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19/05/20

Libro del Giorno: "Foreste" di Robert Pogue Harrison


Un saggio meraviglioso, pubblicato da Robert P. Harrison nel 1992 e divenuto in breve un classico, dove ecologia, letteratura, filosofia, antropologia e destino umano si fondono mirabilmente.
Riporto qui sotto la recensione/intervista di Enrico Regazzoni per Repubblica: 


"L' ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l' accademie". E' Vico, con la sua Scienza nuova, a far da epigrafe al libro dello studioso americano Robert Pogue Harrison: quel Foreste che è appena apparso da Garzanti (pagg. 273) e che, con una tempestività perfino imbarazzante, fa coincidere il lavoro silenzioso della riflessione storica con gli echi assordanti della cronaca. 

Mentre a Rio de Janeiro i politici promettono pietà per il patrimonio forestale, Foreste ci ricorda che quel patrimonio è anche e soprattutto culturale, che alle radici dei boschi è saldamente ancorato tutto il pensiero dell' Occidente, in un rapporto complesso, fitto di negazioni e riconoscimenti, ma certo così profondo da non poter essere impunemente violato. 

Nato a Smirne trentott' anni fa, da padre americano e madre italiana (che ha fra l' altro una sede a Firenze), Harrison insegna letteratura italiana alla Stanford University e ha una vaga somiglianza fisica con Sam Shepard. 

Fa una certa impressione dissertare con lui delle zone d' ombra che le foreste hanno creato e protetto nel nostro immaginario: non foss' altro perché i docenti anglosassoni ci hanno abituato a una saggistica più attenta alle risposte che alle domande.

Mentre lui - mal celando trascorsi heideggeriani - si è aperto fra i rovi un percorso tutto suo, in un viaggio imperfetto, appassionato, solitario. 

Un viaggio iniziato per caso, sette anni fa, quando le foreste in rovina erano ben lontane dai nostri incubi e dalle prime pagine dei giornali. 

"Tutto è accaduto in modo involontario", spiega con modestia. "Volevo approfondire il ruolo del bosco nella letteratura medievale, e lentamente ho scoperto questo ruolo nella letteratura d' ogni tempo. E mi sono stupito che nessuno, prima di me, se ne fosse occupato"

Come mai ha scelto Vico per nume tutelare? In fondo Vico guarda alle foreste come qualcosa in cui occorre aprirsi un varco, per potersi insediare e piantare l' albero genealogico. 
"Certo, ma proprio per questo Vico mi ha fornito l' idea di un rapporto antagonistico, e non di beneficenza fra l' uomo e la foresta. E poi La scienza nuova è un trattato che si avventura nell' immaginario più primitivo dell' Occidente e cerca di trovare le origini metaforiche del pensiero e della conoscenza poetica. Da qui, ho pensato di fare una storia poetica e non empirica del nostro immaginario". 

Ecco, partiamo dalla parola "primitivo". Il libro esordisce con l' affermazione che la foresta è "prima" di tutto. 

"E' vero, e lo è in senso letterale. Il mondo occidentale è all'origine fitto di boschi, e ogni insediamento umano nasce da un disboscamento. I limiti dell' insediamento restano però affidati al bosco, che circonda la civiltà e le conferisce topograficamente il ruolo di centro". 

Lei scrive che questo confine fra città e foresta viene perfettamente sceneggiato dalla tragedia classica. In che senso? 

"Prima del cristianesimo, e quindi del monoteismo, la tragedia è uno scontro fra diverse leggi, ciascuna con una sua legittimità. Non è il male contro il bene: la natura ha una sua legge, del tutto legittima, e la città ne ha un' altra, altrettanto legittima. Nella mia lettura Dioniso, che è il dio della foresta, esce dal bosco per imporre alla città la legge più antica, che è la sua. E la legge più antica prevale su quella più recente". 

Con la latinità questo antagonismo sembra placarsi. Le Metamorfosi di Ovidio teorizzano un' osmosi fra legge umana e legge naturale, un processo di trasformazione che le accomuna. 

"In Ovidio c' è un materialismo che livella la natura delle cose. Ma io mi domando se ciò non nasconda anche la nostalgia per una natura già perduta. In Virgilio, senz' altro, c' è il rimpianto per una civiltà agricola che è stata spazzata via dalla città. Ma anche nella latinità, l' idea di foresta resta almeno doppia. Romolo, il fondatore della città, è una creatura boschiva per eccellenza. Allattato da una lupa, fa nascere Roma in una radura e i primi romani li chiama "i rifugiati della foresta. Chi decide di diventare romano deve insediarsi nella radura e accettare il confine della foresta, oltre il quale è la res nullius. Quindi la foresta è un' origine continuamente fuggita e ritrovata, in un rapporto molto ambiguo". 

Questo rapporto diventerà più chiaro nell' età medievale. 

"Ma la doppiezza resterà. Allegoricamente, la foresta medievale è la selva oscura di Dante, il luogo del peccato, dell' alienazione da Dio. Ma proprio Dante, alla fine del suo viaggio, si ritroverà in un giardino terrestre, la selva antica che è la stessa selva di prima, ma più umanizzata, liberata dagli animali selvaggi. Prima di Dante, nei romanzi cavallereschi la foresta è invece il luogo dello sconosciuto, del pericolo: il cavaliere deve affrontarla per liberare la città dalla minaccia". 

Ma Robin Hood vive nella foresta... 

"E infatti è un fuorilegge, anche se rappresenta una legge più vera di quella di corte. Con lui, avviene un capovolgimento dei punti di vista che trasforma la foresta nel luogo del comico, dell' ironia. Ma i racconti di Robin Hood hanno comunque un lieto fine, in cui il fuorilegge è perdonato e riaccolto nella città". 

E Boccaccio? C' è una foresta boccaccesca? 

"Certo. Da par suo, Boccaccio vedrà nella foresta il regno del desiderio, il luogo dove tutto può venir sottratto senza tener conto della volontà del soggetto. Nella terza novella della quinta giornata del Decamerone, ci sono due ragazzi che vogliono sposarsi, Pietro e Agnolella. Spinti dal desiderio, fuggono nel bosco. Entrano vergini nella foresta, e quando ne escono non lo sono più, pur non avendo fatto l' amore". 

E quand' è che il bosco diventa l' albergo della follia? 

"Fin dall' inizio. Fin da Gilgamesh, se vogliamo, che è la più antica opera letteraria della storia. Ma soprattutto con l' Ivano di Chrétien de Troyes, con l' Orlando... La foresta come luogo di follia è un tema tipicamente medievale: nel bosco la mente è buia, non raggiunta dalla luce divina. Per Descartes sarà qualcosa di analogo, la foresta come fuga dalla ragione, come ambito supremo della confusione dove il metodo non può aver presa".
Cerchiamo di riassumere. Ci sono come due strade del pensiero: una si fonda sull' antagonismo, l' altra sulla nostalgia. La prima collega Socrate a Descartes, la seconda Virgilio a... 

"A Shakespeare, ai romantici. Di Shakespeare è la prima domanda ecologica della storia. ' Chi può costringer la foresta a prestar servizio come soldato arruolato?' , si chiede Macbeth, il nemico della legge naturale. La foresta che muove contro Macbeth è la vendetta della natura. Shakespeare ci avvisa che se distruggiamo la natura compiamo un' autodistruzione". 

31/07/17

Torna in libreria "Giardini" di Robert Pogue Harrison. La prefazione.



Torna in libreria in queste settimane Giardini, il meraviglioso saggio di Robert Pogue Harrison, edito da Fazi nella collana Campo dei Fiori.  Questa la prefazione al libro. 

Gli esseri umani non sono fatti per guardare troppo a lungo la testa di Medusa sfoggiata dalla storia, la sua rabbia, la morte e la sofferenza infinita. Non è per un difetto nostro, al contrario, la riluttanza a farci pietrificare dalla realtà della storia è alla base di molte di quelle cose che rendono la vita umana tollerabile: l’impulso religioso, l’immaginazione poetica e utopica, gli ideali morali, le proiezioni metafisiche, l’arte narrativa, le trasfigurazioni estetiche del reale, la passione per il gioco, l’amore per la natura. 

Albert Camus una volta ha detto: «La miseria mi impedì di creder che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Si potrebbe aggiungere che se la storia diventasse tutto sprofonderemmo nella pazzia. Per Camus era il sole, ma spesso nella cultura occidentale è stato il giardino, reale o immaginario, a costituire un rifugio dalla frenesia e dal tumulto della storia

Il lettore scoprirà in questo libro giardini remoti come il giardino degli dèi di Gilgamesh, le Isole dei Beati dei greci, il giardino dell’Eden di Dante in cima al monte del Purgatorio; oppure giardini ai margini della città terrena, come l’Accademia di Platone, il giardino di Epicuro e le ville del Decameron di Boccaccio; o ancora giardini che sbocciano nel bel mezzo della città come il Jardin du Luxembourg a Parigi, Villa Borghese a Roma e i giardini dei senzatetto di New York. 

Ma tutti questi giardini, in un modo o nell’altro, per come sono stati concepiti e per il fatto di essere ambienti creati dalla mano dell’uomo, sono una sorta di rifugio, se non addirittura di paradiso

Eppure, per quanto riparati, i giardini umani hanno sempre un posto nella storia, se non altro come forze che si contrappongono alle spinte deleterie della storia stessa. Nella celebre frase con cui si conclude il Candide di Voltaire, «Il faut cultiver notre jardin» (‘Dobbiamo coltivare il nostro giardino’), il giardino in questione deve essere interpretato sullo sfondo delle guerre, della pestilenza e delle catastrofi naturali raccontate nel romanzo. 

Questo porre l’accento sulla coltivazione è fondamentale: è proprio perché siamo gettati nella storia che dobbiamo coltivare il nostro giardino. In un Eden immortale non c’è bisogno di coltivare, poiché tutto è già dato spontaneamente. I giardini umani possono apparirci come piccole aperture sul paradiso nel cuore di un mondo caduto, ma il nostro dover creare, mantenere e prenderci cura dei giardini tradisce la loro origine postlapsaria. 

La storia senza i giardini è un deserto. 

Un giardino staccato dalla storia è superfluo. I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra. Quando la storia scatena le sue forze distruttrici e annichilenti, per non cedere alla pazzia e preservare la nostra umanità dobbiamo agire contro e nonostante quelle forze. Dobbiamo ricercare le forze curative e redentrici, lasciandole crescere dentro di noi. Ecco cosa significa prendersi cura del nostro giardino. L’aggettivo possessivo usato da Voltaire – “notre” – si riferisce al mondo che condividiamo. È il mondo della pluralità che pian piano prende forma grazie al potere dell’agire umano. “Notre jardin” non è mai un giardino di interessi esclusivamente individuali in cui rintanarsi per sfuggire al reale: è quel pezzo di terreno sulla Terra, dentro se stessi o all’interno della collettività, in cui vengono coltivate le virtù culturali, etiche e civili che salvano la realtà dai suoi istinti peggiori.

Quelle virtù sono sempre nostre. Aggirandosi per questo libro il lettore attraverserà diversi tipi di giardino – reali, mitici, storici, letterari –, tutti però facenti parte, chi più chi meno, della storia di questo “notre jardin”. Se la storia è in ultima analisi il conflitto terrificante, costante e infinito tra forze di distruzione e forze di coltivazione, allora il mio libro si schiera dalla parte di queste ultime. E cerca in tal modo di partecipare alla vocazione del giardiniere alla cura.


03/05/17

Ritorna in Libreria "Roma, la pioggia" di Robert P. Harrison.






Ritorna in libreria, dopo quasi un ventennio dalla prima edizione di Garzanti, il bellissimo libro di Robert P. Harrison dedicato a Roma. 

Un giovane studioso di letteratura e un enigmatico personaggio, entrambi stranieri, discorrono passeggiando per le strade e le piazze di Roma. Nella metropoli caotica e decadente – disorientato fantasma della città eterna – le loro cinque conversazioni si accendono a contatto con il quotidiano vuoto di senso e i suoi nevrotici surrogati. Risucchiate nelle spirali di questo romanzo-saggio, che si legge come un “dialogo” della tradizione classica, le odierne crociate antifumo, l’industria del restauro, le automobili, la visita al cimitero in un giorno di pioggia, si trasformano in altrettante occasioni per interrogarsi sulla letteratura, la vera strada che apre all’interpretazione del mondo.

ROBERT POGUE HARRISON (Smirne, 1954). Insegna Letteratura italiana alla Stanford University ed è membro dell’American Academy of Arts and Sciences dal 2007. Ha dedicato i suoi primi studi a Dante, poi ha approfondito i simboli delle immagini e della letteratura occidentali in diversi saggi, molti dei quali tradotti in italiano: Foreste (1995), Il dominio dei morti (2004), Giardini (2009) e L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo (2016).

08/09/16

"L'era della giovinezza" di Robert Pogue Harrison (Recensione).



Dopo Foreste, Il Dominio dei morti e Giardini, un altro importante, meraviglioso libro di Robert Pogue Harrison, che esce in questi giorni per Donzelli

Un libro che parte da una semplice domanda: che età abbiamo in questo momento della nostra storia culturale, quando l'età della giovinezza non è ancora diventata quel futuro di cui si costituisce un preludio ?
Harrison parte da una constatazione: non siamo mai stati così giovani e neppure così vecchi. 

Siamo vecchi nel senso che la nostra appare come una civiltà senescente, che ha alle spalle millenni di evoluzione culturale, guerre, filosofie, scontri e dispute, creazioni e miti. Allo stesso tempo, è una civiltà, quella occidentale, che non è mai stata così giovane, ed è per questo che si assiste ad una americanizzazione dell'intero occidente (a livello culturale: le storie, la musica, la tecnologia, i modelli culturali, provengono quasi tutti dall'america. una cultura e una civiltà giovane, che gioca e solletica con gli istinti di un puer aeternus). 

Per quale motivo gli occidentali che vanno al cinema oggi prediligono, in numeri di massa, gli spettacoli per adolescenti ? (basta consultare le classifiche del box-office per vederlo); perché gli adulti occidentali hanno assimilato ed assimilano così velocemente un linguaggio tecnologico primitivo, quasi infantile (basti pensare alla diffusione degli emoticon, nella messaggistica digitale)? Perché i vecchi dell'occidente (un termine che oggi comprende anche molti dei paesi del medio ed estremo oriente) somigliano sempre più a giovani che non vogliono crescere ?

In quattro parti densissime - e un epilogo - Harrison, attraverso incursioni nelle culture e nella storia, nella filosofia e nella letteratura,  ripercorre ed evidenzia i modi attraverso cui gli spiriti della giovinezza e della vecchiaia hanno interagito tra loro dall'antichità fino ai tempi nostri, mutuando dal linguaggio scientifico il concetto di neotenia - ossia il mantenimento di caratteristiche giovanili anche nell'età adulta. 

L'impulso giovanile è essenziale per per sviluppare un indirizzo innovativo nel campo della cultura e per mantenere viva la genialità. Non solo: anche per esaltare i rapporti tra gli uomini e costruire società migliori. 

Nel terzo capitolo, Harrison ripercorre alcune cruciali rivoluzioni neoteniche della storia dell'umanità:  quella messa in atto da Socrate, in  Grecia, nel V secolo avanti Cristo, Socrate che appariva ai suoi discepoli non nelle vesti di un vecchio saggio, ma come una più matura incarnazione delle loro stesse aspirazioni giovanili; quella attuata da Platone, il quale sulla base della più vecchia conoscenza umana - i miti - fu in grado di assicurare un futuro alla filosofia, facendone l'unica legittima erede della perduta antichità dell'anima;  quella attuata da Gesù Cristo, che invitò gli uomini a diventare come fanciulli per poter entrare nel Regno e che nel modello della crocefissione, incarnò un uomo definitivamente nuovo - "Un bambino è nato tra noi" ; quella contenuta nella dichiarazione di indipendenza e nella Costituzione americana, e nel discorso di Gettysburg di Lincoln,  la Costituzione più vecchia del mondo ancora vigente, e allo stesso tempo, la più giovane

Il nuovo, ovvero il giovanile, spiega Harrison in un emozionante capitolo che si intitola Amor Mundi, offre al passato un futuro in cui crescere e conferisce a ciò che è nuovo delle fondamenta per resistere saldamente. Questa è la neotenia, il contrario della giovanilizzazione (alla quale assistiamo in questi tempi) la quale conferisce alla gioventù un'anzianità prematura e all'anzianità una immatura giovanilità. 

E' dunque fondamentale, sostiene Harrison, una nuova pedagogia permanente che consenta ai nuovi di comprendere se stessi, nella solitudine della riflessione e dello studio, fuori dalla accecante attrazione - risucchiante - della luce degli impianti digitali sempre più invasivi, sempre più totalizzanti.  Solo nella percezione della separazione del sè, dal mondo, e dalla consapevolezza della saggezza e della consistenza del vecchio - un vero e proprio Amore Giovanile (un Amor Mundi giovanile) - raggiungeranno lo scopo di migliorare la vita, perché imparare è vita e la vita significa imparare. 

Un libro che è un'avventura dello spirito e una splendida ricapitolazione dell'avventura umana, dall'esito futuro assai incerto. 

Fabrizio Falconi




18/02/16

Robert Pogue Harrison e Werner Herzog a Stanford discutono su Falchi e Letteratura. (VIDEO)




Pubblico qui il video integrale della conferenza tenutasi Martedì 2 febbraio nell'aula magna della Biblioteca della Stanford University per "Another Look",  una discussione sul poco conosciuto capolavoro del 1967 di J.A. Baker (1926-1987), Peregrine, che descrive la sparizione dello splendido falcone dalle paludi inglesi. 

Il libro è stato l'occasione di una densissima conversazione tra Robert Pogue Harrison, acclamato autore e professore di Letteratura Italiana a Stanford che scrive regolarmente per il New York Review of Books e conduce il popolare radio talk Entitled Opinions,  e il grande regista e sceneggiatore Werner Herzog, autore di film famosissimi, e scrittore anch'egli. The Peregrine è uno dei suoi libri preferiti di sempre. 

Buon ascolto e buona visione. 


22/12/13

La modernità - Robert Pogue Harrison.





"Ecco quello che penso," continuò: "Che quando si tratta di essere moderni siamo scolari senza scuola, iniziati senza riti, devoti senza preghiere. Nessuno è stato all'altezza di insegnarcelo, nessuno ci ha insegnato ad aggiornare le nostre vite interiori.

Siamo entrati in quest'era come neonati, urlando e scalciando, e ancora non c'è neppure un adulto in vista. 

Ecco quello che penso: che mentre ci stiamo avvicinando a un nuovo millennio alla velocità della luce, ancora annaspiamo per trovare un capezzolo che ci consoli, e aspettiamo svegli che una mamma venga a darci il bacio della buonanotte.


Ecco a cosa penso: al colossale crollo di nervi. Come si fa a crescere ? Mi aspetto che me lo dicano gli scrittori moderni, e invece non trovo che gemiti e lamenti: un asilo nido per nostalgici e sconsolati. 


Chi di loro ha mai osato sostenere la propria epoca, o andare nella sua direzione ? Che ne sanno davvero della scienza ? Come fai a pretendere di essere uno scrittore moderno senza sapere niente della scienza ? Musil è l'eccezione.  Ha visto nella nostra epoca l'occasione per sperimentare, una sfida a ciò che è ancora indeterminato nella nostra natura, affinché abbracci la precisione del pensiero, l'esattezza, l'analisi, il processo tecnico, meccanico, standardizzato, anonimo - e in questo processo elevi la nostra umanità.

Al diavolo le trasformazioni stilistiche. Musil ha visto la necessità di una trasformazione spirituale, di una metamorfosi delle nostre strutture interne. 

... Malgrado la sua mancanza di talento, ha cercato di insegnarci un paio di cose sul giusto vivere in condizioni nuove, su come modernizzare le emozioni senza comprometterne la densità.  E' un inizio.  E' quanto ci serviva per l'inizio - un inizio, o almeno un monito che ci ricorda che non abbiamo neppure iniziato a fare i conti con noi stessi. 

Non sono forse gli scrittori i soli che possono iniziare l'opera di trasformazione interna ? 

... Il morire ha fatto progressi e noi siamo all'ultimo respiro.  Come dovremmo usarlo ? Per dire cosa ? Niente. Non c'è più niente da dire, eccetto che non abbiamo più niente da dire, e tutto perché coloro che presumono di parlare per noi si sono votati alla denuncia di ciò che conosciamo come reale invece di collaborare con esso, di investirlo creativamente."



Robert Pogue Harrison, Roma, la pioggia... A che cosa serve la letteratura ? Garzanti editore, 1995, traduzione di Stefano Velotti. 

23/04/13

Robert Pogue Harrison e Vito Mancuso all'Auditorium il 29 aprile.



Lunedì 29 aprile 2013, alle ore 21 nella Sala Sinopoli dell'Auditorium di Roma c'è un incontro interessantissimo:  Il Paradiso ritrovato, con Robert Pogue Harrison e Vito Mancuso.

Varrà davvero la pena esserci.

L'incontro è inserito nel ciclo intitolato: LEZIONI DI PARADISO PERDUTO Piccolo viaggio alla ricerca di un eden sostenibile.

Riporto qui sotto il comunicato relativo.

"Noi dobbiamo scegliere il buono altrimenti ci estingueremo. I dinosauri hanno fatto l’errore di scegliere la corazza come protezione invece dell’intelligenza e per questo si sono estinti. Noi facciamo parte del mondo naturale e se non ci comporteremo da persone naturali finiremo con l’estinguerci. Per questo dobbiamo scegliere di diventare umani.” (Arthur Clarke, scrittore di fantascienza e scienziato, sceneggiatore di “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick).

Questa semplice deduzione di uno dei più grandi scrittori di fantascienza del ‘900 fa ancora fatica a trovare spazio nei piani economici dei governi mondiali. Eppure la maggioranza degli abitanti del pianeta, come recitano le statistiche, desidera oggi una vita diversa, più vicina alla natura e ai suoi ritmi dimenticati.

La dittatura del Pil e dello spread ci ha fatto perdere di vista le ragioni per cui alla fine val la pena vivere. Una volta la costituzione americana parlava di diritto alla felicità per ogni singolo individuo, parola che in questi tempi cupi sembra appartenere a un’utopia impossibile, visto che è già un sogno se riusciamo ad arrivare alla fine del mese.

 Ma come diceva già Robert Kennedy nel suo memorabile discorso del 1968 “Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari (…). Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”

 La domanda che ci poniamo è “Ma il nostro paradiso è perduto per sempre?”

Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva o il botanico Libereso Guglielmi e tante altre menti eccellenti un’inversione di rotta è ancora possibile, proprio oggi che le risorse della terra sono agli sgoccioli, forse si può spingere la politica a ridiscutere l’economia e il concetto di benessere personale e pubblico e ricominciare a considerare la nostra terra com’era una volta, ovvero un immenso giardino dell’eden.

Il viaggio di Serena Dandini si ripropone di “coltivare” queste suggestioni attraverso delle conversazioni eccellenti. Cosa hanno in comune i giardinieri, gli economisti o gli scrittori che inviteremo in queste atipiche lezioni all’Auditorium? Semplice, sono tutti dei “coltivatori di sogni” che non si arrendono al pessimismo dominante e attraverso l’arte, la bellezza o la scienza e naturalmente i giardini cercano di farci ritrovare la strada per il nostro paradiso perduto.
 “Anche per i pensieri c’è un tempo per arare e un tempo per mietere” (Ludwig Wittgenstein).

Le Lezioni sono realizzate in collaborazione con Mismaonda. Biglietti: 10 euro Info 06-80241281 

10/12/11

Force of death (Forte morte) - di Fabrizio Falconi.





Force of death

To the tremor and to the heart you would
have liked to bind, not to the wind,
Paula's eyes, which flew away from you
like claws, before seizing you.
Why,          if you doubt the logic,
the convenience fo restraint,
if you believed in the free play
of one who truly loves,
why          did you cry like a nomad,
beneath the Paris sky, Nordic enough,
why          did you tear your clothes,
barking like an abandoned dog,
for Her death ?
Left of her, Paula, were the eyes
black like black pearls, and the festive colors,
like of you all the words are left
lined up like a heavenly convoy,
trafficking in good harvest for the living,
and for their assigned time.

Edited by Roberto Dossi
Translated by Robert Pogue Harrison and David Lummus

Tratta da Tri-Quarterly, Contemporary Italian poetry, January 1, 2007

Forte morte

Al tremore, e al cuore avresti
voluto allacciare, non al vento,
gli occhi di Paula, che ti volavano
via come artigli, prima di prenderti.

23/11/11

Intervista a Robert Pogue Harrison - Il dominio dei morti.



Robert Pogue Harrison  è direttore del Dipartimento di Francese e Italiano presso l’Università californiana di Stanford, una delle più prestigiose d’america. Ma, da diversi anni è anche autore raffinato sulla scena internazionale, con saggi che attraversano materie differenti e contigue come la letteratura, la filosofia, l’antropologia. Un percorso originale che gli è valso l’attenzione  dei massimi critici, riconoscimenti, e traduzioni in tutto il mondo.
In Italia, il suo primo lavoro, Foreste,  L’ombra della civiltà ( Garzanti ) è apparso nel 1992, seguito da un curioso e affascinante piccolo libro dedicato alla sua “seconda città” ( Harrison ha vissuto per molti anni a Roma ), Roma, la pioggia. A cosa serve la letteratura ( I Coriandoli, Garzanti, 1995 ). Ancora inedito in Italia è il suo lavoro su Dante, The Body of Beatrice, mentre dalla Fazi è pubblicato Il Dominio dei morti  un saggio che è costato cinque anni di lavoro, e che sceglie come suggestivo campo di indagine il rapporto culturale e antropologico tra morti e vivi, attraverso l’opera di grandi scrittori, poeti e filosofi. Un’opera impegnativa, ma allo stesso tempo di grande leggibilità ed enormemente stimolante, che in America ha raccolto reazioni entusiastiche, ed è già stata con successo tradotta in Francia, Germania, e ora anche in Italia. 

D. : Dunque, Harrison, cominciamo dal titolo.  Perché:  ‘ il dominio dei morti ‘ ?  Viviamo in un mondo che sembra ignorare i morti. Un mondo dove la morte, i morti, sembrano completamente rimossi. Lei invece suggerisce addirittura un ‘dominio’.
R. :  Nel titolo, nel titolo di questo libro, ci sono almeno due allusioni. La prima ad un celebre verso di Dylan Thomas, and death shall have no dominion. La seconda, a San Paolo che nella Prima Lettera ai Corinzi, chiede: O morte, dov’è il tuo dominio (o la tua vittoria, a seconda delle traduzioni )?  E’ ovvio che in questo mio titolo è contenuta una sfumatura polemica. In effetti viviamo in un mondo dove sembra che la morte non esista, e dove facciamo di tutto per esorcizzarla, rimuoverla.  Ma, nonostante tutti i nostri sforzi, non possiamo fare a meno, noi viventi, di essere totalmente influenzati dai nostri predecessori, da coloro che sono morti. Le nostre religioni, i comandamenti, ma anche le istituzioni, il diritto, le costituzioni e soprattutto il linguaggio che noi viventi abitiamo, sono stati ‘pre-abitati’ da coloro che ci hanno preceduto. Noi parliamo una lingua creata da coloro che sono morti. Ogni parola che noi usiamo ci è stata tramandata. Le parole sono abitate dai morti, così come tutte le cose umane.
 Non solo i cimiteri, o i monumenti ci ricordano i morti, ma anche l’immagine ( alla quale ho dedicato l’ultimo capitolo ), possiede qualcosa di fortemente evocativo, e in certo senso mortuario. Come appare chiaro specialmente nel ritratto fotografico: grazie al ritratto, continuiamo a vedere persone che non ci sono più, che non abitano più tra noi. L’invenzione della tecnologia moderna ha fatto sì che siamo ormai circondati da immagini dei morti ( pensiamo solo ai vecchi film, continuamente trasmessi in televisione ). Da un lato quindi siamo privati di un rapporto proficuo, continuo con i nostri morti, e tendiamo a metterli a distanza, dall’altra siamo circondati e sovrappopolati dalle immagini dei morti.

27/10/11

Robert Pogue Harrison - prefazione a 'Poesie 1996-2007'





Prefazione di Robert Pogue Harrison al volume Poesie 1996-2007 di F.Falconi, Campanotto Editore, 2008.

Il filosofo americano Ralph Waldo Emerson inizia il suo saggio L’esperienza  con una domanda:  “dove ci troviamo?”  È una domanda disorientante, innanzitutto a causa dell’uso della prima persona plurale.  Questo “ci” si riferisce ad un soggetto collettivo impersonale?  Alla comunità dei lettori di Emerson?  Ai suoi compatrioti?  È solo quando si arriva alla fine del saggio che si comincia a capire che pochi di noi si fanno questa domanda in modo serio, sin quando non riusciamo a renderci conto del fatto che siamo, in effetti, persi.