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20/06/22

Italo Calvino e l'allergia di Fellini per gli intellettuali



Italo Calvino fu incredibilmente lucido nel descrivere l'allergia che Fellini nutriva per l'intellettualismo e gli intellettuali.

Scrive Calvino: "Del resto il suo (di Fellini ndr) anti-intellettualismo programmatico non è mai venuto meno: l'intellettuale è per Fellini sempre un disperato, che nel migliore dei casi si impicca come in 8 e 1/2 e quando gli scappa la mano come nella Dolce Vita si spara dopo aver massacrato i figlioletti.
(La stessa scelta in Roma viene compiuta in epoca di stoicismo classico).
Nelle intenzioni dichiarate di Fellini, all'arida lucidità intellettuale raziocinante si contrappone una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell'universo: ma sul piano dei risultati, né l'uno né l'altro termine mi pare abbiano un risalto cinematografico abbastanza forte.
Resta invece come costante difesa dall'intellettualismo la natura sanguigna del suo istinto spettacolare, la truculenza elementare da carnevale e da fine del mondo che la sua Roma dell'antichità o dei nostri giorni immancabilmente evoca."
Leggendo queste parole, Calvino sembra quasi sentirsi un po' parte in causa, in prima fila nella schiera dei blasonatissimi (e a ragione) intellettuali. La distanza di Fellini dagli intellettuali italiani fu pagata dal regista riminese in termini di incomprensioni e qualche volta di aperta ostilità.
Quello che è difficile condividere è però il fatto che entrambi quei "termini", come scrive Calvino, non abbiano avuto in Fellini "un risalto cinematografico abbastanza forte".
La più grande eredità linguistica lasciata dal cinema di Fellini è infatti, indubitabilmente, quella del mistero, della fantasia magica, dell'imprevedibile, dell'irrazionale e del grottesco. Che sono sempre state e restano la cifra stilistica inimitabile di Fellini. Talmente "forti" da essere oggi universalmente riconosciute e da aver fatto entrare il regista riminese in quell'Olimpo ristretto o ristrettissimo, dei maggiori e più influenti (e moderni) registi della intera storia del cinema.

03/03/17

Federico Fellini, il Genio Nevrotico.




Ci manca. 

Manca il grande genio nevrotico di Federico Fellini.  Sentiamo la sua mancanza ogni giorno di più, perché solo attraverso quell'occhio forse avremmo potuto oggi decifrare, accendere una luce su giorni sempre più caotici, insensati, grotteschi. 

Ho il sospetto che in fondo Fellini si sia sentito sempre un alieno rispetto al tempo che viveva. Era come se provenisse da un altro mondo. La sua anima si elevava probabilmente su strati diversi, lontana dalle apparenze, anche se le apparenze degli altri, le manie, i tic, le deformazioni, le deformità, erano quelle che più affascinavano il suo cinema. 

Si sentiva un alieno perché - pur essendo pienamente epigono della italianità (un concetto ambiguo e temporalmente breve visto che l'Italia esiste solo da un secolo e mezzo) - era estraneo alle masse, come recitava uno slogan di qualche tempo fa. 

Anche se - ennesima contraddizione - delle masse egli seppe perfino diventare il cantore. 

Si sentiva un alieno perché era sostanzialmente un nevrotico, tendenzialmente depressivo. Gli giovò l'analisi (junghiana), gli giovarono le escursioni nel folle e nel magico (come le visite da Rol), gli giovò la contiguità con il senso cattolico dell'esistenza, di cui seppe essere - estrema contraddizione - il massimo dissacratore, come nella celebre scena della sfilata degli abiti talari. 

Fu tutto sommato sempre un sofferente (e massimo gaudente), fragile e potentissimo dal punto di vista psicologico.  Sofferente perché disadattato alla realtà che viveva e che non riusciva ad accettare per colmo di volgarità (il vero tarlo che lo uccideva e che riusciva ad esorcizzare pienamente solo traducendolo in paradigma). 

Sofferente perché estraneo in un mondo sbagliato che lo affascinava oltre ogni misura e che gli incuteva timore. 

Sofferente al punto che aveva bisogno di ricrearlo, il mondo, nel chiuso confortevole dello Studio 5 di Cinecittà. 

Soltanto tra quelle mura si sentiva padrone del gioco, si sentiva libero, in grado di trasformare e sublimare la sua nevrosi in arte creativa. 

Ricreato il mondo, lui era finalmente libero di rovesciarne i lati angosciosi in gioco, le ossessioni in girandole, la morale in sentimento nostalgico. 

Nostalgia di quello che non esiste e non può esistere, di ciò che è libero e non è prigioniero degli incardinati meccanismi della prosa. 

Nella vita si sentiva spesso vittima - di se stesso, degli eventi, della fortuna, delle relazioni - nell'arte era libero e vittorioso perché libero di poter fallire. 

Il Genio in fondo è questo. Libertà dall'essere e dal dover essere. Libertà di essere (tutto) per se stessi e quindi per il mondo e nel mondo. 

Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata).