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16/05/23

Torna nelle sale "Toro Scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese, uno dei film capitali della storia del cinema


E' uscito di nuovo nelle sale Raging Bull (Toro Scatenato), 43 anni dopo il suo debutto (1980) e questa non può che essere una bellissima notizia.

Detto questo, non penso che andrò a rivederlo, perché credo forse di non conoscere nessun altro film meglio di questo - praticamente a memoria, scena per scena, ed è tutto lucidamente stampato nella mia mente.
Non è solo un capolavoro. E' un film-testamento. Uno dei film più "umani" che io conosca.
Forse perché Scorsese veniva da una crisi esistenziale profondissima (era depresso e pieno di droghe, dopo la fatica improba di New York, New York e il suo relativo insuccesso).
Quando De Niro andò a trovarlo in ospedale, proponendogli di fare insieme il film, tratto dalla autobiografia di Jake La Motta, che lui aveva appena finito di leggere, forse Scorsese non si rese conto che quel film arrivava - in modo karmico - nel punto "necessario" della sua vita.
Così, vi mise dentro tutta la sua vita, l'infanzia, Little Italy, la miseria e il razzismo contro gli italiani di New York, la mafia, il pugilato, l'ignoranza, il familismo, il maschilismo, la solidarietà, il riscatto, l'incapacità di rapportarsi con le donne.
Non come semplici "spiegazioni freudiane" - "Gli esseri umani non si spiegano solo con i concetti freudiani" dice Scorsese a proposito di questo film, nel suo libro "Conversazioni su di me e tutto il resto", orrendamente editato in Italia da Bompiani - ma come di-mostrazione di tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento, tutto quello che aveva fatto di lui l'uomo che era.
Scorsese all'epoca era al massimo della sua maturità umana e d'artista - aveva 38 anni - e questo è film forse più intimo e religioso che abbia fatto. "Una specie di inizio: un'accettazione di tutto," lo definisce lui nel libro. "Dio non è un torturatore, ma vuole che noi abbiamo pietà di noi stessi e smettiamo di tormentarci."
E' il significato più profondo di questo capolavoro, in cui Scorsese è probabilmente anche arrivato al vertice massimo della sua arte del cinema, della regia, del racconto (un vertice comunque toccato in molti punti della sua strabiliante filmografia), con ogni aspetto - recitazione, regia, interpreti, fotografia, musica, comprimari - che raggiunge il livello di perfezione.
Un film che parla ad ogni essere umano, perché racconta di ogni essere umano. Della fatica, della tristezza, dello sconforto, del ritrovarsi, del credere, del cambiare, dell'accettare.
Per questo Raging Bull è un film immortale, che tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita.

Fabrizio Falconi - 2023


24/11/22

Il giorno dei funerali di Grace Kelly: la maschera di dolore di Cary Grant

 


Alcune volte basta soltanto una foto per esprimere un intero mondo emotivo.

E' il caso di questa foto scattata il giorno dei funerali di Grace Kelly, il 18 settembre 1982, presso la Cattedrale di Monaco, dove si tennero le esequie dopo il drammatico incidente automobilistico in cui la principessa perse la vita e che riunì membri della famiglia principesca e quella dei Kelly, ma anche tante personalità tra cui la principessa Diana , il presidente dell'Irlanda Patrick Hillery , le mogli dei presidenti francese e americano, Danielle Mitterrand e Nancy Reagan , e molti dei suoi amici come l'attore Cary Grant. 

Il legame tra Cary Grant e Grace Kelly fu, in vita, molto stretto.

"L'attrice più straordinaria di sempre," così la definì quel giorno Cary Grant. E i ricordi di tutti, sono andati alla chimica sullo schermo che tra i due era naturale e innegabile, anche se, a scapito della storia del cinema, "Caccia al ladro", ovvero "To Catch A Thief", è stata l'unica volta che hanno condiviso sul grande schermo. 

Le loro scene avventurose e seducenti insieme immortalano le strade e le ville della Costa Azzurra e hanno portato il romanticismo a nuovi livelli con un momento iconico dopo l'altro. A quanto pare, la gioia condivisa di lavorare insieme e l'ammirazione reciproca sono continuate per il resto della loro vita. 

Mentre alcuni rapporti di lavoro finiscono quando le telecamere smettono di girare, Cary Grant e Grace Kelly hanno mantenuto un'amicizia per tutta la vita, con Cary che è diventata un ospite frequente al Roc Agel dopo che Grace Kelly è diventata la Principessa Grace di Monaco.

Cary Grant ha notato il talento di Grace molto prima che si trovassero insieme sullo schermo. In un'intervista per il libro del 1987 di James Spada, Grace: The Secret Lives of a Princess, Grant ha descritto di averla vista nei suoi primi film: “L'ho riconosciuta già allora come un'attrice brillante... Lo faceva sembrare così facile. Alcune persone hanno detto che Grace era semplicemente se stessa. Beh, questa è la cosa più difficile da fare se sei un attore, perché se sei te stesso, il pubblico sente come se quella persona stesse vivendo e respirando, semplicemente essendo naturale, non "recitando" - e questa è la cosa più difficile nel mondo da fare”. 

Cary Grant, a causa del suo ruolo indiscusso di star, è stato in grado di scegliere quasi sempre i suoi film e co-protagonisti e, opportunamente, le protagoniste femminili. 

Fortunatamente, il ruolo di John Robie era perfetto per Grant, e da lì il resto è storia: Alfred Hitchcock ha riunito il suo miglior attore e attrice nella sua località preferita: la Costa Azzurra. 

Dopo le riprese, Grant dichiarò: “Ho lavorato con molte belle attrici, ma secondo me la migliore attrice con cui abbia mai lavorato è stata Grace Kelly. Ingrid, Audrey, Deborah Kerr erano attrici splendide, splendide, ma Grace era assolutamente rilassata, l'attrice più straordinaria di sempre."  

Tra loro c'era davvero un legame speciale e innegabile. 

Cary Grant fu invitato al suo matrimonio con il principe Ranieri III nel 1956 e strinse anche la sua amicizia con il principe. Secondo un'intervista con il principe Alberto II sul Daily Mail , il principe Ranieri ricorderebbe i ricordi di Grant che visitava la famiglia e raccontava barzellette ai bambini. Presumibilmente, quelle battute erano spesso sporche, ma il principe Alberto ha insistito: "È sempre stato un gentiluomo". 

Una volta che la Principessa Grace si era affermata come la nuova Principessa di Monaco, Cary Grant e la sua famiglia visitavano regolarmente "The Rock" come ospiti della coppia principesca, partecipando a eventi e galà di beneficenza con la Principessa Grace e il Principe Ranieri. 

La loro ospitalità fu ricambiata quando Grace e il principe Ranieri rimasero con la famiglia di Grant durante i loro viaggi in California. 

Condividendo battute e prendendo in giro il bell'aspetto di Grant, si dice che abbia detto "Tutti invecchiano, tranne Cary Grant". Come principessa, Grace ha istituito fondazioni, ospedali e orfanotrofi per assistenza finanziaria e rifornimenti. Ha tenuto balli di beneficenza per sostenere le sue numerose attività di beneficenza; era una vera umanitaria e filantropa. Cary Grant era spesso al suo fianco in questi eventi filantropici, che si trattasse del Ballo della Croce Rossa di Monaco, iniziato dalla Principessa Grace nel 1958, del Gala del Motion Picture and Television Relief Fund del 1971 o della "Serata di Gala a Monaco" del Dubnoff Center. nel 1981. 


29/08/22

Le incredibili circostanze che consentirono a Roman Polanski di salvarsi dall'Olocausto quando aveva 10 anni. L'emozionante incontro con i nipoti dei suoi salvatori

 

Roman Polanski adolescente, nel dopoguerra

Salvarono Roman Polanski durante la Shoah ed ora sono 'Giusti tra le nazioni', il massimo riconoscimento con cui il Mausoleo della Memoria di Yad Vashem a Gerusalemme onora chi ha protetto gli ebrei dai nazisti a rischio della propria vita. 

In Polonia un nipote di Stefania e Jan Buchala, la coppia di contadini cattolici che nascosero il piccolo Roman e lo salvarono, hanno ricevuto la legittimazione pubblica di un atto di grande coraggio. 

Quella di Polanski è una storia dal passato travagliata. Nato a Parigi nel 1933 da genitori polacchi - padre ebreo, Maurycy Liebling (in seguito Polanski), e madre cattolica, ma di origini ebraiche, Bula Katz-Przedborska - Polanski nel 1937, quando aveva solo 4 anni,  fu riportato in Polonia, mentre già la persecuzione anti ebraica era oramai all'apice nella vicina Germania e la guerra non sembrava poi così lontana.

Una scelta per molti versi incomprensibile e fatale, motivata, sembra, dal fatto che il padre di Roman temeva la persecuzione degli ebrei da parte dei francesi, sottovalutando in modo incredibile quel che stava succedendo in Germania, alle porte del suo paese. Non appena i tedeschi conquistarono la Polonia infatti, la sua famiglia fu confinata nel Ghetto di Cracovia: il padre fu poi deportato a Mauthausen mentre la madre finì ad Auschwitz. 

Roman Polanski con il padre Maurycy, sopravvissuto a Mauthausen, negli anni '70


Ma prima, i genitori cercarono di mettere in salvo il figlio, fiduciosi che potesse nascondersi in mezzo al resto della popolazione polacca. 

L'occasione fu fornita dalla madre: in quanto donna delle pulizie impiegata nel Castello Reale di Wawel, residenza del governatore nazista della Polonia Hans Frank in pieno centro di Cracovia, la donna poteva uscire dal Ghetto con un permesso

In una circostanza favorevole riuscì a portare con sé Roman insegnandogli la strada per arrivare all'appartamento di Heinrich e Casimira Wilk, una coppia di amici di famiglia cattolici

Nel marzo del 1943, prima di essere deportati, il padre portò il ragazzo nei pressi del reticolato che circondava il Ghetto e, dopo aver tranciato il filo metallico, lo fece scappare indirizzandolo verso la casa dei Wilk. 

Da loro Polanski restò nascosto per un certo periodo prima di essere trasferito da un'altra coppia di cattolici, Boleslav e Yadwiga Putek. Ma fu solo una tappa: la destinazione finale fu un isolato villaggio vicino Cracovia dove vivevano Stefania e Jan Buchala, poveri contadini con già tre figli. 

Roman Polanski sopravvisse ai nazisti e, alla fine della guerra, si riunì al padre scampato alla morte a Mauthausen. Ma non rivide più la madre, uccisa ad Auschwitz. 

Nella deposizione per Yad Vashem, il regista - come ricorda Haaretz - ha scritto: "Stefania, senza alcuna ricompensa, solo per amore degli altri, ha messo a rischio la sua vita, quella del marito e dei suoi figli, nascondendomi a casa sua per quasi 2 anni. Durante questo tempo, nonostante la povertà e la penuria di di cibo per la sua famiglia, mi ha nascosto e nutrito. Dopo la guerra, come regista, ho viaggiato per due volte in Polonia nel villaggio vicino Cracovia. Sfortunatamente non ho trovato nessun segno di vita da parte loro".

Stefania e Jan erano infatti morti entrambi nel 1953 e sepolti in una tomba poi svuotata per far posto ad altri deceduti. Ma il regista non si è arreso: dopo infinite ricerche e indagini negli archivi, ha finalmente rintracciato un loro congiunto

E quindi è stato Stanislaw Buchala a ricevere il riconoscimento di Yad Vashem a nome dei parenti che hanno salvato un piccolo ragazzino ebreo diventato un grande regista

Roman Polanski con Stanislaw Buchala, nipote della coppia di contadini che salvarono la vita a lui, bambino


Polanski utilizzò i suoi ricordi di bambino nel suo film più commovente, Il Pianista, e recentemente è tornato in patria paterna realizzando, nel ruolo di protagonista e non dietro la macchina da presa, il documentario Polanski Horowitz Hometown. Nonostante i suoi 89 anni appena compiuti, lo scorso 18 agosto, il regista resta sempre attivo e questo documentario è stato premiato al Festival di Cracovia. 

Ma qual è la trama di questa opera? Accompagnato dal suo amico di sempre e sopravvissuto alla Shoah, uno degli ebrei salvati da Oskar Schindler, il celebre fotografo Ryszard Horowitz che conobbe, durante la guerra, nel Ghetto di Cracovia, Polanski si è confrontato con il suo doloroso passato

Come ha sottolineato Mateusz Kudla, regista e produttore del documentario, messo in atto assieme ad Anna Kokoszka Romer, il filmato si concentra “sulla memoria, sul destino e sul trauma. Attraverso questi due personaggi, che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, – ha proseguito Kudla in un’intervista all’Agenzia di stampa francese France Press (AFP) – abbiamo voluto mostrare la tragedia di tutti gli abitanti del Ghetto che non ce l’hanno fatta”. 

Il documentario è forte ed emozionante in alcune scene. Infatti, in una delle sequenze, Polanski ricorda di aver visto un ufficiale nazista sparare a una donna anziana, con il sangue che schizzava dappertutto. “Terrorizzato, corsi attraverso il corridoio dietro di me e mi nascosi nelle scale” ha rievocato il regista nel filmato. Nonostante all’epoca avesse solo sette anni, quando la Seconda Guerra Mondiale cominciò, Roman ha trattenuto nella memoria ogni dettaglio. 

All’amico Horowitz, Polanski racconta che quell’episodio fu “il mio primo incontro con l’orrore”. 

Polanski a 18 anni con un amico

Un momento molto commovente della pellicola è l’incontro fra Polanski, visibilmente commosso, e i nipoti di Stefania e Jan Buchala, i contadini polacchi cattolici che lo nascosero dai nazisti.

Come ha puntualizzato il Times of Israel, il documentario Hometown si concentra sull’infanzia di Polanski, evitando qualsiasi riferimento agli scandali da lui vissuti, che l’hanno bandito da Hollywood e gli precludono il ritorno in America per “timore di essere arrestato”. Soddisfatti del lavoro svolto, i registi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka Romer hanno dichiarato che “si tratta di qualcosa che rende Roman Polanski testimone della storia e utile a impedire che tutto questo possa accadere di nuovo in futuro”. Si sono poi augurati che presto il documentario possa essere distribuito e disponibile online o in streaming.

15/10/21

Davvero a Stephen King non piacque lo Shining (tratto dal suo romanzo) di Stanlely Kubrick? Leggenda di una rivalità

 


Una delle leggende più persistenti della storia del cinema è il dissidio - vero o presunto - tra Stephen King, l'autore del romanzo Shining, e Stanley Kubrick, che ne trasse il meraviglioso film del 1980, divenuto una delle pietre miliari del cinema degli ultimi 50 anni. 
Ma cosa c'è di vero? 

Parlando del tema del film, Kubrick affermò che "c'è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella personalità umana. C'è un lato malvagio in essa. Una delle cose che le storie dell'orrore possono fare è mostrarci gli archetipi dell'inconscio; possiamo vedere il lato oscuro senza doverlo affrontare direttamente". 

Stephen King nei mesi seguenti l'uscita del film fu citato per aver affermato che, sebbene Kubrick avesse realizzato un film con immagini memorabili, il suo fosse un adattamento scadente e addirittura come fosse l'unico adattamento dei suoi romanzi che poteva "ricordare di odiare". 

Tuttavia, nel suo libro di saggistica del 1981 Danse Macabre, King ha osservato che Kubrick era tra quei "registi le cui visioni particolari sono così chiare e feroci che... la paura del fallimento non diventa mai un fattore nell'equazione", commentando che "anche quando un regista come Stanley Kubrick fa un tale esasperante, film perverso e deludente come Shining , conserva in qualche modo una brillantezza che è indiscutibile; è semplicemente lì" e ha elencato il film di Kubrick tra quelli che secondo lui hanno "contribuito qualcosa di valore al genere horror". 

Prima del film del 1980, King diceva spesso di aver prestato poca attenzione agli adattamenti cinematografici del suo lavoro. 

Il romanzo, scritto mentre King soffriva di alcolismo, contiene un elemento autobiografico. King ha espresso disappunto per il fatto che alcuni temi, come la disintegrazione della famiglia e i pericoli dell'alcolismo, siano meno presenti nel film

King ha anche considerato il casting di Nicholson come un errore, sostenendo che avrebbe portato a una rapida realizzazione tra il pubblico che Jack sarebbe impazzito, a causa del famoso ruolo di Nicholson come Randle McMurphy in Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975).

King aveva suggerito che un attore più "comune" come Jon Voight , Christopher Reeve o Michael Moriarty interpretasse il ruolo, in modo che la discesa di Jack nella follia fosse stata più snervante. 

Nel romanzo la storia assume il punto di vista del bambino, mentre nel film il protagonista è il padre; infatti, una delle differenze più notevoli risiede nel profilo psicologico di Jack Torrance. 

Secondo il romanzo, il personaggio rappresentava un uomo ordinario ed equilibrato che a poco a poco perde il controllo; Inoltre, la narrazione scritta rifletteva i tratti personali dell'autore stesso in quel momento (segnato da insonnia e alcolismo), oltre che dall'abuso. 

C'è qualche allusione a questi episodi nella versione americana del film. 

In un'intervista con la BBC, King ha criticato la performance di Duvall, affermando che il personaggio è "fondamentalmente lì solo per urlare ed essere stupido, e non è la donna di cui ho scritto"

La Wendy di King è una donna forte e indipendente a livello professionale ed emotivo; a Kubrick, d'altra parte, non sembrava coerente che una donna del genere avesse sopportato a lungo la personalità di Jack Torrance. 

King una volta ha suggerito che non gli piaceva la minimizzazione del soprannaturale da parte del film; King aveva immaginato Jack come una vittima delle forze genuinamente esterne che infestavano l'hotel, mentre King sentiva che Kubrick aveva visto l'infestazione e la sua conseguente malignità come provenienti dall'interno di Jack stesso. 

Nell'ottobre 2013, tuttavia, la giornalista Laura Miller ha scritto che la discrepanza tra i due era quasi l'esatto opposto: il Jack Torrance del romanzo è stato corrotto dalle sue stesse scelte – in particolare dall'alcolismo – mentre nell'adattamento di Kubrick le cause sono in realtà più surreale e ambiguo: King è, essenzialmente, un romanziere di moralità. Le decisioni che prendono i suoi personaggi – che si tratti di affrontare un branco di vampiri o di rompere 10 anni di sobrietà – sono ciò che conta per lui. 

Ma in Shining di Kubrick , i personaggi sono in gran parte nella morsa di forze al di fuori del loro controllo. È un film in cui si verifica anche la violenza domestica, mentre il romanzo di King parla della violenza domestica come scelta che alcuni uomini fanno quando si rifiutano di abbandonare un diritto delirante e difensivo. 

Per come la vede King, Kubrick tratta i suoi personaggi come "insetti" perché il regista non li considera davvero capaci di plasmare il proprio destino. Tutto ciò che fanno è subordinato a una forza prepotente e irresistibile, che è l'estetica altamente sviluppata di Kubrick; sono i suoi schiavi. Nel romanzo il mostro è Jack. Nel film di Kubrick, il mostro è Kubrick. 

King in seguito ha criticato il film e Kubrick come regista: Parti del film sono agghiaccianti, cariche di un inesorabile terrore claustrofobico, ma altre cadono nel vuoto. Non che la religione debba essere coinvolta nell'orrore, ma uno scettico viscerale come Kubrick non è riuscito a comprendere la pura malvagità disumana dell'Overlook Hotel. Così ha cercato, invece, il male nei personaggi e ha trasformato il film in una tragedia domestica con solo sfumature vagamente soprannaturali. Questo era il difetto di base: poiché non poteva credere, non poteva rendere il film credibile agli altri. 

Quello che sostanzialmente non va nella versione di Shining di Kubrick, secondo King, è che è un film di un uomo che pensa troppo e si sente troppo poco; ed è per questo che, nonostante tutti i suoi effetti virtuosistici, non ti prende mai alla gola e si blocca come dovrebbe fare il vero horror. 

Mark Browning, un critico del lavoro di King, ha osservato che i romanzi di King contengono spesso una chiusura narrativa che completa la storia, cosa che manca al film di Kubrick

Browning ha infatti sostenuto che King ha esattamente il problema opposto di cui ha accusato Kubrick. King, crede, "sente troppo e pensa troppo poco"

King non ha mai nascosto il suo rifiuto del risultato finale del progetto cinematografico e ha accusato Kubrick di non comprendere le regole del genere horror. 

King è stato anche deluso dalla decisione di Kubrick di non girare allo Stanley Hotel a Estes Park, in Colorado , che ha ispirato la storia (una decisione presa da Kubrick poiché l'hotel non disponeva di neve ed elettricità sufficienti). 

Tuttavia, King alla fine ha supervisionato l'adattamento televisivo del 1997 intitolato anche The Shining , girato allo Stanley Hotel. 

L'animosità di King verso l'adattamento di Kubrick si è però attenuata nel tempo. Durante un'intervista sul canale Bravo , King ha dichiarato che la prima volta che ha visto l'adattamento di Kubrick, l'ha trovato "terribilmente inquietante"

Tuttavia, scrivendo nella postfazione di Doctor Sleep , King ha professato una continua insoddisfazione per il film di Kubrick. Ha detto di ciò "... ovviamente c'era il film di Stanley Kubrick che molti sembrano ricordare - per ragioni che non ho mai capito - come uno dei film più spaventosi che abbiano mai visto."

Dopo la produzione dell'adattamento cinematografico di Doctor Sleep , in cui il regista Mike Flanagan ha riconciliato le differenze tra la versione del romanzo e quella del film di Shining , King era così soddisfatto del risultato che ha detto: "Tutto ciò che non mi è mai piaciuto della versione di Kubrick di Shining è stata riscattata qui." 

Kubrick, ovviamente, nel suo proverbiale, mitologico silenzio, non ha mai risposto direttamente alle accuse di Stephen King. Chi conosce la sua filmografia, sa che Kubrick sceglie un testo iniziale, romanzo o racconto che sia, per manipolarlo, plasmarlo completamente e fare qualcosa di completamente nuovo, e di completamente suo. 


13/04/21

Salvataggio in Extremis per l' "Azzurro Scipioni", sala mitica di Silvano Agosti a Roma






Bnl (gruppo Bnp Paribas), interviene per salvare l'Azzurro Scipioni, storica sala del cinema di qualita' romano

In seguito alle difficolta' subite da tutte le sale cinematografiche italiane, per via della pandemia, Silvano Agosti, regista, sceneggiatore e fondatore del cinema Azzurro Scipioni, aveva considerato inevitabile la chiusura definitiva di questa "cattedrale" del cinema d'autore, che per 40 anni, ha permesso agli artisti di incontrare il proprio pubblico

Per preservare le attività di questo importante luogo culturale, BNL e la Capogruppo BNP Paribas hanno deciso - informa una nota dell'istituto - di intervenire per dare continuita' e nuova linfa al cinema Azzurro Scipioni attraverso una proposta di partnership per un periodo di 5 anni

Questo impegno permettera', dopo una ristrutturazione conservativa dei locali, di rinnovare la sala, darle nuova vita ed aprire nuove prospettive di sviluppo. "BNL e il Gruppo BNP Paribas sono lieti di sostenere la continuita' dell'Azzurro Scipioni, che occupa un posto importante nella vita culturale romana ed e' parte integrante della storia del grande cinema italiano.

 Sono convinto che il futuro della settima arte non sara' scritto senza i cinema. 

Piu' che mai, dobbiamo mostrare loro il nostro sostegno collettivo e tutelare questa parte del patrimonio cinematografico", ha dichiaratpo Jean-Laurent Bonnafe', Amministratore Delegato Gruppo BNP Paribas "BNL e BNP Paribas si propongono di rilanciare e rivalorizzare le attivita' dell'Azzurro Scipioni in continuita' con la filosofia del suo ideatore. 

L'arte cinematografica ha valenza universale, supera i confini e fa dialogare le diverse culture: valori che fanno parte dell'identita' multiculturale ed inclusiva del Gruppo BNP Paribas", ha dichiarato Luigi Abete, Presidente di BNL. 

La proposta - basata sul presupposto che si realizzi la continuita' del rapporto contrattuale di locazione con la proprieta' dell'immobile - punta a sviluppare una partnership che supporti le iniziative del cinema Azzurro Scipioni la cui programmazione e' curata dall'Associazione Culturale L'Immagine, presieduta da Silvano Agosti

Il cinema Azzurro Scipioni nacque nel 1983 da un'idea di Silvano Agosti, regista sceneggiatore e montatore, che lamentava l'impossibilita' per film indipendenti di essere proiettati nelle normali sale cinematografiche. Egli desiderava creare un luogo dedicato ai capolavori senza tempo, al cinema d'autore, alle pellicole recenti e a tutte le sue opere personali. 

In quasi quarant'anni di attivita', l'Azzurro Scipioni ha ospitato i grandi del cinema italiano: Antonioni, Fellini, Monicelli, Scola, Bertolucci, Bellocchio, e ancora Storaro, Piovani. 

Fedele al suo desiderio di far conoscere al pubblico opere di qualita', Agosti ha riportato sulla scena film spariti dalla programmazione, spesso dimenticati

Parallelamente a queste proiezioni, nelle sale del cinema si sono tenute numerosi eventi culturali, come i recital di poesia di primavera o i concerti estemporanei di grandi compositori per il cinema come Ennio Morricone. 

In Europa - nello specifico in Italia con BNL, ma anche in Belgio con BNP Paribas Fortis e in Francia - BNP Paribas ha forti legami con il cinema, che sostiene da oltre 100 anni. 

Il suo impegno si esprime a piu' livelli: finanziamento di film e produttori, aiuti per giovani registi, sostegno alla creazione, innovazione o persino restauro del patrimonio cinematografico. Il Gruppo e' anche uno dei principali partner di 40 diversi festival cinematografici in Europa. 

E dall'inizio della crisi sanitaria, il Gruppo - si legge nella nota - ha sempre cercato di sostenere l'intera industria cinematografica per aiutarla a superare questo periodo particolarmente difficile. Con il Cinema BNL ha un legame da oltre 80 anni durante i quali ha finanziato il settore credendo nel suo valore artistico, sociale ed economico. La Banca e' vicina al mondo cinematografico attraverso diversi strumenti creditizi e agevolativi e ne supporta tutta la filiera: dall'ideazione dei film alle fasi di realizzazione e distribuzione, fino alle innovazioni tecnologiche e alle ristrutturazioni delle sale di proiezione. Un impegno che ha permesso di realizzare in questi anni oltre 5.000 film, molti dei quali hanno fatto la storia del cinema italiano e ricevuto importanti riconoscimenti nazionali ed internazionali. 

11/03/21

Centenario di Nino Manfredi : Due libri ne raccontano i segreti

 

Nino Manfredi con Monica Vitti

A cento anni dalla nascita, Nino Manfredi viene festeggiato anche in libreria. 

Prezioso il ritratto inedito e commosso 'Un friccico ner core'  (euro18) del figlio Luca Manfredi, che esce l'11 marzo per Rai Libri, disponibile anche negli store digitali. 

 Entrato nelle case di tutti gli italiani con la naturalezza di un amico di famiglia, Nino Manfredi ci ha stupito, emozionato, fatto ridere e commosso in sessant'anni di carriera, dal primo trionfo a Canzonissima nel 1959 ai suoi cento e' piu' film, per il grande e piccolo schermo, da 'Il padre di famiglia' a 'Straziami ma di baci saziami' e 'Pane e cioccolata' all'indimenticabile Geppetto nello sceneggiato televisivo 'Le avventure di Pinocchio' di Luigi Comencini

Saturnino Manfredi, vero nome dell'attore, nato il 22 marzo 1921 a Castro dei Volsci, in provincia di Frosinone, aveva mille qualita', ma anche tante debolezze, fragilita' e paure: un "impasto" complicato di ingredienti umani, che hanno plasmato l'attore, il marito, il padre e il nonno

Come racconta il figlio Luca, regista e sceneggiatore cinematografico e televisivo, era un po' come il pane casareccio della sua terra ciociara: compatto e saporito fuori, ma con tanti "buchi" nascosti al suo interno. 

Dando voce ai 100 volti di suo padre Luca Manfredi ha mostrato un lato diverso, privato e intimo dell'artista a tutto tondo che e' stato Nino Manfredi. 

Alla riscoperta dell'uomo e dell'artista invita anche l'imponente biografia 'ALLA RICERCA DI NINO MANFREDI' (pp 448, euro 25) di Andrea Ciaffaroni, tra i maggiori esperti italiani di cinema comico italiano, che esce il 18 marzo per Sagoma editore ed e' stata realizzata grazie al prezioso supporto del Centro Sperimentale di Cinematografia e impreziosita da quasi 150 foto rare e molte inedite provenienti anche dall'archivio personale della famiglia Manfredi

Il libro e' il frutto di numerosissime interviste e lunghe indagini condotte in decine di archivi con il recupero di soggetti inediti e la voce della moglie Erminia Ferrari. Con la collaborazione di Carlo Amatetti, la biografia e' anche arricchita dai contributi dei critici Alberto Anile e Alberto Crespi. 

15/02/21

100 anni dalla nascita di Giulietta Masina: Un libro la ricorda

 



Giulietta Masina avrebbe compiuto 100 anni il 22 febbraio 2021. Per festeggiare il centenario dalla nascita della grande attrice, moglie di Federico Fellini, la casa editrice Edizioni Sabinae con il Centro Sperimentale di Cinematografia pubblica la biografia 'Giulietta Masina' di Gianfranco Angelucci, scrittore ed esegeta felliniano, che arriva in libreria il 20 febbraio.

Nata a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna il 22 febbraio 1921, Giulia Anna "Giulietta" Masina, morta il 23 marzo 1994 a Roma, ha conquistato le platee di tutto il mondo con personaggi indimenticabili come Gelsomina ne 'La strada' e Cabiria in 'Le notti di Cabiria' diretta da Fellini, che hanno vinto entrambi l'Oscar al miglior film straniero. 

Indelebile anche il personaggio di Fortunella nell'omonimo film del 1958 di Eduardo De Filippo. 

Oltre che dal marito, con cui ha formato una delle coppie piu' celebri del cinema italiano, e' stata diretta dai maggiori registi italiani e stranieri, da Roberto Rossellini in 'Paisa'' dove ha fatto la sua prima apparizione, ad Alberto Lattuada in 'Senza pieta'' e Luigi Comencini in 'Persiane chiuse'.

Durante la sua lunga carriera ha vinto numerosi premi tra cui un David di Donatello piu' due speciali, quattro Nastri d'Argento e un Globo d'oro. 

Una delle ragioni di questo libro e' che Giulietta "era davvero l'altra meta' del cielo di Federico Fellini, e se non si conosce lei, la sua vita, la sua vicenda, la sua arte, si rischia di non conoscere abbastanza da vicino neppure Federico" spiega la nota editoriale. 

"Questa creatura umana che Giulietta ha saputo incarnare e tratteggiare con tanta ammirevole precisione e trepidazione, e' semplicemente la donna portatrice di vita, senza la quale non esisterebbe nessuno di noi, ne' il popolo di questa terra, ne' il futuro che ci attende, ne' l'arte, ne' la creativita', ne' la memoria, ne' i viaggi interstellari che forse condurranno il genere umano a colonizzare nuovi mondi, chissa' in quali remote contrade del cosmo" dice Angelucci. 

Il volume contiene un ricco apparato fotografico che proviene dall'Archivio fotografico del Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale. 




GIANFRANCO ANGELUCCI 
GIULIETTA MASINA 
EDIZIONI SABINAE- CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA 
PP 242, EURO 18,00

22/06/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 70. "8½" di Federico Fellini (Italia, 1963)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 70. "" di Federico Fellini (Italia, 1963)

E' ormai per la critica unanime uno dei film capitali nella storia del cinema. E talmente conosciuto e singolare - genialmente innovativo all'epoca - nella struttura e nello stesso sviluppo narrativo che non serve tornarvi. 

E' più interessante invece dare voce allo stesso Fellini, che così parlava del suo film - su invito del settimanale - a corredo delle immagini di Tazio Secchiaroli sul set di Otto e mezzo, pubblicate in anteprima assoluta da L'Europeo del 6 gennaio 1963:

Forse questa è solo la storia di un film che non ho fatto.  

Mi ricordo che all'inizio, parlo almeno di un anno e mezzo fa, volevo mettere insieme un ritratto a più dimensioni di un personaggio sui quarantacinque anni che, in un momento di sosta forzata (il fegato, una cura termale in un posto tipo Chianciano, la giornata scandita da orari nuovi e precisi, il riposo, il silenzio, e intorno una folla insolita e malata, sovrani nordici e contadine, vecchi cardinali e mantenute un po' acciaccate), sprofonda pigramente in una specie di verifica intima. 

Quasi inevitabilmente gli passano davanti fantasie e ricordi, sogni e presentimenti.  Non riuscivo, all'inizio, a dargli una carta d'identità, al protagonista.  Restava un personaggio generico, piombato in una certa situazione, e credevo che non fosse necessario definirlo meglio.  

Ma il film non riusciva a fare un passo avanti. Per quanto se ne discutesse con gli sceneggiatori, Flaiano, Pinelli e Rondi, non restava altro che l'idea del film.  Poi il personaggio è diventato finalmente un regista che tenta di riunire i brandelli della sua vita passata per ricavarne un senso e per tentare di capire. Anche lui ha un film da fare, che non riesce a fare.

A un certo punto lo troviamo perfino ai piedi di una gigantesca rampa per missili: da quella rampa, nel suo film, dovrebbe partire un'astronave, con il compito di portare in salvo, verso chissà quale altro pianeta, i resti dell'umanità distrutta dalla peste atomica.    Proprio lì, sotto il castello di tubi e di pedane, il mio protagonista dice a se stesso: 

"Mi sembrava di avere le idee chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi sembrava di avere qualcosa di molto semplice da dire: un film che servisse, un po' a tutti, a seppellire quello che di morto ci portiamo dentro. Invece sono io il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio un bel niente.  E adesso mi trovo qui con questa torre tra i piedi e una gran confusione nella testa. Chissà a che punto avrò sbagliato strada.

Un capolavoro che non smette, dopo 60 anni, di ricevere applausi da ogni parte del mondo.

8 ½ 
Regia di Federico Fellini
Italia, 1963 
con Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Sandra Milo, Rossella Falk. 
durata 138 minuti 



24/02/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)

Uno dei più bei film di sempre del cinema francese. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un gangster che lascia la Cote d'Azur per andare a prendere dei soldi a Parigi; lungo il percorso uccide  un poliziotto che lo vuole fermare per un controllo; a Parigi ritrova l'amante americana (Jean Seberg) e si dà da fare per rintracciare l'emissario, sempre braccato dalla polizia.

Jean-Luc Godard firma con quest'opera, il cui soggetto gli venne ceduto da François Truffaut nel 1959, (anno in cui quest'ultimo presentò a Cannes I 400 colpi), una sorta di manifesto della Nouvelle Vague, movimento formato da giovani e promettenti registi francesi, che nacque alla fine degli anni '50 con spirito di contestazione e innovazione di quelle categorie ormai solidificate del cinema del passato. 

Sfruttando la lezione dell'esperienza neorealista del cinema italiano e del cinema di genere noir americano, A' bout de souffle rivoluziona ogni canone, facendosi bandiera, filologicamente, di una estetica esistenzialista, alla quale il mezzo cinematografico - riprese sempre mobili e sconnesse, montaggio frammentato, particolari iperrealistici, attenzione maniacale per gesti e movimenti degli attori - presta al pieno le sue possibilità tecnico/espressive. 

Anche filosoficamente, il film, è un tributo alle tematiche esistenzialiste: Belmondo e Seberg incarnano i ruoli di due irregolari, che non possono e non vogliono, non potendo, sottostare alle regole grigie della società, e che scelgono di vivere con piena consapevolezza le loro volatili esistenze fino alla fine, fino alla reale eventualità che siano bruciate del tutto. 


Una lezione di stile e di coerenza che ancora oggi appassiona e non perde colpi.



07/10/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 42. Un Americano a Parigi ("An American in Paris") di Vincent Minnelli, 1951


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 42. Un Americano a Parigi ("An American in  Paris") di Vincent Minnelli, 1951

Vincitore di 6 Oscar e di innumerevoli altri premi in tutto il mondo, nell'anno di grazia 1951, nella piena euforia del dopoguerra, Un americano a Parigi (An American in Paris), diretto da Vincente Minnelli, celebrò il trionfo del musical, che accordava la joie de vivre con la formale perfezione della tradizione del balletto e delle musiche americane.

Il film prende infatti nome dall'omonimo poema sinfonico di George Gershwin, contenuto nelle musiche dell'opera insieme al Concerto in fa, dello stesso Gershwin. 

La trama, esile quanto basta diede modo di esprimere il meglio al talento apollineo di Gene Kelly e a quello della sua partner, l'esordiente francese Leslie Caron. 

A Parigi, nel secondo dopoguerra, si ritrovano vicini di casa due americani: Jerry è un pittore mentre Adam suona il piano. Il duo, rinforzato da Henri, un cantante francese grande amico di Adam, esegue alcuni numeri nel caffè sottostante. Henri confessa felice all'amico di aver incontrato la donna della sua vita e di essere sul punto di sposarsi. 

Jerry, intanto, prepara una mostra dei suoi quadri, finanziato da Milo Roberts, una ricca americana. Incontra Lise, una giovane orfana francese, che non gli rivela niente di sé stessa. La ragazza è ingenua ma vitale e Jerry non può fare a meno di innamorarsene.

Lascia Milo e si ripromette di dichiarare il suo amore a Lise. Al ballo delle Belle Arti, annuale appuntamento durante il quale si dovrebbe coronare il sogno dei due giovani, Lise rivela a Jerry il suo segreto: durante la seconda guerra mondiale, poiché i suoi genitori erano nella resistenza, era stata affidata alle cure di un uomo che si è occupato di lei anche dopo. In pratica quest'uomo le ha salvato la vita rischiando la propria e con il tempo è nato un sentimento che dovrebbe portarli all'altare. Quell'uomo è Henri. Jerry e Lise perciò si lasciano. La notte d'incanto sta finendo. 

Dall'alto di una terrazza, Jerry la vede giù in strada che sta per andarsene su un taxi con l'amico. Ma Henri, resosi conto che la ragazza accetterebbe di sposarlo solo per gratitudine, la lascia libera. Dal balcone, Jerry vede finalmente Lise che corre su per le scale verso di lui.

In una trama così concatenata, Vincent Minnelli ebbe modo di intrecciare i temi fondamentali dell'epoca: la riscoperta dell'Europa, liberata finalmente dall'incubo nazista, le ferite della guerra dalla parte degli occupati e da quella dei liberatori; la rinascita della vita bohèmienne, della creatività artistica, dopo gli anni di buio, l'emancipazione del modello femminile che finalmente cominciava a uscire dai cliché (Nina Foch incarna il ruolo della ricca mecenate, Leslie Caron quello della giovane che riesce a liberarsi del suo passato). 

Minnelli regista e Kelly ballerino-cantante-attore-coreografo, costruiscono non solo un capolavoro del cinema, ma un'opera composita che figura benissimo nell'arte del Novecento. Naturalmente è determinante la musica di George Gershwin che compose forse la sua più importante sinfonia, fatta apposta per far brillare le prerogative del cinema. Tutte le canzoni (cantate oltre che da Kelly anche dallo "chansonnier" Paul Guétary, idolo parigino) sono classici indimenticabili.

Un Americano a Parigi 
(An American in Paris)
Regia di Vincente Minnelli. 
Usa 1951 
con Nina Foch, Gene Kelly, Leslie Caron, Oscar Levant, Georges Guétary, Mary Young. 
durata 105 minuti. 



05/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 33. "Metropolis" di Fritz Lang (1926)



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100 film da salvare alla fine del mondo: 33. "Metropolis" di Fritz Lang (1926)

Pochi altri film nella storia del cinema hanno influenzato tutto ciò che è venuto dopo, come il capolavoro distopico-kolossal diretto da Fritz Lang nel 1926.


Le immagini del film ispirano da decenni il mondo del cinema, della pubblicità e della musica.  E tanto per citare qualche nome, il Ridley Scott di Blade Runner, il George Lucas di Star Wars o il Terry Gilliam di Brazil sono enormemente debitori al capolavoro tedesco.

L'idea di Metropolis venne a Fritz Lang ammirando lo skyline notturno di New York dal transatlantico con il quale aveva raggiunto gli Stati Uniti qualche anno prima, per la messa in scena del suo I Nibelunghi.

Metropolis venne realizzato dalla casa di produzione tedesca UFA e dal produttore Erich Pommer con una ricchezza di mezzi assolutamente incredibile, con ben diciannove mesi di riprese e un totale di 310 giorni e 60 notti di riprese, 600.000 metri di pellicola impressionata, 36.000 comparse tra uomini, donne e bambini per un costo totale di 50 milioni di marchi tedeschi dell'epoca (che provocò la bancarotta della UFA, la quale fu rilevata dell'editore Hugenberg, membro del partito nazista, che la trasformò nella fabbrica di consenso del Regime.

Metropolis è un film modernissimo e visionario, rappresentando la società della megalopoli Metropolis, che nel 2026 (ci siamo quasi arrivati!) è spaccata in due: vicini al cielo, in vetta ai loro immensi grattacieli, gli aristocratici godono di un'esistenza felice, immersi nel lusso; mentre nelle tenebre delle sconfinate catacombe sotterranee, all'ombra di mostruose macchine che ne dispongono l'esistenza quotidiana, gli operai vivono e lavorano come formiche secondo ritmi ossessivi e disumani.

Per stroncare la ribellione degli operai, il supermagnate Fredersen ordina allo scienziato-mago Rotwang di costruire un robot-femmina che, assunta l'identità della dolce operaia Maria, seduca le masse di lavoratori e le inciti alla rivolta, offrendo così alla classe dominante l'alibi per reprimere una volta per tutte ogni ribellione.

Ma la situazione sfugge ad ogni controllo e a salvare Metropolis saranno proprio il cuore della vera Maria e del suo innamorato, il figlio di Fredersen.

Una parabola definitiva sul potere e le masse, che ha segnato la storia del Novecento e continua a gravitare con i suoi potenti simboli anche sulla contemporaneità. 

Metropolis 
di Fritz Lang
Germania, 1926
durata da 80 minuti a 200 minuti a seconda delle diverse versioni
con Alfred Abel

notizie tratte da "Un secolo di grande cinema", "Il grande cinema di Ciak", vol.II  Milano, Aprile 2000




12/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 11. "Quarto Potere" ("Citizen Kane") di Orson Welles (1941)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 11. "Quarto Potere" (Citizen Kane) di Orson Welles (1941)

Quarto potere (Citizen Kane) non è soltanto un capolavoro assoluto della storia del cinema, ma anche una formulazione esaustiva del puro talento artistico: basti pensare che fu scritto, diretto, prodotto e interpretato, nel 1941 da Orson Welles, che all'epoca aveva solo 25 anni ed era alla sua opera prima, al suo primo lungometraggio, una cosa che lascia allibiti e che specie oggi è difficilmente immaginabile. 

La cosa che lascia sbigottiti ancora oggi non sono soltanto il talento visionario e la straordinaria padronanza tecnica del giovane Welles, ma anche le formidabili implicazioni di un'opera che ancora oggi affascina, inquieta, suscita domande senza risposta, e che rappresenta una delle più profonde meditazioni sulla natura umana, sul rapporto tra potere e informazione, sulla politica e sulla incapacità d'amare. 

Per realizzarlo, Welles si ispirò alla biografia del magnate dell'industria del legno e dell'editoria William Randolph Hearst, che il regista ribattezzò Charles Foster Kane (interpretato dallo stesso Welles).

Attraverso una incredibile - per l'epoca, e primo esempio assoluto - struttura narrativa che analizza la figura di Kane attraverso cinque racconti e cinque prospettive diverse, con continui flashback e inserti, Welles ricostruisce la vita del magnate, la sua solitudine nella  gigantesca residenza dove abita (Xanadu, nella versione italiana Candalù), incapace di amare veramente  qualcuno o qualcosa che non sia il potere, e dove muore abbandonato da tutti.

Jorge Luis Borges definì il maestoso affresco come un "giallo metafisico", e tale in realtà è, perché Citizen Kane, alla stregua di un moderno biopic, mostra e approfondisce la figura e la vita di Kane, senza mai arrivare a conclusioni definitive, anche perché il nucleo fondativo della sua personalità - si scopre lungo la narrazione - è rappresentato da un enigmatico trauma infantile: l'allontanamento dai suoi genitori, fortemente voluto dalla madre allo scopo di affidarlo alla tutela di un uomo d'affari, incaricato di amministrare la sua smisurata eredità. 

Lo spettatore scopre così che Kane, giovanissimo erede di una colossale fortuna, è stato letteralmente strappato al suo mondo d'infanzia, elaborando nel suo mondo interiore una concezione dell'amore come possesso, come proprietà, come merce. 

Ribelle, direttore straordinario, megalomane, marito arido di sentimenti, padrone ferocemente eccentrico, pazzo: Kane è tutto questo, ma il suo mistero, collegato al vaneggiamento che ruota intorno ad una parola ("Rosebud" in inglese, "Rosabella" in italiano), verrà svelato solo molto parzialmente in una memorabile scena finale. 

Quella parola che Kane aveva pronunciato al termine di una terribile scena in cui il magnate distrugge la camera da letto della moglie Susan sotto gli occhi di lei, fermandosi solo quando il suo sguardo si fissa su una boule à neige, una palla di vetro con la neve.

Geniale decostruzione del Sogno Americano, Quarto Potere, il film fu un clamoroso fiasco al botteghino, e fortemente boicottato dai media e dai giornali che erano in mano al vero Hearst, e vinse incredibilmente una sola statuetta nella corsa agli Oscar (nonostante 9 candidature): quella minore per la sceneggiatura.

Il film, però, a partire dal dopoguerra, si prese una grande rivincita, lanciata soprattutto dalla critica europea, divenendo in breve tempo un punto di riferimento assoluto, essendo considerato uno dei migliori film in assoluto della storia del cinema.

Fabrizio Falconi




26/11/18

E' morto Bernardo Bertolucci - Un ricordo personale.




Qualcuno scrive giustamente che è morto oggi l'ultimo dei grandi registi italiani. Bernardo Bertolucci ci ha lasciati a 77 anni, dopo che una malattia lo ha penalizzato pesantemente nel fisico negli ultimi anni. 

In queste ore mi torna alla mente un ricordo personale, che nella sua semplicità racconta molto di chi fosse Bertolucci, di quale fosse la sua passione per il cinema.

Era l'estate del 1989, un giorno di luglio. La bellissima, oggi così rimpianta, Estate Romana di quegli anni bellissimi a Roma, figlia del talento geniale ed estroverso di Renato Nicolini. 

Nel programma di quell'anno - ricchissimo come sempre -  c'era anche un evento da ricordare: la proiezione all'aperto, nella immensa arena del Circo Massimo, gratuita de L'Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, il kolossal italiano (ah, che tempi!) e co-prodotto da Cina e Regno Unito, che l'anno precedente aveva sbancato agli Oscar.

Il film infatti  raccolse addirittura 9 statuette alla Cerimonia di quell'anno - tra cui quelle per il miglior film, la miglior regia, la miglior fotografia di Vittorio Storaro e la migliore colonna sonora firmata da Ryuichi Sakamoto e David Byrne.

Grazie alla messe di premi ricevuti e soprattutto dei notevoli incassi in tutto il mondo, il film di Bertolucci segnò, dopo molto tempo, una sorta di riscatto dei film storici, o del cinema-spettacolo nella tradizione di Cecil B. DeMille.

Il film era uscito in Italia il 23 ottobre 1987 e negli Usa il 18 novembre e gli incassi furono enormi: la pellicola raggiunse quasi 44 milioni di dollari negli Stati Uniti, per un totale di oltre 78 milioni di dollari. In Italia fu il 1° film per incassi della stagione 1987-88.

In quella estate del 1989, dunque, Nicolini decise di invitare Bertolucci per una proiezione su uno schermo enorme - probabilmente il più grande su quale sia mai stato proiettato quel film - che fosse un vero godimento per la gente di Roma. 

Risposero in tanti e io fra loro.  Lo schermo era posizionato dalla parte del Palazzo dell'Anagrafe, mentre i posti a sedere davanti allo schermo erano limitati. Si supponeva che molti avrebbero scelto di vedere il lungo film, comodamente sdraiati sul prato del Circo (che allora ancora esisteva e non si era ridotto ad una landa desertica come oggi).  

Insieme ad alcuni amici, ero seduto sul prato, alla destra della spina centrale, pronto a godermi il film.

Subito dopo i titoli di testa, mi accorsi di uno che completamente sdraiato sul prato, a pochi passi da noi, seguiva la proiezione con la testa sul palmo della mano. Era Bertolucci. 

Rimase in quella posizione solo per pochi secondi. Si alzò poco dopo in piedi, cominciando a muovere passi a destra e sinistra. Era da solo. Si avvicinò con discrezione a noi. Ci chiese, sottovoce, come secondo noi si vedeva il suo film. Ci sembrava che l'immagine fosse distorta, un po' allungata verso l'alto ?  Le immagini erano bene a fuoco ?

Rispondemmo che sembrava tutto perfetto e lo ringraziammo.

Ma lui non sembrava soddisfatto.

Lo seguimmo con lo sguardo mentre attraversava il prato da una parte all'altra, senza mai staccare gli occhi dall'enorme schermo, fermandosi di tanto in tanto a parlare con qualcuno degli spettatori.

Era fatto così. Era un perfezionista che amava visceralmente il suo lavoro.

Questo ci ha lasciato. Questo gli dobbiamo.

Fabrizio Falconi







07/06/18

2001 Odissea nello Spazio di Kubrick torna nelle Sale Italiane 50 anni dopo ed è campione d'incasso !



Uscito in sala il 4 e 5 giugno, fa registrare un risultato clamoroso, con il primo incasso, ieri per "2001: Odissea nello spazio" Stanley Kubrick con 106.145 euro seguito da "Solo: A Star Wars Story" di Ron Howard con 76.286 e da "Deadpool 2" di David Leitch con 38.409 euro. 

Davvero un risultato incredibile per il film-cult di Kubrick considerato uno dei più importanti nella Storia del Cinema. 

Ripercorriamone la vicenda:

Dopo tre mesi di isolamento totale nella sua casa-laboratorio di Abbots Mead, in aperta campagna non lontano da Londra, Stanley Kubrick presenta al pubblico e alla critica il suo lavoro piu' ambizioso, "2001: Odissea nello spazio" dal soggetto del guru della fantascienza Arthur C. Clarke

E' un progetto rivoluzionario e un film che entra di prepotenza nella storia del cinema: oggi si puo' anche leggerlo come un'icona di quell'utopia esistenziale che innerva la stagione dei grandi cambiamenti e dei fermenti che, dall'America all'Europa, segnano il fatidico anno 1968

Fin dalla concezione il film di Kubrick e' una novita' assoluta: alla ricerca di un soggetto di fantascienza per continuare il suo viaggio artistico nei generi piu' popolari dell'immaginario visivo, il regista contatta Arthur C. Clarke e i due condividono a tal punto l'idea di partenza da far correre in parallelo il romanzo e la sceneggiatura. Kubrick si fa assistere dalla Nasa e da un pool di scienziati per mostrare un futuro tanto lontano quanto possibile in cui l'incontro-scontro tra l'uomo e l'intelligenza artificiale (il computer Hal 9000) abbia valenza di riflessione etica e teoretica.

"Fin dagli anni '50 - commento' George Lucas - la scienza ha prevalso sulla fantasia e il romanzesco e' stato piu' o meno abbandonato, man mano che i viaggi nello spazio e la tecnica venivano in primo piano. In questo filone, il capolavoro e' 2001: Odissea nello spazio, uno dei miei film preferiti, in cui tutto e' scientificamente esatto e immaginato partendo dal possibile. E' veramente l'apice della fantascienza"

E ancora oggi molti scienziati sostengono che se i programmi nello spazio di Usa e Urss avessero mantenuto il ritmo previsto da Kubrick, buona parte delle ipotesi rese realistiche nel film si sarebbero effettivamente realizzate nello stesso tempo. Con un salto temporale che ancora oggi lascia senza fiato, l'inizio di "2001: Odissea nello spazio" trasporta l'uomo dall'alba della preistoria al futuro usando una metafora di offesa e conquista (l'osso scagliato verso il cielo) come simbolo di una violenza ancestrale che si trasforma in astronave e quindi in uno sguardo verso la possibile evoluzione della razza umana. 


"Ognuno e' libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico del film - ha dichiarato Kubrick -. Io ho cercato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio". 

Per questo il racconto e' diviso in quattro parti. 

Nella prima, all'alba della storia, una tribu' di ominidi tocca la conoscenza grazie al contatto con un misterioso monolite nero venuto dallo spazio. 

Nella seconda, ambientata sulla Luna nel 1999, viene rinvenuto un analogo monolite che fara' da porta verso il futuro per gli astronauti di Discovery One. 

La terza parte, ambientata 18 mesi dopo, vede la squadra spaziale guidata dal comandante Bowman e dal computer Hal 9000 in viaggio verso Giove sulle tracce del segnale radio emesso dal misterioso monolite. 

Nell'epilogo Bowman, rimasto ormai solo a bordo dell'astronave in vista di Giove, incontra di nuovo il monolite che fluttua nello spazio profondo e, grazie a questo, viene trascinato oltre il tempo fino a una misteriosa camera da letto dove si vede vecchio e morente per poi tornare neonato, feto cosmico evoluto da essere umano in una forma superiore. 

Nonostante le mille interpretazioni date al cuore filosofico del film, "2001: Odissea nello spazio" rimane prima di tutto un'esperienza visiva e auditiva (e per questo emozionale) che non invecchia come si capisce bene dai mille ritorni della pellicola (rinata a nuova vita anche grazie alle tecnologie digitali) e dal suo sempreverde successo

Costato 12 milioni di dollari di 50 anni fa, il film ha piu' che centuplicato i suoi incassi attraverso le generazioni e continua ad affascinare e sedurre gli spettatori, generando anche molte leggende

La piu' celebre e' quella per la quale, entrato in rapporto con la Nasa, Kubrick avrebbe poi barattato l'uso di alcune tecnologie futuribili (lenti e cineprese di avanzata concezione) in cambio di una ripresa in studio dell'allunaggio del 1969: garanzia per la Nasa ove qualcosa fosse andato male durante la documentazione di quello storico successo nella corsa spaziale.