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28/09/23

Rileggere "La Storia" - Il coraggio delle lacrime e le accuse di "patetismo"


Terminata la rilettura de La Storia e fatti i conti con le ultime pagine strazianti, capisco meglio cos'è che diede fastidio, di questo romanzone di 700 pagine, nella temperie degli anni '70, a una parte consistente degli intellettuali dell'epoca (con le notevoli eccezioni di Cesare Garboli, della Ginzburg e di altri, entusiasti)

Dietro l'accusa esplicita, sferzante o allusiva di "patetismo", si celavano più generali riserve (o censure) riguardanti una concezione della Storia vista dalla parte dei deboli (non dei sommersi di Levi, perseguitati per via dell'essere nati appartenenti alla razza "sbagliata"), ma da coloro - Ida, i suoi figli Nino e Useppe, gli avventori tutti dello Stanzone di Pietralata, anche Davide alla fine - che subiscono, come bovini al macello, il destino di sottomessi, di disegni inafferrabili e crudeli : il Fascismo, l'alleanza con i nazisti, la Guerra, la malvagità, il disastro che si abbatte sulle loro case, sui progetti, sulle speranze, sulle illusioni.
E' tutto quel che vede nelle ultime pagine Ida, subito prima della fine di Useppe, come un film a ritroso: un vortice, o meglio, un Maelstrom, imponderabile e cieco che ha inghiottito la sua famiglia, i suoi figli, lei stessa, obbedendo a nessuna logica, se non alla logica di un destino che non si può e che è inutile contrastare.
C'è odore di cristianesimo, insomma, e specialmente di quel cristianesimo continuamente frainteso dalla critica analitica marxista.
Perché il cristianesimo, come si sa, è molte cose. E se si vede soltanto una cosa, del cristianesimo, non si capisce nulla di cosa esso sia. Morante era credente (lo era a tal punto dal non voler concedere il divorzio a Moravia, perché convinta dell'indissolubilità del legame spirituale), ma era cristiana "pauperista" (il cristianesimo di Carlo Borromeo, il cristianesimo degli ultimi, dei poveri, degli analfabeti, degli indifesi).
Confondere questo con l'accettazione supina del proprio destino (nella speranza, evidentemente di una "ricompensa" nell'altra vita), vuol dire non aver capito niente del cristianesimo della Morante, che poi era lo stesso (senza vera fede) di Pasolini e del suo Vangelo secondo Matteo.
Cristo non è un masochista che vuole soffrire e essere macellato sul Golgota: Cristo, nell'orto degli ulivi, è un uomo che chiede, piangendo, di poter evitare quel calice molto amaro.
Cristo è un cantore, anzi IL cantore, della bellezza del vivere, del vivere in pace, della vita intesa come dono: la pianta di fichi che fa frutti meravigliosi, il granello di senape che diventa florido albero, la vigna che produce botti abbondanti, la pesca che sfama tutti e rende tutti sazi.
È lo stesso incanto che ha Useppe, come tutti i bambini e i puri di cuore.
Se nella creazione le cose non vanno come dovrebbero andare, la colpa non è di Cristo e non è degli ultimi. Loro sono le vittime. Cantare questo e piangere con loro, non è patetismo: altrimenti bisognerebbe buttare a mare non soltanto Manzoni, ma anche Chaplin, De Sica, Rossellini e buona parte del neorealismo italiano.
La "colpa" della Morante fu semmai, quella di essere arrivata "fuori tempo massimo". Ma lei era fatta così: pubblicò Menzogna e Sortilegio quando il romanzo classico, di impianto ottocentesco, era morto e sepolto e pubblicò l'Isola d'Arturo quando il lirico-fantastico era già fuori moda. Poi La Storia, pubblicato mentre le avanguardie chiedevano lo scalpo dei "passatisti".
Sul finire della vita, Morante si prese forse la rivincita definitiva con Aracoeli, romanzo indefinibile che spiazzò tutti e brilla ancora oggi come un diamante grezzo: la dimostrazione (o la conferma) che poteva scrivere tutto, meglio di tutti.
"La Storia" doveva essere così: Elsa Morante era maestra di destini (aveva imparato con tutta la durezza possibile a fare i conti con il suo personale, privato), e sapeva che ogni sua opera avrebbe avuto il suo: ben oltre la mancanza di visione dell'attuale e del contingente.

Fabrizio Falconi - 2023

05/07/23

Un romanzo dimenticato e molto bello: "La Rossa" di Alfred Andersch


Se oggi andate a cercare su Amazon o altre librerie on line (non parliamo di quelle tradizionali/cartacee) il nome di Alfred Andersch, non troverete nulla di nulla pubblicato in Italia, negli ultimi 40 anni.
Eppure c'è stato un periodo non lontano, nel quale lo scrittore nato a Monaco di Baviera nel 1914 era piuttosto in voga, come si vede, pubblicato anche dagli Oscar Mondadori.
Personalmente questa edizione del 1972 (il romanzo è del 1961), l'ho trovata in una meritevole libreria che commercia prezioso usato (negli stessi scaffali ho addirittura trovato la prima edizione de Il Dono di Humboldt di Bellow, in Italia (la mia ormai è consumata)).
Così ho scoperto questo notevole romanzo di un autore piuttosto controverso: pur essendo tra i fondatori del Gruppo '47, Andersch infatti dovette difendersi, nel dopoguerra, da accuse di ambiguità/collusione con il regime nazista.
Andersch fu effettivamente arruolato nella Wehrmacht nel 1940, quando aveva 26 anni, e schierato sul fronte occidentale contro la Francia.
Prima di allora, però, dal 1930, Andersch era stato un fervente comunista, e dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, era stato rinchiuso - secondo il suo racconto - per tre mesi nel campo di concentramento di Dachau, in quanto sovversivo.
Uscito dalla prigionia, lo scrittore, caduto in depressione, non aveva potuto evitare l'arruolamento, anche se nel 194 fu ufficialmente "licenziato" dall'esercito perché nel frattempo si era legato sentimentalmente alla pittrice Gisela Groneuer, considerata dalla polizia una "mezza ebrea".
Arruolato nuovamente nel 1943, Anders disertò nel giugno 1944, consegnandosi agli americani, che lo trasferirono in un campo di prigionia in Virginia.
Tornato in patria, fu uno dei protagonisti della scena letteraria tedesca del dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 1980 in Svizzera.
Tredici anni dopo la morte, Andersch fu oggetto di pesanti accuse di "contraffazione letteraria e fanatismo" da parte di W. G. Sebald, ma il rapporto di Sebald fu "giustamente respinto nella sua generalità".
Al di là di queste controversie legate alla sua biografia, "La Rossa" (Die Rote), è un romanzo importante, che risente direttamente delle vicende vissute da Andersch negli anni della guerra e del nazismo.
La vicenda ha per protagonista Francesca, una donna trentenne tedesca, che dopo aver lasciato marito e amante, prende il primo treno alla Stazione di Milano, che la porta a Venezia, con sole 40 mila lire in tasca.
La donna forse è incinta. Non sa cosa succederà della sua vita, vuole semplicemente allontanarsi da tutto, ricominciare. Una cupa, allucinata e bellissima città fantasma la accoglie nel pieno dell'inverno.
Qui, attraverso diverse voci modulate nel testo e diverse scritture, Francesca si trova coinvolta, suo malgrado, dentro una tragica resa dei conti tra una spia inglese e un ex criminale nazista.
Ma c'è molto di più di una semplice spy-story in questo romanzo. Ci sono le vite rovinate dall'orrore, l'orgoglio di una donna che non si vuole sottomettere al potere di maschi ottusi o cinici, c'è una Italia distrutta dalla guerra, eppure desiderosa di ricominciare, ci sono tradimenti e imboscate del destino, c'è l'intelligenza che non vuole morire e vuole anzi, sopravvivere, secondo il "suo" modo.
C'è l'ambiguità di Kramer, uno dei più verosimili "boia" nazisti incontrati nella letteratura che scrive di quel tempo oscuro.

Fabrizio Falconi - 2023

15/03/23

Leggere "Con gli occhi chiusi" di Federigo Tozzi - Un gioiello della nostra letteratura


Ho riletto Con gli occhi chiusi di Tozzi, che avevo letto molti anni fa.
Federigo Tozzi è morto nell'età aurea dei 37 anni, come Mozart e tanti altri, e la terribile Spagnola, il 21 marzo 1920, se lo portò via prima che gli toccasse di vedere l'avvento del Ventennio Fascista e i disastri della Seconda Guerra.
Nato a Siena e cresciuto tra Siena e Firenze, è a Roma - dove visse nella casa di Via del Gesù - che Tozzi, grazie a Pirandello e a Borgese ricevette considerazione, lavorando al Messaggero della Domenica, e riuscendo a pubblicare due romanzi, Con gli occhi chiusi e Tre croci, nel 1919, l'anno prima di morire (altri 3 romanzi vennero pubblicati postumi).
La morte prematura e la scarsa produzione (anche se i racconti sono più di 120), gli procurarono una notevole sottovalutazione da parte della critica letteraria. Fu scambiato per un semplice realista-verista e solo negli anni '60 si capì la sua grandezza.
Con gli occhi chiusi è un piccolo grande capolavoro, e leggendolo si avverte quanto, rispetto alla maggioranza dei suoi contemporanei, Tozzi fosse avanti:
nella semplice storia dell'amore di Pietro, figlio di un benestante ristoratore senese (proprietario di terreni in campagna) per la contadina Ghìsola, venuta a lavorare per il padre di Pietro, bella, analfabeta, ma desiderosa di emancipazione, Tozzi costruisce una trama puramente psicologica, colma di riferimenti simbolici, disseminati in luoghi densi di storia millenaria: Siena, Piazza del Campo, Firenze, le colline senesi, quelle toscane del Chianti.
Un universo apparentemente quieto, felice, disseminato di ombre. La tara familiare, l'incapacità di Pietro di riconoscere e vivere i suoi sentimenti, il sotterfugio di Ghìsola, la feroce disillusione cui va incontro Pietro, il finale aperto.

Tutto, lungo le centosessanta pagine, ha il tocco felice dell'autenticità, dei dolori della vita interiore, della mancanza e della frustrazione: la natura sontuosa accoglie le inquiete vicende umane, fa da teatro, insieme ai panorami cittadini, delle antiche città, descritte come fossero anch'esse forme viventi, allucinazioni pulsanti, proiezioni di un disagio che non si sa esprimere, e che porta Pietro alla crescita definitiva, alla maturità ormai priva di incantamento. 

Fabrizio Falconi - 2023

15/09/21

Due fratelli geni: Heinrich e Thomas Mann, la storia del loro lungo soggiorno a Palestrina, dove è ambientato il patto col diavolo del "Doktor Faustus"




Molto si è scritto sul genio, l'affetto e la rivalità tra i due fratelli Mann, nati e cresciuti nel pieno tormento che tra fine Ottocento e inizio Novecento, mandò in fiamme e in rovina l'intera Europa. Heinrich, il fratello maggiore, primo di cinque figli, nacque proprio nell'anno in cui  - 1871 - la Germania viene unificata a seguito della guerra franco-prussiana. E' l'inizio di una serie di accadimenti tragici e devastanti per le popolazioni europee.

Suo padre è un commerciante all'ingrosso a Lubecca. Heinrich capisce ben presto che la sua vocazione non è quella di proseguire l'attività di famiglia, ma di dedicarsi all'arte, frequentando il Katharineum, il liceo più prestigioso della città, dove dimostra la sua irrequietudine, interrompendo prematuramente gli studi. 

Inizia un apprendistato presso una libreria a Dresda, ma presto finisce per stancarsi anche di questo. 

Finalmente trasferitosi a Berlino, Heinrich assapora il mondo artistico della capitale, dedicandosi ad una assidua e dissoluta bohème, spendendo tutti i soldi del padre nei bordelli della città. 

La morte del padre lo richiama a casa, il testamento del padre prevede la vendita dell'attività commerciale e tutta la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera e a Heinrich viene garantita una piccola rendita mensile. 

Inizia così per Heinrich, nell'ultimo decennio del XIX secolo, una nuova vita con molti viaggi: Parigi, l'Austria, l'Alto Adige e il Trentino (dove tornerà spesso, soprattutto per curarsi nel sanatorio di Riva del Garda), Milano, Firenze, Roma, Venezia, Monaco, Berlino e le Alpi bavaresi. 

Questo suo peregrinare senza meta e senza pace avrà fine nel 1895, quando si ferma a Roma per circa due anni, dove assume la direzione di una rivista, Das Zwanzigste Jahrhundert ("Il XX secolo"), un periodo molto controverso della sua vita in cui Heinrich si cimenta anche in invettive di carattere antisemite, misogine e monarchiche. 

Un periodo che metterà in imbarazzo più avanti Heinrich, profondamente cambiato dalle scelte politiche ed esistenziali della sua vita futura (divenne ferocemente antinazista e fu il primo fra i due fratelli a trasferirsi negli Stati Uniti). 

Nel frattempo, nel 1894 pubblica il suo primo romanzo: In einer Familie.

Negli anni successivi, Heinrich stringe ancora di più i rapporti col fratello Thomas, il secondogenito della famiglia e dal 1895 al 1898, durante i mesi estivi, soggiornano a Palestrina presso la “Pensione per stranieri” di Anna Bernardini, nel Palazzo omonimo al Borgo. 

La scelta di questa cittadina, che sorge su una delle sommità dei monti Prenestini, fu probabilmente dettata dalla notorietà raggiunta negli ultimi decenni dell’Ottocento, a seguito degli importanti rinvenimenti archeologici e delle campagne di scavo che lì si effettuarono; non si esclude, tuttavia, che abbia influito sulla scelta anche la passione che Thomas Mann nutriva nei confronti di Pierluigi da Palestrina, il grande compositore rinascimentale che in questo luogo ebbe i natali

Le estati trascorse nella cittadina furono per i due scrittori molto proficue. Heinrich Mann si ispirò a Palestrina per il romanzo “La piccola città” (1909) e vi ambientò la novella “Storie di rocca dei fichi”, inserita nel volume “Il meraviglioso" (1897); Thomas Mann, non solo la evocò ne “La montagna incantata”, ma vi ambientò una parte del Doktor Faustus (1947)

La scena centrale di questo romanzo, ossia il patto tra il diavolo e Adrian, il protagonista, si svolge nel salotto della pensione in cui i fratelli Mann avevano alloggiato

Ecco due brani da quel grande romanzo: l’arrivo a Palestrina di Serenus e l’apparizione di Mefistofele a Adrian, (nella traduzione di Luca Crescenzi): 

“Quando durante le ferie del 1912, partendo ancora da Kaisersaschern, feci visita in compagnia della mia giovane moglie a Adrian e a Schildknapp nel nido fra i monti sabini che avevano scelto come luogo di residenza, i miei amici vi stavano già trascorrendo la seconda estate: avevano passato l’inverno a Roma e a maggio, con l’aumentare del caldo, si erano recati nuovamente in montagna, nella stessa dimora ospitale in cui l’anno precedente, nel corso di un soggiorno durato tre mesi, avevavo imparato a sentirsi di casa. 

Il posto era Palestrina, paese natale del compositore, chiamata anticamente Praeneste, fortezza dei principi Colonna menzionata da Dante nel ventisettesimo canto dell’Inferno col nome di Penestrino, un paesino pittoristicamente adagiato lungo la montagna al quale conduceva, dal piazzale della chiesa sottostante, un vicolo a gradini non proprio pulito e protetto dall’ombra delle case. 

Vi si aggiravano dei maiali di una razza piccola e nera, e al passante disattento poteva capitare facilmente di essere schiacciato contro i muri delle case dal carico sporgente di uno degli asini dal largo basto che, pure, andavano e venivano. 

Superato il paese, la strada diventava un sentiero di montagna, passava oltre un convento di cappuccini e conduceva fino alla cima dell’altura e all’acropoli di cui restavano pochi ruderi accanto alle rovine di un teatro antico. Helene e io salimmo spesso, durante il nostro soggiorno, a quelle nobili vestigia, mentre Adrian che “non voleva veder nulla”, non oltrepassò, in tanti mesi, l’ombroso giardino dei cappuccini che era il suo rifugio preferito”. […] 

“Sedevo qui nella sala, lunga dinanzi a me, presso le finestre dalle imposte serrate e accosto al mio lume, leggendo le parole di Kierkegaard sul Don Juan di Mozart. Subito mi sentii pungere da un freddo tagliente, come quando d'inverno uno siede in una stanza calida e d'un tratto una finestra si spalanca al gelo. Il freddo, però, non mi veniva dalle spalle, ove son le finestre, bensì di fronte. Levo gli occhi dal libro e guardo nella sala, vedo che forse Schildknapp è già tornato perché non sono più solo: qualcuno siede nel buio sopra il divano di crine, con le gambe accavallate. È un uomo piuttosto allampanato, più piccolo di me, i capelli rossigni; ha le ciglia rossicce, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po’ curva in giù. Sopra una camicia a maglia a righe traversali porta una giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha i calzoni troppo stretti e le scarpe gialle trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce articolata da attore di teatro.”

Qui sotto la targa che ricorda i soggiorni dei fratelli Mann a Palestrina:





06/09/21

Libro del Giorno: "Olivia" di Dorothy Strachey


E' un piccolo grande caso letterario, che bisognerebbe recuperare. Un breve romanzo di cento pagine, che in Italia è attualmente possibile trovare solo in una scarna edizione di Baldini Dalai. 

Eppure Olivia è un piccolo gioiello che non sfigura accanto a classici come La Principessa di Clèves di Madame de La Fayette e Morte a Venezia di Thomas Mann. 

Racconta della educazione sentimentale - e del conseguente amore proibito - che lega la giovane inglese Olivia, iscritta ad una prestigiosa scuola francese a una delle sue insegnanti e direttrice della scuola, Mademoiselle Julie.

Raramente in un romanzo accade di trovare così ben descritti le ingenue tempeste, i momenti di inaudita felicità e tetra disperazione, l'estasi e il tormento, tipici di ogni passione amorosa, che si scatenano nel cuore di una giovane, suo malgrado, mischiandosi alla scoperta della conoscenza della poesia e della letteratura, incarnandosi nella figura di una insegnante affascinante e per alcuni versi misteriosa. 

Nel 1949 all'epoca della sua pubblicazione - senza rivelare il nome dell'autrice -  grazie anche alla straordinaria nitidezza della prosa e delle sfumature che lasciano aperto per il lettore il gioco enigmatico del non detto e non risolto, questo breve racconto, diventò immediatamente un caso letterario.

In Inghilterra fu pubblicato col titolo misterioso di "Olivia by Olivia" e soltanto negli anni Ottanta fu restituito, grazie a una nuova edizione, alla sua autrice Dorothy Strachey. 

Apparve allora chiara la sua appartenenza alla cerchia di intellettuali noti sotto il nome di Circolo di Bloomsbury, di cui facevano parte Virginia Woolf, cui il libro è dedicato, e lo storico Lytton Strachey, fratello di Dorothy.

"Olivia" restò l'unico libro scritto da Dorothy Strachey e, come raramente accade nel caso di un'opera prima, si rivelò senza ombra di dubbio un capolavoro sui generis.

Dorothy Bussy era nata Strachey da una famiglia aristocratica, nel  1865 e a riprova che il suo primo e unico romanzo ha precisi riferimenti autobiografici, studiò alla scuola femminile Marie Souvestre a Les Ruches, Fontainebleau , in Francia e successivamente in Inghilterra quando Souvestre trasferì la scuola ad Allenswood. 

Successivamente Dorothy divenne insegnante e tra le sue allieve vi fu perfino Eleanor Roosevelt . V

Nel 1903 Dorothy sposò il pittore francese Simon Bussy (1870-1954), che conosceva Matisse , ed era ai margini del circolo di Bloomsbury . Aveva cinque anni in meno ed era figlio di un calzolaio della città giurassiana di Dole . Il liberalismo di Lady Strachey vacillò alla vista di lui che puliva il suo piatto con pezzi di pane. Il dramma familiare "scosse alle fondamenta il regime di Lancaster Gate" (Holroyd) e, nonostante la silenziosa disapprovazione degli Strachey più anziani, Dorothy rimase determinata a sposarlo con quello che suo fratello Lytton in seguito chiamò "straordinario coraggio". 

Dorothy era bisessuale ed era coinvolta in una relazione con Lady Ottoline Morrell . Divenne amica di Charles Mauron , l'amante di EM Forster . 

Nella seconda parte della sua vita la Strachey divenne amica di André Gide , che incontrò per caso durante l'estate del 1918 quando aveva cinquantadue, e con il quale intraprese una fitta corrispondenza. 

La loro amicizia a distanza è durata oltre trent'anni. Le loro lettere sono pubblicate in Selected Letters of Andre Gide and Dorothy Bussy di Richard Tedeschi , e c'è anche un'edizione francese in tre volumi. Gli originali sono conservati nella British Library

Fabrizio Falconi



Dorothy Strachey


Olivia

10/02/16

Tornatore porta sullo schermo 'I Beati Paoli'.


Chi non lo ha mai letto non sa cosa si è perso. 

Quasi 1000 pagine di (colto) divertimento assoluto. 

I Beati Paoli è un meraviglioso romanzo popolare storico, di quello che è il misconosciuto Dumas italiano, Luigi Natoli; ed è davvero una bella notizia quella che presto ne vedremo una riduzione per la televisione firmata da uno dei nostri migliori registi. 

La Leone Film Group ha infatti firmato un accordo con il premio Oscar Giuseppe Tornatore per la realizzazione, prevista nel 2017, della serie televisiva in 12 episodi tratta dal romanzo "I Beati Paoli" dello scrittore siciliano Luigi Natoli. 

"I Beati Paoli di William Galt, alias Luigi Natoli, è uno dei romanzi d'appendice piu' popolari del '900 - afferma Tornatore -. Avevo sempre sognato di farne un film, ma probabilmente oggi la sua destinazione ideale e' quella del serial televisivo. Pertanto, quando i produttori Andrea e Raffaella Leone mi hanno proposto di supervisionare il progetto dirigendone la puntata pilota, ho aderito con entusiasmo. Sono certo che si tratterà di una magnifica esperienza". 

"Siamo onorati di poter annunciare questo progetto - sostengono Andrea e Raffaella Leone - che consolida il rapporto di collaborazione e di grande stima instaurato con Giuseppe Tornatore e che consente alla Leone Film Group di avviare il percorso di internazionalizzazione della produzione seriale, che costituira' un nuovo fondamentale asset per la crescita del Gruppo".

fonte ANSA

09/11/15

"La fonte meravigliosa" di Ayn Rand, un romanzo totale. (Recensione)




Chi è alla ricerca di un libro capace di catturare completamente, aprendo scenari e riflessioni di vita interiore, insomma un libro di quelli che nella vita di un lettore restano a lungo, può affrontare senza esitazione le seicento pagine de La fonte meravigliosa (The Fountainhead), il romanzo scritto in pieno conflitto mondiale, nel 1943, da Ayn Rand, che anche se oggi piuttosto dimenticato, ebbe grandissima eco, con quasi 6.5 milioni di copie vendute nel mondo, grazie anche al successo del celebre film che ne fu tratto nel 1948 con  Gary Cooper protagonista.

Ayn Rand – al secolo Alissa Zinovievna Rosenbaum, originaria di San Pietroburgo - si era trasferita negli Usa nel 1925 a causa dei rovesci finanziari familiari causati dalla Rivoluzione d'Ottobre e oggi 
viene considerata uno dei maggiori filosofi americani del Novecento, anche se il suo nome e le sue dottrine, in altra epoca molto diffuse, oggi hanno conosciuto contrasti e offuscamento. 

Ayn Rand riuscì a pubblicare il romanzo dopo ben 12 rifiuti di editori importanti.  Ma alla sua uscita il successo fu enorme, incarnando in fondo quello che era il significato profondo del libro, l'affermazione della individualità creativa umana e del talento personale contro ogni gretta costrizione della società e dei sistemi. 

In questo senso La fonte meravigliosa disegna un vero e potente affresco alla voglia di affermazione della libertà dell'animo umano: della sua indipendenza, anticonformismo, insofferenza alle costrizioni, capacità di rompere con le convenzioni e il quieto vivere o viceversa del bisogno di adeguarsi alla maggioranza.

Il libro si incentra sulla figura del giovane Howard Roark, ispirata per stessa ammissione della scrittrice su quella di uno dei più grandi architetti del Novecento, Frank Lloyd Wright, seguendone le orme da quando, all'inizio della storia viene espulso dalla Scuola di Architettura dell'Istituto di Tecnologia di Stanton, proprio alla vigilia della laurea per le sue idee rivoluzionarie che rifiutano i canoni neoclassici e caldeggiano il ricorso a linee moderne, tecnologiche, ardite. 
Roark ha appreso queste idee dalla voce del suo talento ma anche dall'esempio anticonformista del suo maestro, Henry Cameron, genio dell'Architettura moderna finito in disgrazia.
Il deuteragonista è invece Peter Keating, compagno di corso di Roark, suo amico eppure suo opposto, animato da ambizione sfrenata, ma senza talento, e con la capacità di adattarsi senza problemi a qualunque imposizione esterna, specie quella del grande studio dell'architetto Francon - molto à la page - presso il quale lavora.
  
Altri tre grandi protagonisti della storia sono la figlia di Francon, la bellissima Dominque (che si innamora di Howard, ricambiata, anche se il loro rapporto va incontro a ostacoli di ogni tipo), il giornalista Ellsworth Tookey, vero e proprio genio del male, esperto e critico di architettura, che blandisce Dominque e cerca di manipolarla, e l'editore di giornali Gail Wynand, che si è fatto dal nulla e ha costruito un impero editoriale con riviste popolari. 

Sarà proprio lui a sposare Dominique (dopo il primo matrimonio di lei con Keating) e a dialogare con Howard sui differenti modi di realizzare se stessi, contro le muraglie imposte dal sistema. 

Roark dovrà attraversare una personale via crucis per affermarsi, ma alla fine il suo talento individuale purissimo, e la sua idealità romantica verranno ricompensati. 
Il prezzo da pagare però è molto duro. 

Ayn Rand ha intessuto il romanzo delle sue convinzioni filosofiche: l'avversione nei confronti delle masse, la convinzione che soltanto dall'inseguimento delle proprie roccaforti interne - e dalle relative zone d'ombra - sia possibile emanciparsi e raggiungere il frutto vero della esperienza umana: quello delle proprie capacità, della missione unica che ci è stata concessa. 

In questo senso appare perfino crudele il fatto che anche i sentimenti siano relegati e asserviti all'ideale che è ben più importante.

Alla fine il romanzo vira su tirate idealistiche forse datate.  Ma in Europa, al contrario degli Stati Uniti - dove la fama esagerata conquistata dal romanzo ha generato un culto esasperato che ruota intorno all'apologia del liberismo sfrenato - La fonte meravigliosa può essere apprezzato ancora per quello che è: una straordinaria storia che fa  muovere personaggi indimenticabili e li fa vivere nella coscienza e nei pensieri del lettore molto a lungo. 

Fabrizio Falconi