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25/10/15

Oltre la Mente - L'attesa è il tempo della gioia.




L'attesa non è soltanto il tempo del tormento e dell'ansia. 

L'attesa, la vigilia, l'avvento (in termini religiosi/cristiani) è (anche) il tempo della gioia.

In psicologia, solo colui che aspetta (qualcosa o qualcuno) è realmente vivo. Quando non si aspetta più nulla o nessuno, si è semplicemente rassegnati o cinici (e in termini psichici formalmente morti).  

Anche chi pratica le discipline orientali (e occidentali) del distacco dalle cose materiali e dagli attaccamenti terrestri, non rinuncia mai ad attendere. Anche soltanto ad attendere ciò che arriva - e ad accettarlo incondizionatamente - dalla vita.

Attendibile è la verità che ci scuote, che dirime il dubbio. 

L'attesa è il tempo in cui la spada resta nell'elsa.  Il tempo nel quale il chicco di grano matura sotto le coltri di neve, in attesa della prossima primavere.  L'attesa è il tempo nel quale un feto si forma completamente nel ventre della madre. La madre che aspetta un figlio. 

L'attesa è carica di promesse.  E in fondo la nostra mente non fa che - continuamente - predisporsi all'attesa.  La nostra giornata è questo: disponiamo di un ordine mentale che ci fa aspettare la prossima cosa, il prossimo impegno, il prossimo svago, quella cosa che prima o poi arriverà e ci farà sentire un po' meglio. 

Quando non si desidera e non si aspetta più nulla, si dice clinicamente che si è inclini alla depressione. 

E non importa, generalmente, che le promesse dell'attesa si concretizzino o meno.  La fiducia o la speranza è più importante.  Soltanto una fede in quel che accadrà determina lo scenario futuro abitabile per la nostra mente. 

Contro questa determinazione vivente - la volontà naturale che si impone e trova sempre i mezzi per avverarsi - si oppone il realismo pessimistico di Schopenhauer e di diversi altri: la speranza è una vana illusione.  Bisogna vivere - dice S. - come se si fosse dentro una colonia penale. E gli altri non sono altro che i nostri compagni di prigionia. 

Ma perfino Schopenhauer concorderebbe sul fatto che anche un coscritto in un campo di prigionia attende qualcosa:  la fine della pena o una fuga, una evasione dalla colonia penale. 

In fondo ciò che possiamo fare di meglio in questa vita - che è essa stessa una attesa - è abitare lo stato/gli stati di attesa e viverli con la maggiore pienezza possibile. 

Pre-gustando, immaginando, interloquendo con i nostri sogni e aspettative, confrontandoli con il principio di realtà. Non rinunciando mai ad assaporare quel che di meglio la vita ha da offrirci e quello che di meglio noi abbiamo da offrire a lei. Il compimento (felice e consapevole) di una attesa.

Fabrizio Falconi (C) -2014 riproduzione riservata.
foto in testa dell'autore: particolare dell'Ares Ludovisi a Palazzo Altemps


27/06/15

Il verso misterioso di Dante su Ugolino. Un meraviglioso piccolo saggio di Borges.



Riporto qui uno dei meravigliosi nove saggi danteschi di Jorge Luis Borges, pubblicati in Italia da Adelphi, dal titolo: Il falso problema di Ugolino.


Non ho letto (nessuno ha letto) tutti i commenti alla Commedia, ma ho l’impressione che, nel caso del famoso verso 75 del penultimo canto dell’Inferno, abbiano creato un problema che nasce da una confusione tra arte e realtà

In quel verso Ugolino da Pisa, dopo aver raccontato la morte dei figli nel Carcere della Fame, dice che la fame poté più che il dolore («Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno»). 

Da questo rimprovero devo escludere i commentatori antichi, per i quali il verso non è problematico, visto che tutti interpretano che non il dolore ma la fame poté uccidere Ugolino

Allo stesso modo intende Geoffrey Chaucer nel grossolano riassunto dell’episodio intercalato nel ciclo di Canterbury. 

Riconsideriamo la scena. Nel fondo glaciale del nono cerchio, Ugolino rode infinitamente la nuca di Ruggieri degli Ubaldini e si pulisce la bocca sanguinaria con i capelli del reprobo. Solleva la bocca, non il viso, dal feroce pasto e narra che Ruggieri lo ha tradito e incarcerato insieme ai figli. 

Attraverso l’angusta finestra della cella ha visto crescere e decrescere molte lune, fino alla notte in cui ha sognato che Ruggieri, con famelici mastini, cacciava sul fianco d’una montagna un lupo e i suoi lupacchiotti. 

All’alba sente i colpi del martello che spranga la porta della torre. Passano un giorno e una notte, in silenzio. Ugolino, spinto dal dolore, si morde le mani; i figli credono che lo faccia per fame e gli offrono la loro carne, che lui stesso ha generato. Tra il quinto e il sesto giorno li vede morire, ad uno ad uno. Poi diventa cieco e parla con i suoi morti e piange e li tasta nell’ombra; poi la fame poté più che il dolore. 

Ho detto quale significato danno a questo passo i primi commentatori. Così spiega Rambaldi da Imola nel XIV secolo: « come dicesse che la fame sconfisse colui che tanto dolore non aveva potuto vincere e uccidere»

Tra i moderni condividono tale opinione Francesco Torraca, Guido Vitali e Tommaso Casini. Il primo vede nelle parole di Ugolino stupore e rimorso; l’ultimo aggiunge: « moderni interpreti hanno invece fantasticato che Ugolino finisse cibandosi della carne dei figliuoli, che è contrario alla ragione della natura e della storia», e considera inutile la controversia.

Benedetto Croce la pensa come lui e sostiene che delle due interpretazioni la più coerente e verosimile è quella tradizionale. Bianchi, molto ragionevolmente, glossa: «Altri intendono che Ugolino mangiò la carne dei suoi figli, interpretazione improbabile ma che non è lecito scartare». 

Luigi Pietrobono (sul cui parere tornerò) dice che il verso è volutamente misterioso. Prima di intervenire, a mia volta, nell’ « inutile controversia», voglio soffermarmi un istante sull’offerta unanime dei figli. Questi pregano il padre di riprendere quelle carni da lui stesso generate: …tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia. Immagino che siffatte parole debbano causare un disagio sempre maggiore in chi le ammira. 

De Sanctis (Storia della letteratura italiana, IX) riflette sull’imprevista congiunzione di immagini eterogenee; D’Ovidio riconosce che « quest’espressione gagliarda e concettosa di un impeto filiale quasi incatena ogni libertà di critica». 

Quanto a me, penso che quella scena costituisca una delle rare falsità presenti nella Commedia. La giudico meno degna di quest’opera che della penna di Malvezzi o della venerazione di Gracián. 

Dante, mi dico, non poté non avvertirne la falsità, peraltro aggravata dal modo corale in cui i quattro bambini offrono, tutti assieme, il famelico convito. 

Qualcuno insinuerà che siamo di fronte a una menzogna di Ugolino, concepita per giustificare (per suggerire) il crimine commesso. 

 Il problema storico se Ugolino della Gherardesca abbia esercitato nei primi giorni di febbraio del 1289 il cannibalismo è, evidentemente, insolubile. Il problema estetico o letterario è di tutt’altra natura. Lo si può enunciare così: Dante ha voluto che pensassimo che Ugolino (l’Ugolino del suo Inferno, non quello storico) abbia mangiato la carne dei suoi figli? Arrischierei questa risposta: Dante ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo (1).

L’incertezza è parte del suo disegno

Ugolino rode il cranio dell’arcivescovo; Ugolino sogna cani dalle zanne aguzze che dilaniano i fianchi del lupo («… e con l’agute scane / mi parea lor veder fender li fianchi»). Ugolino, spinto dal dolore, si morde la mani; Ugolino sente che i figli gli offrono inverosimilmente la loro carne; Ugolino, pronunciato l’ambiguo verso, torna a rodere il cranio dell’arcivescovo. Tali atti suggeriscono o simboleggiano il fatto atroce

Assolvono a una duplice funzione: li crediamo parte del racconto e sono profezie. Robert Luis Stevenson (Ethical Studies, 110) osserva che i personaggi di un libro sono filze di parole; a questo, per quanto blasfemo possa sembrarci, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una serie di parole è Alessandro e un’altra Attila. Di Ugolino dobbiamo dire che è una trama verbale, che consiste di una trentina di terzine.

Dobbiamo includere in quella trama l’idea di cannibalismo? Dobbiamo sospettarla, ripeto, con incertezza e timore. Negare o affermare il mostruoso delitto di Ugolino è meno tremendo che intravederlo

L’asserzione « un libro è le parole che lo compongono » rischia di sembrare un assioma banale. Eppure, siamo tutti propensi a credere che vi sia una forma separabile dal contenuto e che dieci minuti di dialogo con Henry James ci rivelerebbero il «vero » tema del Giro di vite. Penso che non sia così; penso che di Ugolino Dante non abbia mai saputo molto più di quanto non dicano le sue terzine

Schopenhauer ha dichiarato che il primo volume della sua opera capitale consiste di un solo pensiero e che non aveva trovato un modo più breve per trasmetterlo. 

Dante, al contrario, direbbe che quanto ha immaginato di Ugolino sta tutto nelle controverse terzine. 

Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a più alternative opta per una di esse ed elimina e perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che assomiglia a quello della speranza o a quello dell’oblio. 

Amleto, in quel particolare tempo, è assennato ed è pazzo (2).

Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future.


J.L. Borges, tratto da Nove saggi danteschi (Adelphi, 2001)

 __________________________ 

 (1) Luigi Pietrobono osserva (Inferno, p. 47) « che il digiuno non afferma la colpa di Ugolino, ma la lascia indovinare senza scapito dell’arte o del rigore storico. Basta che la giudichiamo possibile». (2) A titolo di curiosità vanno ricordate due ambiguità famose. La prima, « la sangrienta luna » di Quevedo, che è al tempo stesso quella dei campi di battaglia e quella della bandiera ottomana; la seconda, la «mortal moon» del sonetto 107 di Shakespeare, che è la luna del cielo e la Regina Vergine.

04/10/14

Non è uomo chi non è capace di meravigliarsi. (Goethe Schopenhauer e Florenskij)



Ancora in Goethe: quando in Italia, sue testuali parole, egli "scoprì l'En Kai Pan  (formula greca con cui si indica l'identità dell'Uno col Tutto) in botanica", cioè la pianta primigenia, la scoperta "lo colmò di meraviglia."

Henrich Voss racconta di come Goethe avesse analizzato un giorno la citazione del Teeteto di Platone traducendola liberamente: La meraviglia è la madre di tutto quanto c'è di bello e buono

Goethe apostrofa come ottuso colui che non si stupisce della legge eterna della natura, e aggiunge che il saggio vero e il vero uomo cessano di essere tali non appena perdono la capacità di meravigliarsi.

A Eckermann poi Goethe dice: "La meraviglia è quanto di più grande possa raggiungere l'uomo, e se il proto-fenomeno lo ha condotto a meravigliarsi, che egli se ne contenti; esso non è in grado di fornirgli nulla di più sublime, e l'uomo non deve cercarvi null'altro."

Come scriveva Schopenhauer: "Quanto più in basso l'uomo si trova dal punto di vista intellettuale, tanto meno misteriosa è per lui l'esistenza: anzi gli sembra ovvio che tutto quello che esiste, esista ed esista così com'è."




04/10/13

La vita armonica. (perché debbo vivere armonicamente ?)






Perché bisognerebbe vivere armonicamente ?  Anche ammesso che ciascuno sappia cosa significhi questo - cosa significhi scegliere tra una vita armonica, dove le cose e i gesti e i pensieri seguano il ritmo coerente di un ordine intrinseco,  e una vita caotica, dove ci si limiti a vivere come un legno alla deriva, sospinto dagli umori del vento - perché bisognerebbe scegliere la prima opzione ?

L'obiezione mossa da alcuni (dai tempi di Schopenhauer e prima ancora, e sempre più spesso) è: perché si dovrebbe scegliere l'uno - cercare faticosamente di vivere in armonia - invece dell'altro, abbandonarsi alla inerzia delle cose, visto che il fine della vita è lo stesso, ovvero la morte e la dispersione di tutto?

La risposta, molto banalmente, è nel dover essere.

E' così che è. Perché l'universo si è formato e sviluppato, secondo un ordine perfetto, invece di non nascere e di sbrindellarsi in un immane caos ?  Perché la vita ha ordinato il suo filo nel corso di miliardi di anni, per raggiungere uno scopo obbedendo ad un ordine inaudito di sequenze, anziché non nascere e rimanere poltiglia, cosa inespressa ?

Il dover essere del mondo è il suo essere.

Il dover essere è una legge (per quanto misteriosa) del mondo.

Noi siamo mondo.

E a quanto pare, nessuno può esimerci dal desiderio di una ricerca di vita armonica, perché - a quanto pare - l'armonia nasce solo da un'ordine (o al massimo da un armonico disordine).


Fabrizio Falconi


08/07/10

Non voglio sprecare niente del tempo che resta.



Che cosa facciamo del nostro tempo ?
E’ deprimente constatare lo scialo che spesso riusciamo a farne.
Sembra, anzi, che l’alibi del nostro tempo sia questa frase: “non ho tempo.”

“Non ho tempo” ci permette di restare inchiodati, al punto che ci conviene. “Non ho tempo” ci permette di non metterci mai in discussione, in gioco veramente.

Facciamo mille cose, la gran parte inutili.

Siamo impegnati, ci dedichiamo anima e corpo a lavori inutili, a servire gente inutile, a fare turni inutili, a partecipare a riunioni inutili, a studiare organigrammi inutili, strategie inutili, pianificazioni inutili. Siamo impegnati a fare più soldi inutili che spenderemo per cose inutili.

Perciò “non ho tempo” per vedere un amico, per leggergli negli occhi, per fare con lui una bella conversazione, per vedere le nuvole passare, per ascoltare il rumore del vento, per godere la pioggia, per sentire cosa ho dentro, per capire cosa è questo vuoto apparente che abbiamo intorno, per immaginare lo straordinario universo.

“Non avere tempo” vuol dire essere eternamente sospesi tra il rimpianto e il ricordo del passato, e l’aspettativa frenetica di un sempre nuovo futuro, che magari non arriva mai.

“Non avere tempo” vuol dire cancellare il presente, che è l’unica condizione che conta veramente. L’unica condizione che ci è dato abitare.

Scrive Schopenhauer: “ La forma dell’apparizione della volontà è solo il presente, non il passato né il futuro. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: il presente è la forma di ogni vita, è un possesso che nessun male può strapparle… “

Invece, sembra spesso che abbiamo abdicato al nostro presente.

Cerchiamo distrazioni virtuali, vie di fuga parallele, oppure avanti o indietro. E tutto il bello che la vita offre, ci sfugge – mentre siamo occupati a fare altro – come grani di sabbia tra le dita.

Il tempo, però, ha sempre l’ultima parola. Perché il tempo è reale. Ogni ‘confutazione’ del tempo, infatti, non regge alla prova.

Anche il grande J.L. Borges, che provò a confutarlo, dovette alla fine del suo saggio ammettere: “ Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume.; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. “
Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.

Riprendiamoci il tempo. In questo tempo propizio d'estate, riprendiamoci il nostro tempo.

Da qui inizia ogni rivoluzione possibile delle nostre vite.