Visualizzazione post con etichetta sigmund freud. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta sigmund freud. Mostra tutti i post

13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




10/04/17

Il Libro del Giorno: "La bellezza che resta" di Fabrizio Coscia.





Leggendo La bellezza che resta, lo splendido libro di Fabrizio Coscia pubblicato per Melville Edizioni, mi è tornato alla mente il noto Sofisma del Velato, concepito da Eubulide di Megara nel IV secolo avanti Cristo, e commentato diffusamente da C.G.Jung in Aion, del 1951. 

Il Sofisma dice: 
"Sai riconoscere tuo padre?" 
"Sì."
"Sai riconoscere quest'uomo velato?"
"No." 
"Quest'uomo velato è tuo padre. Quindi sai e non sai riconoscere tuo padre." 

Il viaggio alla ricerca della bellezza che resta, intrapreso da Fabrizio Coscia, infatti comincia e si sviluppa intorno al letto di morte del padre.  Quel padre di Fabrizio generoso e virile, diretto e concreto, ma anche ombroso e sfuggente che nella copertina del libro, in una vecchia foto, si vede stringere amabilmente un bambino, suo nipote, cugino dell'autore. 

E' proprio intorno al letto di morte del padre che avviene quella trasfigurazione - cruciale in ogni esistenza di figlio - che porta a domandarsi cosa sappiamo di lui, di colui che ci ha messo il mondo, cosa è di lui in noi, cosa è di differente invece di noi rispetto a lui, perché volenti o nolenti l'identità di un figlio si forma sempre come una imperfetta carta carbone sulle differenze e sulle similarità di chi ci ha preceduto, mettendoci al mondo. 

Cosa resta della bellezza del padre, si potrebbe dire . Cosa resta di questa esistenza vissuta come si conviene (per usare le parole di Simone Weil) ? Cosa sparisce per sempre e cosa resta ad albeggiare (la parola che continua a pronunciare il padre durante i suoi ultimi giorni) ? 

Per scoprirlo, Coscia si è messo sulle tracce della morte di grandi spiriti che hanno attraversato il mondo, in primis quello di Lev Tolstoj, di cui viene ricostruita minuziosamente la celebre fuga pre-morte, fino alla stazioncina di Astapovo, ultima tappa del suo viaggio mortale; oltre a quello di Simone Weil, di Anton Cechov, di Richard Strauss, di Frieda Kahlo, di Auguste Renoir, ma anche di Glenn Gould e di Sigmund Freud. 

Di Tolstoj, in particolare viene affrontata la redazione e la scrittura - incompiuta - di un capolavoro poco noto, Chadzi-Murat, scritto tra il 1895 e il 1904 e pubblicato postumo nel 1912. 

In questo racconto lungo, Tolstoj torna ai suoi ricordi di quando era un giovane ufficiale, tra il 1851 e il 1852, nel Caucaso. In particolare alla figura di Chadzi-Murat, un guerrigliero àvaro il quale combatte strenuamente contro l'annessione della Cecenia alla Russia. 

A questo personaggio Coscia ritorna anche a causa delle terribili vicende del massacro della scuola di Beslan, del 1 settembre 2004, che riportarono alla stretta attualità le interminabili rivendicazioni del popolo ceceno contro l'imperialismo prima russo, poi sovietico e poi ancora russo. 

Perché Tolstoj negli ultimi anni scelse di dedicare tempo e attenzione e anima a un personaggio così, un assassino, un combattente, così lontano dai temi pacifisti, dal cristianesimo radicale e non violento che Tolstoj abbracciò alla fine della sua esistenza, trasformando la sua tenuta Iasnaja Poljana in una sorta di nuovo inizio di umanità, così lontano insomma dai temi di Resurrezione e degli ultimi formidabili racconti ? 

Tolstoj, suggerisce Coscia, forse rivedeva in Chadzi-Murat l'incarnazione di uno spirito ribelle, che non si rassegna e che vuole consegnarsi alla morte non domito, ma ancora in piedi, e anzi fuggitivo.  Che vuole per questo fuggire, fino all'ultimo, non essere incastrato in nessuna comoda cornice, in nessuna divisa d'ordinanza, in nessuna categoria.  

La bellezza che resta in Tolstoj è quella dei suoi libri, dell'arte, certo, ma anche della sua esperienza completamente e fino in fondo umana. 

In quella fuga disperata, con la morte che lo segue dappresso, Tolstoj porta con sé una parte considerevole dell'irriducibile Chadzi-Murat che vuole morire a modo suo, Via-di-qua. 

Quasi come a sparigliare nuovamente le carte, a voler confondere chi pensa o si illude già di aver riconosciuto la parola fine. 

Il Tolstoj che fugge è già un altro uomo, forse il prodromo dell'uomo che è già sulla soglia, e la sta attraversando, diventando quello che per noi è puro spirito, e poi chissà.

Per questo, nelle ultimissime pagine, dopo la scomparsa del padre, Coscia racconta di continuare a sognarlo, senza riuscire a trovarlo, come accade al professor Isak nel finale de Il Posto delle fragole di Ingmar Bergman. In quel caso sarà poi l'amata cugina Sara a condurlo, sulla riva per indicarglielo: era lì, di fronte a lui. 

"Dov'è andato ? Dov'è lui ?" si chiede Coscia riferendosi al suo, di padre.  Dov'è finito, dopo la morte? Cosa è diventato ? 

La morte ci costringe a rivedere ogni identità di colui che amiamo. Come il figlio del Velato, noi riconosciamo e non riconosciamo nostro padre. Perché lui è (già diventato) altro. 

A noi mortali, a noi sopravviventi, la scoperta gioiosa di quello (non poco) che resta.

Fabrizio Falconi

08/09/14

Freud e Jung adulteri - due diversi modi di tradire.



Si potrebbe dire, alla Woody Allen: dimmi come tradisci e ti dirò chi sei.

E' abbastanza curioso scoprire le differenze tra i due grandi padri della psicoanalisi, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, che furono entrambi, nelle loro vite, adulteri conclamati, ma in modi molto diversi. 

Come è noto Carl Gustav Jung sposò nel 1903, all'età di ventotto anni  Emma Rauschenbach, la figlia di un ricco industriale di Schaffusa.
Grazie a lei risolse definitivamente i suoi problemi finanziari e da lei ebbe, nel corso di dieci anni, ben cinque figli, Agathe, Anna, Franz, Marianne e Emma.
Nella sua autobiografia Jung parla poco di questa compagna, divenuta a sua volta psicoterapeuta junghiana. Il matrimonio durò tutta la vita (fino alla morte di lei), anche se Emma tollerò l'infedeltà coniugale del marito oltre ogni aspettativa.

Jung infatti già nel 1909 iniziò la celebre relazione con la paziente Sabina Spielrein che, invaghita di lui, pretende un figlio e tenta di rovinargli la reputazione.

Jung, intimamente coinvolto, non riesce ad interrompere la relazione. Fino al 1910, quando conosce Toni Wolff, poco più che ventenne, che rimane in analisi per circa tre anni.  E' ipersensibile, intelligente, amante della poesia, non bella ma estremamente femminile. Jung non le resiste e nel 1911 la relazione diventa totalizzante. Emma ne soffre molto, anche perché Jung pretende di coinvolgerla nella vita familiare e in quella professionale, rifiutando al contempo l'idea del divorzio.
La relazione con Toni dura per oltre quarant'anni,  in un singolarissimo rapporto triangolare (non fu mai messo in discussione il matrimonio con Emma, ma Jung, sempre più dilaniato interiormente, porterà il suo disastro interiore nel materiale magmatico che formerà il Libro Rosso).

Toni, fra l'altro, sarà l'unica autorizzata a trascorrere con lui i fine settimana nella Torre di Bollingen, il rifugio lontano da tutto, senza luce né acqua che Jung si era fatto costruire sul lago di Zurigo.


Del tutto diverso il tradimento di Freud. Il padre della psicoanalisi era sposato dal 1886 con Martha Bernays.

Anche questo matrimonio, però, non fu felice.  O almeno, non completamente.  Era stato lo stesso Jung, maliziosamente, molti anni dopo la celebre rottura tra i due, ad avanzare il sospetto che Freud fosse stato infedele alla moglie, e in un modo davvero piuttosto scabroso.

Negli ultimi anni, la notizia ha trovato conferme sicure proprio da parte di uno dei più grandi studiosi di Sigmund Freud, Franz Maciejewski, il quale è riuscito a dimostrare il rapporto con la cognata, Minna Bernays, sorella nubile della moglie di Freud che viveva sotto lo stesso tetto con la coppia.

Maciejewski infatti è riuscito a trovare in un albergo delle Alpi Svizzere la firma di Freud.  La prova difficilmente oppugnabile dell' adulterio sta scritta a chiare lettere nell' elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere, lo Schweizerhaus di Maloja.

Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora».

Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l' albergo.

Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente Freud non voleva insospettire la consorte.

In queste due diverse modalità di tradimento, c'è molto della diversa anima di Jung e Freud.

Jung portò l'adulterio, anzi i due adulteri, in superficie, alla luce del giorno, e cercò un difficilissimo - e doloroso - compromesso in vivendi.  Freud preferì la clandestinità.   Jung fu attratto da pazienti giovani, turbate e conturbanti. Freud preferì la cognata, che forse rappresentava un doppio della moglie.

E in queste differenti modalità c'è forse anche il segno di una diversissima interpretazione della libido, il meccanismo del desiderio umano, che mentre per Freud si identificava completamente con l'impulso sessuale, per Jung è la forza vitale psichica, di cui l'energia sessuale è soltanto un aspetto.


Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


18/06/13

La leggenda di Jung antisemita.



Siccome si torna a discutere ancora oggi di un presunto antisemitismo di Carl Gustav Jung (mi è capitato anche di recente di leggere nel libro di memorie Prima di andarsene Saul Bellow una definizione di Jung come "antisemita pazzo" ), pubblico questo articolo definitivo di Paolo Ferliga sul sito di Claudio Risé che ricostruisce punto per punto la vicenda e chiarisce una volta per tutte la questione.  

Capita ancora oggi di leggere che Carl Gustav Jung (psichiatra e psicologo svizzero vissuto tra il 1875 e il 1961, fondatore della Psicologia Analitica), sarebbe stato antisemita e nei primi anni Trenta avrebbe addirittura simpatizzato per il nazismo. 

 Queste accuse, particolarmente pesanti nei confronti di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla cura della psiche, sono del tutto infondate, smentite dagli scritti, dai comportamenti e dai numerosi pazienti e collaboratori ebrei di Jung. 

Per quanto riguarda gli scritti l’accusa si riferisce ad alcuni articoli degli anni 1933/34 in cui Jung parla di psicologia semitica o ebraica e di psicologia ariana o germanica. (1) L’uso di questa terminologia sarebbe una prova del razzismo intrinseco al pensiero di Jung. Per chi conosca il dibattito interno al movimento psicoanalitico l’uso di tali termini però non sorprende. Lo stesso Freud infatti riconosce più volte una differenza tra “anima ebraica” e “anima ariana”. Nel 1908, ad esempio, parla della sua “parentela razziale” con l’ebreo Abraham e di come “i nostri compagni ariani” siano indispensabili per sottrarre la psicoanalisi alla morsa dell’antisemitismo. (2) 

Nel ‘26 inoltre scrive che, pur non essendo credente, si sente attratto in modo irresistibile dall’ebraismo e dagli ebrei, mosso da “molte oscure potenze del sentimento” e dalla “familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica”. (3) Anche Freud riconosce quindi una specificità psichica connessa all’appartenenza “razziale”. Il termine razza, in quegli anni, non ha ancora assunto quell’alone semantico negativo e terribile che gli verrà conferito dal nazismo. Mentre Freud però non affronta questo problema a livello teorico, Jung si propone di indagare le “oscure potenze del sentimento” che spingono il singolo a sentirsi attratto dall’appartenenza al proprio popolo ed alla sua tradizione e di verificare se esista una “medesima costruzione psichica” correlata alle differenze etniche tra gli uomini.

In questa indagine Jung scopre che la psiche di una persona non è condizionata soltanto dalla sua storia individuale e familiare, ma anche dalla storia collettiva, dall’appartenenza ad una comunità e dalla relazione con la terra in cui la comunità vive.

Nell’inconscio collettivo infatti si depositano i miti, i simboli, le tradizioni di un popolo. Per questa ragione Jung parla anche di un carattere etnico della psiche e quindi di una differenza tra psiche ebraica e psiche germanica. Proprio la scoperta dell’inconscio collettivo e degli archetipi, che ne costituiscono la struttura, permette a Jung di intuire già nel 1918 il potenziale distruttivo dell’anima germanica. Nello scritto Sull’inconscio sostiene infatti che con il venir meno dell’autorità del cristianesimo “la bestia bionda …minaccerà di erompere con effetti devastanti”. (4)

Jung pensa però che l’inconscio dei tedeschi contenga non solo un elemento anticristiano e barbarico potenzialmente distruttivo, ma anche il suo opposto, un’energia in grado di promuovere un rinnovamento culturale e spirituale. Questa convinzione continuerà ad operare in Jung fino al 1933/34, quando ancora si illude che la terra di Goethe, di Beethoven e di Hegel, “uno dei paesi civilizzati più evoluti del mondo” (5), non si consegnerà mani e piedi alla barbarie nazista

I dubbi che Jung condivideva con molti intellettuali della sua epoca lo porteranno così a sottovalutare, in quegli anni, gli “effetti devastanti” del nazismo da lui stesso lucidamente previsti nel 1918. Forse per questa sottovalutazione Jung non si rende conto che i concetti di psicologia ebraica e germanica, negli anni in cui il nazismo utilizza il concetto di “razza ebraica” per giustificare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, si prestano a pesanti fraintendimenti e strumentalizzazioni. Di qui le accuse di antisemitismo e addirittura di simpatia per il nazismo di cui abbiamo parlato all’inizio. 

Jung risponderà a queste accuse in modo organico in tre scritti: Dopo la catastrofe, Commenti sulla storia contemporanea (1945) e Contributi ai “Saggi di storia contemporanea” (1946), (6) in cui presenta gli sviluppi del suo pensiero e un’analisi del nazismo come psicosi di massa. Ma già nel 1936 il saggio Wotan (7) suona come critica spietata del nazismo, analisi precisa e forse non ancora sufficientemente compresa delle sue cause profonde. 

Paolo Ferliga 
Docente di Filosofia Psicologo analista