. Lemma dolcissimo il cui significato è appunto quello di liberare, di togliere da impaccio, di rendere possibile il volo. 

Questa creatura invisibile cioè, non si impone, non chiede e pretende ma lascia, scioglie: lascia passare.  E fa segno di andare. Vuole quindi lasciare libero il cammino.  Indica perfino la direzione, rassicura, sorveglia da lontano, guida. 

L'angelo è dunque una presenza amica, che offre da bere, che è solidale e che intrattiene. 

Poco più avanti però, il testo sembra suggerire che la presenza dell'Angelo non è soltanto esteriore, non vuole soltanto apparire e scomparire. Non è venuto soltanto per indicare o seguire. No, c'è qualcosa di più:   l'Angelo è venuto anche a prendere qualcosa. Prendere, appunto. Non rubare. Non vuole prendere senza il tuo consenso, non vuole sottrarre come un ladro, non vuole approfittarsi. Vuole da te qualcosa e chiede di non spaventarti. Proprio perché non è un ladro egli non si approfitterà di te, e non vuole fare del male.  Quello che prenderà da te, è per il tuo bene.  E' in un certo senso, anzi, il migliore complemento di te.  E questo Angelo, proprio come una presenza amica, andrà via con la parte migliore di te.  Una parte santificata dalla generosità (dall'amore e dall'amicizia) e vivificata con il vino, la pianta che fermenta e che nutre e che rende degna la vita di essere vissuta. 

Fabrizio Falconi 

*
Passa l'angelo passa l'angelo
E nessuno può vedere
Passa l'angelo passa l'angelo
E fa segno di tacere.

E dice sono venuto a sciogliere
E non a legare
Sono venuto a sciogliere
E non a spezzare
Passa l'angelo, passa l'angelo
E ti fa segno di andare
Passa l'angelo, passa l'angelo
E ti lascia passare

Passa l'angelo, passa l'angelo
E ti offre da bere
Passa l'angelo, passa l'angelo
E finisce il bicchiere
E dice sono venuto a prendere
E non a rubare
Sono venuto a prendere
E non a rubare
E dice non devi piangere
E non ti devi spaventare

Passa l'angelo, passa l'angelo
E nessuno può vedere
Passa l'angelo, passa l'angelo
E fa segno di tacere

Passa l'angelo, passa l'angelo
E ti offre da bere
Passa l'angelo, passa l'angelo
E ti offre da bere
*

Francesco De Gregori, L'Angelo, dall'album Calypsos, 2006. 

10/06/16

Il ruolo decisivo di Maria Maddalena nel Cristianesimo, simbolo di tutte le donne. Finalmente una festa in suo onore nel Calendario Romano. (Lucetta Scaraffia)




Dalla "restituzione del posto" che a santa Maria Maddalena "spetta nella tradizione cristiana" da parte di Papa Francesco, che ha stabilito che dal 22 luglio di quest'anno la memoria liturgica di questa "apostola" sia elevata al grado di festa nel Calendario romano generale, "può finalmente partire il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa".

E' l'analisi di Lucetta Scaraffia sulla prima pagina dell'Osservatore Romano. 

"Da quasi duemila anni era sotto gli occhi di tutti la presenza decisiva davanti al sepolcro vuoto di Maria Maddalena, la prima a dare la buona notizia della resurrezione: proprio lei, una donna", scrive la storica. "Nessuno però sembrava essersene accorto veramente. Nei secoli si sono persino formate storielle misogine, come quella che Gesù fosse apparso innanzi tutto a una donna perché le donne chiacchierano di più e così la notizia si sarebbe diffusa più in fretta. Inoltre, alcuni autorevoli commentatori si erano domandati come mai il risorto avesse trascurato sua madre, giungendo perfino a immaginare un'apparizione a Maria prima dell'incontro con la Maddalena, in modo da ristabilire una gerarchia che si considerava alterata. 

Su Maria di Magdala, proprio per la sua evidente vicinanza con Gesù, erano sorte addirittura voci inquietanti, tanto da farla diventare simbolo della trasgressione sessuale, rilanciato da leggende tenaci, vive ancora oggi: molti ricordano la Maddalena del film di Martin Scorsese L'ultima tentazione di Cristo, e certo molti di più hanno letto Il codice da Vinci, best seller fondato proprio sul presunto segreto del matrimonio fra lei e Gesù". 

 "Tanto è stata lunga e difficile la strada che ha portato all'accettazione della verità, una verità semplice ma espressiva di un messaggio che molti non volevano ascoltare: e cioè che per Gesù le donne erano uguali agli uomini dal punto di vista spirituale, avevano lo stesso valore e le stesse capacità", scrive ancora l'editorialista dell'Osservatore Romano. 

"Per questo era così difficile ammettere che Maddalena era un'apostola, la prima fra gli apostoli a cui si è manifestato il Signore risorto. Per questo proprio da lei, cioè dalla restituzione del posto che le spetta nella tradizione cristiana, può finalmente partire il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa. Papa Francesco l'ha capito chiaramente, e ha avviato in questo modo un processo che non si potrà più fermare". 

Scaraffia conclude: "Grazie allora a Papa Francesco da parte di tutte le donne cristiane del mondo, perché con la creazione della nuova festa di santa Maria Maddalena rende loro merito".

La decisione del Pontefice vuole spingere la Chiesa a "riflettere in modo più profondo sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina", si legge nell'apposito decreto in latino della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, pubblicato con la data del 3 giugno, solennità del Sacro Cuore di Gesù, e reso noto stamane. 

Nota "come colei che ha amato Cristo ed è stata molto amata da Cristo", definita da san Gregorio Magno "testimone della divina misericordia" e da san Tommaso d'Aquino "apostola degli apostoli", la Maddalena "può essere oggi compresa dai fedeli come paradigma del compito delle donne nella Chiesa"

Nel sottolinearlo il decreto mette in evidenza la volontà del Pontefice di proporre "più convenientemente" ai fedeli il suo esempio di "prima testimone ed evangelista della risurrezione del Signore".

in testa Maria Maddalena, Perugino, 1500.  

27/03/16

La Resurrezione di Grunewald, un quadro meraviglioso e misterioso.


La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim

I Vangeli sono tutti di una sconvolgente discrezione: annunciano la Risurrezione senza descriverla; ne proclamano la realtà senza dire come Cristo è risorto dai morti

Essi preservano così il cuore del mistero e scelgono di comunicarlo attraverso le apparizioni di Cristo che, dopo la Risurrezione, è in un’altra condizione — può essere presente senza essere riconosciuto, può attraversare le porte sbarrate — e si rivela rivolgendosi ai suoi, come fa con Maria di Magdala, quando la chiama per nome, o attraverso le parole che accendono in quelli che ascoltano il fuoco della fede. Cristo risorto si comunica già attraverso una sottigliezza della parola in grado di farci vedere con gli occhi dello spirito e del cuore. 

È lo stesso e tuttavia è diverso, portatore di un’alterità che non altera l’identità della persona, ma la colloca in una realtà in cui il corpo non veste lo spirito, ma lo svela; non è contro lo spirito, ma ne è proprio l’espressione e manifesta il volto interiore.

Il mondo che Cristo rende presente attraverso la sua Risurrezione è il mondo della trasparenza, della piena coincidenza del corpo con lo spirito, della loro unità trasfigurata attraverso la vittoria sulla morte. Ciò che i Vangeli non dicono non è rimasto, tuttavia, nella zona dell’ineffabile e dell’invisibile, non era possibile. La storia del cristianesimo è anche una storia delle forme che riflettono significati che attribuiamo alla Risurrezione.

In questa prospettiva, tra i maestri dell’arte occidentale, Matthias Grünewald (1480-1528) trasmette in modo diverso il mistero della Risurrezione, con un’intensità e una profondità teologale mai raggiunte prima di lui.

Sull’altare di Isenheim la sua singolarità artistica si manifesta pienamente nella rappresentazione del Cristo risorto che non vediamo uscire vittorioso dal sepolcro mentre solleva il vessillo crociato come, per esempio, in Piero della Francesca o in tanti altri.

Sebbene la parte inferiore della tavola conservi la scena tradizionale delle guardie del sepolcro, sorprese dal sonno e terrorizzate da ciò che accade, Grünewald dipinge un Cristo trasfigurato che infilza il “velo” della notte cosmica del silenzio e dell’attesa.

Il suo corpo diffonde la luce interiore della natura divina; è, di fatto, una concentrazione di luce, un «riflesso della divinità», come diceva Gregorio Nazianzeno, che si fa visibile attraverso una creatura trasparente, di una mitezza infinita, la cui vittoria ha il volto eterno dell’amore.

Il potere di Cristo risorto è, nella visione di Grünewald, l’espressione del suo amore che si mostra ai nostri occhi attraverso la manifestazione riconciliata — sotto la forma di una croce che comprende tutto l’universo — dei segni della sofferenza divenuti sorgente di luce.

fonte Osservatore Romano, 4 aprile 2015.

La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim, particolare

10/03/15

Fabiola Gianotti (direttrice del CERN di Ginevra): Una mente intelligente ordinatrice nella Natura ?




Riporto dal sito GLI SCRITTI curato da Andrea Lonardo un brano dell'intervista realizzata da Giovanni Minoli a Fabiola Gianotti (che QUI si può ascoltare in tuta la sua interezza), scienziato, direttrice del CERN di Ginevra

All’inizio la Gianotti parla dei suoi studi classici, di latino, greco e filosofia, affermando che “è stata una formazione complementare. Consiglierei un percorso simile a giovani che vogliono intraprendere la ricerca scientifica”. 

Ricorda di essersi avvicinata alla scoperta della bellezza della ricerca scientifica durante il liceo classico, leggendo una biografia di Marie Curie, che univa la cucina e il laboratorio. Ma è stata poi la scoperta “dell’interpretazione che Einstein dette dell’effetto fotoelettrico” che la avvicinò ancor più: “mi colpì per la sua semplicità, per la sua eleganza”. 

Minoli le domanda del rapporto tra filosofia e fisica e lei risponde

“La filosofia mi piaceva moltissimo perché come la fisica affronta le questioni fondamentali”. 

Perché allora il passaggio alla fisica? 

“La fisica va al dunque, da delle risposte. Ho percepito che la fisica dava delle risposte più concrete”. 

Parla poi della scoperta del Bosone di Higgs che ci ha avvicinato ad un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. 

“Non sappiamo cosa c’era prima, è una domanda per le speculazioni, non per la scienza”. 

Allora Minoli domanda
(e qui trascriviamo letteralmente il dialogo) 

Giovanni Minoli: Questa ricerca la avvicina o la allontana dall’idea dell’esistenza di Dio? 

Fabiola Gianotti: Penso che la scienza e la religione siano due domini separati. Non si contraddicono. La scienza non potrà mai dimostrare l’esistenza o no di Dio. Quindi penso che sia una situazione di parallelismo, di approcci diversi. 

Minoli: Ma lei che è filosofa e scienziata personalmente [la ricerca] l’ha avvicinata o è un problema che non si pone? 

Gianotti: Quello che io vedo nella natura, la sua semplicità, la sua eleganza, mi avvicina all’idea di una mente intelligente ordinatrice dietro, perché la natura è bellissima e anche le leggi fondamentali della fisica sono estremamente esteticamente belle, essenziali e, come diremmo in inglese, compelling, si motivano quasi da sé. 

Minoli: Insomma ci crede in Dio sì o no? 

Gianotti: Sì.

L'intervista è stata realizzata da Giovanni Minoli per Mix24 nel Faccia a Faccia con Fabiola Gianotti, mandato in onda il 4/2/2014. I passaggi riportati si riferiscono dal minuto 7.33 circa al minuto 8.36 circa.

22/12/14

Lo stato del mondo, ora (Raimon Panikkar)

Raimon Panikkar

Qualche tempo fa Raimon Panikkar, prima di morire tracciava un bilancio dei cosiddetti anni zero, il primo decennio del terzo millennio. 

Non è con enorme dispiacere che salutiamo questi Anni Zero - 01,02,03,04, ecc... - era in sintesi il suo pensiero.  Chi è sufficientemente vecchio per ricordarlo, sa che alla fine del Ventesimo secolo si pensava al Duemila, come ad un obiettivo di progresso universale, ad una data fatidica che avrebbe segnato il raggiungimento di storici traguardi e la soluzione di molti problemi. 

Invece, diceva Panikkar, questi anni zero non hanno portato granché. Alcuni problemi mondiali si sono aggravati. Le disuguaglianze del mondo sono rimaste immutate. 

Ecco come descriveva lo stato globale il grande filosofo-teologo. 
Una descrizione sintetica che purtroppo non è mutata nemmeno quando stiamo per entrare nell'anno 2015.

Immaginiamo il villaggio globale. Supponiamo che questo villaggio planetario sia formato da cento famiglie.

Di queste 100 famiglie, 60 non sanno leggere. 1 sola ha un'educazione a livello di scuola secondaria. 70 non hanno acqua potabile sicura; 80 vivono in abitazioni inadeguate, ciò che viene considerato come una condizione di vita normale.
6 hanno metà del reddito totale del villaggio, comprese le risorse naturali e il denaro, in modo che 94 famiglie vivono dell'altra metà.

Uno sguardo sulle caratteristiche poi di queste 6 famiglie ci può essere utile: di queste 6 famiglie, 4 e 1/2 sono indottrinate dalle notizie televisive; 5,3 trascorrono ogni settimana una media di tre ore e 1/2 davanti al televisore e 5 guardano 40.000 messaggi pubblicitari l'anno, che le rendono più condizionate dei topi di Skinner

 Raimon Panikkar

01/08/14

Cioran: "La vita non è possibile che grazie alla dimenticanza" (Luoghi ritrovati).




In un prezioso (e introvabile) libretto, pubblicato da I Quaderni del Battello Ebbro nel 1995, Luoghi ritrovati a cura di Fulvio Del Fabbro, era riportato il contenuto di una intervista, tratta da un filmato realizzato nel 1991 tra Parigi e Bucarest a due grandi personalità della cultura rumena: Emil Cioran e Petre Tutea. 

Il primo, notissimo in Occidente, e residente in Francia dal 1937, rievoca l'infanzia in Romania e gli anni trascorsi a Parigi da eterno studente, con il rinnegamento delle sue radici fino al rifiuto di usare la lingua madre. 

Il libro è pieno di meravigliose illuminazioni che Cioran dispensa nel suo tipico stile apparentemente trasandato

Eppure ogni parola, ogni virgola di Cioran, riletta anche dopo molti anni, ha il dono della essenzialità e della esattezza, come capita molto raramente, sempre più raramente di incontrare oggi. 

Riporto un paio di brani. 

Prima di conoscere l'insonnia, dice Cioran, ero una persona quasi normale.  Per me è stata una rivelazione... quando ho perduto il sonno mi sono reso conto di come esso sia una cosa straordinaria. 

Perché la vita è sopportabile solo grazie al sonno.  Ogni mattina inizi una nuova avventura o la stessa avventura, ma con una interruzione.  L'insonnia è una rivelazione straordinaria perché sopprime l'incoscienza. Passi ventiquattro ore al giorno in uno stato di lucidità, cosa che eccede la capacità di sopportazione dell'essere umano.

E' una sorta di atto eroico, perché ogni giorno è una lotta perduta in partenza.  La vita non è possibile che grazie alla dimenticanza.

Non puoi prepararti a una veglia senza fine. E' una sensazione di flatterie, come se non facessi più parte dell'umanità.

**

In tutte le persone disturbate che ho conosciuto nella mia vita, e ne ho conosciute molte, ho osservato senza eccezioni una coscienza molto più viva di tutte le altre. 

E' un individuo uscito in qualche modo dal suo quadro naturale. Questo non è vero per i folli, ma per gli uomini con un pizzico di demenza  lo è. Così ho sempre creduto e credo ancora che ci sia una grande differenza tra chi è derangé e chi non lo è. Cioè uno che funziona a metà, per dirla così, può darsi faccia una esperienza metafisica molto più profonda di un normale filosofo.

Perché nella vita quello che è importante è quello che ha compreso direttamente, con la tua propria esperienza. Non dai libri.


Fabrizio Falconi


02/07/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (4./)



Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (4./)


Queste parole trovano una stretta correlazione con la testimonianza commovente scritta dal confratello Frère Francois di Taizè, all’indomani dell’assassinio del Priore, e intitolata significativamente: La morte di Frère Roger: perché ?  (4)  Una testimonianza – da parte di chi lo ha conosciuto molto da vicino –  che descrive un uomo davvero molto umano, incapace di trincerarsi dietro la certezza degli assiomi della fede.

      Il dubbio non ha mai abbandonato frère Roger, scrive Frère Francois, È per questo che egli amava le parole “Non lasciare che le mie tenebre mi parlino!” Le tenebre significavano le insinuazioni del dubbio. Ma il dubbio non intaccava l’evidenza con la quale egli percepiva l’amore di Dio. Può essere persino che proprio questo dubbio reclamasse un linguaggio che non lascia spazio ad alcuna ambiguità. L’evidenza di cui parlo non si situava a livello intellettuale, ma più in profondità, a livello del cuore. E come tutto ciò che non si può proteggere mediante dei ragionamenti convincenti o delle certezze saldamente costruite, questa evidenza era necessariamente fragile.

L’evidenza di cui parla Frère Francois, fu la grande forza di Frère Roger, la forza che gli permise di realizzare l’utopia di una comunità ecumenica nel cuore della vecchia europa, aperta a tutte le confessioni religiose, e capace di parlare al cuore di uomini di tutte le età, razze e credenze.

Già dalla fine degli anni ’50, il numero dei giovani che si recavano a Taizè cominciò a crescere in modo esponenziale.   L’alacre, infaticabile attività di Frère Roger portò,  a partire dal 1962 a inviare alcuni fratelli e giovani, nei luoghi più sperduti del mondo, o in quei paesi dell’Oltre Cortina dove allora era davvero molto rischioso parlare di Cristo e della fede professata da una Chiesa.

Nello stesso tempo, lo stesso Frère Roger cominciò a trascorrere lunghi periodi in luoghi di povertà ( dall’Etiopia ad Haiti, dalle Filippine a Calcutta) dai quali compilava la sua lettera, che veniva poi tradotta nelle diverse lingue, e spedita in molte nazioni a coloro che cominciavano a conoscere la realtà di Taizé.

E’ esattamente quel processo di fondazione continua, di cui parla Olivier Clément nel libro che ha dedicato a Taizé.  Questa comunità, spiega Clément, non è stata ‘fondata una volta per tutte’.  E’ piuttosto una realtà che continua e si sviluppa continuamente. Ciò è dovuto, suggerisce Clément, alle stesse modalità che hanno accompagnato la nascita di Taizè, modalità fondate su una visione, e non su una previsione.  “ C’è la visione di Frère Roger, “ scrive Clément,  “ che all’inizio era una visione di riconciliazione fra i cristiani e di servizio agli uomini tramite i cristiani.  E non era una previsione: non aveva mai previsto ciò che sarebbe potuto succedere e ciò che è successo oggi. Prima di tutto abbiamo una personalità fuori dal comune e questa personalità attrae senza volerlo.  Poi abbiamo questo aspetto di non previsione e di attrazione involontaria che troviamo sempre nella grande storia del monachesimo.  E’ una legge della storia della Chiesa: quando viviamo qualcosa di autentico, le persone arrivano numerose. Chi si mette a riflettere nella sua camera dicendo: “fonderò una comunità che attrarrà migliaia di giovani” ha già fallito in partenza. In questo modo non funziona !” (5)


Questo qualcosa di autentico è esattamente l’evidenza di cui parla Frère Francois. Il progetto di Frère Roger – quello che gli consentì di ricevere in terra gli onori dei grandi del mondo, ricevendo ad esempio il premio UNESCO dell’educazione alla Pace nel 1988 o il Premio Robert Schuman per il suo contributo alla costruzione dell’Europa nel 1992 – giunse a compimento, in una misura oltremodo inaspettata e impensabile all’inizio, proprio grazie al fatto di basarsi su un cammino personale, umano, vissuto ed esperito in prima persona.  Tu non ignori la fragilità delle tue risposte, scrisse nella Regola di Taizè, rivolto a uno dei suoi confratelli, ma anche a se stesso,  Ti senti sprovveduto di fronte all’assoluto del Vangelo.  Un credente della prima ora diceva, già allora, al Cristo: “io credo, aiuta la mia incredulità.” Sappilo una volta per tutte: né i dubbi, né l’impressione del silenzio di Dio ti tolgono il suo Spirito Santo.  Quello che Dio ti chiede è abbandonarti al Cristo nella fiducia della fede e accogliere il suo amore.  Anche se ti senti tirato da molte parti, spetta a te fare una scelta. Nessuno può farla al posto tuo.  (6) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

4.       La testimonianza La morte di Frère Roger: perché ? di Frère Francois di Taizé è stata pubblicata, all’indomani della morte del Priore, sul sito della Comunità, dove ancora è leggibile alla pagina: http://www.taize.fr/it_article3796.html
5.     O.Clément, Taizé… Op.cit. pag. 34.
6.     Le Fonti di Taizè, Op.cit. pag. 11 

27/05/14

Una bellissima intervista ad Eugenio Borgna, di Antonio Gnoli per Repubblica.





Vi propongo questa bellissima intervista ad Eugenio Borgna realizzata da Antonio Gnoli. 


Eugenio Borgna: "L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra" Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina - di  Antonio Gnoli - Da Repubblica.it 


LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. 

Nelle movenze dinoccolate di quest'uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l'altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell'ascolto. 

Ci fermiamo, vista l'ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: "Qui veniva Scalfaro", ricorda Borgna. E ho l'impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.


Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
"Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita".

Che ha avuto inizio dove?
"A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l'adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l'ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo".

Quanto durò?
"Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l'Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose ".

Perché quel tipo di scelta?
"Sulle orme paterne avrei potuto fare l'avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza".

Essere autentici è un dovere?
"Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".

Mi faccia capire.
"Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".

Perché?
"Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".

Non le bastava la verità clinica?
"No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".

E invece?
"Decisi  -  tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici  -  di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".

Una scena irreale?
"Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".

Come reagì?
"Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".

Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
"Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".

Non è facile trovare un varco per la comprensione.
"Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".

Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
"La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".

di Antonio Gnoli - da Repubblica.it

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