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04/03/21

Libro del Giorno: "Cuori pensanti" di Laura Boella

 


5 brevi lezioni di filosofia per tempi difficili: così recita il sottotitolo di questo libro di Laura Boella dedicato a 5 figure femminili fondamentali nella storia e nella filosofia del Novecento. 

Edith Stein, Maria Zambrano, Hannah Arendt, Simone Weil, Etty Hillesum. 

La voce intensa, l'intelligenza e la straordinaria sensibilità di cinque grandi pensatrici. Cinque donne indipendenti, audaci, ostili a ogni conformismo. 

Cuori Pensanti è un piccolo libro di filosofia che rappresenta una continua fonte d'ispirazione

L'eredità delle filosofe non è soltanto scritta nei loro libri, ma vive nella loro esperienza, nei loro giudizi, nelle scelte etiche, politiche e spirituali. 

"In queste pagine," scrive l'autrice, "non ho fatto altro che lasciarmi trasportare dalla passione che mi accompagna da molti anni per queste straordinarie figure di pensatrici, cercando di esaltarne il coraggio di amare e di pensare." 

Cinque brevi lezioni di filosofia condensate in poco più di cento pagine: un piccolo compendio che attraversa la vita, gli amori, le inquietudini, le domande, le riflessioni di cinque pensatrici straordinarie che hanno sfidato la morale convenzionale e le cui biografie sono avvolte in un alone di leggenda. 

Per ognuna di loro, la filosofia non è stata un riparo o un ritiro dal mondo: è stata la pratica audace e ostinata di un addestramento al sentire la vita in tutta la sua ricchezza e complessità, di una vigilanza sulle proprie emozioni, di un raccoglimento capace di lasciar emergere ogni esperienza in tutte le sue sfumature, con assoluta chiarezza. 

Le loro parole e i loro pensieri sono una continua fonte d'ispirazione, oggi come ieri.

Laura Boella

Cuori Pensanti

Milano, Chiarelettere, 2020 

pp. 144 pagine, Euro 14,25

ISBN-10 : 8832963183 

ISBN-13 : 978-8832963182

30/01/19

Libro del Giorno: "La tigre assenza" di Cristina Campo.



E' ormai un nome quasi leggendario quello di Cristina Campo, nella vicenda letteraria italiana.

Si tratta dello pseudonimo della poetessa e scrittrice Vittoria Guerrini nata a Bologna nel 1923 e spentasi prematuramente a Roma nel 1977, minata da una malattia al cuore che condizionò la sua intera esistenza.

Formatasi su studi privati, cresciuta nel culto della bellezza e animata da un'incoercibile tensione alla perfezione, etica non meno che estetica - come scrive la voce a lei dedicata dalla Treccani -  fu grandemente influenzata dal pensiero di Simone Weil, e negli ultimi anni si dedicò allo studio dei mistici e della grande tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale.

Ciò che alimenta il mito della Campo, è l'estrema esiguità della sua produzione poetica: pubblicò in vita soltanto un'esile raccolta di versi (Passo d'addio, nel 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971).

Tutto ciò in ossequio ad un rigore e ad una autodisciplina quasi maniacale, bene espressa dalla frase che amava ripetere a proposito di se stessa, a mo' di precoce epitaffio: "Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto ancora meno."

Ciò nonostante, il nome di Cristina Campo è divenuto oggetto di devozione prima nell'ambiente degli esperti di cose letterarie, e poi  tra i lettori, dopo la pubblicazione di un ristretto corpus dei suoi scritti, a partire da Gli imperdonabili (1987), in cui è raccolta l'intera opera saggistica e che trae il titolo dal saggio dedicato ai poeti, ovvero all'imperdonabile amore della perfezione.

A quel libro, pubblicato da Adelphi, ha fatto seguito La tigre assenza (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), che raccoglie le poesie, edite, inedite e sparse, e le traduzioni dei poeti più amati. 

Nella bandella sono riportate due frasi, l'una di Ezra Pound: «Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato», l'altra di Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo», che bene esprimono le regole convergenti a cui Cristina Campo si è sempre attenuta, sia nel suo lavoro di traduttrice, che nella sua attività di poeta.

Tutta la sua opera in versi è così racchiusa nelle prime 50 pagine di questo libro, cui fa seguito però una gloriosa carrellata di traduzioni che vanno da  Simone Weil, a John Donne, da Hofmannsthal all'amatissimo W.C. Williams, da Herbert a Giovanni della Croce, fino a Emily Dickinson.

Più che traduzioni, queste di Cristina Campo, sono  esercizi di metafisica, dove ogni parola è distillata come il risultato di una potente e misteriosa alchimia.

Di certo tra le più grandi traduzioni in lingua italiana di questi poeti.

In Passo d’addio sono raccolte tutte le rare poesie scritte dalla Campo che ci offrono visioni terse e piene di pathos:  "Devota come ramo/ curvato da molte nevi/ allegra come falò/ per colline d'oblio."
" T'ho barattato, amore, con parole."   " La luce tra due piogge, sulla punta di fiume che mi trafigge";
fino al poemetto Diario bizantino, che apparve pochi giorni dopo la sua morte. E forse da questi ultimi versi, , da un «mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo», occorrerebbe partire per capire tutta Cristina Campo. Una voce davvero unica nel firmamento della poesia italiana, difficilmente assimilabile a qualunque altra del nostro tempo.

Fabrizio Falconi

Cristina Campo 
La Tigre Assenza 
A cura di Margherita Pieracci Harwell 
Biblioteca Adelphi 
1991, 6ª ediz., pp. 316 

10/10/18

L'amore calpestato.





Lo invochiamo sempre, ma quando l'amore arriva, non si è quasi mai all'altezza. 

Regna nell'animo umano una spinta cieca, distruttrice, che quasi mai riesce a resistere alla tentazione di arginare, profanare, umiliare, dissipare quel che è puro e che non si sa gestire, vivere naturalmente, felicemente. 

Si allontana da sé l'amore, come fosse un reietto, e ci si dilegua in mare aperto come un naufrago, sentendosi inutili protagonisti. 

Lo si allontana in spregio a quanto dice Pound: "Quel che ami veramente, rimane" e a quanto aggiunge Simone Weil: "I beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi come dono".

L'uomo è fondamentalmente stupido.

Preferisce comunque, con ebbrezza, la rovina di una cosa, alla cosa.

Dimenticando la lezione della vita breve, della vita che è importante. Perdiamo l'amore di chi ci ama, perdiamo le cose che non sappiamo coltivare e non sappiamo nemmeno apprezzare, come dono immeritato.




16/04/17

"Amore" di George Herbert, la poesia che folgorò Simone Weil durante la Settimana Santa.





Quattro anni dopo quella esperienza, vissuta in ritiro, Simone Weil la raccontò nei suoi celebri diari.

Nel 1938 ho passato dieci giorni nell’abbazia di Sollerno, dalla domenica delle Palme al martedì di Pasqua, seguendo tutte le funzioni. Un giovane inglese cattolico mi fece conoscere quel poeta inglese del 600 che venivano detti metafisici, più tardi nel leggerli vi ho scoperto una poesia intitolata “Amore”, l’ho imparata a memoria e spesso, nei momenti culminanti delle violenti crisi di emicrania, mi sono esercitata a recitarla, ponendovi la massima attenzione e aderendo con tutta l’anima alla tenerezza che essa racchiude. Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia, mentre a mia insaputa quella recitazione, aveva la virtù di una preghiera, fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo è disceso e mi ha presa”.

Era stato un giovane incontrato in quell'abbazia, il monastero benedettino di Solesmes (Francia), durante la settimana santa a farle scoprire quel testo, scritto da George Herbert, un poeta inglese del Seicento.

Simone Weil era arrivata A Solesmes particolarmente sofferente. In particolare, tormentata dalle devastanti emicranie che la colpiscono da tempo.

Imparata quella poesia a  memoria, Simone comincia dunque a recitarla quando le emicranie appaiono insopportabili.

L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare 
fin dal mio primo passo, 
mi si accostò, con dolcezza 
domandandomi se qualcosa mi mancava.. 
«Un invitato» risposi «degno di essere qui». 
L’Amore disse: «Tu sarai quello». 
Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto, 
non posso guardarti. 
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose: 
«Chi fece quest’occhi, se non io?» 
«È vero, Signore, ma li ho insozzati; 
che vada la mia vergogna dove merita». 
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il biasimo su di sé?» 
«Mio diletto, allora servirò». 
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo». C
Così mi sedetti e mangiai.

Un’esperienza unica, dunque, per Simone Weil. La quale, nella lettera inviata al poeta Joë Bousquet il 12 maggio 1942 così la commenta: Durante quel periodo la parola Dio non aveva nessun posto nei miei pensieri. L’ha avuto soltanto dal giorno in cui, circa tre anni e mezzo fa, non ho più potuto rifiutarglielo. In un momento d’intenso dolore fisico in cui mi sforzavo di amare, ma senza vantare il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito (senza esservi preparata per niente, dato che non avevo mai letto i mistici) una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, analoga all’amore che traspariva dal più tenero sorriso di un essere amato. Da quel momento il nome di Dio e di Cristo si sono intessuti sempre più irresistibilmente ai miei pensieri.

08/08/16

"Lettera a Simone Weil sulla primavera, l'attenzione e la Grazia" di Roberta de Monticelli



LETTERA A SIMONE WEIL SULLA PRIMAVERA, L'ATTENZIONE E LA GRAZIA

di Roberta De Monticelli

Premessa. Molti ricordano la bellissima apertura della poesia La porta :

Ouvrez donc la porte, et nous verrons les vergers 

Io ho immaginato che quella porta sbarrata – il mondo stesso, secondo una pagina weiliana – si trovasse qui, e che qui avvenisse il nostro incontro. 

Solo, lei oltre quella porta, oltre il muro che ho sognato correre tutto intorno a questo giardino – e io al di qua della porta e del muro. 

E mentre mi studiavo invano di articolare in poche frasi le mille domande che ora, in sogno, finalmente mi era dato farle, un ritmo che non ha la luce del suo verso ma forse appena un po’ dell’aria di questa primavera, mi ha presa per mano, e mi ha aiutato a rompere il ghiaccio, cominciando con una piccola canzone. 

Quando il verde nuovissimo respira
e primavera oscilla alta sui muri 
che cingono il giardino, 
e l’aria è pura luce di vento, 
amica ardua di grazia, 
noi parliamo camminando 
lungo il muro dalla curva dolcissima, 
che gira cerchia su cerchia, intorno a dove sei : 
tu – dentro, oltre la porta, io qui fuori, 
lungo questo marciapiede 
dove i miei passi 
hanno un suono d’argento 
come le tue parole, anima viva : 
tu – già fuori dal tempo, io camminando ancora ; 
di qua e di là dal muro, 
fianco a fianco eppure tu nel vero 
e io nel mezzo, la faccia al futuro. 

Tu, amica, fosti accolta oltre la porta chiusa del mondo. 
Antica Kore rapita a primavera, tu sei morta : 
eppure batte così forte il cuore oltre la porta chiusa, 
così alta si leva la parola ch’io non so più 
chi sia il dio rapace e l’anima rapita 
- così alta si leva e così nera che più non so 
se sia orma, ombra, o ala. 
Ascolto, e non so quanto mi separa dal tuo profilo bruno : 
sette cerchia di mura 
o questa lama questa ferita tua vicina al sole.[1] 

Quando il verde nuovissimo respira 
e primavera oscilla alta sui muri 
che circondano dio ascolto 
e attendo anch’io, signora, maestra d’armi, pulzella e guerriera : 
attendo fuori dalla porta chiusa 
l’ultima fioritura 
- la grazia del tuo riso di ragazza. 

Non è per nulla facile, Simone, « far buon uso » - come diresti tu – di questo po’ di carta bianca che mi è concessa per discorrere con te

In questa sorta di piccolo Eliso dove ti immagino ospite, almeno a primavera – se anche l’eternità, come spero, ha le sue stagioni. Non è facile, ancora meno che «far buon uso » del silenzio, al quale per sua vocazione la tua parola ci affida, al quale anzi la tua lingua mirabile ci apre, letteralmente, fendendoci la mente come una spada affilatissima. 

Non è facile parlare di te, ma soprattutto non è facile parlarti. Non solo perché si preferirebbe continuare ad ascoltarti, con larghe orecchie bianche come pagine. Ma perché con le tue parole è come se sprofondasse in noi, tratto a fondo da loro, quell’io che viene in superficie precisamente nell’atto presente di enunciarsi, nell’atto di parola. 

In questo senso è come se le tue parole non ammettessero replica o risposta, perché tu subito scompari da loro e inviti a scomparire l’io che le accoglie. 

Parlare è voler dire, dunque volere, e agire : rinunciare all’attesa e all’attenzione. Parlare è apparire. E’ ricrearsi, non « decrearsi ». Di più. Conversare è forse per sua essenza cercare un legame – fra il tu e l’io, fra l’io e il fondo, fra il presente e il vero, fra il tempo e l’eterno. Conversare è cercare una connivenza fra tutte queste cose…. Ma a me pare che la tua parola sia venuta per dividere, come una spada, tutte queste cose

L’io penso e il fondo, il presente e il vero, il tempo e l’eterno. Più in generale, a me pare, la tua parola è una spada che divide l’apparenza dall’essenza, il fenomeno dalla realtà. 

Tu stessa lo dici da qualche parte. E’ questa, in definitiva, l’opera di verità propria di quello che tu chiami malheur. La cognizione del dolore – non trovo approssimazione migliore al senso di quella parola – consiste in questo acquisto di realtà a spese dell’apparenza, che ne viene strappata via, pura illusione

« L’apparence colle à l’être et seule la douleur peut les arracher l’une de l’autre », dici.

 Ecco, la tua parola in questo imita il dolore. E’ in qualche modo dolore che parla, pure splendendo come fa una spada. E’ tranchante, taglia il fiato a ogni risposta – e anche solo alla speranza che si fa domanda. E’ l’arma prima del distacco : divide l’anima dalla sua voce, e invita all’esercizio del silenzio. Perciò è così difficile, Simone, replicare a quello che tu dici. Eppure. 




Questo testo è stato pubblicato per la prima volta da : Lorenzo Gobbi. PUBBLICATO DA LORENZO GOBBIWWW.LATTENZIONE.BLOG.COM 

24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





03/04/16

Intervista a Eugenio Borgna - "La fragilità degli adolescenti è una ricchezza."


E' il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant'anni le ferite dell'anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all'uso dell'elettroshock o dei farmaci "un tanto al chilo"
Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l'opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L'indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico... 
Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici... rappresentano circa l'1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d'angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l'ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all'educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti. «E così si rischia di far danni. L'ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».

Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L'insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».

Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo». 

Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell'utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».

Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l'ansia, la depressione e l'angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».

Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un'illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci». 

Di nuovo il tempo, la fretta...
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».

In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c'è bisogno di assistenza, si fa in fretta... Io la considero una pratica intollerabile. Non l'ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto». 



29/09/15

Oltre la Mente. La vita è chiaroscuro.


La mente non è un corpo rigido.  Nemmeno la visione lo è.  Nemmeno i suoni che percepiamo, o le sensazioni tattili delle nostre mani.   La mente elabora i tracciati vibrati dei sensi, ma è già a sua volta elaborata per essere duttile o elastica. 

Un pianto si risolve in riso, un riso in pianto. L'evoluzione della mente umana, basata su esperienza e conoscenza, è come una pianta che si solleva dal terreno e cresce sovrapponendo cellula a cellula, con il passare degli istanti. 

Come la pianta formata di tessuto cellulare, anche la mente è elastica, mutevole, si adatta all'ambiente circostante, seguendo la propria natura. 

La sperimentazione del vuoto della mente avviene in alcuni stati, come l'incoscienza o la meditazione profonda.  Ma anche in quei momenti, la mente non è mai vuota. 

Come insegnano le moderne conoscenze scientifiche, il vuoto non esiste.  

Nella fisica moderna il vuoto è ben lungi dall'essere vuoto, scrive Fritjof Capra  Al contrario, esso contiene un numero illimitato di particelle che vengono generate e scompaiono in un processo senza fine.  Il "vuoto fisico" non è uno stato di semplice "non-essere", ma contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo delle particelle.

Il vuoto è dunque potenzialità.  Quel che noi chiamiamo 'vuoto' è una zona grigia, dove il bianco non è del tutto bianco (e non può esserlo) e il nero non è del tutto nero (né può esserlo). Il grigio, in ogni sua possibile gradazione, è possibilità, infinite possibilità.

Alla Mente dunque, se è concesso di individuarsi solo per contrasto, cioè differenziandosi, è consentito di fare esperienza e quindi di crescere, soltanto per gradazioni, per variazioni: il sole se è pieno uccide, il buio se è pieno uccide. 

La vita può prosperare solo nello spazio intermedio, la vita della mente può prosperare solo nello spazio intermedio. 

Come scrive C.G.Jung, purtroppo, come tutto ciò che è sano e durevole, la verità si tiene più sulla via di mezzo che noi a torto detestiamo. 


E quel purtroppo è molto eloquente (specialmente detto da Jung): tutti vorremmo infatti un bel piatto caldo, già pronto da mangiare.  Tutti vorremmo non interrogarci troppo.  Tutti vorremo come l'aspirante pittrice de Lo stato delle cose (Wenders,1982) non dover diventare matti con il chiaroscuro, che rende irriproducibile quello che vediamo, impossibile da catturare. 

Una mia cara amica ha detto: Io sento in me istinti che devo combattere e contrastare. Tutta la mia tensione interiore è generata da una lotta continua tra ciò che sento giusto e buono e ciò che in realtà faccio quotidianamente.

Sembra essere lo stato permanente in cui si muove la nostra mente. Che è come un mare inquieto, liquido, in movimento. Il che stabilisce anche la nostra incompletezza, perché qualcosa in noi aspira o aspirerebbe ad un porto sicuro, ad un confine certo.  Ad un bianco o nero.

Ma questa imperfezione o incompletezza E' la vita.

Che non è data da altro se non da questo.   Una volta appresa, con profonda consapevolezza, questa lezione, si può o si potrebbe dire, insieme a Simone Weil:

Io desidero, io supplico che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi, interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché esso guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata.




25/03/15

"Memorie di una ragazza perbene", di Simone de Beauvor - L'eloquenza della testimonianza.



Ci sono libri che ti girano intorno per una vita, e scelgono loro il momento e il punto in cui presentarsi. Per me è stato così con Memorie di una ragazza perbene, che mi aveva sfiorato a lungo senza incontrarmi mai.

La Beauvoir si dedicò alla sua biografia - una vita lunga e piena - a partire dal 1958, e  Memorie di una ragazza perbene ne rappresenta la prima parte, pubblicata nel 1958 cui faranno seguito altre tre parti, L'età forte (1960), La forza delle cose (1963), A conti fatti (1972).

È un'opera, come è noto, fondamentale perché perché offre, insieme alla storia personale della scrittrice e della sua famiglia, la testimonianza in presa diretta sull'atmosfera e sul dibattito culturale svoltosi in Francia dagli anni trenta fino alla fine degli anni Sessanta.

Memorie d’una ragazza perbene si apre come un manifesto (e il suo incipit è uno dei più noti della narrativa contemporanea: «Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul Boulevard Raspail».

Retrospettivamente, Simone de Beauvoir che all'epoca ha cinquant’anni, ripercorre con minuzia i suoi primi vent’anni di vita: un romanzo di formazione femminile, in cui si assiste gradualmente alla nascita - o meglio alla identificazione - di un carattere.

Sono memorabili le pagine nelle quali Simone descrive la sua prima infanzia, un mondo apparentemente dorato - quello dell'alta borghesia parigina - rassicurato dal ruolo assegnatole nel mondo, quello della brava bambina, a cui è richiesto non tanto di scoprire il mondo, ma di viverlo nei confini assegnati.

Si stagliano le due figure, quella del padre, individualista e dalla morale caduca, e quello della madre, che incarna il rigore della vita spirituale.

Simone trascorre i primi anni tra il conforto rassicurante della fede che le è stata insegnata e l’amore per la lettura.

Ma ben presto la disillusione del caro mondo infantile,  che non è proprio quel che appare, lascia il posto alla curiosità divorante, alle inquietudini, e ai turbamenti dell'adolescenza.

E' di questo periodo il rapporto sempre più intenso con Zazà, la prima, vera amica, la rottura con Dio e la religione (che apparentemente resteranno immutabili fino alla morte) e la autoconsegna alla missione artistica.

L'amore per il cugino Jacques - contrastato e ambiguo - il rifiuto dell'idea del matrimonio, la decisione di iscriversi alla Sorbona, dove entra in contatto con i più grandi intellettuali dell'epoca: da Simone Weil a Merleau-Ponty (suoi compagni di corso), Raymond Aron, Paul Nizan e ovviamente Sartre, nel quale Simone trova un sodale, un complice più che un amante e un compagno, un vero alter-ego maschile.

Un cammino di emancipazione, contro tutto e contro tutti, verso la libertà intellettuale e la liberazione dai luoghi circoscritti in cui il femminile all'epoca è recluso. 

E' una testimonianza, quella di Simone, che resta agli atti del Novecento. E in qualche modo precede il valore strettamente letterario dell'opera. Che pure è importante. Personalmente ho trovato e trovo la prosa della Beauvoir (e la sua poesia) molto più eloquente per il lettore di oggi (e più alta più compiuta), di quella dello stesso Sartre (che oggi mi appare molto più datato). Insomma, un libro che sa ancora parlare - anche quando il mondo appare del tutto trasfigurato da quei tempi lontani nel quale tutto sembrava da scoprire, tutto sembrava da cambiare.

Fabrizio Falconi


31/01/15

Simone Weil e la verità.


Non bisognerebbe mai stancarsi di rileggere quel meraviglioso libro che è Lettere a un religioso, di Simone Weil.

In questo libro, Simone Weil (1908-1943) fornisce alcune illuminazioni che restano a lungo nella mente e nel cuore. 

A un certo punto, nelle sue opere, la Weil insiste quasi con accanimento, sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità (e la veridicità) non siano subordinati all'adesione religiosa, ma siano essi stessi il principio normativo. Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore. Prosegue Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano (III, 401). 

 Pier Cesare Bori, analizzando questo passo della Weil fa notare come viene in mente un'opposizione - una delle tante, ma in questo caso non banale - tra Dostoevskij e Tolstoj. 

Dostoevskij afferma: Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e cioè starei con Cristo anche se avesse torto

Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo ). 

Un testo che riporta a Platone, al famoso sono amico di Socrate, ma più ancora della verità che nella sua forma originaria si trova in Fedro 91B-C, Socrate dice: …io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti dovrete opporvi con ogni vostro argomento

Nella sua Professione di Fede Simone Weil scriveva: V'è una realtà situata fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell'uomo questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova alcun oggetto in questo mondo. 


10/10/13

Simone Weil - Le illuminazioni. (10 citazioni da meditare)




Non si finisce mai di esplorare l'universo di Simone Weil, il suo grande lascito spirituale e umano. Marco Cicala, in questo articolo pubblicato sul Venerdì di Repubblica ha ricostruito la sua vicenda alla luce delle memorie pubblicate dalla nipote, Sylvie Weil, la figlia del fratello André (1906-1998).  E' un pezzo molto interessante, che ci offre anche l'occasione di proporre dieci piccole perle dai diari di Simone, utili per la riflessione, da lasciar decantare e parlare, come avviene per ogni passo della sua grande opera. 



La compassione senza umiltà non è mai pura.
*
Il lavoro è per noi l'unica via che porta dal sogno alla realtà.
*
La collettività è più forte dell'individuo in tutto, tranne che per un aspetto: il pensiero.
*
Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L'umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità.
*
L'eternità si trova al termine di un tempo infinito. Il dolore, la fatica, la fame danno al tempo il colore dell'infinito. 
*
La forza del tempo strappa l'anima; e attraverso lo stretto; e attraverso lo strappo entra in essa l'eternità.
*
Ogni essere è un grido silenzioso che chiede di essere letto in maniera diversa. 
*
Accettare di essere anonimi, di essere materia umana. Rinunciare al prestigio, alla considerazione.
*
La creazione è un movimento che va dall'alto verso il basso. In questo senso il lavoro è una imitazione della creazione (come dell'incarnazione e dell'eucaristia).
*
Io desidero, io supplico che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi, interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché esso guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità.


Citazioni tratte da S.Weil, L'avventura di uno sguardo puro, Città Nuova 2001. 


20/06/13

Simone Weil: "Accettare che l'avvenire si compia, non aggrapparsi al passato."




Simone Weil, A proposito del «Pater» (estratto).

E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori 

Al momento di proferire queste parole occorre che i nostri debiti siano stati tutti rimessi. Non si tratta soltanto della riparazione alle offese che pensiamo di aver subìto. 

Si tratta anche della riconoscenza per il bene che crediamo di aver compiuto, e in generale di tutto ciò che ci aspettiamo da parte degli esseri e delle cose, di tutto ciò che giudichiamo ci sia dovuto e la cui mancanza susciterebbe in noi il sentimento di essere stati frustrati. 

Sono tutti i diritti che a nostro avviso il passato ci dà sull'avvenire. In primo luogo, il diritto a una certa permanenza. 

Quando abbiamo goduto di qualcosa a lungo, crediamo che sia di nostra proprietà, e che la sorte sia tenuta a lasciarcene godere ancora. 

In secondo luogo, il diritto a una compensazione per ogni sforzo, quale che ne sia la natura – lavoro, sofferenza o desiderio

Ogni volta che esce da noi uno sforzo e non rientra in noi l’equivalente di questo sforzo sotto forma di un frutto visibile, avvertiamo un sentimento di squilibrio, di vuoto, al punto di sentirci come derubati.

Lo sforzo di subire un’offesa ci induce ad aspettarci il castigo o le scuse di colui che ci ha offesi; lo sforzo di compiere il bene ci induce ad aspettarci la riconoscenza di colui che è in obbligo.

Ma questi sono semplici casi particolari di una legge universale della nostra anima. Ogni volta che esce da noi qualcosa, abbiamo un bisogno assoluto che rientri in noi almeno l’equivalente, e siccome ne abbiamo bisogno, crediamo di averne il diritto.

Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose l’universo intero. Pensiamo di aver crediti su ogni cosa. 

Ma tutti i crediti che crediamo di avere sono riconducibili a un credito immaginario del passato verso l’avvenire. 

È a questo credito immaginario che bisogna rinunciare. 

Aver rimesso ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato. 

Significa accettare che l’avvenire sia ancora vergine e integro, rigorosamente congiunto al passato con legami a noi ignoti, ma del tutto libero da quei legami che la nostra immaginazione presume di imporgli. 

Significa accettare altresì la possibilità che l’avvenire si compia, e in particolare che ci accada qualsiasi cosa, e che il domani renda sterile e vana la nostra vita passata. 

Rinunciando d’un sol colpo a tutti i frutti del passato, nessuno escluso, possiamo chiedere a Dio che i peccati da noi commessi non portino nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errori. 

Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire che in noi avvenga questa orribile fruttificazione. 

E attaccandoci al passato, è inevitabile che ci attacchiamo ai nostri crimini, giacché quanto di più essenzialmente cattivo risiede in noi ci è sconosciuto. 

Il credito principale che pensiamo di possedere sull’universo è la permanenza della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri.

L’istinto di conservazione ci fa sentire questa permanenza come una necessità, e noi riteniamo che una necessità sia un diritto. 

Al pari di quel mendicante che disse a Talleyrand: «Signore, bisogna pure che io viva» e al quale Talleyrand rispose: «Non ne vedo la necessità». 

La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla. 

Ma preferiremmo morire piuttosto che riconoscerlo. Per noi l’equilibrio del mondo è un concorso di circostanze tali da lasciare intatta la nostra personalità, come se ci appartenesse

Tutte le circostanze che in passato l’hanno ferita ci sembrano rotture di equilibrio che un giorno o l’altro dovranno essere infallibilmente compensate da fenomeni di segno contrario. 

E viviamo nell’attesa di queste compensazioni.

L’imminenza della morte suscita in noi orrore soprattutto perché ci costringe a renderci conto che tali compensazioni non avranno mai luogo.

La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità

È rinunciare a tutto ciò che chiamiamo «io». Senza eccezioni. Sapere che nel cosiddetto «io» non c’è niente, nessun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far sparire. Accettare tutto ciò. Essere felici che così sia. 

Le parole «sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano già tale accettazione. Per questo subito dopo è possibile proferire: «noi abbiamo rimesso ai nostri debitori». 

La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. 

Se accettiamo pienamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi. 

Perché chiedergli di rimettere i nostri debiti equivale a chiedergli di cancellare il male che è in noi. 

Il perdono è la purificazione. Dio stesso non ha il potere di perdonare il male che è in noi e che in noi persiste. 

Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha posti nello stato di perfezione. Fino allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi rimettiamo ai nostri debitori.

01/05/12

Simone Weil e il Lavoro.



Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto. 


Simone Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943)

03/11/11

Orientarsi ad amare (veramente) - Simone Weil.


Una volta ho trascorso alcuni giorni in montagna meditando insieme alla grande anima di Simone Weil, attraverso i suoi scritti.

Tutti noi nella vita, ci riempiamo le orecchie e le bocche della parola Amore. E invano ne cerchiamo il senso, il significato, il sapore.

Potremmo dire che tutta la vita la passiamo a cercare l'amore. Quello stesso amore che sappiamo che esiste.
Che una madre ci ha donato mettendoci al mondo, e proteggendoci nei primi istanti della nostra vita, e che mai più riusciamo a trovare (o quasi mai) nei termini esatti in cui noi lo vogliamo.

L'amore - questo lo capiamo invecchiando - non viene mai. Non viene mai, se non impariamo NOI STESSI ad amare, a darlo. E' questa la più grande certezza che ciascuno può sperimentare, ma che è invitato a fare prima che i rimpianti prendano il posto della pienezza:  se non si è capaci di amare, non si verrà mai amati.

Ma come si fa ad amare ? E soprattutto come si fa a mantenere vivo il proprio amore, a non lasciarlo appassire, scivolare, corrompere dalla vita di tutti i giorni ? A questa grande domanda risponde Simone Weil, morta a 34 anni per la consunzione di una vita e di un amore donato per tutta la vita, di una vita quasi leggendaria.

Scrive Simone nel 1942 mentre si trova a Marsiglia, per sfuggire ai nazisti e al suo destino di ebrea: "bisogna soltanto sapere che l'amore è un orientamento e non uno stato d'animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo contatto con la sventura. " 

Queste poche parole, in quei giorni trascorsi in montagna, mi hanno folgorato. Le ho avvertite come pura verità. E' così, è semplicemente così. L'amore, per essere amore, amore vero, deve essere un ORIENTAMENTO, e non uno stato d'animo.

Solo se siamo orientati ad amare, riusciamo ad amare veramente. Se il nostro amore è uno stato d'animo, siamo come canne al vento. 

Orientarsi all'amore, vuol dire come aggiustare la sintonia di una radio. Mettersi in ascolto di quel che è l'amore vero, e volere soltanto quello. Orientarsi all'amore, vuol dire non avere più paura di niente. Nemmeno della morte.

Scrive ancora Simone Weil: Chi riesce a mantenere la propria anima orientata verso Dio mentre un chiodo la trafigge, si trova inchiodato al centro stesso dell'universo. E il vero centro, che non sta nel mezzo, che è fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo una dimensione che non appartiene allo spazio, che non è il tempo, che è una particolare dimensione, questo chiodo ha fatto un foro attraverso la creazione, attraverso lo spessore dello schermo che separa l'anima da Dio. 

07/10/09

L'attenzione e la cognizione del reale - Simone Weil.

Ci sarebbe un'altra qualità - cristiana - da aggiungere a quel 'poco' e a quella 'cura' di cui parlavo nel post precedente. L'attenzione fa parte della cura, ma si riferisce più esattamente alla cura di un altro essere umano, all'ascolto di lui/lei - e quindi alla fratellanza - che in qualche caso autentico può portare all'aiuto risolutivo, cioè alla guarigione.

Di questo parla, la lettera che pubblico oggi, scritta da Simone Weil a Joe Bousquet nel 1942, un anno prima di morire. Bisogna leggerla con attenzione, appunto. Come tutte le cose scritte da Simone, contiene un tesoro che si svela mano a mano, che rivela sempre ulteriori profondità.

Inserisco la lettera in una doppia versione - video, e nella trascrizione letterale.

Mi ha profondamente commossa constatare che ha dedicato una viva attenzione alle poche pagine che le ho mostrato. Non ne traggo la conclusione che meritino attenzione. Considero tale attenzione come un dono gratuito e generoso da parte sua. L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione. Mi sembra che lei sia orientato verso questa scoperta. In effetti, ritengo di non aver conosciuto, da quando sono giunta in questa regione, nessuno il cui destino non sia di gran lunga inferiore al suo; tranne un’eccezione. (L’eccezione, lo dico di sfuggita, è un domenicano di Marsiglia quasi completamente cieco, di nome padre Perrin. Deve essere stato nominato da poco, credo, priore in un convento di Montpellier; se capitasse a Carcassonne, ritengo che varrebbe la pena di organizzare un incontro tra voi.)

La scoperta che le dicevo è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento? ». E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui.

E questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono. Reciprocamente, la piena cognizione che le cose e gli esseri sono reali implica la perfezione. Ma anche infinitamente lontani dalla perfezione possiamo, purché si sia orientati verso di essa, avere il presentimento di questa cognizione; ed è cosa rarissima. Non v’è altra autentica grandezza. Parlo di tutto questo non propriamente come un cieco, ma come un quasi cieco potrebbe parlare della luce. Almeno penso di vedere abbastanza per avere potuto riconoscere in voi questo orientamento.

E un regno in cui opera il semplice desiderio, purché autentico, non la volontà; in cui il semplice orientamento fa avanzare, a patto che si resti sempre rivolti verso lo stesso punto. Tre volte felice colui che è stato posto una volta nella direzione giusta. Gli altri si agitano nel sonno. Colui che procede nella giusta direzione è libero da ogni male. Benché sia, più di chiunque altro, sensibile alla sventura, benché la sventura gli procuri soprattutto un sentimento di colpa e di maledizione, tuttavia per lui la sventura non costituisce un male. A meno che non tradisca e non distolga lo sguardo, sarà sempre preservato. Anche quando si sente completamente abbandonato da Dio e dagli uomini, è comunque preservato da ogni male. Per aver parte a questo privilegio basta desiderarlo. E' proprio questo desiderio a essere cosa estremamente difficile e rara. La maggior parte di coloro che sono convinti di averlo, non l’hanno.

Tutta la parte mediocre dell’anima si rivolta e vuole soffocare il desiderio da cui si sente minacciata di morte, e riesce il più delle volte a raggiungere il suo scopo attraverso qualche menzogna. Allora si sente al sicuro. Gli sforzi, la tensione della volontà non la turbano. Si sente unicamente minacciata dalla presenza nell’anima di un punto di desiderio puro. Quanto prima le manderò la copia di alcuni versi di Eschilo e di Sofocle con il mio tentativo di traduzione. Anche un Nuovo Testamento in greco. Mi rimprovero di non averle detto una cosa a Carcassonne. Questa. Poiché lei ha bisogno di far venire un farmaco da Marsiglia, se in qualche modo posso esserle utile, disponga di me. Non tema di causarmi disturbo, se sarà necessario.
Creda alla mia amicizia.

03/06/09

Vito Mancuso è un teologo cattolico ? L'opinione di Marco Vannini.


Riporto qui di seguito l'intervista realizzata dal quotidiano Libero a Marco Vannini, davvero molto interessante, sul successo editoriale di Vito Mancuso, ma che contiene riflessioni molto interessanti sul comune sentire 'cristiano' e 'cattolico', oggi.


Vito Mancuso è un vero e proprio caso culturale ed editoriale. Non è infatti cosa abituale vedere un teologo entrare nelle classifiche di vendita e fare il pieno di pubblico ovunque si presenti. Firma ieri del Foglio e oggi della Repubblica, Mancuso è autore di diversi volumi. L’anima e il suo destino, edito da Cortina, ha venduto circa 100mila copie. Disputa su Dio, in collaborazione con Corrado Augias, è un best seller nonostante il caso di “copia e incolla” denunciato da Libero (sottolineiamo: nella vicenda Mancuso è privo di ogni responsabilità, a differenza del suo co-autore). Chiediamo un parere sulla teologia di Mancuso a Marco Vannini, 61 anni, fiorentino, massimo studioso italiano della mistica cristiana, cui si dedica da quaranta anni, primo editore di autori come Meister Eckhart, Taulero, Angelus Silesius, Gerson, Fénelon, Margherita Porete e altri. È autore di Introduzione alla mistica (Morcelliana), La morte dell’anima (Le Lettere), Storia della mistica occidentale (Mondadori), Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere), La religione della ragione (Bruno Mondadori) e Sulla grazia (Le Lettere).

Professor Vannini, come spiega il successo di Mancuso?

«Lo spiego col fatto che viene intelligentemente incontro a problemi anche di tipo religioso della società contemporanea, ormai post-cristiana, e dà le risposte che questa si aspetta, ovvero che le sono più gradite. Infatti presenta un cristianesimo senza peccato, senza conversione, senza redenzione, senza grazia, che perciò si accorda tranquillamente con il mondo secolarizzato dei nostri giorni - anzi col “mondo”, come categoria evangelica».

Ma allora non è più cristianesimo?

«In senso tradizionale sicuramente no, però bisognerebbe prima intenderci su cosa significhi essere cristiani. Ora, a parte il fatto che, come si dice giustamente, “solo Dio scruta i cuori”, possiamo pensare con Simone Weil che chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano».

Infatti la Weil è una della autorità cui Mancuso si riferisce...

«Sì, e su questo punto a buon diritto. Però solo su questo punto. Anzi, se c’è una cosa che contesto davvero al mio amico Vito Mancuso è proprio questo suo richiamarsi alla Weil. Infatti nella scrittrice francese è fondamentale l’evangelica rinuncia a se stessi, ovvero al proprio io, alla propria volontà: quella che ella chiama “decreazione”. La Weil vede la dimensione naturale dell’uomo tutta sottomessa all’egoismo, e perciò opposta al regno della grazia, che invece si apre proprio quando l’uomo fa il vuoto in e di stesso, “odia la propria anima”. In parallelo, la Weil pensa che la libertà che l’uomo crede di esercitare quando è privo di legami sia del tutto illusoria, perché l’uomo è soggetto alle leggi della natura e al suo determinismo, per cui di libertà vera si può parlare solo nella grazia - quando, appunto, è morto l’io naturale : “Dire ’io sono libero’ è una pura illusione - scrive - giacché a dire ’io’ è ciò che non è libero in me”. Su questi punti cruciali il pensiero di Mancuso è quanto di più antiweiliano ci sia».

Che ne dice della proposta di Mancuso di una teologia laica?

«Anche qui bisognerebbe prima decidere cosa intendiamo tanto per teologia quanto per laico. Di per se stessa l’espressione “teologia laica” è un ossimoro, però una teologia che celebra festival può benissimo accordarsi con la laicità. In fondo “laico” oggi significa proprio questo: che non vuole sentir parlare di distacco, di rinuncia a se stesso, di conversione - ovvero che conosce solo la dimensione della natura e ignora quella della grazia».

Quindi lei condivide le censure mosse a Mancuso da alcuni esponenti della Chiesa?

«Io non sono il più adatto a giudicare, però posso dire che non concordo affatto con la motivazione che mi è sembrata prevalente in queste censure, ossia l’accusa a Mancuso di essere uno gnostico, perché, se c’è qualcuno che gnostico non è, questo è proprio lui. Infatti, gnosticismo vuol dire essenzialmente opposizione luce-tenebre, Dio-mondo, spirito-materia, mentre nell’ultimo libro di Mancuso il pensiero è proprio opposto. Gnostica era la Weil, che non a caso amava tanto la civiltà catara e non perdonava al cattolicesimo di averla distrutta. E poi gnostico non è una brutta parola: gnosi vuol dire conoscenza, conoscenza che salva, e quindi anche il cristianesimo è una gnosi. I primi cristiani e i Padri della Chiesa parlavano infatti del cristianesimo come di una gnosi - certo, della vera gnosi opposta a quelle false, ma pur sempre di una gnosi. E questo i teologi dovrebbero saperlo. Se fossi un esponente del magistero ecclesiastico, quello che rimprovererei a Mancuso non sono tanto discutibili “errori teologici”, quanto l’aver messo la sordina agli aspetti più duri ma più essenziali del messaggio evangelico: conversione, distacco, rinuncia a se stessi, appunto. Non a caso ancora la Weil scrive che nel Vangelo non c’è una teologia, ma una concezione della vita».

In conclusione, per lei Mancuso è o no un teologo cattolico?

«Ripeto ancora una volta che non sono chiamato a giudicare nessuno. Comunque penso che Mancuso abbia, se non altro, il merito di costringerci a interrogarci sull’identità cristiana: siamo ancora capaci di recitare il Credo davvero credendo alle sue formulazioni? O in cosa consiste - se sussiste ancora - il nostro cristianesimo/cattolicesimo? Personalmente ritengo Mancuso un filosofo, un libero pensatore (non inteso come offesa, anzi!) che farebbe bene a dichiararsi tale, uscendo dall’equivoco del “teologo cattolico”. Questo gli farebbe forse perdere audience presso i “laici”, ma renderebbe più onore alla verità e a Cristo».