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11/10/22

L'incredibile, esponenziale, aumento di suicidi nell'esercito americano (soprattutto in Alaska)

La celebre scena del soldato "Palla di Lardo" in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick

 

L'aumento dei tassi di suicidio tra i membri del servizio attivo ha costretto il Pentagono a rivedere i protocolli militari per la salute mentale. Ma molti membri del servizio in crisi hanno ancora paura di farsi avanti e ammettere di aver bisogno di aiuto. E coloro che cercano aiuto si trovano spesso a combattere contro il radicato stigma che circonda i problemi di salute mentale, gli ostacoli burocratici e la pressione interna per rimanere in servizio. 

Il Pentagono ha creato un comitato indipendente per rivedere i programmi di salute mentale e di prevenzione dei suicidi dell'esercito. Allo stesso tempo, una rete di organizzazioni caritatevoli vicine ai militari ha cercato di colmare le lacune con una serie di programmi e iniziative di sensibilizzazione. 

Dopo aver terminato una missione in Afghanistan nel 2013, Dionne Williamson si sentiva emotivamente insensibile. Altri segnali d'allarme sono apparsi durante i diversi anni di permanenza all'estero. "È come se mi fossi persa da qualche parte", ha detto Williamson, un capitano di corvetta della Marina che ha sperimentato disorientamento, depressione, perdita di memoria e stanchezza cronica. Sono andato dal mio capitano e ho detto: "Signore, ho bisogno di aiuto. C'è qualcosa che non va"

Mentre il Pentagono cerca di affrontare la spirale dei tassi di suicidio nei ranghi militari, l'esperienza di Williamson fa luce sulla realtà dei membri del servizio che cercano aiuto per la salute mentale. Per la maggior parte di loro, il semplice fatto di riconoscere le proprie difficoltà può intimidire. E ciò che segue può essere frustrante e scoraggiante. 

Williamson, 46 anni, alla fine ha trovato la stabilità grazie a un ricovero di un mese e a un programma terapeutico che prevede l'equitazione. Ma ha dovuto lottare per anni per ottenere l'aiuto di cui aveva bisogno. "Mi chiedo come io abbia fatto a sopravvivere", ha detto

A marzo, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha annunciato la creazione di un comitato indipendente per rivedere i programmi di salute mentale e di prevenzione dei suicidi dell'esercito. 

Secondo i dati del Dipartimento della Difesa, i suicidi tra i membri del servizio attivo sono aumentati di oltre il 40% tra il 2015 e il 2020. Il numero è aumentato del 15% solo nel 2020. In posti da tempo caldi per i suicidi come l'Alaska - dove i membri del servizio e le loro famiglie devono fare i conti con un isolamento estremo e un clima rigido - il tasso è raddoppiato. 

Uno studio del 2021 del Cost of War Project ha concluso che, dall'11 settembre, il numero di membri del servizio e di veterani morti per suicidio è quattro volte superiore a quello dei caduti in combattimento.

Lo studio descrive in dettaglio i fattori di stress specifici della vita militare: "l'elevata esposizione ai traumi (mentali, fisici, morali e sessuali), lo stress e il burnout, l'influenza della cultura maschile egemonica dell'esercito, il continuo accesso alle armi e la difficoltà di reintegrarsi nella vita civile".

Il Pentagono non ha risposto alle ripetute richieste di commento. 

Ma Austin ha riconosciuto pubblicamente che le attuali offerte del Pentagono in materia di salute mentale, compreso l'Ufficio per la prevenzione dei suicidi della Difesa istituito nel 2011, si sono rivelate insufficienti. "È imperativo prendersi cura di tutti i nostri compagni di squadra e continuare a ribadire che la salute mentale e la prevenzione dei suicidi rimangono una priorità fondamentale", ha scritto Austin a marzo. "È chiaro che abbiamo ancora del lavoro da fare". L'anno scorso l'Esercito ha emanato nuove linee guida per i suoi comandanti su come gestire i problemi di salute mentale nei ranghi, con tanto di diapositive e copione. Ma rimangono sfide impegnative a lungo termine. 

La situazione in Alaska è particolarmente grave. A gennaio, dopo una serie di suicidi, il sergente maggiore Phil Blaisdell si è rivolto ai suoi soldati in un emozionante post su Instagram. "Quando il suicidio è diventato la risposta?", ha chiesto. "Per favore, mandatemi un DM se avete bisogno di qualcosa. Per favore." 

La senatrice statunitense Lisa Murkowski, R-Alaska, ha affermato che, mentre il distacco in Alaska può essere un sogno per alcuni membri del servizio, per altri è un incubo solitario che deve essere affrontato.  

"Bisogna prestare attenzione a questo aspetto quando si vedono le statistiche balzare così in alto", ha detto Murkowski. "In questo momento, ci sono tutti. I capi di Stato Maggiore guardano l'Alaska e dicono: "Santo cielo, cosa sta succedendo lassù?"". 

o stress di un incarico in Alaska è aggravato dalla carenza di terapisti sul campo. Durante una visita alla Joint Base Elmendorf-Richardson in Alaska all'inizio di quest'anno, il Segretario dell'Esercito Christine Wormuth ha ascoltato gli operatori sanitari della base che dicono di essere a corto di personale, di essere esauriti e di non poter vedere i pazienti tempestivamente. Se un soldato cerca aiuto, spesso deve aspettare settimane per un appuntamento. 

 "Abbiamo persone che hanno bisogno dei nostri servizi e non possiamo raggiungerle", ha detto un consulente di lunga data a Wormuth durante una riunione. "Abbiamo bisogno di personale e finché non lo avremo, continueremo ad avere soldati che muoiono". 

Il torneo annuale di pesca di combattimento a Seward, in Alaska, è stato creato per "far uscire i ragazzi dalle caserme, portarli fuori dalla base per un giorno e farli uscire dalla loro testa", ha detto il cofondatore Keith Manternach. Il torneo, iniziato nel 2007 e che ora coinvolge più di 300 membri del servizio, prevede una giornata di pesca in acque profonde seguita da un banchetto celebrativo con premi per la cattura più grande, la cattura più piccola e la persona che si ammala di più. "Penso che ci sia un enorme elemento di salute mentale", ha detto Manternach. 

Non è solo in Alaska. Il sergente Antonio Rivera, un veterano di 18 anni che ha completato tre missioni in Iraq e un anno a Guantanamo Bay, a Cuba, riconosce liberamente di soffrire di un grave disturbo da stress post-traumatico. "So di aver bisogno di aiuto. Ci sono dei segnali e ho aspettato abbastanza", ha detto Rivera, 48 anni, assegnato a Fort Hood in Texas. "Non voglio che i miei figli soffrano perché non sono andato a cercare aiuto".

Sta facendo yoga, ma dice di aver bisogno di più. È riluttante a cercare aiuto all'interno dell'esercito. "Personalmente mi sentirei più a mio agio se potessi parlare con qualcuno all'esterno", ha detto. "Mi permetterebbe di aprirmi molto di più senza dovermi preoccupare di come questo possa influire sulla mia carriera". 

Altri che parlano dicono che è difficile ottenere assistenza. 

16/06/22

*Quando Goffredo Parise fu inviato nella "sporca guerra" in Vietnam - La dura polemica con Noam Chomsky*

 


Il grande Goffredo Parise fu, come tutti sanno, un grande inviato di guerra (oltre ad essere un grande scrittore).
La prima volta che partì per il Vietnam in guerra, fu tra l’aprile e il maggio del ’67. Scrisse quattro lunghi articoli con le prime corrispondenze, comparsi su L’Espresso, quattro pezzi che Giangiacomo Feltrinelli mandò in libreria qualche mese dopo in un piccolo volume intitolato "Due, tre cose sul Vietnam".
Tornò ad Hanoi a distanza di un anno, quando una importante rivista sovietica, Novij Mir, avendo tradotto e pubblicato i reportage dell’Espresso, che erano molto piaciuti al governo di Hanoi, decise di commissionargli una corrispondenza. Una visita di venti giorni “molto ufficiale”, ricorderà anni dopo, durante la quale strinse contatti con i soldati comunisti del Laos.
Ancora un anno, e Parise è di nuovo in visita nei territori del Nord Vietnam. Fa un giro in Cambogia, resta qualche giorno nel Laos, poi salta a bordo dell’aereo della Commissione internazionale di controllo che fa la spola tra Saigon, Phnom Penh, Vientiane, Hanoi.
Il mezzo è appena decollato verso un cielo chiaro, sopra macchie di boschi verde cupo, quando Parise si accorge che il suo vicino di posto è Noam Chomsky. Scambiano qualche parola, Parise scopre che anche a lui è arrivato il medesimo invito del governo di Hanoi. «Ha letto della presenza di combattenti vietnamiti in Laos e Cambogia? Una ingerenza massiccia e ingiustificata nei loro affari, a quanto pare…», dice Parise, sporgendosi un po’ verso il professore. Dopo quelle parole si spalanca come il vuoto di un salto altissimo, Chomsky fissa gli arabeschi sottili di ghiaccio sul finestrino. «Propaganda americana», dice, prima di chiedere all’hostess quanto manchi all’atterraggio. La donna sorride, dice qualcosa in francese. «Hanoi è un luogo libero e democratico», taglia corto Chomsky, prima di restare in silenzio per il resto del viaggio.
Fu l'inizio di una schermaglia molto dura, in cui sostanzialmente, nei mesi seguenti, Chomsky, americano, accusò apertamente Parise di faziosità e di filoamericanismo. Mentre dal canto suo Parise disse che Chomsky negava con ogni evidenza l'ingerenza sovietica nella guerra.
Freddamente, anni dopo, Parise così ricordò la vicenda:
«Io feci il viaggio con Noam Chomsky che rividi dopo pochi giorni e mi assicurò che la facoltà di Linguistica dell’Università di Hanoi era di altissimo livello. Era antipatico e supponente e anni più tardi ebbi con lui una polemica per le sue bugie. Chomsky è uno che legge anche le virgole di un giornale turco, se parla di lui, e polemizza. In realtà egli scrisse per la New York Review of Books dei reportage vergognosi su Vietnam, Cambogia e Laos. Così fecero i suoi soci tipo Susan Sontag, Mary McCarthy e altri americani bugiardi e troppo snob».

07/02/22

Sam Shepard e Wim Wenders, i dialoghi dettati al telefono: come nacque il capolavoro di "Paris, Texas"



Come sanno tutti quelli che hanno amato e amano Paris, Texas, capolavoro di Wim Wenders, che uscì nel 1984 e vinse in quell'anno la Palma d'Oro al Festival di Cannes, quest'opera si caratterizza, fra le altre cose, per essere quasi del tutto priva di dialoghi. 

Come nacque la magia del film?

Sicuramente tutto risale alla straordinaria amicizia tra Wenders e Sam Shepard, che ci ha lasciato purtroppo il 27 luglio del 2017.

Wim Wenders aveva viaggiato all'epoca a lungo negli Stati Uniti e aveva dichiarato di voler "raccontare una storia sull'America". Il film prese il nome dalla città texana di Paris, ma in realtà non vi fu  ambientata lì nessuna scena. 

Già all'inizio della sua carriera Wenders aveva scattato molte fotografie durante la ricerca di luoghi negli Stati Uniti occidentali, ritraendo luoghi come Las Vegas e Corpus Christi, in Texas . 

Sam Shepard aveva già ha incontrato Wenders per discutere della scrittura e/o della recitazione per il progetto Hammett (diventato poi il film L'amico americano) di Wenders, ma si disse non interessato a scrivere di Hammett.  

I due presero però in considerazione l'idea di adattare vagamente una novella scritta da Shepard, Motel Chronicles e iniziarono a sviluppare insieme una storia di fratelli, uno dei quali ha perso la memoria. 

La loro sceneggiatura crebbe fino a 160 pagine, poiché il rapporto fratello-fratello diminuì di importanza e furono presi in considerazione numerosi finali. 

Il film fu girato in sole quattro o cinque settimane, con solo un piccolo gruppo al lavoro nelle ultime settimane, e la realizzazione fu molto breve e veloce. Ci fu però un'interruzione alla fine delle riprese, durante la quale la sceneggiatura fu poi completata. 

Il film segnava la prima volta che Wenders evitava completamente lo storyboard,  andando direttamente alle prove, sul posto, prima delle riprese. 

Le riprese iniziarono nel 1983 quando la sceneggiatura era ancora incompleta, con l'obiettivo di girare secondo l'ordine della storia. Shepard pianificò di basare il resto della storia sulle osservazioni degli attori e sulla loro comprensione dei personaggi

A causa di continui rinvii per la difficoltà nel reperire i fondi necessari per la produzione Sam Shepard si ritrovò impegnato a lavorare a un altro film quando Paris, Texas raggiunse il punto in cui la sceneggiatura finiva. Wim Wenders fu aiutato da Kit Carson, che era sempre presente sul set essendo il padre di Hunter Carson, il bambino del film, per alcune scene. 

In seguito Wenders spedì ciò che aveva scritto a Sam Shepard, che a sua volta dettò per telefono al regista i dialoghi tra Harry Dean Stanton e Nastassja Kinski delle due scene madri del film, che si svolgono all'interno della cabina del peep-show, e che rappresentano il vero acme del film. 

Wenders e i suoi collaboratori, decisero di non ritrarre un peep show realistico, poiché avevano bisogno di un formato che consentisse una maggiore comunicazione tra i personaggi. 

Kinski non poteva vedere nessuno, solo uno specchio, nelle scene del peep show, e dopo la fine delle riprese ha confessato che questo creava una vera sensazione di solitudine.

Le sfide sono emerse quando il film ha esaurito le finanze, ma Wenders si è sentito sollevato quando  ha completato la scena con la Kinski, osservando: "mi sono reso conto che avremmo toccato le persone in grande stile. Ero un po' spaventato dall'idea".

Era la percezione di essere riuscito - grazie all'aiuto fondamentale di Sam Shepard - a portare a compimento il suo film, poeticamente e creativamente, con quell'ultima lunga scena entrata, con ogni merito, nella storia del cinema. 

Fabrizio Falconi - 2022

18/10/21

Quando Pollock fece la prima mostra in Europa e non vendette nemmeno 1 quadro. Oggi quegli stessi valgono 40 milioni di dollari l'uno.


Incredibile parabola, quella di Jackson Pollock, e dell'arte moderna. La fortuna di questo meraviglioso, grandissimo artista, seguì infatti strade del tutto particolari e imprevedibili.

Nato nel 1912 a Cody, nel Wyoming, Jackson era il più giovane di cinque fratelli. Suo padre faceva l'agricoltore ed in seguito diventò un agrimensore alle dipendenze dello stato, con il giovane Jackson che trascorse la sua gioventù tra l'Arizona e la California, mostrando subito un carattere difficile, schivo e introverso, refrattario alla regole scolastiche della High School di Reverside e della Manual Arts High School di Los Angeles, dalle quali venne espulso per indisciplina.

La svolta per Jackson si creò quando ebbe l'occasione di entrare a contatto con i nativi americani mentre accompagnava il padre ad effettuare i rilevamenti agricoli. Anni dopo, Pollock realizzò i suoi quadri più famosi, inaugurando il metodo del "dripping" (cioè lo sgocciolamento della vernice direttamente sulla superficie delle tele poste orizzontalmente sul pavimento) tra il 1947 e il 1950.

Pollock diventò molto noto negli Stati Uniti in seguito alla pubblicazione di un servizio di quattro pagine della rivista Life dell'8 agosto 1949 che si chiedeva: «È il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?».

Eppure, nella vecchia Europa, nessuno lo conosceva, ed è incredibile pensare oggi che dei quindici grandi quadri che Pollock espose per la prima volta nel vecchio continente, nella famosa mostra alla galleria Facchetti di Parigi, nel marzo 1952 (quattro anni prima della sua morte), nessuno, neanche uno fu venduto.

Tutti e 15 i quadri, pur in presenza di qualche manifestazione di interesse, tornarono alla fine in America, invenduti, nonostante i più piccoli costassero 2.000 franchi e i più grandi 8.000 o 9.000 franchi.

Anche Malraux, all'epoca ministro della cultura francese, che si era innamorato dei quadri e voleva comprarli per lo Stato Francese, non riuscì a trovare il credito necessario.

Per il pubblico la mostra fu uno scandalo, i vecchi dicevano che era la fine dell'arte, che quei quadri erano dipinti con la coda dell'asino.

Ebbene, nel marzo scorso Numero 32, opera di Pollock del 1949, è stato venduto a 40 milioni di dollari.

E oggi il solo catalogo di quella storica e sfortunata mostra si vende per 350 euro come si vede qui.




20/05/21

Obama: "Gli Ufo sono un problema che va preso sul serio"




Gli Ufo sono un fenomeno che "va preso sul serio". 

A sostenerlo e' stato l'ex presidente americano Barack Obama durante un'apparizione al 'Late Late Show' condotto da James Corden su Cbs News. 

Obama prima ha fatto un po' di ironia sulla questione, che continua a suscitare interesse negli Stati Uniti, affermando con il sorriso: "La verita' e' che quando sono entrato in carica ho chiesto: 'Va bene, c'e' un laboratorio da qualche parte dove teniamo esemplari di alieni e astronavi?' La risposta e' stata 'no'". 

Poi, pero', ha precisato: "Cio' che e' vero, e su questo sono serio, e' che ci sono filmati e registrazioni di oggetti nei cieli che non sappiamo esattamente cosa siano. Non possiamo spiegare le loro traiettorie, non si muovevano con uno schema facilmente spiegabile. Quindi penso che la gente prenda sul serio il tentativo di indagare e capire di cosa si tratta. Ma oggi non ho nulla da riferirti"

A risvegliare l'attenzione sul tema e' stato un nuovo video datato 2019 e girato da un aereo della Marina militare americana, in cui si vede un oggetto non identificato che vola poco sopra l'Oceano, prima di immergersi nell'acqua. Il filmato e' stato divulgato dal documentarista Jeremy Corbell, e il Pentagono ha confermato la legittimita' di foto e video. 

La divisione della difesa che si occupa dei fenomeni aerei non identificati ha fatto sapere, tramite la portavoce Sue Gough, che il filmato e' incluso negli "esami in corso" della task force, creata nell'agosto scorso per indagare sugli avvistamenti degli ufo da parte dei militari Usa.

15/05/21

Pentagono: "Autentico il video dell'Ufo sull'Oceano"

Dopo che la Cia ha rilasciato un report su tutti gli avvistamenti Ufo, e dopo l'annuncio arrivato a gennaio di un nuovo rapporto non segreto sugli Ufo, il Pentagono rilascia un'altra patente di autenticità a un video girato nel luglio 2019 a bordo di una nave della Marina Usa, la USS Omaha, al largo della costa di San Diego: mostra un misterioso oggetto sferico che vola nell'aria prima di inabissarsi nell'oceano. I filmati sono stati registrati dal personale della Marina degli Stati Uniti. 

“Posso confermare che le foto e i video a cui si fa riferimento sono stati realizzati dal personale della Marina", ha detto a The Black Vault Susan Gough, portavoce del Pentagono. 

"Come abbiamo detto prima, per mantenere la sicurezza delle operazioni ed evitare di divulgare informazioni che potrebbero essere utili a potenziali avversari, non si discute pubblicamente di dettagli delle osservazioni o degli esami delle incursioni segnalate nei nostri campi di addestramento".

Proprio l'anno scorso, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha riconosciuto e pubblicato tre video  di "fenomeni aerei non identificati", incluso il famoso video "Tic Tac" girato da un pilota di jet della Marina degli Stati Uniti.  


Fonte : Metronews

07/10/20

Storia di Una Foto - "Migrant Mother" di Dorothea Lange

 


Storia di Una Foto - "Migrant Mother" di Dorothea Lange
Dorothea Lange era un'artista piena di talento ma disoccupata, che negli anni '30 in America ricevette l'incarico da una agenzia federale di andare in giro per la California a fotografare i migranti che fuggivano dal Dust Bowl, la terribile tragedia raccontata anche da John Steinbeck in "Furore": una siccità spaventosa aveva ridotto interi stati americani in deserti di polvere. I contadini fuggivano in massa, attratti dalla California, come un nuovo paradiso, che li avrebbe accolti invece con cinismo e salari miserevoli.
Al termine di una giornata di lavoro, in quel 1936, Dorothea stava tornando a casa sua, quando passò davanti a un accampamento di raccoglitori di legumi, tirando dritto.
Poi ci ripensò, come in preda a un presentimento.
Tornò indietro e trovò quella donna sotto una tenda sporca e fatiscente con i suoi due figli.
"Mi disse che sopravvivevano mangiando rimasugli di legumi semicongelati nei campi, in quel mese gelido di febbraio, e a volte qualche uccellino ucciso da uno dei bimbi. Sembrava intuire che le mie foto potevano aiutarla, e così lei aiutò me." raccontò più tardi Dorothea
La foto, pubblicata sul San Francisco News, scatenò una gara di solidarietà con donazioni da tutte le città americane.
Ma prima che gli aiuti effettivamente arrivassero a destinazione, la donna fotografata era già scomparsa.
Si era spostata insieme agli altri migranti, in cerca di un posto migliore dove sopravvivere.
E il suo nome era rimasto sconosciuto.
Il ritratto fattole da Dorothea Lange però, nel frattempo, era diventato famosissimo.
E soltanto 40 anni più tardi, nel 1978, qualcuno scoprì il suo nome: si chiamava Florence Thompson e all'epoca del ritratto aveva 32 anni. Le sue origini erano Cherokee.
Morì a Modesto nel 1983.
Nel 2002 la foto della "Madre Migrante" venne venduta a Christie's New York per 141.500 dollari. Nell'ottobre del 2005 un anonimo comprò dei negativi riguardanti la Madre Migrante per 296.000 dollari, quasi sei volte il loro valore stimato alla prima offerta.

Fabrizio Falconi - 2020

Fonti: Federico Rampini, D-Repubblica 3 ottobre 2020 p. 94


28/09/20

Quando Steinbeck andò in Vietnam (e tornò disilluso)

 


Il 30 aprile 1975 la caduta di Saigon pone fine alla lunga guerra del Vietnam, un conflitto che nel corso degli anni '60 vide gli Stati Uniti sempre piu' direttamente coinvolti nel contenimento dell'espansione comunista nel sud est asiatico e che si concluse con la piu' grande sconfitta militare della storia degli Stati Uniti con costi umani altissimi

Nel conflitto perdono la vita 58 mila soldati americani, 250 mila soldati sudvietnamiti, 1 milione di combattenti tra vietcong e soldati nordvietnamiti, 2 milioni di civili

Tra il dicembre del 1966 e l'aprile del 1967 lo scrittore John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, segue da vicino il conflitto al fianco dei militari americani in Vietnam, come inviato di guerra. 

Il suo reportage, 58 dispacci dal fronte, viene pubblicato sul quotidiano Newsday, sotto forma di lettere indirizzate ad Alicia, moglie di Harry Frank Guggenheim, proprietario ed editore del giornale. 

Anni dopo, le lettere di Steinbeck sono raccolte e pubblicate in un libro: "Vietnam in Guerra. Dispacci dal fronte".

Dal quale oggi è stato tratto un documentario: "Steinbeck e il Vietnam in guerra" (in onda stasera alle 22.10 su Rai Storia), che ruota intorno al reportage dello scrittore sulla guerra in Vietnam "vista da vicino", alla sua volonta' di raccontarla "in maniera oggettiva". 

Steinbeck e' convinto, come molti americani, che l'intervento militare in Vietnam serva a "difendere la liberta' di una piccola nazione coraggiosa dall'invasione comunista". 

Quella guerra avrebbe inoltre fatto emergere il meglio dell'America, e il Paese, affrontando quella sfida, si sarebbe rigenerato. 

Fino alla fine della sua permanenza al fronte e al suo ritorno a casa quando il grande scrittore cambia il suo giudizio su quella guerra, cresce la sua perplessità sulla necessita' di quel conflitto e nasce una nuova consapevolezza sulla sua illegittimità

Il documentario, ideato e diretto da Francesco Conversano e Nene Grignaffini, realizzato da Movie Movie per Rai Cultura, raccoglie le testimonianze di tre protagonisti italiani di quella stagione: il giornalista Furio Colombo che per anni, come corrispondente della Rai dagli Stati Uniti, ha raccontato la guerra in Vietnam attraverso una serie di reportage; Francesco Guccini che, ispirato da Bob Dylan, diventa presto in Italia "la voce della protesta", dell'antimilitarismo e del pacifismo, della cultura libertaria e punto di riferimento di una intera generazione; e, infine, la scrittrice Lidia Ravera che, ancora giovanissima e' partecipe, insieme a migliaia di giovani donne, delle lotte e delle manifestazioni di protesta che portano nell'Italia di quegli anni grandi cambiamenti sociali, civili e culturali, alla nascita del femminismo e alla rivoluzione sessuale.




02/08/18

50 anni fa: Quando Charles M. Schulz, il creatore dei Peanuts, disse "No" e fece entrare un bambino nero tra gli amici di Linus e Charlie Brown.

È il 31 luglio 1968. Un giovane nero sta leggendo un giornale, quando a un tratto il suo sguardo si posa su un dettaglio. Con le lacrime agli occhi, il giovane comincia a urlare e correre per tutta la casa, in cerca di sua madre. Anche lei rimane senza fiato di fronte a quella pagina: mai pensava di vivere così a lungo per vedere una cosa del genere. E così in altre case del paese. Cosa avevano visto madre e figlio? 

 La prima apparizione di Franklin Armstrong sull'iconico fumetto Peanuts. 

Il personaggio di Franklin nasce grazie a una lettera che un'insegnante, Harriet Glickman, scrisse a Charles M. Schulz. Martin Luther King, Jr. era stato appena ucciso con dei colpi di arma da fuoco fuori dalla sua stanza d'albergo di Memphis

Glickman, lavorando coi bambini e avendone di suoi, era consapevole del potere del fumetto tra i giovani. "Mi resi conto che i bambini neri e i bambini bianchi non si vedevano mai raffigurati in classe insieme". E ancora: "Dalla morte di Martin Luther King, mi sono chiesta continuamente cosa potessi fare io per cambiare quelle condizioni che hanno portato all'assassinio e che contribuiscono a questo clima di incomprensioni, odio, paura e violenza". 

Glickman, nella sua lettera, chiese a Schulz di prendere in considerazione l'aggiunta di un personaggio nero nel popolare fumetto: un modo per riunire il paese e dimostrare ai neri che non erano esclusi dalla società americana. 

L’insegnante aveva scritto anche ad altri autori: tutti però temevano che i tempi non fossero maturi, avevano paura per le loro carriere o di essere scaricati dal sindacato

Charles Schulz avrebbe potuto ignorarla. E invece trovò il tempo di risponderle: era intrigato dall’idea, ma non era sicuro che lui fosse la persona adatta o che fosse la scelta giusta. Non voleva peggiorare le cose o sembrare condiscendente. Glickman non si è arresa. Ha continuato a scrivergli, e Schulz non ha mai smesso di risponderle. L’insegnante ha coinvolto altri amici neri, per spiegare i motivi delle loro battaglie e dare all’autore qualche suggerimento su come introdurre il personaggio senza offendere nessuno. 

La conversazione è andata avanti finché un giorno, Schulz, ha detto a Glickman di controllare il giornale. 

Era il 31 luglio 1968. È in questa data che Charlie Brown incontra un nuovo personaggio di nome Franklin. 

Franklin è un ragazzino ordinario, che fa amicizia con Charlie e lo aiuta nelle sue avventure. Suo papà è a combattere in Vietnam. Alla fine delle tre strisce, Charlie invita Franklin a dormire da lui qualche volta. Nessun annuncio in pompa magna, nessuna formalità per l'introduzione di questo nuovo personaggio: tutto inizia con una naturale conversazione tra due bambini, dove non contano le differenze di pelle

Ma Schulz non dimentica una dichiarazione importante: un bambino nero ha un papà in Vietnam, a combattere per l'America. Per Schulz l’introduzione di Franklin era naturale e rilevante fino a un certo punto: non hanno pensato la stessa cosa alcuni fan, soprattutto negli stati del sud, che hanno protestato così tanto da far diventare la notizia un caso nazionale. Un editore del sud ha dichiarato: “Non mi interessa se c’è un personaggio nero, ma non va mostrato a scuola insieme agli altri”. 
Charles M. Schulz

Schulz finì a colloquio con il presidente della società di distribuzione del fumetto, che era preoccupato di questo nuovo personaggio che avrebbe potuto influenzare la popolarità dell’autore. Molti giornali in quei giorni minacciarono di tagliare le strisce di Schulz. 

La risposta di Schulz: "Ricordo di aver raccontato di Franklin a Larry. Ne abbiamo parlato a lungo al telefono, voleva che lo cambiassi. Mi sono seduto e ho detto no .” 

Alla fine, Franklin divenne un personaggio dei Peanuts a tutti gli effetti e - nonostante le proteste – a scuola si sedette di fronte a Peppermint Patty, mentre giocava come centrale nella squadra di baseball. 

Più di recente, Franklin è tornato sotto i riflettori nel 1973, dopo una serie di polemiche sulla serie"A Charlie Brown Thanksgiving" in cui il ragazzino appare seduto da solo su un lato del tavolo, mentre i suoi amici siedono insieme sull'altro lato, di fronte a lui. Schulz ha dichiarato di non avere controllo sulla serie animata. 

Aveva invece il controllo sulle sue strisce di fumetti, e la sua presa di posizione, ancora oggi così importante, lo dimostra. 

 Glickman avrebbe raccontato più avanti di essere cresciuta con i valori dei suoi genitori, che hanno instillato in lei e i suoi fratelli valori di uguaglianza e rispetto. Valori che nel corso degli anni li hanno resi consapevoli su questioni di razzismo e diritti civili in America. ”Ogni giorno vedevo, o leggevo, di bambini neri che cercavano di andare a scuola e di folle di bianchi che gli urlavano e sputavano contro... e delle percosse… e dei cani… ma anche del coraggio di tante persone in quel tempo". È grazie a Glickman e a Schulz se tutto il mondo oggi conosce e ama un ragazzino di nome Franklin. 

15/04/18

Assalto alla Democrazia, guerre & soldi - un profetico articolo di Remo Bodei



ripropongo, in questo blog e in queste ore così delicate per gli equilibri internzionali, un illuminante e profetico articolo di Remo Bodei scritto nel 2009 e pubblicato in quell'anno nel Domenicale del Sole 24 Ore. Da riflettere. 

Nel suo ultimo libro, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Spectre of Inverted Totalitarism, Sheldon S. Wolin offre non solo una precisa diagnosi della democrazia americana, ma anche utili indicazioni sulla deriva che questo regime subisce in altre parti del mondo

Nega la radicata convinzione che gli Stati Uniti siano la culla della democrazia moderna. 

In origine la Costituzione americana è infatti elitaria: ci sono voluti tre quarti di secolo prima di abolire formalmente la schiavitù e molto di più per assicurare il diritto di voto ai Neri ed alle donne e quello di associazione ai sindacati. 

A partire dalla Grande depressione e fino ad oggi la democrazia viene per Wolin progressivamente svuotata dall’interno

La diminuzione del tasso di uguaglianza e partecipazione dei cittadini ai procesi decisionali - assieme alla trasformazione del paese in Superpower - ha prodotto quello che egli chiama il totalitarismo rovesciato o, meglio, rivolto verso l’interno (inverted totalitarism)

Questa nuova creatura si basa non sulla mobilitazione, ma sulla smobilitazione delle masse e, soprattutto, sulla commistione tra sfera pubblica e sfera privata, tra politica ed affari: in particolare sulla robusta rete di allenze tra stato e grandi corporations, tra governo e chiese evangeliche, tra centri di ricerca e un poderoso apparato militare-industriale che ha speso, solo nello scorso anno 623 miliardi di dollari, ossia quanto erogano per gli stessi scopi tutte le altre nazioni della Terra messe insieme

Per spontanea evoluzione la democrazia stessa genera questo mutante, che dirotta la paura provata nei confronti dei totalitarsmi noceventeschi su nemici ubiqui, sia esterni come i terroristi, che interni, come i delinquenti (un altro primato mondiale degli USA è costituito dalla percentuale dei detenuti 751 per 100.000 abitanti). 

Non esistono campi di concentramento, né persecuzioni di massa, né abolizione del diritto di voto, anzi questo serve a legittimare l’ autocrazia elettiva. 

I cittadini vengono indotti all’indifferenza o spinti ad assistere, più che a partecipare alla vita politica. 

Questo tipo di potere ha avuto in Occidente il suo humus più fertile; esso poggia sui miti e sulle aspettative di una cultura che privilegia il principio di piacere rispetto al principio di realtà, i desideri e i sogni di massa rispetto alla sobria analisi dei vincoli imposti e delle possibilità suggerite dalle condizioni storiche effettive. 

Ciò favorisce la propensione di chi comanda a plasmare la realtà secondo la propria interessata visione del mondo, accrescere cioè sistematicamente la quantità e la qualità delle menzogne utilizzate per governare. 

Il potere di persuasione, con i relativi apparati, rappresenta pertanto l’arma più potente dell’ inverted totalitarism (v. armi di distruzione di massa in Iraq, la collusione di Saddam Hussein con Osama Bin Laden o la perfetta salute del sistema finanziario globale). 

 A tale sofisticata strategia contribuisce la ripresa di rozzi, ma collaudati strumenti di manipolazione del consenso, quale l’appello al popolo inteso quale blocco omogeneo e compatto che diffida dei politici di professione, ma si fida di chi si autoproclama suo genuino interprete ed è in grado di travestire le decisioni che scendono dall’alto in esigenze che salgono dal basso

Comune a tutte le democrazie occidentali è il fenomeno del crescente abbandono della divisione dei poteri, avvertita come un intralcio, a favore dell’esecutivo (con la conseguente strisciante riduzione del parlamento a cassa di risonanza delle scelte del governo e la limitazione delle prerogative del giudiziario). 

Da diversi segni sembra che - complice la crisi finanziaria - molti cittadini si siano svegliando dal letargo politico. 

 Il rischio è che, dopo aver dettato legge, godendo di un’ampia delega pubblica, le oligarchie finanziarie ed economiche, rinegoziando le quote di potere con la politica (talvolta più debole dei potentati economici), mantengano il loro effettivo, seppur ridotto, potere in fogge sempre più “camaleontiche”.

Remo Bodei. 

13/02/18

Cosa succede agli adolescenti risucchiati dagli Smartphone ? Il primo studio scientifico lo spiega.





Cosa sta succedendo alle generazioni di adolescenti, dei nostri adolescenti, i cosiddetti nativi digitali, che vivono ormai perennemente connessi ai loro smartphone ? Se ne parla tanto, ma nessuno lo sa esattamente. Adesso se ne sa un po' di più, perché è arrivato il primo studio molto approfondito - scientifico - sull'argomento e con ampio spettro, con ricerche durate diversi anni. Uscito in America, il libro ha suscitato un amplissimo dibattito, e un'eco profonda. Lo firma Jean M. Twenge e il titolo completo dell'opera è IGen: Why Today's Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More Tolerant, Less Happy - and Completely Unprepared for Aduthood - and What That Means for the Rest of Us, Simon and Schuster, New York, pagg. 392, Dollari 27. Ne ha scritto Gilberto Corbellini nell'ultimo numero de Il Sole 24 Ore - Domenicale, dell'11 febbraio.
Ecco qualche passaggio saliente. 


Da quando gli smartphone sono diventati onnipresenti, all'inizio di questo decennio, l'interazione faccia a faccia tra i giovani è drasticamente diminuita. 

Non solo, ma gli adolescenti e gli studenti universitari statunitensi oggi fanno tutto "meno": lavorano meno, escono meno di casa, si mettono meno nei guai, bevono meno e consumano meno droghe, sono meno interessati a prendere la patente per l'auto, meno interessati all'indipendenza, hanno meno pregiudizi razziali o di genere, sono meno bullizzati e bullizzano di meno, si accoppiano di meno e fanno meno sesso, sono meno disposti ad ascoltare chi dice cose controverse o che giudicano psicologicamente fastidiose, etc.

E, questo secondo Twenge, perché sono incollati a seguire un flusso interminabile di testi e immagini su degli schermi.  

Il risultato è meno tempo dedicato alla "costruzione di competenze sociali, alla negoziazione di relazioni e alla navigazione delle emozioni".  

In termini di conoscenza pratica e di essere disposti ad affrontare il mondo reale, ci sarebbe un ritardo di tre o quattro anni nella maturità: 18 anni equivalgono a quelli che prima erano 15.

La scarsa socializzazione e l'autoreferenzialità prodotta dall'eccessiva mediazione dei rapporti attraverso gli schermi, sarebbe causa del documentato incremento dei disturbi mentali, in particolare depressione, tra questi giovani. 




09/11/15

"La fonte meravigliosa" di Ayn Rand, un romanzo totale. (Recensione)




Chi è alla ricerca di un libro capace di catturare completamente, aprendo scenari e riflessioni di vita interiore, insomma un libro di quelli che nella vita di un lettore restano a lungo, può affrontare senza esitazione le seicento pagine de La fonte meravigliosa (The Fountainhead), il romanzo scritto in pieno conflitto mondiale, nel 1943, da Ayn Rand, che anche se oggi piuttosto dimenticato, ebbe grandissima eco, con quasi 6.5 milioni di copie vendute nel mondo, grazie anche al successo del celebre film che ne fu tratto nel 1948 con  Gary Cooper protagonista.

Ayn Rand – al secolo Alissa Zinovievna Rosenbaum, originaria di San Pietroburgo - si era trasferita negli Usa nel 1925 a causa dei rovesci finanziari familiari causati dalla Rivoluzione d'Ottobre e oggi 
viene considerata uno dei maggiori filosofi americani del Novecento, anche se il suo nome e le sue dottrine, in altra epoca molto diffuse, oggi hanno conosciuto contrasti e offuscamento. 

Ayn Rand riuscì a pubblicare il romanzo dopo ben 12 rifiuti di editori importanti.  Ma alla sua uscita il successo fu enorme, incarnando in fondo quello che era il significato profondo del libro, l'affermazione della individualità creativa umana e del talento personale contro ogni gretta costrizione della società e dei sistemi. 

In questo senso La fonte meravigliosa disegna un vero e potente affresco alla voglia di affermazione della libertà dell'animo umano: della sua indipendenza, anticonformismo, insofferenza alle costrizioni, capacità di rompere con le convenzioni e il quieto vivere o viceversa del bisogno di adeguarsi alla maggioranza.

Il libro si incentra sulla figura del giovane Howard Roark, ispirata per stessa ammissione della scrittrice su quella di uno dei più grandi architetti del Novecento, Frank Lloyd Wright, seguendone le orme da quando, all'inizio della storia viene espulso dalla Scuola di Architettura dell'Istituto di Tecnologia di Stanton, proprio alla vigilia della laurea per le sue idee rivoluzionarie che rifiutano i canoni neoclassici e caldeggiano il ricorso a linee moderne, tecnologiche, ardite. 
Roark ha appreso queste idee dalla voce del suo talento ma anche dall'esempio anticonformista del suo maestro, Henry Cameron, genio dell'Architettura moderna finito in disgrazia.
Il deuteragonista è invece Peter Keating, compagno di corso di Roark, suo amico eppure suo opposto, animato da ambizione sfrenata, ma senza talento, e con la capacità di adattarsi senza problemi a qualunque imposizione esterna, specie quella del grande studio dell'architetto Francon - molto à la page - presso il quale lavora.
  
Altri tre grandi protagonisti della storia sono la figlia di Francon, la bellissima Dominque (che si innamora di Howard, ricambiata, anche se il loro rapporto va incontro a ostacoli di ogni tipo), il giornalista Ellsworth Tookey, vero e proprio genio del male, esperto e critico di architettura, che blandisce Dominque e cerca di manipolarla, e l'editore di giornali Gail Wynand, che si è fatto dal nulla e ha costruito un impero editoriale con riviste popolari. 

Sarà proprio lui a sposare Dominique (dopo il primo matrimonio di lei con Keating) e a dialogare con Howard sui differenti modi di realizzare se stessi, contro le muraglie imposte dal sistema. 

Roark dovrà attraversare una personale via crucis per affermarsi, ma alla fine il suo talento individuale purissimo, e la sua idealità romantica verranno ricompensati. 
Il prezzo da pagare però è molto duro. 

Ayn Rand ha intessuto il romanzo delle sue convinzioni filosofiche: l'avversione nei confronti delle masse, la convinzione che soltanto dall'inseguimento delle proprie roccaforti interne - e dalle relative zone d'ombra - sia possibile emanciparsi e raggiungere il frutto vero della esperienza umana: quello delle proprie capacità, della missione unica che ci è stata concessa. 

In questo senso appare perfino crudele il fatto che anche i sentimenti siano relegati e asserviti all'ideale che è ben più importante.

Alla fine il romanzo vira su tirate idealistiche forse datate.  Ma in Europa, al contrario degli Stati Uniti - dove la fama esagerata conquistata dal romanzo ha generato un culto esasperato che ruota intorno all'apologia del liberismo sfrenato - La fonte meravigliosa può essere apprezzato ancora per quello che è: una straordinaria storia che fa  muovere personaggi indimenticabili e li fa vivere nella coscienza e nei pensieri del lettore molto a lungo. 

Fabrizio Falconi 



15/10/15

Robert P. Harrison vince la prima edizione del premio The Bridge . La premiazione il 19 ottobre a Roma.

Robert Pogue Harrison

Lunedi' 19 ottobre 2015, l'Ambasciata d'Italia a Washington ospitera' la cerimonia di premiazione degli autori italiani vincitori della prima edizione del premio letterario The Bridge Book Award

Il Premio The Bridge rappresenta un "ponte" ideale che unisce le culture italiana e americana per rafforzarne la comprensione reciproca attraverso la promozione di alcune tra le migliori e piu' recenti pubblicazioni sia di narrativa che di saggistica dei due paesi. 

 "E' un vero onore poter ospitare questo importante premio, che quest'anno inaugura la XV Settimana della lingua italiana nel mondo e che come indica il titolo - dice l'Ambasciatore d'Italia negli Stati Uniti Claudio Bisogniero- "The Bridge", si propone l'ambizioso obiettivo di avvicinare come un ponte le culture di Italia e Stati Uniti. Mi rallegro in particolare con i vincitori di questa prima edizione, Domenico Starnone per la narrativa e Quinto Antonelli per la saggistica". 

Il Premio si articola in una sezione italiana ed una americana con una struttura speculare. I libri in concorso, dieci per ognuno dei due paesi e cinque per ogni categoria di narrativa e saggistica, sono pubblicati nei rispettivi paesi nel corso dell'anno che precede il Premio

Gli autori italiani e americani sono giudicati in due turni di votazione nel mese di settembre da una giuria appartenente all'opposta dell'altra nazionalita', composta da 50 giurati, 25 per ciascuna categoria. 

I vincitori ricevono un premio in denaro, seguirà inoltre la traduzione e la pubblicazione del loro libro nell'altra lingua.

La cerimonia di premiazione dei vincitori americani della prima edizione del The Bridge Book Award, Laird Hunt per la narrativa e Robert Harrison per la saggistica, si terra' il 19 ottobre 2015 presso l'Ambasciata degli Stati Uniti a Roma

Il Premio The Bridge/Il Ponte e' ideato e promosso dalla Casa delle Letterature del Comune di Roma, con l'American Initiative for Italian Culture Foundation (AIFIC), con l'Ambasciata degli Stati Uniti d'America a Roma, la National Italian American Foundation (NIAF) e la Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS). 

Si avvale del patrocinio dell'Ambasciata d'Italia a Washington e del Ministero degli Affari Esteri Italiano, della collaborazione dell'American Academy in Rome, dell'Istituto Italiano di Cultura di Washington, dell'Istituto Calandra di New York e di altre Istituzioni culturali e Universita' italiane e americane. 

13/01/13

La perdita delle radici, l'abbandono della tradizione e il manicomio contemporaneo. - C.G.Jung.





Il mondo ci appare impazzito. 

Nessuno sembra aver più in mente punti di riferimento e l'impressione generale è quello di una deriva complessiva - almeno in Occidente - dentro la quale nessuno sembra in grado di orientarsi. 

Ma a cosa si deve tutto ciò. 

Una delle risposte forse più convincenti la fornisce, in poche righe, Carl Gustav Jung, in uno dei suoi grandiosi saggi, Aion. 

Leggiamo.

L'attuale tendenza a distruggere, a rendere inconscia ogni tradizione, può tuttavia interrompere per centinaia di anni il normale processo di evoluzione e sostituirlo con un intervallo barbarico. 

Là dove ha predominato l'utopia marxista, questo è già avvenuto, scrive Jung, ma, aggiunge, anche una formazione prevalentemente tecnico-scientifica, tipica per esempio degli Stati Uniti, può provocare una regressione spirituale e quindi un notevole incremento della dissociazione psichica. 

Igiene e prosperità non bastano perché l'uomo sia sano; altrimenti gli uomini più ricchi e più illuminati starebbero meglio degli altri.  Invece, per quanto riguarda le nevrosi, le cose non stanno affatto così, ma al contrario. 

La perdita delle radici e l'abbandono della tradizione nevrotizzano le masse e le predispongono all'isteria collettiva.  E questa richiede una terapia collettiva consistente nella privazione della libertà personale e del terrore.   

Là dove predomina il materialismo razionalistico (invece), gli Stati tendono a diventare non più prigioni, ma manicomi. 

Ed è quello, ahimè, che stiamo sperimentando, credo. 

Tratto da Carl Gustav Jung, Aion, traduz e cura di Lisa Baruffi, Bollati Boringhieri, 1982, pag.170. 




07/11/08

OBAMA PRESIDENTE - Il commento di Enzo Bianchi


Cari tutti, è una settimana storica: Barack Obama è il 44.mo presidente degli Stati Uniti d'America, il primo con sangue afro-americano nelle vene, in tutta la sua storia. Vi riporto di seguito il bellissimo articolo scritto per l'avvenimento da Enzo Bianchi su La Stampa di ieri.


Il dialogo di Obama
La Stampa, 6 novembre 2008

In una società con tradizioni culturali e meccanismi elettorali segnati dalla personalizzazione delle sfide, non sorprende che chi è o sa apparire portatore di cambiamenti desti attese e susciti speranze dai tratti messianici. Soprattutto se mostra capacità di dialogare con le persone a cui si rivolge, se riesce a far sentir loro che le considera non come massa ma come parti di un corpo solidale, un corpo che nutre sogni condivisi e che è consapevole del fatto che “insieme possiamo farcela”.

Non stupisce allora che alla fine del discorso con cui Obama ha annunciato di aver vinto la corsa alla Casa Bianca, questa interazione tra il candidato e i suoi sostenitori abbia assunto tratti tali da richiamare la dialettica tra coro e protagonista propria della tragedia greca o la dimensione della litania alternata tipica di alcune celebrazioni liturgiche. Rievocare i passaggi salienti della storia della democrazia americana nell’ultimo secolo, ricordarne le lotte, le difficoltà, i sogni e le speranze e suscitare nell’uditorio l’adesione esplicita e ritmata - “Sì, possiamo farcela” - non attiene allora unicamente alla conoscenza e all’abilità nell’uso del “mezzo che è il messaggio”, ma riveste una dimensione più profonda, interiore.



Non basta infatti padroneggiare l’arte oratoria, non basta mutuare meccanismi e strumenti tipici dei concerti live o dei mega-raduni – come sovente avviene in quel paese anche in ambito di celebrazioni religiose ed ecclesiali – non basta far leva sull’emotività. Bisogna aver creato qualcosa prima, più in profondità, in quello spazio di interiorità dove ciascuno coltiva più o meno consapevolmente la propria dimensione spirituale. E per fare questo bisogna saper ispirare fiducia, attivare un dialogo, creare una dimensione che è comunitaria e non solo collettiva. Bisogna che ciascuno, indipendentemente dal colore della sua pelle, dalla sua storia, dalle sue sofferenze, senta di essere parte di una realtà più grande, dove i sogni e i bisogni di ciascuno sono presi in carico da tutti, superando individualismi e divisioni.

Certo, vedere e sentire migliaia di persone rispondere ai sogni rievocati come imprese del passato e impegni per il futuro con una formula analoga all’amen delle liturgie - “Sì, è così, lo possiamo!” - ha un forte impatto, soprattutto quando l’attesa si è caricata di ricordi e di speranze di altri tempi, di stagioni che avevano visto i narratori di un sogno come Martin Luther King e Robert Kennedy finire brutalmente assassinati. Eppure, in questa sorta di liturgia catartica si cela anche una pericolosa insidia: se quel flusso di dialogicità si interrompe, se la percezione di essere ascoltati e capiti si spezza, se la realtà quotidiana della convivenza nella polis contraddice il sogno comune intravisto come possibile, saranno proprio i tratti messianici a rivoltarsi in delusione cocente: troppe volte nella storia abbiamo visto gli osanna mutarsi repentinamente in “crucifige”. Sì, cantare insieme la speranza significa anche non delegare a una sola persona, per quanto carismatica, il faticoso lavoro di costruire insieme un futuro più giusto.

Enzo Bianchi