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20/11/21

Davvero oggi scrivendo libri si può aspirare all'immortalità ?



Chi e come si guadagna l'immortalità letteraria

Il vecchio sogno idealista o infantile di scrivere libri per consegnarsi alla posterità si dovrebbe infrangere brutalmente quando si conosca almeno per grandissime linee, la storia della fortuna letteraria. 

Se si scorre l'elenco dei vincitori del premio Strega degli ultimi 70 anni, per esempio, si può fare un bilancio, scoprendo che molti dei premiati non hanno superato la prova della notorietà neanche a distanza di qualche decennio.

Chi oggi legge in Italia romanzi di Giovanni Battista Angeletti, vincitore nel 1949? Quanti volumi troverebbe, entrando oggi in una libreria, un potenziale lettore, dello scrittore Michele Prisco (vincitore nel 1966)? Quanti di Raffaello Brignetti (vincitore nel 1971), di Giuseppe Dessì (1972), di Guglielmo Petroni (1974), di Vittorio Gorresio (1980), oppure dei più recenti Ernesto Ferrero (2000) o di Ugo Riccarelli (2004)?? 

Tutti ottimi scrittori, sicuro. Ma già precipitati nell'oblio, almeno per quanto riguarda la ristampa o pubblicazione dei loro libri

E che dire, allargando il campo, dei celebrati Premi Nobel? 

Chi legge oggi o chi ha mai sentito nominare oggi Sully Prudhomme , vincitore nel 1901, Bjørnstjerne Bjørnson (1903), Frédéric Mistral (1904), José Echegaray y Eizaguirre (1905), Rudolf Christoph Eucken (1908), Selma Lagerlöf (1909), Paul Johann Ludwig Heyse (1910), Maurice Polidore Marie Bernhard Maeterlinck (1911), Gerhart Hauptmann (1912), Carl Gustaf Verner von Heidenstam (1916), Karl Adolph Gjellerup (1918), Henrik Pontoppidan (1920), Władysław Stanisław Reymont (1924), Sigrid Undset (1928), Erik Axel Karlfeldt (1931), Roger Martin du Gard (1937)Frans Eemil Sillanpään (1939), Halldór Laxness (1955), Saint-John Perse (1960), Harry Martinson (1974) ??? 

L'elenco è lunghissimo e pare rispondere chiaramente che non basta proprio vincere un premio Nobel per guadagnarsi l'immortalità (a meno che non si consideri immortale l'aver vinto un premio Nobel, cosa di cui dubito molto

Se scrittori premiati col Nobel appena trenta, quaranta, cinquanta anni fa sono precipitati nell'oblio (sopravvivendo le loro opere solo nelle polverose biblioteche o in rari brani di antologie scolastiche), è legittimo chiedersi anche se recentissimi premiati come Olga Tokarczuk (2018) o Louise Gluck (2020) o Abdulrazak Gurnah (2021) saranno, tra quindici o venti anni letti da qualcuno, presenti con le loro opere nelle librerie e soprattutto stampati da qualche editore. 

Insomma, chi cerca l'immortalità con la produzione letteraria, ma più in generale con quella artistica, dovrebbe rassegnarsi prima ancora di provarci, alla irrilevanza: l'immortalità, la vera immortalità spetta a quella razza "aliena" nata con un codice speciale e la cui piena espressività è stata riconosciuta da tutti, erga omnes, contemporanei, posteri e sopravvissuti. 

Quindi se non si è nati Michelangelo, Dante, Shakespeare o Proust, abbandonate i vostri sogni di gloria e bagnatevi sovente, cioè tutti i giorni, nelle acque dell'umiltà. La vostra grande opera, è assai probabile, non vi sopravviverà.

Fabrizio Falconi - 2021 

28/01/19

Depressione e creatività. Malinconia e Genio. Un saggio bellissimo.


Nel settembre del 1787, quando aveva solo sedici anni, Beethoven rivelò un tormento che lo afflisse per il resto dei suoi giorni. In una lettera scritta poco dopo la morte dell'amata madre, confessò di soffrire per il dolore e per l'asma, cui si aggiungeva la "melanconia", che era per lui "un male grave quasi come la stessa malattia". Ben prima di essere straziato dalla sordità, che lo colpì a cavallo del secolo, Beethoven era già turbato per la disarmonia tra sé e il mondo. Questa cronica insoddisfazione si manifesta di continuo nelle lettere e nei comportamenti. La stessa melanconia inquieta agì peraltro anche da ispirazione per i suoi accordi sinfonici. 



Il 29 giugno 1801, in una lettera a un amico medico, Beethoven espresse la sua caratteristica melanconia con speciale intensità. Nella sua vita, scrive, tutto sembra procedere bene, almeno a una visione superficiale: le composizioni si vendono in fretta, molti editori gli chiedono lavori, ha poche preoccupazioni finanziarie. Ma l'apparenza nasconde una crudele realtà: la diminuzione dell'udito e i disturbi intestinali lo riducono alla "disperazione". Preoccupato di non poter guarire dall'incipiente sordità e dalle coliche, scrive: "Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza". Tutto quello cui può aggrapparsi, adesso, è la "rassegnazione": giura di voler "sfidare il suo destino", pur consapevole che ci saranno momenti in cui sarà "la più infelice delle creature di Dio".
La melanconia ci riporta a come Emily Dickinson definiva la "possibilità", una "casa più bella della prosa / di finestre più adorna, / e più superba nelle sue porte". Si trasforma in musa della visione, quella percezione di uno stato in cui le polarità di colpo si uniscono in turbolenta concordia, come stimolo a creare nuovi modi di immaginare relazioni tra opposti infinitamente misteriosi. Le creature melanconiche costituiscono un'affascinante squadra di mentori: pensare a simili guide aiuta a raccogliere le forze per resistere nei tempi bui. Possiamo identificarci tutti con queste grandi personalità, una lista d'onore di uomini e donne brillanti. Pensiamo a scrittori come Ernest Hemingway e Rita Dove, musicisti come Beethoven e Mahler, pittori come Goya e van Gogh. Ma non sono solo artisti; ci vengono in mente anche politici come Lincoln e Churchill, imprenditori come J.C.Penney e Ted Turner, attori come Carrie Fisher e Jim Carrey. 
O ancora scienziati come Isaac Newton e Sigmund Freud e capi militari come Napoleone e Sherman. Potrei aggiungere altri a quest'augusto elenco di innovatori melanconici; potrei menzionare Martin Lutero e Michelangelo, Hart Crane e Francis Scott Fitzgerald, Hans Christian Andersen e Florence Nigthingale, James M. Barrie e Mary Shelley, Handel e Holst, Rossini e Schumann, Paul Gauguin e Edward Munch. E Noel Coward, Victor Hugo, Cajkovskij, Charles Ives, Lev Tolstoj, Virginia Woolf, Dylan Thomas e Kierkegaard. Questa lista non arriva neanche lontanamente a fare giustizia dello sterminato inventario di illustri melanconici creativi. Che dire di Lord Alfred Tennyson, Franz Kafka e Jackson Pollock? Oppure di Abbie Hoffman, Tennessee Williams e William Faulkner? O ancora di John Lennon? O di Ad Reinhardt? O di Cary Grant? O di Marcel Proust?
Se soffri di costante melanconia, sei incluso in questa seducente litania di uomini e donne straordinari. Sei nauseato dello status quo; vuoi qualcosa di più dalla vita di quanto ti è offerto dalle fiacche convenzioni. Sei teso, un pò intimorito. Ma in questo momento ti senti più vivo che mai. Senti che sei sul punto di immaginare mondi alternativi, forze integre. Nel tuo momento di fecondità, guardi a queste figure come guide per una terra inesplorata, che recitano mantra commoventi nel tuo orecchio tremante. 



Nel 1890 Vincent van Gogh pose fine in modo repentino e violento al suo più forsennato periodo di attività creativa. Dopo aver completato freneticamente più di duecento quadri tra il 1888 e il 1890, compresi capolavori come Notte stellata e Campo di grano con volo di corvi, profondamente depresso, si incamminò sotto lo splendido sole giallo nella campagna francese e si sparò un colpo di pistola al petto. Morì due giorni dopo per la ferita. Aveva trentasette anni. Istinti suicidi e dipendenze pericolose sono forse il prezzo da pagare per i geni melanconici? 
Non sempre, certo, ma è comunque significativo che molti di loro dovettero lottare con gravi disperazioni e abitudini sordide. Forse è facile ammirarli da lontano; ma l'egoismo e lo sconforto di questi creatori produssero una bellezza che ci nutre senza fine. Per la bellezza occorre soffrire, è un tesoro da pagare a caro prezzo. Come dice Emily Dickinson, l'arte eccelsa è il "dono del torchio". Solo in questo modo possiamo continuare ad ammirare quegli animi malinconici la cui vita è stata dedicata a creare bellezza, non importa a quale costo. La melanconia è il terreno profano da cui sgorga il sacro. Abbiamo bisogno di credere che le nostre ombre generino luce. Non è il creare a renderci infelici; è l'infelicità a renderci creativi. 



Eric G. Wilson, Contro la felicità - un elogio della melanconia (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini) 



Eric G. Wilson è professore d'inglese alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina. E' autore di cinque libri sui rapporti tra letteratura e psicologia e ha ricevuto numerosi premi.

Fonte: Luigi La Rosa 

29/09/14

L'epoca dell'entusiasmo "a caduta rapida" e X-factor.



Viviamo nell'epoca dell'entusiasmo a caduta rapida. 

Nel mondo delle impressioni, nessun sentimento, nessun pensiero, nessuna 'convinzione' è durevole. Tutto, nel bene o nel male, dura al massimo 10 o 15 secondi. Ed è così anche per le good vibrations, che diventano manifesto, coazione a ripetere.  

Un sintomo dell'entusiasmo a caduta rapida dei nostri tempi (incapaci di vera gioia, di vera felicità) sono banalmente questi reality, come x-factor, dove l'ovazione per l'esordiente di turno scatta dopo 10 o 15 secondi di esibizione, dove il parere dei giudici - l'entusiasmo o la (rara) bocciatura - scatta dopo 10 o 15 secondi di esibizione. 

Il nostro entusiasmo ci mette 10 o 15 secondi a sbocciare. E' un entusiasmo finto, ovviamente. 
Epidermico, primario o primitivo. Non c'è alcuna interiorizzazione, non parliamo di un pensiero 'critico'. 

L'entusiasmo - del pubblico, dei 'giudici' e del pubblico a casa - sboccia sulla base di un riflesso pavloviano che dovrebbe giudicare qualcosa di così complesso, profondo e misterioso come il talento

Quale tipo di valutazione di un talento, di un talento umano può essere espletato in una bolgia ? 

Il meccanismo dei talent-show però è indicativo anche di come si è modificato il gusto, e quindi il giudizio umano. 

Quasi nessuna di queste stelline prodotte a tambur battente dai reality vede riconosciuto poi concretamente - e soprattutto durevolmente - il suo talento (al di fuori dei 15 minuti di notorietà, oggi forse ridotti a 5, di cui parlava Warhol).  

I grandi clamori, le grandi acclamazioni e le standing ovations (che quando ero piccolo io si tributavano solo ogni morte di Papa, e solo per esibizioni di talenti davvero stra-ordinari) lasciano il posto spesso a un decadimento immediato. 

Ma è il prodotto di una figura di mondo che è costruita ormai interamente sulle "emozioni" ( non sulla gioia duratura, profonda e silenziosa, che tutti hanno ormai smesso anche di perseguire). 

Eppure ogni forma critica, ogni forma di giudizio nasce da una valutazione silenziosa, dal fare silenzio, che è la prima e indispensabile condizione dell'attenzione. 

Ma, come scriveva Elsa Morante nel 1982 (Aracoeli):  si direbbe che gli umani rifiutano, oggi, il Dio che parlava il linguaggio del silenzio. In tutte le loro azioni quotidiane: lavarsi, nutrirsi, lavorare, accoppiarsi, camminare o star fermi; e dovunque: nelle case e nei caffé, negli alberghi e nei bordelli e negli asili, nelle carceri e negli uffici, nelle automobili e nei treni e negli aerei; dovunque e sempre, individui e masse; vivono soggetti a questa Maestà elettrica, rimbambita e sinistra, infuriante nelle sue casse di plastica da cui escono "lampi e voci e tuoni"

14/12/12

La saggezza di Tancredi.




C'era un vecchio, al paese, che non aveva fatto altro, nella sua vita che riparare e vendere scarpe. 

Si chiamava Tancredi.  E il mio ricordo gli assegna un cappello di paglia per l'estate con larghe tese e di feltro d'inverno che sfoggiava immancabilmente mentre sedeva lunghe ore, quando era ormai vecchio e lavorava poco, fuori dal negozio sul Corso. 

Guardava la gente passare.  Scambiava parole, sorrideva ai bambini, si sgranchiva, tornava a sedersi. Controllava che nel negozio tutto andasse bene. 

E' morto in pace, è morto amato. 

Io amo a mia volta queste persone che sono state e sono capaci di realizzare vite semplici, dedicandosi ad una sola cosa, alla cura di una cosa, che diventa il senso compiuto di una vita. 

E' questo che dovrebbe essere il compito di ogni uomo: fare ciascuno il proprio - senza nuocere agli altri, senza realizzare il male - compiere la propria opera.

Tutti sappiamo che ogni cosa umana, raffrontata all'eterno e alla bizzarria della nostra esperienza terrestre mortale, appare - se appena guardata con obiettività - inutile, insensata o folle. 

Ma la rotondità di una vita spesa per un fine, coltivando il proprio talento - qualunque esso sia -  è quello che spezza anche le ruote dell'eterno, mette insieme nascita e morte, intelligenza e sentimento, prolungamento, inizio e fine, destino e origine. 


Fabrizio Falconi



13/12/12

Prima conosci te stesso.





Molte persone non fanno altro che interrogarsi sul destino: vogliono sapere del futuro, di come e se verrà realizzato il proprio talento, di come e se si riceveranno amore o doni dalla vita. 

Sono sempre alla ricerca di qualcosa o di qualcuno che sappia divinare, gettare un lume di chiarezza sul proprio destino, sul perché - fondamentalmente - si è venuti al mondo. 

Molti non sono nemmeno coscienti di avere un qualsivoglia talento (non si parla qui di talento solamente creativo, si parla di tutti i talenti della vita, quello per esempio di saper amare, o di essere generosi o di saper comunicare..).   

Eppure ciascuno ne possiede uno, si tratta di conoscerlo. E soprattutto di farlo fruttare come indica anche il racconto evangelico (Mt 25, 14-30)

Ciò che però spesso sfugge è l'esistenza di una premessa importante senza la quale nessun destino (o daimon o vocazione) può mai essere raggiunto o intra-visto.

Si dovrebbe sapere che proprio al di sotto dell'Omphalos del più famoso oracolo dell'antichità, a Delfi, era scritto a chiare lettere: Γνῶθι σεαυτόν, ovvero:  'Conosci te stesso'.

Nessun responso sul futuro, nessuna conferma o smentita mai arriverà a nessuno, se prima non si lavora su se stessi, duramente, se prima non si conosce veramente chi si è.

Questo vale per ogni campo della vita, da quello affettivo a quello delle relazioni umane, del lavoro, della creatività.

Ad un giovane scrittore che ardeva dal desiderio di raccontare, di diventare poeta e narratore e che al medesimo tempo, si sentiva indeciso su cosa scrivere, cosa raccontare, Aleksandr Sergeevič Puškin rispose con una lapidaria sentenza:  prima conosci te stesso. 


Fabrizio Falconi

Foto in testa: Omphalos di Delfi (copia ellenistica-romana dell'originale andato perduto), conservata nel Museo Archeologico di Delfi.