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28/05/22

Quella volta che Gigi Proietti recitò insieme a Gassman in un film di Robert Altman

 


Ho sempre pensato che un attore come Gigi Proietti, sia stato largamente sottovalutato, soprattutto dal cinema. Le sue apparizioni sono state poche e sempre in prodotti di qualità media o bassa.

Hanno contato diversi fattori: il primo, quello generazionale. Se Proietti fosse nato vent'anni prima, sicuramente sarebbe diventato anche lui un "mattatore" della cosiddetta commedia all'italiana o del cinema neorealistico, come furono Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi. 

Il secondo fattore è stato quello della lingua: Proietti non parlava una parola di inglese, e questo sicuramente lo penalizzò, anche quando qualcuno, come vedremo, oltreoceano, si accorse del suo talento. 

Il terzo fattore era certamente la sua indole piuttosto pigra (da vero romano) e la ritrosia - autarchica - di staccarsi dal suo teatro e dagli spettacoli one-man-show nei quali poteva dare il meglio di se stesso. 

Una bellissima eccezione fu comunque il film "Un matrimonio", "A Wedding", diretto da Robert Altman nel 1978, in cui un giovane Proietti si ritrovò insieme all'amico complice, Vittorio Gassman, in un duetto tutto italiano. 

Fu lo stesso Proietti a raccontare parecchi anni più tardi quella strana esperienza.

«Il mio mio inglese era anche peggio di quello di adesso. E al cinema non avevo mai fatto granché. Quella mia partecipazione, una particina, rimane il mio più importante exploit su grande schermo». 

Autoironico come sempre, Gigi Proietti si prendeva in giro, diminuendo i suoi meriti, nell'evocare, durante quella intervista che gli fece Gianni Amelio, l'incontro con Robert Altman.

«È un film del 1978: puro medioevo», rincarava l'attore «È cominciato tutto per caso, quando Altman è venuto a Roma dove dirigevo il doppiaggio del suo film "Tre Donne". Con mia grande apprensione vi ha voluto assistere, ma poi mi ha invitato in trattoria dove mi ha chiesto che cosa ne pensassi. Mi dà l'impressione di un film sognato, era stata la mia risposta, di cui lui è stato molto contento, perché, mi ha poi spiegato, molti dei suoi film sono nati così: da un suo sogno». 

Ed ecco l' attore qualche mese dopo interpretare il fratello minore di Gassman a Milwaukee, sulle rive del Michigan («un mare più che un lago»), ultimo arrivato alla festa di nozze, sempre più lugubre, in cui il cineasta esercita con ferocia la critica impietosa della middle class Usa. 

«La mia fortuna è stata che Altman lasciava molta libertà d' improvvisazione, per me abituale in teatro. Tanto più che non ho mai visto la sceneggiatura, ma solo l' elenco dei vari "characters", tra cui il mio. Le battute ci venivano date giorno per giorno. Perciò il mio primo dialogo con Gassman è stato un guazzabuglio in italiano, poi rimasto tale e quale nel film: "E Angelina come sta? - L'ho messa incinta - Stai sempre a scopà...". E così di seguito». 

Girare con Altman ricorda a Proietti i primi film di Tinto Brass, tipo "Drop Out": «Tanta tanta improvvisazione». 

Ma il regista Usa curava al millimetro la tessitura musicale: «Sul set si circondava di musicisti. Anche in "A Wedding" la musica ha un' importanza fondamentale. Per questo il suono, che nel nostro cinema spesso lascia a desiderare, in lui comportava un' attenzione maniacale, al punto che nei totali faceva ripetere con i soli gesti la stessa scena dai personaggi, che potevano essere una cinquantina».




04/06/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 26. "America Oggi" (Short cuts) di Robert Altman (1993)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 26. "America Oggi" (Short cuts) di Robert Altman (1993)

Il grande successo ottenuto dal film precedente, I protagonisti, presentato al Festival di Cannes nel 1992 dove ottenne il premio per la Miglior Regia e per la migliore interpretazione maschile al protagonista, Tim Robbins, consentì a Robert Altman, nel 1993 di realizzare un precedente progetto che gli stava molto a cuore, Shurt Cuts - tradotto con la solita superficialità italiana "America oggi" - tratto dagli scritti del grande poeta e narratore Raymond Carver. 

Il film si apre su Los Angeles, oggi: minacciosi elicotteri sorvolano la città. In realtà stanno soltanto spruzzando a pioggia un insetticida contro la mosca mediterranea. 

Lì sotto, sotto il cielo di Los Angeles, vengono raccontate le vite di una trentina di personaggi che si incrociano parzialmente e in modo impalpabile. 

Il vero fil rouge di queste vite e del loro svolgersi è da un lato la televisione, dall'altra la musica, classica e blues. 

Uno dei piloti degli elicotteri è separato dalla moglie, la quale tesse una relazione con un poliziotto, padre di tre figli. 

Doreen, cameriera in un bar e Earl, tassista ubriacone si amano tra urla e litigi. 

Lois Kaiser, mentre sbriga le faccende di casa e accudisce i figli, presta la voce ad una "hot line" erotica. 

Tre amici, a pesca sui monti, scoprono il cadavere di una ragazza nuda nel fiume e solo al ritorno dalla loro battuta di pesca, di ritorno a casa, chiedono aiuto.

Jerry, il marito inibito di Lois, si ripara tra le rocce con una ragazza conosciuta per caso e, preda di un raptus, la uccide con una pietra.

Zoie, la suonatrice di violoncello, carattere ipersensibile, alla notizia della morte dei Finnigan, suoi vicini di casa, si dà la morte in garage. 

Intanto una scossa di terremoto fa tremare la terra e la vita di queste figure, che però, subito dopo, continuano a vivere la loro vita come se niente fosse. 

Altman, nel suo solito stile sardonico, commentava il film così: "It's a comedy".  Naturalmente, c'è una parte di verità perché i toni di America Oggi sono perfino surreali, sembrano staccati dalla realtà, pur rappresentandola con cura quasi documentaristica. 

Ma come in tutto il cinema di Altman si respira un'aria apocalittica, finale: il tempo delle grandi storie, dice Altman, è finito, tutto è già stato raccontato, e l'unica storia possibile da raccontare è proprio la fine di tutte le storie.

Il grande regista "solleva il tetto" su storie deprimenti, racchiuse nella povertà di gesti, nella loro ordinarietà, nella mancanza di domande e di struttura psicologica, di gente ormai che più che vivere, si lascia vivere come dentro una stanca risacca, senza nemmeno più riuscire a porsi interrogativi di carattere morale. 

Rielaborando il materiale delle storie minimalistiche di Carver, con la sua poesia della ordinarietà, Altman costruisce un grande e perfetto affresco di fine millennio, che in seguito verrà emulato da molti film (con episodi intrecciantisi) primo fra tutti il notevole Magnolia, diretto da Paul Thomas Anderson sei anni più tardi, nel 1999. 

Uno straordinario cast di attori nobilita questo capolavoro, insieme alla consueta maniacale cura di Altman per la confezione fotografica, per la messa in scena e per l'assemblaggio della splendida colonna sonora.

Il film vinse il Leone d'Oro nella 50ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia. 

Fabrizio Falconi



09/07/18

"Lo Scopone Scientifico" di Comencini, una grande metafora del gioco della vita. Una pagina de "Le Rovine e l'Ombra" .




LuigiComencini era considerato un autore popolare. Forse perfino troppo per la critica militante: non gli si perdonavano i film d’esordio con Totò e la Pampanini, ma il successo clamoroso del Pinocchio televisivo gli aveva guadagnato consensi unanimi

Del resto la sua formazione era impeccabile: l’infanzia parigina, i trascorsi al Politecnico di Milano e alla Cineteca Italiana (come curatore) ne avevano fatto uno dei più solidi registi italiani.  Nel 1972, fresco del successo televisivo collodiano, Comencini aveva deciso di tentare il successo definitivo all’estero, mettendo insieme un super cast nel quale si fronteggiavano le due coppie: Alberto Sordi - Silvana Mangano e Joseph Cotten – Bette Davis.

Rodolfo Sonego aveva scritto un copione formidabile sulla follia del gioco e quando si trattò di pensare all’interprete della vecchia miliardaria americana, grande e cinica giocatrice di carte, Comencini tentò l’azzardo di rivolgersi alla diva americana. Bette Davis si trovava in vacanza in quel periodo alle terme di Carlsbad nel sud della California

Quando ricevette il copione, si entusiasmò.  Impulsivamente, com’era il suo carattere, prese il primo aereo per l’Italia e firmò il contratto, accorgendosi soltanto in un secondo momento – con notevole disdoro - che il film era girato in italiano.

Troppo tardi. La villa dove fu girato il film – la residenza romana della vecchia miliardaria – era la splendida VillaMiani, a Monte Mario. La miserabile borgata dove vivono invece Sordi e la Mangano, con i loro quattro figli e i loro stracci  era quella di Via Anzio, alla periferia sud di Roma, all’Arco di Travertino.

Comencini, sul copione di Sonego, allestì una crudelissima fiaba sul gioco, sul valore dei soldi, sulla povertà e la ricchezza: lo stracciarolo Peppino, e sua moglie Antonia aspettano come ogni anno l’arrivo della vecchia miliardaria americana che gira il mondo insieme al fedele autista George.  Morbosamente appassionata di giochi di carte, la vecchia ogni volta sfida i due poveracci (che si sono allenati per un anno intero) allo scopone scientifico, un gioco che – come spiega il Professore (Mario Carotenuto) della borgata ai suoi due allievi – presenta miliardi di varianti possibili e che «su miliardi e miliardi di partite, non mette mai in mano le stesse carte».

Anche stavolta i due sperano una buona volta di sbancare il patrimonio della vecchia e dare una svolta alle loro vite e a quelle di tutti quelli che vivono con loro nella borgata. Ma l’arpia ne sa una più del diavolo. E dopo aver perso la cifra di duecento milioni, nell’ultima partita che si disputa su quello che sembra essere il suo letto di morte, la miliardaria rivince tutto, gettando i due sul lastrico.
   

Peppino ha sbagliato proprio nella mano fatidica, a scartare la carta giusta.  La rovina si abbatte su di lui, non solo quella economica: Antonia, delusa definitivamente dal marito, consapevole della sua  inadeguatezza, lo tradisce con Righetto (Domenico Modugno), giocatore professionista e baro smaliziato.
   
A Peppino tocca l’infamia di essere considerato impotente al gioco e impotente nel ruolo di marito. Ma anche a Righetto non va meglio.  Quando sembra che stavolta il fato giri dalla parte dei borgatari, la vecchia nell’ultima partita, sbaraglia nuovamente gli avversari. Righetto perde i suoi ultimi guadagni investiti, Antonia perfino la baracca che si è ipotecata.
   
Nel finale da melodramma, Righetto tenta il suicidio, mentre Antonia e Peppino finiscono col riconciliarsi davanti a tutti i compagni di borgata con la dichiarazione: «che m’emporta de la ricchezza.. basta che c’è l’amore!»

Ma il sottofinale amarissimo del film di Comencini è affidato alla saggia figlia quindicenne Cleopatra, la quale ha già visto tutto, sa già quello che succederà il nuovo anno, quando l’americana tornerà un’altra volta a sconvolgere le loro vite e di nuovo il destino – che non è caso e non è caos – si ripeterà immutabile. Per spezzare finalmente la catena, Cleopatra, senza dir niente a nessuno mette il veleno per topi nel dolce che è stata incaricata di preparare per la vecchia in partenza per l’America. 


È l’unico modo per rivoltarsi definitivamente contro i potenti, l’unico modo per liberarsi dalla schiavitù (del gioco e del potere dei ricchi): quello di ricorrere alla eliminazione fisica dell’avversario.  E se questo sicuramente piacque poco al pubblico americano (che lesse il film come un apologo sulla lotta di classe), oggi dice molto sull’ombra personale (sotto forma del gioco), che se non può essere evitata e se ritorna sempre a perturbare e sopraffare, va estirpata.
   

Durante la proiezione di quel giorno, al cinema Augustus, il mio amico John a tratti se la rise di gusto, mentre durante alcune scene – soprattutto le lunghe sequenze delle partite a scopone – rimase con gli occhi ipnotizzati da quel che succedeva sullo schermo.

«Ha ragione Freud,”mi disse alla fine quando si riaccesero le luci in sala, mentre scorrevano i titoli di coda».
In che senso, chiesi.
«Loro non volevano veramente vincere. Peppino e Antonia».
«Come non volevano ?»
« Ma sì, non ti sei accorto ? Loro in fondo amano la vecchia. Amano lei e l’autista, i loro carnefici. Per questo non possono mai vincere. La amano perché lei rappresenta quello che loro non hanno e che non potranno mai avere».
Aveva ragione, ripensando alle immagini iniziali del film, quando il nuovo arrivo della miliardaria è salutato quasi come un trionfo dal popolo dei borgatari, con i cioccolatini e i dolci dispensati da lei ai ragazzini e alle famiglie povere.
Ma che c’entrava questo col gioco ?
«Antonio è contento di perdere, perché in questo modo può mettere alla prova l’amore di Antonia per lui. Non vuole vincere veramente».
«E Cleopatra allora ?»
«Cleopatra no. La ragazzina forse è l’unica che vorrebbe vincere veramente. Per riscattare la sua vita contro l’ingiustizia di quei ricchi.  Ma sa che i suoi genitori non potranno mai vincere, e perciò preferisce ammazzare la vecchia».
«Quindi lo scopone scientifico è la metafora del potere ?»
«No, non credo.  Lo scopone scientifico è un gioco difficile che sembra facile», disse John, «io l’ho imparato da mia nonna, una vecchia che potrebbe reggere il confronto con Bette Davis.  Lei mi ha spiegato che il segreto dello scopone è solo quello di non stare sotto giro: non devi essere tu il primo a scartare, nel giro. Ma devi essere sempre il primo a prendere. È un problema di sottomissione».
Gli risposi che conoscevo il gioco anch’io e che non è per niente facile non stare sotto giro.
«Dipende dalle carte che hai in mano», dissi.
 John sorrise:
«Ma come ha detto il Professore nel film, le combinazioni delle carte sono infinite, sono miliardi di miliardi, e tu non avrai mai due volte le stesse carte. Il tuo compito è quello di uscire dall’ombra. Con le carte che hai ogni volta, non devi farti rinchiudere nell’angolo, cioè dover scartare ogni volta, cominciando il giro. Con il rischio di non avere più carte buone, sicure in mano».
 Facile a dirsi, molto difficile a farsi.
 «Neanche i vincenti sono felici. Bette Davis non era felice di vincere», aggiunse.
 «Davvero ? Sembrava felicissima invece».
 «No. Lei vorrebbe perdere per essere umana, ma è costretta a vincere per assecondare il suo demone».
Queste considerazioni filosofiche, per due ragazzi che erano alle prese con la scoperta di Freud, aprivano scenari interessanti.
«E qual è il tuo demone ?» chiesi, mentre tornavamo a piedi attraversando il Ponte Sant’Angelo che era già notte.
«Il mio ? È quello di tutti: la paura di perdere …»
«Che intendi ?»
« I giocatori professionisti sanno che si perde tutto quando hai paura di perdere …»
«Non si direbbe», puntualizzai, «anche Righetto, che è un professionista, fa la fine degli altri due..»
«Perché anche lui ha paura di perdere. Ha paura di perdere la sua reputazione e soprattutto l’ammirazione incondizionata di Antonia che glielo ha fatto preferire al marito».
 «E la vecchia ? Non ha forse paura ?»
 «Sì anche lei ha paura, ma meno degli altri. È vecchia, può morire da un momento all’altro. Ha meno da perdere».
Più tardi, tornati a casa, John tirò fuori dal cassetto un mazzo di piacentine.   «Questa è la Polla»,rise indicando l’Asso di denari: la grande aquila con le ali aperte e il bollo d’imposta sul ventre, «dicono che quando arriva questa, vinci di sicuro. Ma non bisogna mai fidarsi delle carte.. ricordati di Antonia e Peppino. Ci hanno creduto … »
«Insomma, l’unico modo per vincere è perdere … »
«Proprio così. Quando perdi o quando ti perdi, si imparano molte cose».
Sembravano parole incongruenti dette da lui, che era sempre avanti a tutti, lui con i vestiti sempre appena usciti dal guardaroba, il taglio di capelli impeccabile, la grossa moto con le marmitte tirate a lucido, la collezione di dischi in ordine alfabetico, i panni rossi sulle tastiere, la pila di libri da leggere, le giuste idee in testa, le contestazioni alla vecchia insegnante, la sottile strafottenza di chi aveva visto di più e aveva vissuto molto, molto più di noi.
L’immagine vivente del perfect guy.
Eppure anche questa bella immagine, si incrinò. John, con il suo cognome italiano, e con il suo brillante futuro, fu come ingoiato dalla spirale del tempo. Di lui si persero definitivamente le tracce.
Le nostre strade si separarono, ma la sua non so dove l’ha portato.  Nell’epoca della totale rintracciabilità, di lui non esistono nemmeno segnali digitali; ed è ben strano, considerato quanto fosse interessato alla tecnologia.
Da lui ricevetti soltanto un biglietto, diversi anni dopo il nostro ultimo incontro.
Aveva appena rivisto in televisione California Poker, di Robert Altman, e doveva essergli tornata in mente la nostra conversazione dei tempi delle medie.
«Avevo ragione», c’era scritto, «i vincitori non sono mai felici».
Si riferiva al finale del film, quando una immane tristezza si dipinge sul volto del giornalista Bill Denny (George Segal) dopo che insieme al suo sodale, lo spiantato  Charlie Waters (Elliott Gould), ha sbancato il casinò di Reno, in Nevada, vincendo 82 mila dollari.
Mi era chiara la rovina dei perdenti. Su quella dei vincenti, invece, avrei voluto chiedere ancora molte cose al mio amico.

20/02/16

Gratis in Streaming Lunedì prossimo, 22 febbraio alle 21 un grande documentario su Robert Altman.




E' una nuova formula che mi piace tantissimo. 

Quella di vedersi gratis un film o un'opera o un documentario live, direttamente dal pc di casa propria, o se si vuole da un qualsiasi dispositivo, semplicemente collegandosi in streaming, e prenotandosi il proprio posto in prima fila. 

In questo caso, poi la proposta è di quelle imperdibili. 

Il docufilm si intitola Robert Altman, ed è dedicato ad uno dei più grandi registi di sempre, autore di film preziosi e indimenticabili, da M.A.S.H. a America oggi, a Nashville, a tantissimi altri. 


Robert Altman è un film di Ron Mann, ha una produzione canadese e risale al 2013. 

Questa la breve scheda di Mymovies: 

L'arte del racconto è obliqua per natura, ovvero mentre si racconta qualcosa si racconta sempre insieme un'altra storia, quella delle reazioni di chi è stato testimone, protagonista, spettatore di quella storia. 

La storia per Ron Mann è quella di Robert Altman, svolta in novantacinque minuti dalla sua famiglia, quella biologica e quella artistica

Irreperibile agli occhi dello spettatore, Robert Altman era un regista senza apparenze, un narratore impassibile, onnipotente, polimorfo, che film dopo film dimostrò la libertà che hanno le cose di accadere. 

Difficile perciò afferrarlo, attribuirgli un corpo, difficile incarnare la profondità del suo sguardo cinematografico, esatto, millimetrico, altrove. Ci provano con partecipazione rifinite voci attoriali, chiamate a definire l'aggettivo altmanesque e le qualità che esprime. Altman. Anticonformista. Autore. Ribelle. Innovatore. Narratore. Sperimentatore. Giocatore d'azzardo. Folle. Padre di famiglia. Regista. Artista.

Lunedì 22 febbraio alle 21.00 in streaming  Repubblica.it e MYmovies.it presentano su MYMOVIESLIVE - Nuovo Cinema Repubblica Altman, documentario-maratona sulla vita e la carriera del padre del cinema indipendente americano. Gratis in streaming lunedì 22 febbraio alle 21:00. Altman è il prodotto di una ricerca meticolosa, un documentario a più voci che dietro la narrativa caleidoscopica e l'apparente disinvoltura rivela una struttura solida. Una costruzione altmaniana che (ben) definisce Altman e altmaniano. Documentario, durata 95 min. - Canada, 2013. Lingua audio: originale - Sottotitoli: italiano.



16/03/12

Downton Abbey - Le vite, i destini.




E' facile comprendere perché
Downton Abbey, la serie televisiva BBC scritta da Julian Fellowes abbia fatto man bassa di tutti i premi possibili, negli ultimi due anni.

Non si riescono a trovare difetti a quest'opera - giunta alla seconda stagione, ma è già in cantiere la terza serie per la gioia degli aficionados di mezzo mondo - compiuta, realizzata con standard qualitativi inimmaginabili per la gran parte dei prodotti di fiction pensati e realizzati oggi, non soltanto per la televisione ma anche per il cinema. 

Attori eccellenti - su tutti Jim Carter, che interpreta il vecchio maggiordomo e la mitica Maggie Smith nel ruolo della nonna, matriarca della famiglia Crawley, conti di Grantham - ricostruzioni di scene e costumi minuziosi fino al più piccolo particolare, sceneggiatura impeccabile, senza cadute o forzature, regia non convenzionale, scrittura dei dialoghi mai banale, all'altezza anzi di un vero grande romanzo letterario (si è appresa e studiata la lezione di Henry James). 

Julian Fellowes è l'autore di Gosford Park, l'ultimo grande film di Robert Altman e il copione di Downton Abbey ripete le orme di quello del film:  una grande casa nobiliare della Vecchia Inghilterra dentro la quale si intrecciano le vicende della famiglia possidente (padre, madre, tre figlie femmine e vari parenti al seguito) e quelle della numerosa servitù che vive all'ombra dei ricchi proprietari.

Ha molto da dire, Downton Abbey perché le cose che ci racconta sono propriamente le cose umane: le ambizioni e i rimpianti; le incapacità dei caratteri, le bassezze, le piccole meschinità del cuore, che sempre rendono amara la vita propria e quella degli altri; i gesti di generosità gratuita, le qualità umane, i dolori, le sofferenze taciute e quelle manifeste; soprattutto la velleità di orientare la propria vita alla radice di un senso, che è quello di una eterna ricercata (e continuamente perduta) pienezza.

Downton Abbey - è stato fatto notare, inevitabilmente - ha riscosso così unanime consenso perché ci riporta ad un'epoca in cui la vita e i destini individuali sembravano ancora obbedire a regole condivise, a forme di convivenza che promettevano ordine e restituivano un senso.

Un mondo che nel Novecento ha conosciuto una crisi fortissima, una vera e propria catastrofe.

Non è un caso che le vicende di Downton Abbey prendono avvio alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale, che segna proprio la linea di discrimine tra classicità e modernità, la fine di un mondo ormai decaduto e decadente e la nascita - catastrofica - di un 'nuovo mondo'. 

Quei personaggi di Downton Abbey parlano a noi. Parlano di quel che eravamo e di quel che siamo diventati.  Perché ciò che eravamo è ancora dentro di noi. E per comprendere ciò che siamo oggi non possiamo e non potremmo mai smettere di interrogarci su quel che eravamo.