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28/10/22

Scrittori, osate l'impossibile, non accontentatevi dell'ordinario: lo raccomandava Calvino

 


Rileggendo l'ultima delle Lezioni Americane di Calvino, l'ultima che scrisse, quella sulla Molteplicità (è la quinta, come è noto l'ultima, la sesta, dedicata alla Consistenza, Calvino non fece in tempo a scriverla), si ritrovano diversi passi che suonano come un monito agli scrittori di oggi (italiani) a ritrovare il coraggio di raccontare - e prima ancora di pensare - "in grande", ponendosi obiettivi alti, non consueti, non minimi, non minimalisti, non ordinari, non rinunciatari, non scontati. 

"L'eccessiva ambizione dei propositi" - scrive Calvino - "può essere rimproverabile in molti campi, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibile realizzazione. 

Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. 

Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo.

Uno scrittore che certo non poneva limiti all'ambizione dei proprio progetti era Goethe, il quale nel 1780 confida a Charlotte von Stein di star progettando un "romanzo sull'universo".  Poco sappiamo di come egli pensasse di dar corpo a questa idea, ma già l'aver scelto il romanzo come forma letteraria che possa contenere l'universo intero è un fatto carico di futuro."

Già: carico di futuro. Forse è per questa mancanza di coraggio e di ambizione che la letteratura italiana di oggi è così poco "carica di futuro". 

Fabrizio Falconi - 2022 

18/08/21

Quando Bruce Chatwin viaggiò in Afghanistan e la sua profezia oggi

 


Come tutti sanno, Bruce Chatwin amò soprattutto tre cose nella vita: viaggiare, scrivere, stupire.

I suoi libri, punti di riferimento il cui valore di testimonianza e di scrittura aumenta con il passare degli anni, dalla morte avvenuta troppo precocemente.

Bruce Chatwin, che era un fiero coltivatore dell'arte degli opposti, e che non amava nessun tipo di etichetta, una cosa fu di sicuro e certamente: un grande viaggiatore, intendendo con questo, qualcuno capace di percepire lo spirito dei luoghi e delle persone incontrate che diventano protagonisti dei suoi libri. 

Un titolo meno conosciuto della bibliografia che lo riguarda, è Bruce Chatwin: Viaggio in Afghanistan, volume nato in occasione di una mostra svolta a Bologna nell'autunno del 2000: Bruce Chatwin e il tesoro perduto di Fullol. A Palazzo Poggi furono esposti i disegni, le fotografie, gli appunti dello scrittore raccolti in un viaggio fatto nel 1969 in Afghanistan, in compagnia del gesuita Peter Levi, alla ricerca di resti archeologici che documentassero la presenza greca in questa regione. 




Chatwin, raggiunto poi dalla moglie Elizabeth, attraversò parte del paese, affascinato dagli usi e costumi locali e particolarmente colpito dal tesoro di Fullol, conservato al museo di Kabul e sconosciuto all'Occidente. 

Ma il viaggio rappresentò soprattutto la "scoperta" di una nuova visione dell'esistenza che lo portò a decidere di intraprendere seriamente la professione di scrittore, mantenendo viva e forte la voglia di percorrere le strade del mondo

Stephen Spender lo ricollegò a Lawrence. "Due secoli fa Bruce avrebbe potuto conquistare una vasta porzione di impero e probabilmente sarebbe morto giovane per essere sepolto in Afghanistan. L'Inghilterra non gli piaceva, ma anche questo è molto inglese. Dopotutto l'impero britannico si è fondato su persone che cercavano di allontanarsi dalla Gran Bretagna."

Come scrive oggi L'intellettuale dissidente Chatwin tornò a scrivere dell'Afghanistan, una sorta anzi di Lamento per l’Afghanistan scritto nel 1980, quando l’Armata Rossa era appena entrata a Kabul, dopo aver invaso il paese da lui amato. 

Chatwin in Afghanistan nel 1969


In questo saggio, Chatwin scrive:

“Nel 1962 – sei anni prima che gli hippies lo rovinassero (spingendo gli afghani istruiti tra le braccia dei marxisti)si poteva partire per l’Afghanistan con le stesse aspettative, diciamo, di un Delacroix diretto ad Algeri. Per le strade di Herat si vedevano uomini con vertiginosi turbanti passeggiare mano nella mano, una rosa in bocca e i fucili avvolti in chintz a fiori. 
Nel Badakhshan si poteva fare un pic-nic su tappeti cinesi e ascoltare il canto del bulbul. A Balkh, la Madre delle Città, chiesi a un fachiro la strada per il santuario di Haji Piardeh. ‘Non lo conosco’, mi rispose. ‘Dev’essere stato distrutto da Genghiz’… Non leggeremo più le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il cieco avanzare tra cespugli di rose facendosi guidare dall’olfatto. Non andremo a sederci nella Pace dell’Islam con i mendicanti di Gazor Gah. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col cardamomo; l’uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo l’aroma dei campi di fagioli, il dolce, resinoso profumo del legno di deodara, o l’afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri. Mai più. Mai più. Mai più”

E' davvero un lamento che oggi, dopo la nuova tragedia afghana, suona ancora più vibrante, e commovente.

Fabrizio Falconi



15/06/21

I limiti dell'Autofiction e la narrativa contemporanea: un debito di sincerità




Riflettevo, dopo aver letto il Nobel Tokarczuk, sui guai derivanti dalla superfetazione editoriale, che spingendo per la pubblicazione di un numero sempre più spropositato di libri e titoli, mischia alto e basso senza senso, eruttando galassie di autori che brillano per un minuto, come le stelle dell'11 agosto, tornando a confondersi nell'oscurità nel breve volgere di un lampo.

Tutti hanno diritto di pubblicare, per carità, e tutti hanno diritto di stare in scena, di diventare famosi per i 15 minuti che spettano, come ha profetizzato Warhol.

Se tutto però è in scena, tutto è ob-sceno.

Fiorisce il genere dell'autofiction, che i saggi fanno risalire a Marcel Proust.
Credo però che proprio Proust fosse massimamente cosciente del rischio dell'osceno, che è sempre la pornografia.
Esibirsi va bene. Mettere in vendita l'intimità al miglior offerente, e compiacersene, è pornografia.
Cercavo di capire cosa, leggendo Tokarczuk, mi causasse disagio. Non era l'esibirsi, no. Non era nemmeno la ricercatezza colta del suo esibirsi.
No, piuttosto era il 'compiacimento'.
Era quello. Chi racconta di sé, compiacendosene, asseconda l'ego ma difficilmente genera empatia nel lettore. Piuttosto solletica altre reazioni: curiosità, voyeurismo, morbosità.

E' questa la sottile linea di demarcazione tra W.G.Sebald e la Tokarczuk.
E' questo, il vero dolore rivelativo, che distingue Robert M. Pirsig dall'ultimo Carrère e dai suoi tanti imitatori moderni.
E' questione di sincerità. E' questione di tenere a bada l'ego saccente e sfrenato, lo specchio autoriferito dentro il quale ciò che interessa - all'autore - è la propria immagine e il proprio godimento, amplificato dalla pornografia dei lettori che leggono.
Ma come si riconosce la sincerità?
Metodo non c'è.
E' una questione di suoni. E' come quando dentro una orchestra che suona, si avverte, fastidioso, uno strumento che stride, che va per conto suo e segue un'altra via.
Il suono che stride lo si riconosce tra le pagine, e se lo si riconosce, non si è capaci di proseguire senza quel fastidio nelle orecchie - o negli occhi.
Allora si chiude il libro, e si riprendono in mano I racconti di Sebastopoli di Leone Tolstoj.

Fabrizio Falconi - 2021

17/04/21

Elsa Morante: Esce in libreria la attesissima biografia scritta da De Ceccatty: "Una vita per la Letteratura"




«La vita privata di uno scrittore è pettegolezzo; e i pettegolezzi, chiunque riguardino, mi offendono»: così Elsa Morante in un’intervista concessa a Enzo Siciliano nel 1972.

Una lapidaria affermazione, che René de Ceccatty - nato a Tunisi nel 1952, narratore e drammaturgo, è già autore di importanti saggi letterari su Moravia e Pasolini - non manca di citare nelle pagine di questo libro per mostrare quanto sia arduo il compito del biografo se ha come oggetto la vita di una scrittrice che», come scrive Sandra Petrignani nell’introduzione, «ha più di una volta depistato i curiosi, mescolando le acque su fatti e date della propria esistenza».

Ogni esperienza vissuta è, com’è noto, ben poca cosa rispetto alle ambizioni della letteratura, che non possono essere mai ricondotte ai meri fatti di un’esistenza. 

Tuttavia, se la biografia è anch’essa un genere letterario, illuminare l’esistenza di uno scrittore non ha nulla a che fare con il pettegolezzo, ma con quel punto oscuro tra la vita e la forza dell’immaginazione che è il luogo proprio della letteratura.

È quanto fa René de Ceccatty in questo libro quando, senza alcun timore, si avventura nell’infanzia di Elsa Morante per descrivere il suo ambivalente rapporto con la madre e quello complicato con i due padri, i fratelli e la sorella. 

Un’incursione che serve a svelare da quale zona d’ombra sorgerà poi una scrittura che «si insinua nei meandri della passione, del delirio, del terrore imposto o subíto», per celebrare «il trionfo dell’immaginazione» sulla deperibilità e sui compromessi triviali del mondo.

Oppure quando narra, ed è uno dei pregi maggiori di quest’opera, degli amori e delle amicizie della scrittrice. Amori per uomini impossibili, come Luchino Visconti e Bill Morrow, e amicizie grandiose e infime, prima fra tutte quella con Pier Paolo Pasolini, destinata a «spezzarsi nel risentimento e nella vendetta letteraria». 

Elsa Morante. Una vita per la letteratura, recita il titolo di questo libro, traducendo perfettamente il suo contenuto: il racconto della vita di una grande scrittrice, in cui le speranze, gli inganni e le illusioni proprie di ogni esistenza si mutano, nella trasfigurazione letteraria, in una sorgente infinita di narrazione e fascinazione.


14/11/20

La grafomania, ovvero l'ossessione di scrivere libri come epidemia di massa - Milan Kundera


 Suona come una profezia questa pagina scritta da Milan Kundera nel lontano 1977, in uno dei suoi romanzi più belli. La profezia di un mondo dove si diffonde sempre più una nuova epidemia: la grafomania di massa. Eccolo:

Questa conversazione mi ha di colpo chiarito la natura dell'attività di scrittore. 

Scriviamo libri perché i nostri figli non si interessano a noi. Ci rivolgiamo al mondo anonimo perché nostra moglie si tura le orecchie quando parliamo. 

... 

La donna che ogni giorno scrive all'amante quattro lettere non è una grafomane, è una donna innamorata. Ma il mio amico che fa le fotocopie delle lettere d'amore che spedisce per poterle un giorno pubblicare è un grafomane. 

La grafomania non è il desiderio di scrivere lettere, diari, cronache di famiglia (cioè scrivere per sé o per le persone a noi più vicine), ma lo scrivere libri (cioè avere un pubblico di lettori sconosciuti).  

In questo caso la passione dell'autista che scrive e quella di Goethe sono identiche. Quello che distingue Goethe dall'autista non è una passione differente, ma un differente risultato della passione. 

La grafomania (l'ossessione di scrivere libri) prende fatalmente le dimensioni di una epidemia di massa quando il progresso di una società raggiunge tre condizioni fondamentali:

1) l'alto livello del benessere generale che permette alla gente di consacrarsi a un'attività inutile;

2) l'altro grado di atomizzazione della vita sociale e il conseguente, generale isolamento degli individui;

3) la radicale mancanza di grandi cambiamenti sociali nella vita sociale della nazione (da questo punto di vista, mi sembra sintomatico che in Francia, dove non succede assolutamente nulla, la percentuale degli scrittori sia ventun volte maggiore di quella di Israele. Del resto Bibi si è espressa benissimo quando ha detto che, "visto dal di fuori" non ha vissuto nulla.  E' proprio questa assenza di contenuto vitale, è questo vuoto il motore che spinge a scrivere). 

Ma l'effetto si ripercuote di ritorno sulla causa.  L'isolamento generale crea la grafomania, ma la grafomania di massa generalizza e aggrava a sua volta quell'isolamento.  

L'invenzione della stampa permise un tempo agli uomini di comprendersi a vicenda.  Nell'epoca della grafomania universale, il fatto di scrivere libri assume un significato completamente opposto: ognuno si circonda dei propri segni come di un muro di specchi che non lascia filtrare alcuna voce all'esterno. 

Tratto da: Milan Kundera, Il libro del riso e dell'oblio, Bompiani 1980, traduzione di Serena Vitale, pagg.101 e 102


11/11/20

La mania di scrivere libri (che nessuno leggerà) - Milan Kundera

 


Suona come una profezia questa pagina scritta da Milan Kundera nel lontano 1977, in uno dei suoi romanzi più belli. La profezia di un mondo sempre più sordo, dove tutti scrivono e nessuno legge. Eccolo:

Chi scrive libri è tutto (un universo unico per se stesso e per gli altri) o nulla.  E siccome a nessuno sarà mai dato di essere tutto, tutti noi che scriviamo libri siamo nulla.

Siamo sottovalutati, gelosi, feriti e ci auguriamo la morte dell'altro. In questo siamo tutti uguali: Banaka, Bibi, io, Goethe. 

L'irresistibile aumento della grafomania tra uomini politici, autisti di taxi, partorienti, amanti, assassini, ladri, prostitute, prefetti, medici e malati mi dimostra che ogni uomo, senza eccezione, porta in sé lo scrittore come sua potenzialità.  Tutta la specie umana potrebbe a buon diritto scendere in strada e gridare: siamo tutti scrittori!

Poiché tutti soffrono all'idea di scomparire senza essere stati visti, né uditi in un universo indifferente e vogliono, finché c'è ancora tempo, trasformare se stessi in un universo di parole. 

E il giorno (vicino) in cui dentro ogni uomo si sveglierà lo scrittore, saranno tempi di sordità e incomprensione generali. 

Tratto da: Milan Kundera, Il libro del riso e dell'oblio, Bompiani 1980, traduzione di Serena Vitale, pag.116


18/12/17

Consigli di Flaubert a Maupassant per diventare uno scrittore: "Sacrificare anche se stessi all'arte!"



Vi lamentate che il culo delle donne è monotono ?  C'è un semplice rimedio, ed è di non servirsene. I vizi sono meschini, dite. Ma tutto è meschino ! Non ci sono abbastanza possibilità di lavorare le frasi, dite.  Cercate e troverete !

Infine caro amico, avete l'aria molto annoiata, e la vostra noia mi affligge, perché potreste impiegare più gradevolmente il vostro tempo. Bisogna, avete capito giovanotto ? Bi-so-gna lavorare più di così. 

Arrivo a sospettare che siate un fannullone. Troppe puttane !Troppo canottaggio ! Troppi esercizi fisici ! L'uomo civilizzato non ha bisogno della locomozione quanta ne pretendono i medici. Siete nato per fare dei versi ? Fatene ! Tutto il resto è vano, a cominciare dai vostri piaceri e dalla vostra salute, ficcatevi questo ben dentro la testa.

Vivete in un inferno, lo so, e vi compiango dal più profondo del cuore.  Ma dalle 5 della sera alle 10 della mattina il vostro tempo può essere consacrato alla Musa, la quale è ancora la migliore ragazza. 

Mio caro buon uomo, a cosa serve sfrucugliare la propria tristezza ?

Bisogna porsi faccia a faccia con se stessi da uomini forti, ed è il mezzo per diventarlo.  Un po' più di orgoglio ! Ciò che vi manca sono i principi.  Si ha un bel dire che sono necessari; resta da sapere quali. Per un artista ce n'è uno solo: sacrificare tutto all'Arte. La prima persona di cui deve fregarsene è se stesso.

Lettera di Gustave Flaubert a Guy de Maupassant, 1879, da tempo sotto la sua ala protettrice. Brano riportato da Marco Archetti, in Trovarsi un maestro e seguirlo è l'unico antidoto a questi tempi di stupidità, ne Il Foglio, 15 dicembre 2017. 

07/02/16

Caos in Francia per la rivoluzione della Grammatica: scendono in campo i puristi per la difesa dell'accento circonflesso.






Grandi polemiche in Francia per l'annuncio, circolato su molti media, dell'imminente entrata in vigore di una riforma dell'ortografia che, tra le altre cose, farebbe sparire l'accento circonflesso, in nome della semplificazione. 

Commenti indignati o ironici su social network, riflessioni con esperti sui canali all news, e persino un comunicato rabbioso del sindacato studenti Uni e dell'osservatorio dei programmi che accusavano il ministro dell'Istruzione, Najat Vallaud-Belkacem, di "credersi autorizzata a sconvolgere le regole dell'ortografia e della lingua francese"

Il Paese era in grande fermento, anche se non si capiva quale fosse la fonte dell'informazione, dato che dal ministero non erano arrivate comunicazioni ufficiali. 

A fare chiarezza e' arrivato un articolo di Le Monde, nella sezione Les decodeurs del sito, dedicata proprio al fact checking. 

"No, l'accento circonflesso non sparira'", titolava il pezzo, spiegando la riforma citata e' in realtà una proposta avanzata nel 1990 dall'Academie francaise per "semplificare l'apprendimento" di una lingua nota per la sua ortografia complessa anche per i madrelingua con elevato grado di istruzione

Che, pero', non aveva carattere obbligatorio, e in ogni caso non era stata presa in considerazione dalla legge per quasi 20 anni. 

Solo nel 2008, la Gazzetta ufficiale l'aveva "fissata come referenza", ma specificando sempre che anche le grafie precedenti sarebbero state ritenute corrette. Nessuna novita', quindi. Il fraintendimento, spiega sempre Le Monde, e' nato da una decisione degli editori di manuali scolastici che hanno deciso, a partire dalle pubblicazioni per il prossimo settembre, di usare l'ortografia riformata in modo omogeneo, dopo anni in cui ciascuna casa editrice faceva a modo suo. 

Ma per tutti gli altri la riforma, che tra l'altro non cancella del tutto l'accento circonflesso ma si limita a ridurne l'uso, resterà facoltativa come negli ultimi 26 anni.

30/08/15

E' morto Oliver Sacks.




(ANSA) - ROMA, 30 AGO - Il famoso neurologo e scrittore britannico Oliver Sacks e' morto oggi a New York all'eta' di 82 anni. Lo scrive il New York Times online citando Kate Edgar, la sua assistente. 

Sacks, come lui stesso aveva annunciato a febbraio in un editoriale sul Nyt, era affetto da cancro, che lo aveva colpito al fegato ed era entrato nella sua fase terminale. 

Uno dei suoi piu' famosi libri e' 'L'uomo che scambio' sua moglie per un cappello', uscito nel 1985. (ANSA).




05/06/15

"Vivo nel bosco: ascolto gli alberi che sussurrano " - Intervista a Peter Handke di Alessandra Iadicicco.




Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.

Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.

Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».

Perché?

«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».

Quando? E la salvò da che cosa?

«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».

Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…

«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».

Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.

«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».


Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...

«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».

E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.

«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».

E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità». 

«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».

I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali… 

«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».

Come trascorre le sue giornate da solo qui

«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».

intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 


La casa di Peter Handke a Chaville

16/04/15

Chi vuole farsi re dei boschi ? Michel Serres


John Robert Cozens, Il lago di Nemi, matita e acquarello, ca. 1777.

Se andate in Italia non mancate di visitare i monti Albani, non lontano da Roma e il lago di Nemi. 

Là le persone istruite vi racconteranno una storia. Accanto a quel luogo si stende un bosco, sacro nell'antichità. 

Un tempo chi attraversava quel bosco si trovava improvvisamente di fronte a un albero terrificante. Intorno ad esso, a ogni ora del giorno e probabilmente fino a notte tarda, si poteva veder strisciare, furtiva, una forma inquietante, una figura allucinatoria.  Un uomo anziano stava là.

Brandiva una spada sguainata, spiava d'attorno, febbrilmente, senza requie, come se aspettasse ogni momento l'assalto di un nemico. 

Quel vecchio in agguato, senza riposo, è il sacerdote del bosco sacro; sacerdote, omicida.  Il nemico che attende, colui di cui diffida, o da cui si guarda senza allentare la vigilanza, è colui che presto o tardi lo ucciderà, colui che gli prenderà il potere, il posto o il sacerdozio.

Una volta anche lui ha conquistato quel posto a quel prezzo.

Tale è la regola del santuario. Ogni candidato deve pugnalare il suo predecessore; allora assume le sue funzioni e le conserva fino a che sarà pugnalato a sua volta da qualcuno più forte, più giovane, più abile, più scaltro.

Durante il suo precario possesso feudale gode del titolo di re dei boschi. Quale testa coronata è stata più di quella visitata da incubi ?

Quel posto, tenuto non per mezzo dell'omicidio, è preso solo per mezzo dell'omicidio, lasciato infine, per mezzo di un omicidio,

Chi è re ? Colui che aspetta di morire di morte violenta.Colui che ha ucciso il re di morte violenta. 




17/05/14

'Il cardellino' di Donna Tartt: il piacere (effimero) di leggere una storia.




Di solito - premetto - non leggo libri così.   
Intendo libri che arrivano preceduti da un enorme battage pubblicitario, da premi (Pulitzer 2014) e investiture sul campo come 'libro dell'anno', che non si può evitare di leggere. 

Ma non avendo letto nulla di Donna Tartt ero abbastanza incuriosito. I libri poi arrivano sempre nel momento deciso da loro, ed era evidentemente il momento giusto per sobbarcarsi una lettura come questa, quasi 900 pagine, una storia perfino estenuante, scritta interamente in prima persona, in unità di tempo e luoghi, senza flashbacks, senza quegli espedienti di frammentarietà che vanno così di moda oggi. 

La Tartt è molto brava, nel congegno narrativo: la macchina funziona - non per niente proviene da quel Bennington College dal quale sono usciti anche Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem - con efficacia implacabile, pagina dopo pagina, con tutti gli snodi che rendono un libro leggibile e una storia accattivante. Si va a dormire incuriositi e con la voglia di farci raccontare cosa succederà quando riprenderemo in mano il libro. 

Theo, un ragazzino di dodici anni, resta orfano di madre - il padre, un ex attore sbevazzone ha già mollato il tetto coniugale da tempo, sparendo nel nulla - durante un misterioso attentato in un museo, nel centro di Manhattan.  Sepolto dalle macerie - la scena madre del libro si dipana all'inizio per cinquanta pagine ed è scritta con la necessaria magniloquenza e precisione dei dettagli di chi sa che è essa ad innescare il meccanismo narrativo che ti terrà avvinto per le successive 850 pagine - Theo scoprirà solo in seguito che la madre è morta, ma intanto avrà fatto in tempo a portare con sé, nello stordimento generale, un preziosissimo piccolo quadro, Il Cardellino, dipinto dal fiammingo Carel Fabritius nel 1654. 

Quella tela diventa il talismano di Theo, la sua àncora per sopportare i dolori del mondo che gli proverranno dalla nuova condizione di orfano: la scoperta del mondo di Hobie, l'antiquario nobile e silente che prende ad occuparsi di lui;  l'adozione da parte di una ricca famiglia di Manhattan, i Barbour; il ritorno del padre, che torna a farsi vivo accompagnato da Xandra, una svitata e lo porta a vivere con loro a Las Vegas; l'amicizia totalizzante con Boris, il Lucignolo che avvia Theo sulla strada della perdizione e della droga; la fuga solitaria per tornare a casa a New York; l'escalation nel mondo dell'antiquariato occupandosi della bottega di Hobie; i guai che ne seguiranno e le vicende gangsteristiche che porteranno il libro alla sua conclusione. 

Il Cardellino è un libro con molte ambizioni. Ma la qualità letteraria non è adeguata, ahimé, a supportarle.  

Contrariamente al facile entusiasmo di quelli che anche qui in Italia hanno scomodato paragoni con Saul Bellow o Henry Roth,  la scrittura della Tartt non è assolutamente all'altezza di questi confronti. 

Siamo cioè molto più dalle parti di Stephen King - che infatti ha recensito entusiasticamente il romanzo - che di Saul Bellow. 

Pur nella ricchezza del testo, nelle invenzioni narrative, nell'impianto Dickensiano così apparentemente solido, Il Cardellino ha un vuoto di fondo che non si riempie. 

Non si tratta soltanto della filosofia nichilista che pervade il romanzo, quasi come un teorema scontato. L'anima della storia resta ad un livello superficiale. 
Funzionano alcuni personaggi - il migliore è Hobie - altri molto meno, così come non funzionano affatto quelle trappole per il lettore che sono molto artificiose e di facile individuazione per chi non è proprio di primo pelo. 

Il personaggio di Theo resta, ma sono insopportabili a lunghi tratti le sue tirate vittimistiche, autocompiacenti e autocompiaciute, così come è insopportabilmente descritta - con eguale compiacimento - la parossistica caduta nel gorgo delle droghe (del vomito, della nausea, dei collassi, delle visioni) che avvita il libro su ritmi più stantii. 

Il vuoto comunque resta. E forse è proprio questo vuoto che sta a cuore alla Tartt, come lei stessa ci mostra nelle ultime pagine del romanzone. 

Senza compiere nessuno spoiler, si può affermare che il Cardellino resta alla corda, alla catena, esattamente come l'uccellino dipinto da Carel Fabritius nel 1654. 

Si ha cioè l'ìmpressione che un tale sfoggio di tecnica narrativa - al contrario dei grandi maestri che, dando voce poetica alla tecnica trasformano l'immateriale narrativo in reale-concreto-per-le nostre-vite - resta, come i vivaci colori del Cardellino fiammingo: pura manifestazione esteriore. 

Il pianto di Theo non riesce mai a scuoterci o a commuoverci fino in fondo.  La vita interiore richiede un surplus di  mondo reale e di mediazione poetica che nessuna raffinata tecnica narrativa, da sola, può restituire. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 






08/01/14

'L'infanzia di Gesù' di J.M. Coetzee - un libro misterioso e pieno di domande.






Coetzee  ha scritto il suo libro più misterioso. 

L'infanzia di Gesù è sin dal suo approccio - il titolo, che sembra più adatto (e lo è) ad un testo di teologia - sin da suo incipit, spiazzante. 

Di cosa vuole parlarci stavolta ? Che tipo di storia è questa ? 

Si intuisce dalle prime pagine che con il Gesù evangelico, con la storia tramandata, questo romanzo sembra non avere proprio nulla a che fare (ma nutriremo molti dubbi in proposito, andando avanti con la lettura). Il vecchio  (ma scopriremo poi che non è affatto vecchio, ha solo quarantacinque anni) Sìmon, approda, dopo un viaggio in nave (proveniente da dove ? Da quale terra? Da quale vita?) sulle sponde di un continente o di un paese chiamato Novilla, dove tutti parlano spagnolo e tutti sembrano ragionevoli e cordiali (a loro modo accoglienti): una società super-strutturata, su un modello che fa pensare ad  un socialismo effettivo (anche se non si intravvedono vertici totalitari) comunitario: molta burocrazia, centri di smistamento, di istruzione, di assegnazione degli alloggi, perfino il lavoro è strutturato come un'opera astratta, limitata all'uso corrente, senza apparenti fini, senza motivazioni che non siano quelli del puro presente. 

In questo modo apparentemente sereno ma allo stesso modo sottilmente inquietante, i sentimenti e le passioni paiono bandite.  Fanno parte della vita precedente, di quella che gli attuali abitatori di Novilla hanno lasciato alle spalle quando sono sbarcati sulle rive della nuova terra, chi prima chi dopo. 

Sìmon arriva a Novilla in compagnia di un bambino di cinque anni, che alla frontiera hanno battezzato David. Il figlio però non è suo (di chi è figlio ? Perché era da solo ? Da dove viene?). Si sono incontrati sulla nave - ma nulla ci viene riferito di questo incontro - e lui, Sìmon ritiene di dover svolgere il compito di trovare la madre di David, che deve essere da qualche parte a Novilla e che lui troverà non attraverso una ricerca metodica, analitica, ma sentendo che quella è la madre, quando la incontrerà, quando se la troverà di fronte.

La madre viene trovata: Sìmon la identifica in Inès, una tennista elegante che vive nella Residencia (una specie di quartiere residenziale riservato a pochi?) insieme a due scorbutici fratelli e a un cane altrettanto scorbutico. 

Sìmon, sentendo di aver esaurito il suo compito, lascia il bambino dalla madre. Salvo scoprire subito che non può fare a meno di lui. David è un bambino eccezionale. Sembra disporre di poteri e di percezioni particolari.  E' refrattario ad ogni forma di educazione tradizionale, tanto meno quella impartita a Novilla. Non ne vuol sapere. Tempesta Sìmon di domande filosofiche.  

Nelle ultime pagine del libro si cementa un legame tra Inès - che difende strenuamente il bambino e si oppone fieramente ad ogni tentativo dell'autorità di trasferirlo nel temibile centro di Punta Arenas, destinato ai ragazzi disadattati -  e Sìmon.  I tre - una famiglia davvero sui generis - si mettono in viaggio (ed è ovvio che qui il pensiero, come in altri punti del libro, vada alla suggestione del racconto evangelico) per sfuggire alla cattura, insieme al cane, nella vecchia vettura di uno dei due fratelli della donna.  David cercherà di convincere le persone che incontra a seguirli, in una strana e personalissima sequela

Più propriamente il romanzo di Coetzee è - come ha fatto notare Joyce Carol Oates - un'opera che si interroga sul Senso.  Senso con la maiuscola. Quello che sembra essere scomparso dall'orizzonte del mondo contemporaneo. 

Nessun vento è favorevole al marinaio che non sa dove andare, scriveva Seneca. E sembra essere diventato il paradigma del mondo che abitiamo.  Anche Novilla è un po' così: tutto è perfettamente organizzato, tutto ha uno scopo pratico - che sembra principalmente quello di eliminare la sofferenza e ogni tipo di turbamento - ma un senso vero non c'è. E infatti non c'è nessuna vera gioia, nessuna vera felicità. 

David è l'elemento dissonante.  Il bambino parla un linguaggio diverso, è - come direbbe il filosofo Marco Guzzi - l'emblema del Nascente, di quello che di nuovo sta germogliando, e che non è ancora compreso e non può essere compreso. 

David non  fa altro che fare domande. Ciò che il nostro mondo - e Novilla, ovviamente - non vuole e non sa più tollerare. 

David non ubbidisce.  David vede cose che non si vedono, afferma cose che non si possono dimostrare, cambia continuamente le prospettive logiche, chiede continuamente dove esista quel punto dove si può cadere. 

La forza del bambino, come la sua provenienza, è misteriosa. 

Quel che è certo è che egli non ha né padre, né madre. E' del tutto nuovo. Può avere soltanto qualcuno che si occupi di lui, che si prenda cura di lui.

Coetzee sembra arrivato al punto di considerare con stanchezza i mali (denunciati) del mondo, le ingiustizie, le cose sulle quali si gira intorno da sempre.  Quel che sappiamo della natura e del cuore nero dell'uomo e che la letteratura ha indagato in ogni modo (e lui stesso, basti pensare a Vergogna). 

Forse è giunto il momento di volgere lo sguardo ad altro.  A quel punto di universo - orizzontale e verticale - dove serve una vista diversa, come aveva intuito il collega Nobel José Saramago in un altro romanzo, straordinario come questo (e per atmosfere abbastanza consimile),  Cecità. 
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 



22/12/13

La modernità - Robert Pogue Harrison.





"Ecco quello che penso," continuò: "Che quando si tratta di essere moderni siamo scolari senza scuola, iniziati senza riti, devoti senza preghiere. Nessuno è stato all'altezza di insegnarcelo, nessuno ci ha insegnato ad aggiornare le nostre vite interiori.

Siamo entrati in quest'era come neonati, urlando e scalciando, e ancora non c'è neppure un adulto in vista. 

Ecco quello che penso: che mentre ci stiamo avvicinando a un nuovo millennio alla velocità della luce, ancora annaspiamo per trovare un capezzolo che ci consoli, e aspettiamo svegli che una mamma venga a darci il bacio della buonanotte.


Ecco a cosa penso: al colossale crollo di nervi. Come si fa a crescere ? Mi aspetto che me lo dicano gli scrittori moderni, e invece non trovo che gemiti e lamenti: un asilo nido per nostalgici e sconsolati. 


Chi di loro ha mai osato sostenere la propria epoca, o andare nella sua direzione ? Che ne sanno davvero della scienza ? Come fai a pretendere di essere uno scrittore moderno senza sapere niente della scienza ? Musil è l'eccezione.  Ha visto nella nostra epoca l'occasione per sperimentare, una sfida a ciò che è ancora indeterminato nella nostra natura, affinché abbracci la precisione del pensiero, l'esattezza, l'analisi, il processo tecnico, meccanico, standardizzato, anonimo - e in questo processo elevi la nostra umanità.

Al diavolo le trasformazioni stilistiche. Musil ha visto la necessità di una trasformazione spirituale, di una metamorfosi delle nostre strutture interne. 

... Malgrado la sua mancanza di talento, ha cercato di insegnarci un paio di cose sul giusto vivere in condizioni nuove, su come modernizzare le emozioni senza comprometterne la densità.  E' un inizio.  E' quanto ci serviva per l'inizio - un inizio, o almeno un monito che ci ricorda che non abbiamo neppure iniziato a fare i conti con noi stessi. 

Non sono forse gli scrittori i soli che possono iniziare l'opera di trasformazione interna ? 

... Il morire ha fatto progressi e noi siamo all'ultimo respiro.  Come dovremmo usarlo ? Per dire cosa ? Niente. Non c'è più niente da dire, eccetto che non abbiamo più niente da dire, e tutto perché coloro che presumono di parlare per noi si sono votati alla denuncia di ciò che conosciamo come reale invece di collaborare con esso, di investirlo creativamente."



Robert Pogue Harrison, Roma, la pioggia... A che cosa serve la letteratura ? Garzanti editore, 1995, traduzione di Stefano Velotti. 

08/01/13

Manuela La Ferla: a Firenze nasce la "Casa dell'Autore."





A Firenze nasce CASA DELL’AUTORE: intervista a Manuela La Ferla
di Massimo Maugeri per letteratitudinenews



Nasce a Firenze la CASA DELL’AUTORE di Manuela La Ferla. L’obiettivo dichiarato è quello di rimettere al centro del lavoro il testo e il suo autore, nel rispetto estremo della scrittura e fuori dalle forzature del mercato: un luogo dove le storie potranno circolare liberamente e le idee trovare terreno fertile, una modalità di lavoro che conserverà il nucleo antico del lavoro editoriale, ma guarda al futuro, alle nuove forme che con il digitale assumeranno un aspetto ancora difficile da immaginare. Uno spazio per autori italiani di eccellenza, per testi di narrativa e progetti di saggistica contemporanea. 

Manuela La Ferla, catanese di nascita ma fiorentina di adozione, vive e lavora a Firenze Ha collaborato a vario titolo con: Rizzoli, Feltrinelli, Adelphi, Einaudi, Theoria, Giunti, Mondadori, Fazi, Il Saggiatore, Cadmo e Longanesi. Ha collaborato a lungo anche con diverse testate, tra cui Diario e La Stampa e curato testi di Letteratura fantastica per diversi editori. Da un paio di anni cura la rubrica «Piccole Italie», su Latitudes. Come curatrice e autrice, è onorata di far parte nel suo piccolo del catalogo Sellerio. Da molti anni insegna editing alla Scuola Europea di Traduzione Letteraria. Nel 2013, in linea con l’evoluzione del mondo editoriale aprirà la casa dell’autore®, un crogiolo di eccellenza per testi e autori di qualità. Il vero lavoro editoriale, prima e oltre le case editrici. A Firenze, in via maggio 35. info@casadellautore.it

- Cara Manuela, da quanto tempo lavori del mondo dell’editoria? Ti andrebbe di raccontarci un po’ di te?
In breve: lavoro da venticinque anni in campo editoriale, come Editor Italiani, sia di narrativa che di saggistica contemporanea. Nasco in Sicilia cinquantanni fa, nella città da cui mi scrivi e che saluto. Vivo con mio marito e mio figlio Natnael di anni sette, a Firenze, mia città adottiva da oltre trent’anni (con tutti questi conti finirò per sentirmi vecchissima). Ho dedicato gran parte della mia vita alla letteratura e alle parole, fare l’editor è il mio modo di stare al mondo e quando penso penso da sempre sotto forma di libro. E per libro intendo un testo, originale, in lingua italiana, che poi vada in cartaceo o digitale è un’altra storia, ma non è questo il punto fondamentale, almeno per me. 
- A tuo avviso, cosa è cambiato nell’attuale sistema editoriale italiano dall’inizio della tua attività a oggi? Quali i pro e i contro?
Non è cambiata la passione dei giovani che vorrebbero entrare a far parte di questo nostro piccolo mondo, molto conservatore. Non è cambiata la dedizione dei molti che si prendono cura dei testi e non è cambiato il desiderio degli autori di arrivare ai propri lettori attraverso il filtro editoriale di una casa editrice. Per il resto, sembra di stare in un mondo capovolto. Chi guarda al mondo editoriale da fuori non credo lo sappia: ma l’industria editoriale è spesso strozzata da tempi di produzione accelerati e vittima colpevole della dittatura delle tirature (tranne che per il digitale). La cornice insomma si è un po’ mangiata il quadro. E il quadro, almeno per me, era e resta l’autore e il suo testo. 
- Credi che il ruolo e i compiti dell’editor, in particolare, siano cambiati in questi anni? Perché la figura dell’editor è ancora importante? 
Oggi l’editor è soprattutto un publisher, una persona molto competente che però compra libri già fatti altrove, mentre io mi sono sempre dedicata a farli i libri, e per farli non intendo costruirli a tavolino, anzi, intendo dire, anche pensarli, sì, se si tratta di saggistica, ma soprattutto aiutare l’autore a riflettere sul senso del proprio lavoro. Ed è proprio questo tipo di figura che è quasi del tutto scomparsa, quello che una volta si chiamava il consulente letterario di professione. Ci sono delle eccezioni, ma sono mosche bianche ormai. Il clima è mutato e non da oggi. Oggi su tutto vince il commerciale e le aspettative del lettore, quasi fosse la domanda a generare l’offerta e non viceversa.

Massimo Maugeri per Letteratitudinenews - continua a leggere qui.

02/10/12

Intervista ad Andrei Makine - Il romanzo nell'epoca della comunicazione.


  

Di Andrei Makine, è da poco uscito presso l’editore Einaudi,  Il libro dei brevi amori eterni.

* Murielle Lucie Clé­ment. – Andreï Makine, la sua idea di let­te­ra­tura è mutata, da quando è ini­ziata la sua car­riera, una ven­tina d’anni fa?

Andreï Makine. – In linea gene­rale no, ma si tratta anche di capire cosa lei intenda con “idea di letteratura”.

M. L. Clé­ment. – La sua idea per­so­nale e gene­rale di letteratura.

A. Makine. – Il posto che la let­te­ra­tura occupa in que­sto mondo, il posto che la let­te­ra­tura occupa rispetto alle espres­sioni arti­sti­che non let­te­ra­rie, rispetto alla filo­so­fia? Il campo va ben deli­mi­tato. La let­te­ra­tura era, per me, una spe­cie di sacer­do­zio. Si entra nella let­te­ra­tura come si entra in ordine reli­gioso. Ma senza alcuna con­no­ta­zione asce­tica o reli­giosa. Un impe­gno totale. Un altro modo di vivere. Proust diceva:” Leg­gere è assen­tarsi dalla vita”. Un libro è un altro modo di vivere. E’ pos­si­bile acce­dere in modo com­pleto a que­sto modo di vivere? Non credo, per­ché siamo dei sem­plici esseri mor­tali e dun­que siamo inte­res­sati a nume­rose altre atti­vità. Tanto più che, gra­zie a Ver­laine, la let­te­ra­tura è diven­tata quasi una bat­tuta: “E tutto il resto è letteratura!”
La visione che ne hanno i russi è abba­stanza ori­gi­nale. Non hanno creato grandi sistemi filo­so­fici, e hanno rime­diato a que­sto con la crea­zione let­te­ra­ria. Essere scrit­tore, in Rus­sia, signi­fica essere anche un pen­sa­tore e un filo­sofo. Que­sto con­fine, che tro­viamo in Fran­cia e in Ger­ma­nia, tra let­te­ra­tura e i grandi sistemi filo­so­fici come quello di Car­te­sio, di Hegel o di Kant, là non esi­ste. I russi, dun­que, sono dei sin­cre­ti­sti, e ciò può essere utile. Gli ha per­messo di evi­tare lo svi­luppo ple­to­rico di una let­te­ra­tura leg­gera, che è sem­pre stata indi­cata come bel­le­tri­stika. Una parola, “belle let­tere”, che in fran­cese suona nobile, ma in russo è un peg­gio­ra­tivo e ingloba tutto ciò che è avan­spet­ta­colo, roman­zetto da leg­gere in treno, tutti i generi minori, i roman­zetti facili. E che sono sem­pre stati disprez­zati, in Rus­sia. Quale sarebbe, allora, il ruolo della let­te­ra­tura, come defi­nirla? Una spe­cie di sote­rio­lo­gia. La let­te­ra­tura è soprat­tutto que­sto. Dopo i miei primi lavori, il mio modo di vedere la let­te­ra­tura si è diver­si­fi­cato, se non altro pro­prio gra­zie all’influenza che, soprat­tutto, hanno eser­ci­tato le cose che ho scritto. Ci sono campi, come il tea­tro, che un tempo mi sem­bra­vano inac­ces­si­bili. Non avrei mai pen­sato di scri­vere un pezzo di tea­tro, e invece l’ho scritto. Ho scritto dei saggi, anche se non mi con­si­de­ravo un sag­gi­sta. E, infine, non avrei mai pen­sato di scri­vere un testo, che l’attualità mi ha spinto invece a scri­vere, come Cette France qu’on oublie d’aimer.

M. L. Clé­ment. – Ci può rac­con­tare come è diven­tato scrittore?

A. Makine. – Biso­gne­rebbe scri­vere un libro intero per rac­con­tare la nascita di una voca­zione. Rian­diamo per un istante al signi­fi­cato eti­mo­lo­gico di que­sta parola, la vox, la voce che ti parla. Non nel senso che si sen­tano delle voci e che ne si venga illu­mi­nati. La chia­mata viene lan­ciato da realtà incon­fu­ta­bili, a cui si pensa senza pen­sarci, pur pen­san­doci: l’eroe, la morte, la bre­vità della vita, la fuga­cità del nostro essere, la sof­fe­renza, la morte dei nostri cari, il Male, il Bene, insomma, tutti i grandi inter­ro­ga­tivi che si pone l’umanità e che esi­gono una rispo­sta da parte nostra. E biso­gne­rebbe tro­vare un modo appro­priato per rac­con­tare tutto que­sto in modo non sco­la­stico, né oscuro, né alam­bic­cato. Tro­vare un lin­guag­gio sem­plice per dire la morte, l’eroe, la sof­fe­renza, il Bene, il Male ecc. E così, senza star lì ad archi­tet­tare la cosa, si ritorna a que­sto, ai grandi sistemi filo­so­fici, per par­lare in modo esatto.

M. L. Clé­ment. – Non ha vera­mente rispo­sto alla mia domanda. Come sono comin­ciate le cose? Com’è che è diven­tato scrittore?

A. Makine. – Sì ma, vede, io sono stato tal­mente tante cose. Lei avrebbe potuto chie­dermi, com’è stato com’è che a dodici anni è diven­tato un fac­chino in un mer­cato kol­ko­ziano, o un pastore e poi un sol­dato e così via. A un certo punto ho pen­sato di voler diven­tare uno spor­tivo di pro­fes­sione. Siamo tutte que­ste facce. Nabo­kov era un pro­fes­sore uni­ver­si­ta­rio. Que­sta era la sostanza del suo essere, della sua voca­zione? Forse un modo per sbar­care il luna­rio, come sono stati per me i mille mestieri che ho fatto.

M. L. Clé­ment. – Glielo chiedo per­ché, prima, lei è stato uno stu­dente uni­ver­si­ta­rio e ha scritto una tesi di dot­to­rato e degli arti­coli di cri­tica let­te­ra­ria. Forse avrei dovuto porre la domanda in modo diverso e chie­derle come lei è diven­tato un romanziere.

A. Makine. – L’analisi let­te­ra­ria è un aspetto sus­si­dia­rio rispetto alla crea­zione let­te­ra­ria. Imma­gi­niamo un cam­pione di For­mula 1 che, per esem­pio, s’interessi anche di mec­ca­nica. Que­sto gli dà qual­cosa. Cono­sce meglio il motore, come fun­ziona, i suoi limiti, ma non rim­piazza il suo talento di pilota. Un giorno, forse, quando avrà perso il suo ingag­gio, potrà sal­tare dall’altra parte e diven­tare un mec­ca­nico. Suc­cede lo stesso con la voca­zione letteraria.

M. L. Clé­ment. – Come scrive un romanzo, che è poi quello che lei fa, soprat­tutto. Ecco, vor­rei sapere come nasce un romanzo di Andreï Makine. Parte per prima cosa dall’idea di un per­so­nag­gio? O c’è una sto­ria che le parla, al principio… ?

Intervista realizzata da Marie Lucie Clément per Le Nouvel Observateur.

02/11/08

STRAORDINARIO RITROVAMENTO IN ISRALE: il più antico testo ebraico mai trovato !



E' davvero una notizia straordinaria:


Cinque righe tracciate da uno scriba di tremila anni fa stanno destando la massima emozione fra alcuni archeologi israeliani secondo cui sembra trattarsi del "piu' antico testo ebraico" mai trovato finora.


Ad accrescere il dramma vi e' lo scenario in cui il coccio di 15 centimetri per 15 e' tornato alla luce: la morbida e verdeggiante valle di Elah, a sud-ovest di Gerusalemme, dove secondo la Bibbia il pastore (e futuro monarca israelita) Davide affronto' spavaldamente il guerriero filisteo Golia.

Secondo la cronologia tradizionale il regno di Davide si sviluppo' mille anni prima di Gesu' Cristo: altri ritengono che il re sia vissuto invece verso il 900 a.C. . Esami al carbonio effettutati su noccioli di uliva trovati vicino al coccio in questione li fanno risalire ad una data compresa fra il 1050 e il 970 a.C.

La scoperta e' il frutto di scavi avviati a giugno da un professore della Universita' ebraica di Gerusalemme, Yosef Garfinkel, nella zona di Khirbet Qeiyafa, nel cuore della valle di Elah. Lo studioso era attirato in particolare dai resti di una struttura possente, la Fortezza Elah. Situata a due giornate di marcia da Gerusalemme e a una decina di chilometri dalla importante citta' filistea di Gath, sembrava essere un avamposto del regno di Giudea. Le mura esterne avevano un perimetro di 700 metri, la loro larghezza era di quattro metri. All'interno c'era una guarnigione di 500 uomini: la assenza nella zona di ossa di suini fa pensare che si trattasse di una postazione di israeliti. Gia' allora si vietavano il consumo di carne di maiale.

Ed e' la' che e' stato ritrovato il coccio, scritto con caratteri che gli studiosi chiamano 'proto-canaanei'. Da quella scrittura si sarebbero poi sviluppati l'ebraico e altre lingue semitiche. Superato lo sbalordimento iniziale, gli studiosi hanno iniziato la decifrazione dei caratteri che non erano incisi, ma erano stati tracciati con un inchiostro prodotto dalla mistura di carbone e di grasso animale.

Dopo un termine iniziale di divieto ("Non fate...") l'anonimo scriba traccio' altre parole, sottolineate da righe nere, che in parte sono state cancellate dal tempo. Tre parole sono state identificate con certezza: 'Re' (Melech); 'Giudice' (Shofet); 'Schiavo' (Eved). Ma non viene escluso che quei caratteri siano solo la parte di nomi privati: ad esempio, Achimelech ed Evedel.

Per proseguire l'esame del coccio gli studiosi israeliani faranno ricorso alla tecnologia. Negli Stati Uniti esiste a quanto pare la capacita' di ricostruire le lettere scomparse, sulla base di labili tracce rimaste nella materia. Secondo gli studiosi della Universita' di Gerusalemme la importanza di questa scoperta potrebbe rivelarsi paragonabile a quella dei Rotoli del mar Morto: testi religiosi che risalivano ad "appena" duemila anni fa.

fonte Aldo Baquis per Ansa - da Tel Aviv, 31 Ottobre 2008.