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14/03/17

"Scene di vita di provincia" di J.M.Coetzee, un grande Libro (Recensione).



Einaudi ha recentemente riunito in un solo volume, con il titolo complessivo di Scene di vita di provincia, le tre parti del racconto autobiografico di J.M.Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, pubblicate in tre differenti volumi, pubblicati nel 2001, 2002 e 2010.  E nel corso delle 558 pagine c'è modo non soltanto di ricostruire porzioni della vicenda biografica del grande scrittore, ma soprattutto i nodi cruciali della sua ispirazione. 

Nel primo dei tre capitoli, Infanzia, Coetzee racconta - in terza persona - la vita di un ragazzino nel quartiere anonimo di una desolata provincia sudafricana, a centosessanta chilometri da Città del Capo, Worcester. Un ragazzino molto intelligente e chiuso, che cerca una via di fuga da un padre ordinario che non riesce a rispettare e da una madre che ama di amore viscerale ma che non gli dà certezze, dai riti di una scuola dove le regole non sono uguali per tutti, dai turbamenti di un'infanzia già minata nel suo carattere più sensibile.  dagli angusti orizzonti nazionalistici del Sudafrica nel secondo dopoguerra. 

Comincia qui, tra le esperienze famigliari, le fughe nel selvaggio Veld con la cuginetta preferita, la percezione di quel profondo senso di inadeguatezza nei confronti della vita, che è soprattutto un blocco relazionale, costruito intorno ad una intelligenza e ad una sensibilità troppo precoci. La difficoltà di costruirsi un'identità nella babele di etnie, lingue, religioni del Sudafrica a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, al di là di ogni pregiudizio, è la sfida che il ragazzino accetta, con la condizione di pagarne il prezzo. 

Nella seconda parte, Gioventù Coetzee è già diventato poco più che ventenne e ha già cambiato vita e continente. Dopo la laurea ha scelto di abbandonare il Sudafrica, quel luogo violento e radicale che gli imprigiona l'anima e ha scelto la disinibita Londra, dove si parla l'inglese che la sua famiglia ha sempre parlato (pur essendo di origini olandesi), dove è possibile sentirsi vicini al cuore europeo dei poeti, i grandi poeti - Pound, Holderlin - e narratori - Ford Madox Ford - che hanno riempito l'immaginazione e i sogni dell'adolescente provinciale.    

A Londra, Coetzee  è ben lungi dal diventare un poeta o uno scrittore, però. Essendo un abile matematico, finisce a lavorare come programmatore presso l'IBM, un mestiere frustrante e solitario che finisce per isolarlo ancora di più, in una città dove non trova sostanzialmente né amici, né rapporti sentimentali stabili, ma anzi dove assapora l'amaro di fugaci sperimentazioni quasi sempre insoddisfacenti.  

Licenziatosi dall'IBM e indeciso tra il proseguire la vita bohémian negli ancora più stranianti Stati Uniti, o fare ritorno a casa (dove comunque sarà costretto a fare rotta più avanti, per la morte della madre), Coetzee cerca affannosamente la propria strada, senza riuscire a fare breccia dentro di sé, senza trovare una via ad una apertura più sincera e radicale del cuore. 

L'ultima parte, Tempo d'Estate, scritta dieci anni dopo le prime due e non nella stessa forma della terza persona come le altre due, Coetzee inventa un proprio ritratto post-mortem: immagina infatti che dopo la sua morte un ricercatore universitario, volendo approfondire aspetti della vita dello scrittore, scelga di intervistare cinque persone che lo hanno conosciuto: quattro donne e un uomo. 

Le cinque lunghe interviste ricostruiscono soprattutto il lato più umano di Coetzee, la sua fragilità emotiva e psicologica, la carenza di affettività, le difese strutturate dietro le quali lo scrittore ha protetto il suo nucleo più profondo. 

Ne escono opinioni crudeli, a volte crudelissime, come nel caso della ballerina brasiliana, conosciuta da Coetzee durante il suo ritorno in SudAfrica per prendersi cura del padre rimasto vedovo e malato, che sprezzantemente giudica lo scrittore un mezzo uomo, un uomo inutile. 

In altri casi i toni sono più vicini - come quelli usati dalla cugina, Margot - o più tranchant come quelli usati dalla insopportabile Julie, la psicologa che ha avuto Coetzee come amante per un lungo periodo.  

Durante quest'ultima parte il lettore è portato costantemente a interrogarsi sul contenuto di verità espresso da Coetzee in questo racconto volutamente frammentario: come in un complicato gioco di specchi, l'autore di Vergogna si nasconde dietro una sofisticata teoria di simulazioni. 

Cosa è vero, cosa è finzione ? Cosa è immaginazione dell'autore su se stesso, cosa denudamento baudelairiano ? 

L'intento forse è proprio questo: dimostrare che nel cuore profondo di ogni esistenza c'è un grande e piccolo mistero insondabile, che nessuno può esplorare, nemmeno chi lo ospita. Ciascuno vive e si guarda vivere in gioco di rifrazioni che comprende gli sguardi degli altri, i giudizi e le omissioni e le proprie ombre e debolezze che abitano i recessi meno illuminati, quelli più oscuri e difficili da decifrare. 

Tutto è parvenza, tutto è dolorosa sostanza. 

In fondo è anche per questo che è così difficile resistere alla tentazione di vivere. 

Fabrizio Falconi 


14/07/14

Morta Nadine Gordimer: L'ultima intervista.





LA VOCE di Nadine Gordimer arriva distinta da Johannesburg, all'altro capo dell'Africa. Come sempre, è lei stessa a rispondere al telefono. Questa volta, però, è più flebile. A differenza dalle precedenti, faccio un po' fatica a capirla. "Non so quanto a lungo riuscirò a parlare", dice la grande scrittrice sudafricana, da poco novantenne. "Non mi sento moltobene".

Se vuole posso chiamare in un altro momento.
"Ma no, una volta vale l'altra".

Sono contento di sentirla per l'uscita italiana dei suoi Racconti di una vita, una raccolta di storie scritte tra il 1952 e il 2007, tradotte da Grazia Gatti e pubblicate come sempre da Feltrinelli. L'ultima volta che l'avevo intervistata, due anni fa, lo scrittore americano Philip Roth aveva appena annunciato la sua decisione di non scrivere più fiction. Così le avevo chiesto se lei avesse intenzioni analoghe...
"Ma io non sono Philip Roth!".

Lo so, lo vedo bene. A novant'anni sta dunque lavorando a un nuovo romanzo?
"Non so, non credo... Forse un paio di racconti. Non ho più l'energia, scrivere mi fa star male e sono troppo critica, troppo esigente verso il mio lavoro, non credo che accetterei qualcosa che non mi soddisfa".

Perché dice che scrivere la fa star male? Le causa troppa fatica?
"Ma no, ho male nel mio corpo. Sono ammalata".

Mi scusi, non avevo capito.
"Ho un cancro al pancreas".

Mi dispiace, non sapevo...
"... E mi procura molto dolore. Non si dispiaccia, quando ho scritto il mio ultimo romanzo non lo avevo, non era ancora incominciato, e quello che ho scritto non ha nulla a che vedere con la malattia. La mia energia era immutata, e anche la mia attività intellettuale. Guardavo alla vita come ho sempre fatto".

Mi dica lei se vuole andare avanti...
"Parliamo piuttosto dell'Italia e della mia fortuna di avere nel vostro Paese un editore e dei traduttori così meravigliosi. I miei libri sono tradotti in più di quaranta lingue, 42 o 43 direi, e la prima è stata l'italiano, grazie a Giangiacomo Feltrinelli. Da allora il mio rapporto con l'Italia è sempre stato molto forte, a cominciare dalla famiglia Feltrinelli: Giangiacomo, e naturalmente Inge, che è diventata una mia grande amica. Abbiamo passato bei momenti insieme, è venuta anche a trovarmi qui e poi ci siamo incontrate in Francia... E Carlo, che conosco da quando era un bambino piccolo. Gli sono molto affezionata. E poi, come sa, ho mia figlia Oriane che vive in Piemonte e insegna a Torino. L'Italia è il mio Paese preferito".

Quando è venuta l'ultima volta?
"Un paio di anni fa. Adesso non posso più affrontare viaggi lunghi. Ma ho visto il mondo, e le persone. E si può viaggiare anche leggendo, sia nello spazio che nel tempo. È questa la meraviglia della lettura: consente un'esperienza del mondo e di molte, molte vite. Ci informa: i romanzi e la poesia ci fanno conoscere lo spirito umano".

La meraviglia di cui parla ha bisogno di essere vissuta da chi scrive? O è sempre possibile, come a Jane Austen, descrivere perfettamente l'animo altrui pur con una conoscenza relativamente limitata del mondo?
"Certo, una qualche esperienza ci deve essere. Ma poi noi scrittori abbiamo una strana capacità di entrare nella vita degli altri. Una capacità empatica. È una dote che abbiamo in maggior misura di altri, di chi non è scrittore. Qualcosa che non so spiegare. Sappiamo avventurarci in terreni sconosciuti. Come nel mio ultimo romanzo, Ora o mai più, pubblicato due anni fa  -  un titolo che voleva significare che ognitempo è unico  -  , cerchiamo di fare uso della nostra capacità di penetrare la distanza. Di raggiungere universi che stanno oltre il mondo di cui disponiamo. Attraverso la lettura riusciamo a sapere di più, a trovare il senso da dare alla nostra vita".


11/12/13

Invictus - La poesia che ispirò Mandela negli anni della prigionia.




E' ormai risaputo (Clint Eastwood ne ha tratto anche l'ispirazione per il film che ha diretto nel 2009, Invictus - L'invincibile, dedicato al leader sudafricano) che Nelson Mandela, per alleviare gli anni della sua prigionia durante l'apartheid,  trovò spirito e forza da un libro di poemi e in particolare da una poesia, 'Invictus', che leggeva ad alta voce anche agli altri detenuti. 

Invictus fu scritta dal poeta inglese William Ernest Henley (1849-1903), composta nel 1875 e pubblicata per la prima volta nel 1888 nel Book of Verses di Henley, dov'era la quarta di una serie di poesie intitolate Life and Death (Echoes). 

All'età di 12 anni, Henley rimase vittima del morbo di Pott, una grave forma di tubercolosi ossea. Nonostante ciò, riuscì a continuare i suoi studi e a tentare una carriera giornalistica a Londra. Il suo lavoro, però, fu interrotto continuamente dalla grave patologia, che all'età di 25 anni lo costrinse all'amputazione di una gamba per sopravvivere. Henley non si scoraggiò e continuò a vivere per circa 30 anni con una protesi artificiale, fino all'età di 53 anni. Henley era anche legato da una profonda amicizia con Robert Louis Stevenson, che si ispirò a lui per il personaggio di Long John Silver ne L'isola del tesoro.

La poesia Invictus dunque fu scritta proprio sul letto di un ospedale. 
Ecco i versi. 


Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all'altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.
Nella feroce morsa della circostanza
Non ho arretrato né gridato.
Sotto i colpi d'ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.
Oltre questo luogo d'ira e lacrime
Incombe il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino;
Io sono il capitano della mia anima.

originale:
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever god may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced not cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.