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04/03/20

L'attaccamento alla vita ai tempi del Coronavirus






La cosa che più mi colpisce, ai tempi del Covid-19, è quanto le persone- anche quelle che si lamentano ogni giorno della propria esistenza, che sembrano maledirla o che comunque la valutano priva di significato - siano voracemente attaccate alla vita, a ogni costo, con le unghie e con i denti, quando la sentono minacciata, anche indirettamente, anche come remota possibilità, da una epidemia di un nuovo virus che per ora ha un assai basso indice di mortalità.



In queste circostanze si dimostra un attaccamento alla vita - alla propria vita individuale, sostanzialmente - e un terrore cieco di vederla minacciata, che se fosse applicato al vivere civile di ogni giorno e soprattutto alle future condizioni di benessere collettivo, prima che di se stessi, potrebbe portare frutti immensi, nella cura del pianeta, del prossimo, del vivere in comunità.


Invece, appena l'allarme sarà rientrato e la paura sarà passata, è ipotizzabile che tutto tornerà come prima, ci si ricomincerà a lamentarsi in pace, e a vivere con il solito scialo e il solito scontento, come se niente fosse, immemori di questa lezione arrivata imponderabilmente, forse proprio per costringerci a fermarci e a pensare.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020

03/09/15

SaggiaMente. La sofferenza dell'anima.




La mente non è (solo) il cervello.  Gli occidentali ci hanno messo parecchio a giungere a questa conclusione che nel pensiero orientale era già assodata migliaia di anni orsono. 

Non è solo il cervello - l'organo biologicamente preposto al pensare - l'autore dei nostri stati d'animo, delle nostre ansie, delle nostre intuizioni, dei nostri dolori.   La mente si muove oltre i confini strettamente biologici, oltre le semplici connessioni neuronali (cellule neuronali fra l'altro non esistono solo nel cervello, ma anche in altri organi del corpo): si pensa anche quindi con il cuore, si pensa con lo stomaco, si pensa con gli organi genitali, si pensa con l'intestino. 

Si è felici o tristi anche con il cuore, con lo stomaco, con gli organi genitali, con la pelle, con l'intestino. 

Ma c'è qualcosa che trascende ancora il pensiero, la mente, biologicamente intesa come cervello o in modo più esteso come prosecuzione del/nel corpo. 

Questo qualcosa è stato variamente denominato nel corso dei millenni della storia dell'uomo.  Ad esso, a questo quid, ci si è riferito e ci si riferisce, non sapendo cosa sia, nei più diversi modi.  James Hillman, ne Il codice dell'anima, ha meticolosamente e dettagliatamente elencato questi nomi, che seppure con sfumature diverse, indicano questo quid, che non è, è non sembra essere soltanto mente: carattere;  predisposizione; anima; Sè; destino; istinto; talento.

Si tratta di quel nucleo originario della nostra personalità, della nostra individualità.  

Anche nella consapevolezza e nella accettazione e ricerca di questo quid, il pensiero orientale ha trovato strade di comprensione molto tempo prima, anche se dal pensiero greco platonico in poi, anche la tradizione occidentale ha preso le misure di una componente così essenziale della natura umana. 

Per verificare la potenza di questo quid - e anche la sua reale sussistenza - ci sono diverse strade e diversi cammini personali.   La strada più evidente è quella della sofferenza.   Cioran scrive che è proprio la sofferenza che plasma e crea la coscienza.  

Ma un certo tipo di sofferenza, rende evidente la potenza del quid, cioè dell'anima. 

Sono quelle sofferenze che non appartengono a stati mentali o a patologie o processi meramente cerebrali/neuronali.  Quasi tutti hanno sperimentato quel particolare malessere dell'individuo che non dipende da una malattia biologica - si è perfettamente sani nella mente e nel corpo - ma che sembra insinuarsi direttamente nella nostra radice più profonda dell'essere. 

Si può essere molto felici, esteriormente - avere tutto ciò che apparente-mente serve per essere felici, ogni condizione di bisogno appagata - ed essere al contempo interiormente enormemente infelici. 

Nel recinto di esistenze normali, si dibattono inquietudini interiori, vere crisi, mancanze di senso, infelicità diffuse che dipendono da ciò che il nostro quid silenziosamente o rumorosamente richiede, e che se non ascoltato procura danni enormi. 

La sofferenza dell'anima può infatti generare vere malattie della mente e del corpo. O del corpo e della mente, che appaiono così inestricabilmente legati. 

Ma la sofferenza dell'anima è anche un meraviglioso segnale, di cui disponiamo - se riusciamo a dare ascolto ad esso, e spazio, spazio, spazio - per capire cosa la vita ci chiede e cosa noi possiamo dare alla vita.


Fabrizio Falconi - 2015 


12/01/15

Facciamo pace con il caso - Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare (La lettura, 11 gennaio 2015)





Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare su La Lettura di ieri


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. 

Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti.

Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. 

Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna. La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno.

A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso». Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?

Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita.
Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé. Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.

Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?

Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi.

Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. 

Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla».

Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.

Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso».

Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica. I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. 

Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia.

Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità? Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile.

Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli. Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente.

Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare.

Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.

Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.

Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.



11/10/12

Il neurochirurgo si risveglia dopo 7 giorni dal coma e racconta "quello che ha visto."



Il professor Eben Alexander era sempre stato scettico a proposito di vita ultraterrena e dei racconti di esperienze extracorporee che gli venivano fatti dai suoi pazienti. Ma da quando nel 2008 rimase in coma sette giorni a causa di una rara forma di meningite la sua opinione è parecchio cambiata. La sua storia è finita sulla copertina di Newsweek, ma anche in un libro intitolato significativamente "Proof of Heaven" ("La prova del paradiso", che uscirà il 23 ottobre), e racconta di un'esperienza durante la quale il medico cinquantottenne ha visitato quello che lui stesso definisce un luogo «incommensurabilmente più in alto delle nuvole, popolato di esseri trasparenti e scintillanti».

TRA LA VITA E LA MORTE - Una mattina dell'autunno del 2008 Alexander si svegliò con un feroce mal di testa e di lì a poco venne ricoverato d'urgenza in uno degli ospedali dove aveva lavorato, il Lynchburg General Hospital in Virginia. Qui gli venne diagnosticata una meningite batterica da Escherichia Coli, una patologia tipica dei neonati, che in poche ore lo condusse al coma. Per sette giorni il neurochirurgo statunitense rimase tra la vita e la morte e le frequenti TAC cerebrali e le accurate visite neurologiche dimostrarono una totale inattività della sua neocorteccia (nell'uomo rappresenta circa il 90 per cento della superficie cerebrale e viene considerata la sede delle funzioni di apprendimento, linguaggio e memoria).

LA PROVA DEL PARADISO - Ma mentre Eben Alexander giaceva immobile e privo di conoscenza, sperimentava anche un vivido e incredibile viaggio destinato a cambiare la sua esistenza. Tutto ha avuto inizio «in un mondo di nuvole bianche e rosa stagliate contro un cielo blu scuro come la notte e stormi di esseri luminosi che lasciavano dietro di sé una scia altrettanto lucente». Secondo Alexander catalogarli come uccelli o addirittura angeli non renderebbe giustizia a questi esseri che definisce forme di vita superiore. In questa dimensione, arricchita da un canto glorioso, l'udito e la vista sono diventate un tutt'uno. Come ha raccontato a Newsweek il medico americano: «potevo ascoltare la bellezza di questi esseri straordinari e contemporaneamente vedere la gioia e la perfezione di ciò che stavano cantando».

MILIONI DI FARFALLE - Per buona parte del suo viaggio Alexander è stato accompagnato da una misteriosa ragazza bionda dagli occhi blu, che l'uomo racconta di avere incontrato per la prima volta camminando su un tappeto costituito da milioni di farfalle dai colori sgargianti. Nella memoria del neurochirurgo la giovane aveva uno sguardo che esprimeva amore assoluto, ben al di sopra di quello sperimentabile nella vita reale, e parlava con lui senza usare le parole, inviando messaggi «che gli entravano dentro come un dolce vento». Eben Alexander ne ricorda tre in particolare. Il primo era «tu sei amato e accudito», poi «non c'è niente di cui avere paura» e infine «non c'è niente che tu possa sbagliare». Ma l'accompagnatrice del medico aggiungeva anche: «Ti faremo vedere molte cose qui. Ma alla fine tornerai indietro».

UN UTERO COSMICO - Proseguendo il cammino l'autore di Proof of Heaven è infine giunto in un vuoto immenso, completamente buio, infinitamente esteso e confortevole, illuminato solo da una sfera brillante, «una sorta di interprete tra me e l'enorme presenza che mi circondava. È stato come nascere in un mondo più grande e come se l'universo stesso fosse un gigantesco utero cosmico. La sfera mi guidava attraverso questo spazio sterminato». Non si tratta certamente del primo caso di quello che gli anglosassoni chiamano Near Death Experience (esperienze ai confini della morte), ma di certo turba il fatto che a raccontarla sia un affermato docente di neurochirurgia, da sempre dichiaratosi scettico al proposito. 
«Mi rendo conto di quanto il mio racconto suoni straordinario, e francamente incredibile - ha dichiarato Eben Alexander -; se qualcuno, persino un medico, avesse raccontato questa storia al vecchio me stesso, sarei stato sicuro che fosse preda di illusioni. Ma quanto mi è capitato è reale quanto e più dei fatti più importanti della mia vita, come il mio matrimonio o la nascita dei miei due figli».


13/06/10

La conferenza dei Medici Cristiani indaga sui benefici della fede.


Circa 270 medici e personale paramedico di 40 nazioni si sono riuniti per partecipare alla Settima conferenza internazionale dei medici cristiani del WCDN (World Christian Doctors Network) che si è svolta presso lo Sheraton Roma Hotel & Conference Center di Roma, il 21 e 22 maggio scorsi.

Diversi medici hanno partecipato a questa conferenza internazionale dei medici cristiani nei luoghi del martirio dell’apostolo Paolo incentrata sul tema "Spiritualità e medicina", per discutere diversi casi di guarigione divina sulla base di dati medici e scientifici.

Con l’aiuto di una presentazione video sono stati illustrati sette casi di guarigione divina, selezionati attraverso un attento esame analitico e studiati confrontando i dati diagnostici ottenuti prima di ricevere la preghiera e i dati della valutazione eseguita dopo la preghiera stessa.

Il dott. Cesare Ghinelli, pediatra dell’ospedale universitario di Parma in Italia, ha presentato casi di guarigione divina nell’ambito pediatrico e della chirurgia pediatrica.

Il dott. Eydna Eysturskard, chirurgo delle Isole Faroe (Danimarca) ha esposto il caso di guarigione dagli effetti postumi della frattura del polso di un violinista. Il dott. Chauncey Crandall, medico specializzato in patologie cardiovascolari, operante nella Palm Beach Cardiovascular Clinic di Palm Beach Gardens (Florida, Stati Uniti), ha presentato il caso della risurrezione di un paziente a seguito di un infarto.

Sono stati illustrati anche i casi di guarigione riferiti dal dott. Jaerock Lee, fondatore & presidente di WCDN e autore del libro "Understanding the Message of the Cross of Jesus Christ". Il caso di un paziente guarito da un cancro allo stomaco con la sola preghiera, senza la somministrazione di farmaci, presentato dal dott. Fidel Fernandez patologo delle Filippine, ha stupito molti partecipanti. La dott.ssa Teh Mii Lii, ostetrica e ginecologa della Malesia ha esposto il caso di guarigione di una donna a cui è stata riscontrata la rottura della placenta alla diciannovesimo settimana di gravidanza; la paziente, che a causa del suddetto problema rischiava un aborto spontaneo o un parto prematuro ha invece ha partorito un figlio sano al termine della gravidanza senza particolari complicanze grazie alla preghiera del dott. Jaerock Lee.

Il World Christian Doctors Network è un movimento internazionale fondato per discutere i numerosi casi di guarigione divina avvenuti in tutto il mondo ed esortare medici e scienziati a testimoniare l’esistenza di Dio e l’autenticità della Bibbia. Dal 2004 a oggi le conferenze annuali internazionali dei medici cristiani si sono tenute a Chennai (India), Cebu (Filippine), Miami (Stati Uniti), Trondheim (Norvegia), Kiev (Ucraina) e Roma; Ottava conferenza si svolgerà a Brisbane (Australia) nel 2011.

Per ulteriori informazioni, visitare il sito web http://www.wcdnaustralia.org