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28/02/20

Smartphone e ragazzi: Le parole di fuoco di Zadie Smith



Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni (ah, ottimista! nota mia), dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. 

Ora resisto, ma non c'è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. 

Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un'intera società, un governo e un'istituzione privata mi dicessero: "A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall'eroina." 

Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà.

Zadie Smith, intervista di Luca Mastrantonio, il Corriere della Sera, Sette, 21.02.2020

10/03/18

Byung-Chul Han: "Lo smartphone ci promette la libertà, ma è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza".



Byung-Chul Han è uno dei più brillanti pensatori contemporanei:  insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura, di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han ha costruito un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, indagando i (dis)funzionamenti e le conseguenze antropologiche e sociali dei processi di globalizzazione, ricorrendo a categorie tratte dalla letteratura (come la stanchezza, ripresa dall’opera di Handke) e dalla filosofia sociale (come la trasparenza, cfr. La società della trasparenza, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2014), per decostruire le strutture dell’odierno neoliberalismo mercatista. Personalità dal profilo eclettico e sfuggente, Han rifiuta generalmente di rilasciare interviste ed evita di divulgare dettagli riguardanti la sua biografia.
Questo brano è tratto dalla bellissima intervista rilasciata a Federica Buongiorno per Doppiozero:


Oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. 

L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni. Per Karl Marx il lavoro conduce all’alienazione: il Sé viene distrutto dal lavoro. Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. 

Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burnout. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi. Questo auto-sfruttamento è più efficace dello sfruttamento estraneo di Marx, proprio perché procede insieme al sentimento della libertà

Il dominio neoliberale si nasconde dietro la libertà percepita: si dà, anzi, esso stesso come libertà. Il dominio raggiunge la forma più stabile laddove coincide con la libertà. L’odierna società non è la società della repressione, anche se la fine della repressione non implica la libertà. Oggigiorno, piuttosto, noi siamo depressi: la società della repressione cede il passo alla società della depressione.

Prima di tutto, c’è lo smartphone: ho sostenuto che lo smartphone è una forma di campo di lavoro. Con lo smartphone noi ci portiamo dietro un campo di lavoro.

Esso ci promette la libertà, ma di fatto è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza. Il tratto peculiare del contemporaneo campo di lavoro è che siamo al tempo stesso detenuti e sorveglianti. Non siamo servi, soggetti allo sfruttamento di un padrone. Piuttosto, siamo insieme servi e padroni.

I servi, infatti, devono accettare ogni lavoro: non sono liberi. Il neoliberalismo produce l’obbligo ad accettare ogni lavoro, perché non conosce il concetto della dignità umana. L’ha interamente sostituito con il prezzo

13/02/18

Cosa succede agli adolescenti risucchiati dagli Smartphone ? Il primo studio scientifico lo spiega.





Cosa sta succedendo alle generazioni di adolescenti, dei nostri adolescenti, i cosiddetti nativi digitali, che vivono ormai perennemente connessi ai loro smartphone ? Se ne parla tanto, ma nessuno lo sa esattamente. Adesso se ne sa un po' di più, perché è arrivato il primo studio molto approfondito - scientifico - sull'argomento e con ampio spettro, con ricerche durate diversi anni. Uscito in America, il libro ha suscitato un amplissimo dibattito, e un'eco profonda. Lo firma Jean M. Twenge e il titolo completo dell'opera è IGen: Why Today's Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More Tolerant, Less Happy - and Completely Unprepared for Aduthood - and What That Means for the Rest of Us, Simon and Schuster, New York, pagg. 392, Dollari 27. Ne ha scritto Gilberto Corbellini nell'ultimo numero de Il Sole 24 Ore - Domenicale, dell'11 febbraio.
Ecco qualche passaggio saliente. 


Da quando gli smartphone sono diventati onnipresenti, all'inizio di questo decennio, l'interazione faccia a faccia tra i giovani è drasticamente diminuita. 

Non solo, ma gli adolescenti e gli studenti universitari statunitensi oggi fanno tutto "meno": lavorano meno, escono meno di casa, si mettono meno nei guai, bevono meno e consumano meno droghe, sono meno interessati a prendere la patente per l'auto, meno interessati all'indipendenza, hanno meno pregiudizi razziali o di genere, sono meno bullizzati e bullizzano di meno, si accoppiano di meno e fanno meno sesso, sono meno disposti ad ascoltare chi dice cose controverse o che giudicano psicologicamente fastidiose, etc.

E, questo secondo Twenge, perché sono incollati a seguire un flusso interminabile di testi e immagini su degli schermi.  

Il risultato è meno tempo dedicato alla "costruzione di competenze sociali, alla negoziazione di relazioni e alla navigazione delle emozioni".  

In termini di conoscenza pratica e di essere disposti ad affrontare il mondo reale, ci sarebbe un ritardo di tre o quattro anni nella maturità: 18 anni equivalgono a quelli che prima erano 15.

La scarsa socializzazione e l'autoreferenzialità prodotta dall'eccessiva mediazione dei rapporti attraverso gli schermi, sarebbe causa del documentato incremento dei disturbi mentali, in particolare depressione, tra questi giovani. 




05/11/16

L'amore e il sesso al tempo degli sms e della chat. (di Richard Brooks).




GLI SMS e GLI INCONTRI D'AMORE - COSI' SI DISTRUGGE POESIA E MORALE - di Richard Brooks 

Contatti multipli e più disincantati - si può passare da un partner all'altro nella stessa serata se arriva un messaggino. Dall’aprile del 2007 il New York Magazine pubblica online pagine di diario delle esperienze sessuali della gente, che narra anonimamente le proprie conquiste e prodezze notturne. 

Alcuni di questi racconti sono insoliti e tristi. Una bancaria che è stata licenziata passa le serate a ubriacarsi per poi svegliarsi al mattino nel letto di uomini sconosciuti. Un operatore finanziario afro-america­no nei week-end gira per il paese per incontrare coppie in cerca di sesso interrazziale.

L’aspetto più interessante di questi diari è però la parte che il cellulare ha avuto nel corteg­giamento. 

Nelle sere in cui escono, gli estensori dei diari spesso inviano sms a diversi possibili partner, cercando di combinare l’incontro migliore. 

Come nota il giornalista We sley Yang, che indaga acutamente il fenomeno sul New York Magazine , chi scrive i diari «usa il cellulare per disaggregare, catalogare e rimpacchettare i suoi bisogni emotivi e fisici, assegnando un partner di­verso a ognuno di essi e sperando in un’esperienza soddisfacente» . 

A queste persone capita spesso di accingersi a passare la serata con un partner e di cambiare poi idea perché gli arriva un sms con una proposta più promettente. Per scongiurare il pericolo di non essere scelti da nessuno, scrive Yang, «tutti sono nell’elenco di riserva di qualcuno, e tutti hanno un elenco di riserva, che tengono aperto con sms interlocutori».

L’atmosfera è fluida, come in un’asta su eBay. Questo comporta l’adozione di strategie di marketing. Non bisogna appari re troppo ansiosi di conclud re. Vanno trovati soprannomi diversi per i vari partner. «Decido di passare la giornata con Quella Che Piange», scrive un assistente legale di 26 anni del l’East Village. Nel condurre le transazioni non bisogna avere troppi scrupoli. «Ho per le mani un super-appiccicoso», scrive una produttrice televisiva. «Mi ha chiesto di uscire di nuovo domenica prossima. Non rispondo» .

La gente che manda il diario delle sue vicende erotiche a una rivista non rappresenta cer­to l’americano medio, ma l’impiego della tecnologia negli approcci sessuali è ormai consuetudine per un gran numero di giovani americani, e riflette una tappa interessante dell’evoluzione sociale del paese.

Una volta — ai tempi di «Happy Days» — il corteggiamento era governato da una serie di regole e cautele. Gli incontri tra i potenziali partner avvenivano di solito nel contesto delle grandi istituzioni sociali: il quartiere, la scuola, il luogo di lavoro, la famiglia. C’erano dei riti sociali accettati — darsi appuntamento, uscire insieme, rimandare il sesso — il cui scopo era guidare i giovani lungo il percorso che andava dalla fase dell’interesse momentaneo a quella dell’impegno duraturo. Negli ultimi decenni questi riti sociali, incompatibili con l’epoca post-femminista, sono divenuti obsoleti e si è andanti alla ricerca di regole di corteggiamento più aperte.

Ci si aspetterebbe che in questa materia una società dinamica sia in grado di aggiornarsi, ma la tecnologia ha reso la cosa molto difficile. Le norme di comportamento implicano ostacoli e restrizioni, che vengono però dissolti dagli strumenti tecnologici, in particolare da cellulari e sms

Ora i corteggiatori si mettono in contatto in un ambito istantaneo e fluido, separato dalle grandi istituzioni sociali e dagli impegni che esse richiedono. Le persone si trovano così a dover fare i conti solo con se stesse. Diventano liberi battitori in un’arena competitiva segnata da relazioni ambigue. La vita sociale somiglia sempre più all’economia, dove si è immersi in una miriade di occasioni, domande e offerte, in un universo di partner potenziali.

La possibilità di raggiungere rapidamente molte persone sembra incoraggiare la segmen­tazione: si cerca di allacciare contemporaneamente relazioni di diverso tipo di con persone diverse. Sembra poi incoraggiare un atteggiamento di provvisorietà. Se si hanno sempre molte opzioni a disposizione diventa naturale adottare la mentalità di chi confronta i prezzi della merce.

Sembra anche incentivare un’atmosfera di generale disincanto. Lungo i secoli i sistemi basati su principi morali, dalla cavalleria medievale agli inni all’amore di Bruce Springsteen, funzionavano tutti più o meno allo stesso modo. Legavano gli interessi egoistici contingenti a significati trascendenti, spirituali. L’amore diventa così una nobile causa, un atto di sacrificio e di impegno disinteressato.

Gli sms e la mentalità utilitaria tendono a distruggere la poesia e l’immaginazione. Per reggere ai brutali contraccolpi del mercato occorre dotarsi di ironico distacco. Nel mondo odierno la scelta di un’automobile è un atto più sacro della scelta di un partner. Questo non significa che i giovani di oggi siano peggiori o più superficiali di quelli del passato. Significa che sono meno aiutati. Una volta la gente viveva all’interno di un’esistenza strutturata, che si occupava di foggiare le emozioni, guidare le pulsioni dal provvisorio al permanente e collegare le esigenze quotidiane a cose più elevate. La saggezza accumulata dalla comunità portava le coppie a trovare un impegno duraturo. Oggi ci sono meno norme che vadano in questa direzione. La tecnologia attuale sembra minare l’instaurarsi del senso di reciproca e stabile affidabilità su cui si costruisce la fiducia.

Copyright New York Times Syndicate
(Traduzione di Maria Sepa)
David Brooks 5 novembre 2009 

23/07/14

I bambini di Silicon Valley (The Children of Silicon Valley) : un illuminante post di Robert P. Harrison sul mondo digitale.




Pubblico questo articolo scritto da Robert Pogue Harrison per il blog di The New York Review of Books.  E' un piccolo saggio pieno di spunti e riflessioni illuminanti sul nuovo mondo di Silicon Valley: Google, i social network, il sistema digitale che sembra aver inghiottito le nostre vite.  

The Children of Silicon Valley

Robert Pogue Harrison


In the new HBO comedy Silicon Valley, almost every new start-up representative at a high-tech conference ends his presentation with the programmatic words, “and this will make the world a better place.” When Steve Jobs sought to persuade John Sculley, the chief executive of Pepsi, to join Apple in 1983, he succeeded with an irresistible pitch: “Do you want to spend the rest of your life selling sugared water, or do you want a chance to change the world?” The day I sat down to write this article, a full-page ad for Blackberry in The New York Times featured a smiling Arianna Huffington with an oversize caption in quotes: “Don’t just take your place at the top of the world. Change the world.” A day earlier, I heard Bill Gates urge the Stanford graduating class to “change the world” through optimism and empathy. The mantra is so hackneyed by now that it’s hard to believe it still gets chanted regularly.
Our silicon age, which sees no glory in maintenance, but only in transformation and disruption, makes it extremely difficult for us to imagine how, in past eras, those who would change the world were viewed with suspicion and dread. If you loved the world; if you considered it your mortal home; if you were aware of how much effort and foresight it had cost your forebears to secure its foundations, build its institutions, and shape its culture; if you saw the world as the place of your secular afterlife, then you had good reasons to impute sinister tendencies to those who would tamper with its configuration or render it alien to you. Referring to all that happened during the “dark times” of the first half of the twentieth century, “with its political catastrophes, its moral disasters, and its astonishing development of the arts and sciences,” Hannah Arendt summarized the human cost of endless disruption:
The world becomes inhuman, inhospitable to human needs—which are the needs of mortals—when it is violently wrenched into a movement in which there is no longer any sort of permanence.
The twenty-first century has only aggravated the political, moral, social, and environmental concussions of the twentieth. There would be reason to applaud the would-be world-changers and start-up companies of Silicon Valley if they made it their business to resist or reverse this process of planetary upheaval, the way environmentalists seek to do with the wounds we have afflicted on nature. Sadly they have no such militancy in their souls, nor much thoughtfulness. With a few exceptions, our new tech armies rarely take the time to think through what they are doing. Or if they do, they tend to think in ways that only add to the turmoil and agitation.
Silicon Valley, and everything it stands for metonymically in our culture, has indeed affected billions of people around the planet. The innovations have come fast and furious, turning the past four decades into a series of “before and after” divides: before and after personal computers, before and after Google, before and after Facebook, iPhones, Twitter, and so forth. In the silicon age, “changing the world” means at bottom finding new and more ingenious ways to turn my computer or smart phone into my primary—and eventually my only—access to “reality.”
In truth Silicon Valley does not change the world as much as it changes my way of being in it, or better, of not being in it. It changes the way I think, the way I emote, and the way I interact with others. It corrodes the worldly core of my humanity, leaving me increasingly worldless. (I do not consider the Internet’s Borg collective, with its endless drone of voices, a world, any more than I consider social media a human society; those who do not see the difference have already been assimilated.) Thoreau wrote: “Be it life or death, we crave only reality.” If only that were unconditionally true. Alas, Silicon Valley has enriched its coffers thanks largely to a contrary craving in us—the craving to trade in reality for the miniature screen of the cell phone.
In “Change the World,” a splendid New Yorker article published in 2013, George Packer mentions an employee at a high-tech firm who refused to take time away from work to hear what President Obama, who was visiting the campus, had to say. “I’m making more of a difference than anybody in government could possibly make,” the employee reportedly told a colleague. There are not many places in the world—maybe only one—where an employee can expect an absurd utterance like that to be taken seriously, and where children, metaphorically speaking, believe that adults need their guidance and tutelage. Speaking of the pastoral campuses of companies like Google and Facebook, Packer writes:
A polychrome Google bike can be picked up anywhere on campus, and left anywhere, so that another employee can use it. Electric cars, kept at a charging station, allow employees to run errands.… At Facebook, employees can eat sushi or burritos, lift weights, get a haircut, have their clothes dry-cleaned, and see a dentist, all without leaving work. Apple, meanwhile, plans to spend nearly five billion dollars to build a giant, impenetrable ringed headquarters in the middle of a park that is technically part of Cupertino. These inward-looking places keep tech workers from having even accidental contact with the surrounding community.
These heterotopias, with their teenage dress codes, situate themselves neither inside nor outside the public sphere. The companies that create such “frictionless” environments for their employees expect them to have an unlimited devotion to their jobs. Almost everyone who works for one of these companies in fact overworks in optimal working conditions, at the expense of their private, social, and public lives. Villiers de L’Isle-Adam’s famous remark—“As for living, our servants will do that for us”—would make an appropriate motto for many of them.
The high-tech campus is the setting of Dave Eggers’s The Circle, which aspires to be the great dystopian novel of Silicon Valley and its dream of total connectivity. Reading this book makes one wonder whether Silicon Valley could ever inspire a good novel. It can inspire good comedy, as in Mike Judge’s HBO series Silicon Valley, whose caricatures are highly effective. People who work in Silicon Valley tend to love this show precisely because its over-the-top portrayals of the most infantile and socially dysfunctional aspects of the tech start-up culture are eerily on the mark. Silicon Valley captures a truth that masquerades as farce, yet farce and truth in this case are almost indistinguishable.
Eggers’s transpicuous allegories in The Circle have no such cutting edge. As one perceptive employee at Google remarked to me, it is hard to tell whether the novel wants to parody Silicon Valley or the clichés of its critics. Eggers is otherwise an excellent writer, which makes one wonder why this particular novel is so flat. From a literary point of view it seems colonized by the totalitarianism of transparency that its fictional high-tech company, with its presumptions of a higher moral mission, seeks to impose on its workers, and on the world at large, which of course it wants to change. Eggers’s story suffers from a similar syndrome as its protagonist, Mae Holland, a young college graduate who lands a desirable job at The Circle. She believes that her life is full of excitement, yet in truth the more engrossed she is in her work the more vapid she gets. When Mae’s childhood friend Mercer chides her at a family gathering for not being able to tear herself away from her cell phone, he infuriates her by pointing out something she refuses to believe: “Mae, do you realize how incredibly boring you’ve become?”
It’s not Mae’s fault. Becoming a boring human being is the fate of most people who keep the tech economy’s lights burning deep into the night. These industries may be among the most vibrant and dynamic in the world, yet those inside the hive are among the most tedious people in the room, endlessly plugging into their prosthetic devices. The bad news is that their employers excel at finding ways to make those devices, in their continuously updating versions, universally available.
You shall know them by their fruits, Jesus says in Matthew 7:16. From the point of view of the world we share in common, the fruits in question are altogether tasteless. I have seen young teenagers who just yesterday were ebullient, verbal, interactive, and full of personality turn into aphasic zombies within three months of getting a smart phone or an iPad. The new wine is dying on the vine, and Dionysos, the telluric god of ecstasy, is nowhere in sight. It is unlikely that the next big digital innovation will lure him back.