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12/01/15

Facciamo pace con il caso - Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare (La lettura, 11 gennaio 2015)





Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare su La Lettura di ieri


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. 

Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti.

Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. 

Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna. La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno.

A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso». Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?

Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita.
Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé. Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.

Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?

Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi.

Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. 

Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla».

Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.

Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso».

Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica. I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. 

Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia.

Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità? Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile.

Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli. Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente.

Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare.

Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.

Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.

Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.