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28/11/16

Marco Cicala intervista la vedova di Giuseppe Berto,mentre viene ripubblicato "Il male oscuro", romanzo capitale del Novecento italiano.



Giuseppe Berto con la moglie Manuela nell'appartamento alla Balduina

Pubblico l'incipit della bellissima intervista realizzata da Marco Cicala a Manuela, la vedova di Giuseppe Berto, sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. 


ROMA. La letteratura come terapia è ormai una ricetta da corsi serali per signore ansiose. Non lo era nel 1958, quando Nicola Perrotti – luminare freudiano, tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana – prese in cura quello che sarebbe diventato il suo paziente più famoso. Giuseppe Berto aveva 44 anni e stava malissimo. La nevrosi che da qualche tempo si portava appresso s'era andata acutizzando con effetti parecchio invalidanti. Nei momentacci di crisi, Berto non può più restare da solo in una stanza, attraversare una strada, salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi. Se c'è traffico, anche spostarsi in auto lo getta nel panico. Ha dolori al colon, al torace. Vive nel terrore del cancro, dell'infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Dopo tre romanzi di varia fortuna, si danna alla tastiera, ma niente. A sbloccarlo, lentamente, saranno le sedute da Perrotti.


Sostenuto dal terapeuta, Berto torna al lavoro «come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti» confesserà più tardi. Rimette mano a roba abortita, rimasta nei cassetti, ma Perrotti gli consiglia di buttare via tutto per tentare qualcosa di totalmente nuovo. Non importa il risultato: basta che Berto arrivi fino alla fine senza fermarsi mai. È quanto Bepi farà in due mesi di autoreclusione nella casupola che s'è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano. Ne verrà fuori «il malloppo», cioè la prima stesura grezza, torrenziale del Male oscuro, suo magnum opus (1964), «che è press'a poco il racconto della mia malattia».



Adesso il romanzo torna in libreria da Neri Pozza, con una bella postfazione di Emanuele Trevi (bella postfazione è formula di prammatica nelle recensioni, però questa è bella davvero) e con il testo di sperticato encomio che nel ‘65 Carlo Emilio Gadda dedicò al libro dai microfoni radio della Rai. Del resto, sin nel titolo – tratto da un passo della Cognizione del dolore citato in esergo – Il male oscuro si situa sotto l'astro saturnino di Gadda, altro nevrotico leggendario. E leggenda è anche quella che ha finito per avvolgere l'exploit di Berto, il suo libro del riscatto e del successo. Hanno raccontato quell'impresa come matta e disperatissima, e magari lo fu, ma nello stile di Bepi: anticonformista disciplinato.



«Scriveva solo al pomeriggio, con due dita. Scriveva e si liberava. Lo vedevi scrivere e liberarsi» ricorda la moglie Manuela nell'appartamento romano alle pendici della Balduina dove si stabilì con il marito a fine anni ‘50. Mi avevano descritto la signora Berto come una tipa battagliera. È di più. Classe 1933, in due ore e fischi di conversazione mi offre vino e sigarette; oltre che di Berto, mi parla di Lawrence d'Arabia, dell'altare di Pergamo, del genocidio armeno e della sua famiglia allargata assai, inclusa quella moglie di suo padre che discendeva da una dinastia russa citata addirittura in Guerra e pace. In vita sua Manuela ha concesso poche interviste; questa l'ha accettata a due sole condizioni: «Non la scriva a domanda e risposta. E non mi chiami La vedova Berto». Obbedisco.



Con Bepi, che per lei era Beppi  si conobbero a Roma, piazza del Popolo, nei primi anni ‘50. Sono belli tutti e due, lui più âgé di 18 anni. «Mi agganciò bussandomi sulla spalla. Era affascinante. Ma non so perché l'occhio mi cadde sui suoi calzini corti e la camicia di nylon». Nel ‘54 convolano. Avranno un'unica figlia, Antonia, che oggi vive tra Italia e Stati Uniti. Siccome nell'atto del concepimento il padre ebbe un problema, volevano chiamare la bambina Colica: «Parola sdrucciola, bellissima, a Beppi piaceva tanto. Però all'anagrafe rifiutarono».



A quell'epoca Berto non sta ancora male, ma nemmeno benissimo.«Prima che ci sposassimo era stato ricoverato d'urgenza per un attacco di calcoli ai reni. Pensavano fosse un cancro, lo aprirono. E da lì ne fecero un ipocondriaco». Berto entra in depressione. Passa dall'agopuntura alla chiropratica, all'omeopatia. Dorme con due vocabolari sotto le gambe per favorire la circolazione. Le tenta tutte: «A un certo punto gli dissero di curarsi con una strana scatoletta di legno da attaccare ogni mattina alla corrente elettrica. Gli prescrissero anche di lavarsi i denti con il sapone di Marsiglia e aspettare».



Ma i placebo fanno tutti cilecca. Arrivano le prime crisi: «Un giorno uscendo da una banca vicino via Veneto lo ritrovo abbracciato alle ginocchia di un vigile urbano». Attacco di panico: «Nel pizzardone riconosceva l'ordine: lo rassicurava. Lo spostammo in farmacia per un calmante». Profondo buio. Finché qualcuno non gli segnala Nicola Perrotti, «uomo buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso» lo definirà Berto. «Per lui» dice Manuela «fu il vero padre». Quello biologico invece si chiamava Ernesto, da Cologna Veneta (Verona), ex carabiniere reinventatosi venditore di cappelli. «Ma tutt'al più era buono a piantare il radicchio. Una carogna» è il ricordo affettuoso della nuora che non lo conobbe mai.



Il male oscuro è anche una guerra di liberazione da quel padre: «Spedì Beppi in collegio. E non lo rivoleva in casa né a Natale né a Pasqua, solo d'estate. Si infuriava quando lui gli spettinava il riporto. Non faceva che ripetergli: Ti sarà un delinquente! Lo fece crescere nel senso di colpa». Colpa di che? «Di non essere all'altezza delle aspettative del papà». E così, per risollevarsi l'autostima, Berto parte due volte volontario in guerra: campagna d'Abissinia (1935) e ancora Africa settentrionale (1942). Doppiamente medagliato, finirà prigioniero negli Stati Uniti e in campo di concentramento scoprirà la scrittura. In seguito avrebbe sconfessato l'allucinazione fascista, migrando verso posizioni anarco-liberali.



Ma mettetevi nei panni di uno come lui: ex prode venuto su tra i miti virili del Ventennio che a quarant'anni si ritrova tremante e denudato dalla nevrosi: «Una malattia basata sulla paura. Paura di tutto» scriverà, con un certo coraggio. Oltre al rapporto col padre, aveva sofferto l'ostracismo della society letteraria di sinistra («La mafia di Moravia» la definisce Manuela per direttissima), e a metterlo k.o. s'era aggiunto pure il flop di Il brigante (‘51), romanzo con il quale Berto contava di ritrovare il successo di Il cielo è rosso, suo fiammeggiante esordio (‘46).



È questo l'uomo diminuito che torna metodico al lavoro sul tavolinetto di Capo Vaticano e, ticchete tacchete, dà la stura al groppo che lo opprime. Scrive come un beat, erutta frasi fluviali, se ne infischia della punteggiatura: «Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Pensava al Prometeo incatenato di Eschilo, pure lui citato sul frontespizio del romanzo: Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

29/01/16

70. anniversario della nascita della Repubblica Italiana - La casa editrice Marlin lancia un contest collaborativo aperto a tutti.



In occasione del 70° anniversario della nascita della Repubblica Italiana, la casa editrice Marlin di Tommaso e Sante Avagliano promuove il contest collaborativo “70 anni di Repubblica Italiana. I fatti che ne precedettero la nascita”. 

Al centro del progetto, finalizzato alla pubblicazione di un apposito volume, la raccolta di foto e documenti inediti dei momenti che hanno preceduto il 2 giugno 1946  Correva l’anno 1946

Con un referendum gli italiani dovevano scegliere tra Monarchia e Repubblica. Bisognava eleggere anche i membri dell’Assemblea Costituente, che avrebbe scritto la nuova architettura dello Stato. 

Gli aventi diritto al voto erano 28 milioni: fu la prima votazione nazionale a suffragio universale. Un passaggio alle urne decisivo per la storia d’Italia. 

In occasione del 70esimo anniversario della nascita della Repubblica Italiana, che ricorrerà il 2 giugno 2016, la casa editrice Marlin  lancia il contest collaborativo “70 anni di Repubblica Italiana. I fatti che ne precedettero la nascita”, volto a raccogliere foto e memorie che contrassegnarono le fasi storiche attraverso le quali si arriverà a quella data, radicale punto di svolta per la storia d’Italia. 

Rivolto a librerie, archivi storici, gruppi di lettura, associazioni storico-politiche, scuole secondarie di primo e secondo grado, community on line, Aziende di Soggiorno e Turismo, Pro Loco, docenti e studiosi di storia, lettori, appassionati di storia e blogger tematici, il progetto è finalizzato alla realizzazione di un lavoro editoriale in cui tutti coloro che vi contribuiranno saranno allo stesso tempo autori del libro/catalogo sulla ricostruzione di un periodo storico fondamentale per il Paese. 

 «La passione per la storia e l’interesse a preservare la memoria di avvenimenti e personaggi che hanno lasciato il segno, ci hanno spinti a concentrare le energie professionali sui filoni della narrativa, della memorialistica e della saggistica storica - affermano Tommaso e Sante Avagliano, editori della casa editrice di Cava de’ Tirreni (Sa) - Questi filoni rappresentano la specializzazione della Marlin, decisa ad intraprendere un nuovo e stimolante percorso, con la convinzione di rivolgersi ad un pubblico che ama leggere belle storie e nello stesso tempo è interessato a conoscere il contesto storico-sociale in cui sono ambientate». 

Per contribuire alla raccolta, gli interessati sono invitati a postare sulla facebook page https://www.facebook.com/MarlinEditoreCava foto originali che riguardino momenti che hanno preceduto la chiamata alle urne, il clima politico e culturale di un’Italia appena uscita sconfitta dalla guerra, il ruolo che le potenze vincitrici giocarono in questa “partita”, le fasi salienti delle votazioni, l’esilio di Re Umberto. 

In alternativa, i materiali potranno essere inviati agli indirizzi di posta elettronica info@marlineditore.it o ufficiostampa@marlineditore.it entro il 31 maggio 2016

Le immagini dovranno essere accompagnate da una didascalia che illustri la situazione raffigurata (personaggi, luoghi, date…) e da una breve presentazione dell’autore del contributo inviato

Sarà cura della redazione della Marlin selezionare accuratamente i materiali ricevuti e citarne gli autori nell’appendice della pubblicazione, sia che si tratti di soggetti singoli (lettori, storici, appassionati di storia, blogger tematici), sia di organizzazioni (librerie, archivi storici, gruppi di lettura, associazioni storico-politiche, scuole, Aziende di Soggiorno e Turismo, Pro Loco). 

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito web www.marlineditore.it, telefonare al numero 089.467774 o scrivere a info@marlineditore.it.

17/06/15

Bauman: "Gli immigrati ci ricordano quanto sia fragile il nostro benessere."



"Il volume e la velocità' dell'attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c'e' motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente". 

Lo dice il filosofo Zygmunt Bauman in una intervista a Repubblica, sottolineando che dei migranti c'e' paura perché "gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita". 

"La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l'impressione che 'le cose sfuggono al nostro controllo'", spiega. 

"Fin dall'inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state 'estranei', 'altri'". 

"La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura"

"Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un'abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui e' il portatore".

Quanto ai partiti, aggiunge, ci sono quelli "abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla 'redistribuzione delle difficoltà" (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord)". 

"La sinistra, o l'erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio". 

19/03/15

"Perché Narciso non vale l'amore" di Umberto Galimberti.

Caravaggio, Narciso alla fonte, 1597-1599. Olio su tela, cm 112 x 92 cm. Galleria Nazionale d'Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma


“Perché Narciso non vale l’amore” - Umberto Galimberti 29 marzo 2014 

Secondo il mito, quando amiamo chi non sa amare, dobbiamo attenderci le punizioni di Eros. Nella realtà, vuol dire imparare a non credersi onnipotenti Sono una psicoterapeuta e insegno in una scuola di formazione in psicoterapia relazionale, dove le sue pagine sono un utile materiale di riflessione e di confronto per le discussioni con i miei allievi. Le scrivo a proposito del narcisismo, tema che più volte lei ha affrontato, e che secondo me oggi è di grande attualità. Vorrei interrogarmi e interrogarla circa la “relazione narcisistica”, ampliando lo sguardo sulla ninfa Eco che, nel mito, di Narciso è vittima – per intenderci – e tornare al “miracolo dell’amore” che Lei auspicava per il collega psicologo narcisista che in una lettera le sottoponeva i suoi tormenti.

Nella mia esperienza clinica vedo tante donne spesso belle, intelligenti e affascinanti, che fanno a pezzi la propria vita rincorrendo questo “miracolo d’amore”. Non smetto mai di sorprendermi per la quantità di energia che sono disposte a investire in questa relazione “disperante” che, proprio nell’accanimento onnipotente a diventare “qualcuno” per il partner (per il quale sono invece solo estensione narcisistica del sé) trova la sua marca patologica. 

Quando pare che, ridotte ormai come Eco nel mito, si decidano a mollare, ecco che si riattiva il gioco del partner che, proprio nella conquista di donne così importanti, alimenta il senso del suo sé (il cosiddetto “amore”). 

Poiché poi il narcisista è un magnifico incantatore, ci riesce e tutto ricomincia, anche il dolore che si cronicizza in sofferenza. Vorrei che nelle sue pagine, che sono un riferimento per tante donne, lo scrivesse, che il miracolo dell’amore non consiste nel cambiare l’altro, semmai nella possibilità che, attraverso l’altro, ci è data di cambiare noi stessi. Per esempio facendo quanto è possibile per ritrovare in noi stessi il senso del nostro vivere, senza delegarlo al valore che l’altro è disposto a riconoscergli. 

Maria Luisa 
Campobasso 


Narciso era un giovane bellissimo circondato dall’amore e dall’ammirazione di quanti lo incontravano, ma alle profferte d’amore, che pure lo gratificavano, restava indifferente. 

Un giorno, di Narciso si innamorò la ninfa Eco che, non ricambiata e respinta, si consumò di dolore fino a morirne. Di lei rimase solo il ritorno della sua voce, l’eco appunto. 

Questo è il destino che attende le donne che amano i narcisisti, spinte dalla persuasione, tutta femminile, di poter cambiare col tempo e con le loro premure gli uomini che amano.

Questa convinzione, che penso abbia le sue radici nello sfondo di onnipotenza presente in ogni donna – forse derivato dal fatto che, in quanto generatrice, la donna ha il potere di vita e di morte – è tipico non solo di colei che ama i narcisisti, sopportando ogni sorta di frustrazione e delusione, ma anche di chi ama i violenti, subendo ogni sorta di brutalità, maltrattamento, abuso, sopraffazione, come ogni giorno le cronache ci riferiscono.

E allora è bene che le donne ricordino che possono generare i bambini, ma non ri-generare gli adulti, ormai solidificati e direi anche pietrificati nella loro identità.

L’amore, è vero, è una potenza che può trasformare gli uomini. Ma non i narcisisti, che sono tali proprio perché, oltre a se stessi, non sanno amare nessun altro.

Lo stesso Freud riteneva che non ci fosse cura per loro, per il semplice fatto che, incapaci di una relazione con l’altro da sé, non sono in grado di instaurare una relazione emotiva neppure con il loro terapeuta.

Eppure incontrare un narcisista e innamorarsi di lui non è del tutto inutile, perché la sofferenza che si accumula in questa relazione può indurre la donna, se saggia, a ridurre il suo vissuto di onnipotenza ed evitare così l’autoinganno che le fa credere che, insistendo, possa cambiare le cose.

Capisco che l’idea di riuscire a cambiare le cose costituisce per la donna a sua volta una gratificazione narcisistica, ma siccome il tentativo non approda, è inutile sprecare la propria esistenza per gratificazioni narcisistiche che comunque non arrivano.

E allora la conclusione è quella indicata dalla psicoterapeuta che ha scritto questa lettera, ove si lascia intendere che amore non è solo conoscenza dell’altro, ma innanzitutto conoscenza di sé, nelle regioni, mai frequentate, dove veniamo a trovarci quando ci innamoriamo.

Nello scenario tutto nuovo che amore dischiude possiamo conoscere, oltre alle nostre virtù che prima ignoravamo, anche i nostri limiti che nessun desiderio, neanche il più spasmodico, può superare. E il primo limite che dobbiamo riconoscere è quello della onnipotenza che la follia d’amore alimenta in noi, lasciando il narcisista, che non sa amare, nella più assoluta indifferenza. 

di Maria Luisa Campobasso e Umberto Galimberti,

D Repubblica, 22 marzo 2014

10/07/14

Bernardo Bertolucci racconta (e ricorda) Marlon Brando. Una bellissima intervista di Paola Zanuttini.


Dieci anni dalla morte del grande Marlon Brando. Il ricordo e il racconto di Bernardo Bertolucci per il Venerdì di Repubblica in una intervista di Paola Zanuttini.

Roma. Al primo ciak di Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci grida «Buona la prima!». Ma non è tanto buona. Perché l’operatore di macchina Enrico Umetelli, arrossendo, gli sussurra: «Scusa, mi sono trovato Marlon Brando nella loop e sono rimasto a guardarlo, paralizzato». L’arrivo di Brando sul set ha sprigionato meraviglia, innamoramento, tremore. Anche Vittorio Storaro, che non è un principiante, si fa intimidire: nei camerini allestiti sul ponte di Passy, ha notato che l’attore ha la faccia troppo rossa, ma non osa farne parola con lui. Interpella il regista: «Secondo te, si offende?». Bertolucci lo tranquillizza: «Ma va’, diglielo». Storaro va. Il divo non si scompone, anzi. Piglia un asciugamano, se lo strofina in faccia, porta via tutto il cerone e domanda: «Meglio, così?».
Nel soggiorno color sabbia, con il soffitto azzurro come un cielo sul deserto, Bertolucci rievoca il suo Marlon Brando, a dieci anni dalla morte e a 42 dalla lavorazione di Ultimo tango. Intanto, una seducente gattina, passata con nonchalance dal randagismo ai divani, fa di tutto – fusa, moine, coda ritta – per occupare la scena: va detto che ci riesce. Perché, mentre il padrone mi racconta la sua triste storia a lieto fine, io la carezzo a dovere. Poi esagera, la micia: monta sul tavolo e lappa nel mio bicchiere. Gag da applauso, ma Bertolucci la esilia dalla stanza. A malincuore.
Per il ruolo di Paul in Ultimo tango lei aveva pensato prima a Jean-Louis Trintignant, poi a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Come è arrivato a Brando?
Con Trintignan e Dominique Sanda avevo appena girato Il conformista; mi piacevano molto, pensavo di ricomporre la coppia, ma Dominique era incinta e Jean-Louis declinò l’offerta quasi piangendo: non se la sentiva di spogliarsi. Soprattutto per sua figlia, la piccola Marie che ora non c’è più: temeva i commenti a scuola. Allora, visto che si girava a Parigi e la cooproduzione era francese, mi rivolsi alle due star francesi del momento: Belmondo e Delon, che mi piacevano. Belmondo quasi mi buttò fuori dal suo ufficio. Secondo lui gli stavo proponendo un porno.
Conservatore dentro, Belmondo.
Lo so, ma aveva fatto  Fino all’ultimo respiro, film determinante, per me. Delon, invece, aveva amato la sceneggiatura, ma voleva un ruolo da coproduttore, per mantenere un suo controllo. Non mi pareva il caso, e quindi adieu. Tempo dopo, ero a cena a piazza Navona, c’erano dei francesi, la costumista Git Magrini e Luigi Luraschi, il distributore Paramount che avrebbe preso il film. Uscì il nome di Brando, Luraschi disse che conosceva il suo agente, e, forse, poteva chiamarlo.
A lei piaceva Brando?
Certo, ma mi sembrava irraggiungibile. Come Zapata o Il selvaggio. Mi dava la sensazione di fare un film antihollywoodiano, ma hollywoodiano in quanto antihollywoodiano.
Questa è un po’ fumosa. E imbevuta di rivoluzionaria intransigenza.
No. Amando il cinema, non avrei mai potuto dire che le commedie musicali facevano schifo perché erano politicamente disimpegnate.
Lei era un talento emergente di trent’anni, Brando un mostro sacro di quasi cinquanta. Come andò il primo incontro?
Non sapeva niente di me. Aveva chiesto informazioni a una sua amica cinephile, una cinese ricchissima proprietaria di supermarket che aveva visto Il conformista e gli aveva intimato: “Devi andare assolutamente!”. Ci incontriamo a Parigi, all’hotel Raphael. Sono stravolto, non ci credo, eppure è lì. Tengo le gambe accavallate, ma ho un piede fuori controllo che scatta come una molla. Con l’inglese me la cavo male, ho fatto una settimana alla Berlitz, buona per spiegargli il film in dieci parole e, mentre tento di farlo, lui sta a occhi bassi. Gli chiedo perché non mi guarda in faccia: “Guardo il tuo piede. Voglio vedere quando la finisci con quel su e giù”.
Il duca nel suo dominio, come nella famosa intervista di Truman Capote.
Sì, ma sorridente. Poi si va a mangiare e dopo ancora in una saletta a vedere Il conformista. Durante la proiezione esco, non ho voglia di star lì. Quando torno mi fa: “Vieni a Los Angeles un mese. Ci mettiamo a casa mia e parliamo della sceneggiatura”. Adattava i dialoghi alla sua voce, Marlon, ma io lo faccio con tutti miei attori. In realtà, a casa sua, una villa su Mulholland Drive, non abbiamo mai parlato del film. Mi portava a mangiare dal giapponese, io gli chiedevo perché era sempre solo e lui rispondeva che stava benissimo così, che non gli piaceva andare in giro. Però era curiosissimo delle persone. A cento metri da casa sua, più in basso, c’era quella di Jack Nicholson; mi ha fatto sporgere dal giardino per mostramela: “Jack fa le cosacce con una ragazza in piscina”.
Nel ruolo fatale di Jeanne, Maria Schneider era molto nuda, Brando meno. Allora, lei ha giustificato la disparità di trattamento con la tesi che un uomo senza braghe perde mistero. Ne è ancora convinto?
No, è una sciocchezza. Nel film di Abel Ferrara su Strauss-Kahn, Depardieu è nudissimo e meraviglioso, una specie di Pantagruel. Però Marlon si è spogliato abbastanza, c’è anche quella posizione incriminata – quasi yoga – con Maria, che poi è stata ripresa da un logo di abbigliamento. Il problema è che aveva il pancione, non volevo esporlo troppo.
Altro indumento, più rispettabile: il cappotto di cammello di Marlon-Paul, molto simile a quello di Alain Delon nel contemporaneo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini: coincidenza o plagio?
Il mio film è uscito prima. E Alain aveva letto la sceneggiatura. In ogni caso, io ho visto La prima notte di quiete dopo l’anteprima mondiale di Ultimo tango al New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. La critica Pauline Kael ha scritto che quella data sarebbe diventata una pietra miliare nella storia del cinema, come lo era quella della prima rappresentazione della Sagra della primavera, il 29 maggio 1913, nella storia della musica. L’avevo trovato bello, il film di Zurlini.
Non era troppo melodrammatico?
Può darsi, non mi ricordo più niente, solo il cappotto. Forse l’ho perdonato proprio perché c’era il cappotto di cammello.
Nel 1972, dopo anni di stracca, Brando esce con due film epocali che lo rilanciano: Il padrino a marzo e Ultimo tango aottobre. Mentre Coppola gli restituisce la gloria, ma non la carica erotica – con quelle guance imbolsite dal cotone – lei lo incorona di nuovo sex symbol. Sgualcito e irresistibile.
Accidenti! Avrà pure avuto la pancia, ma la sua testa era meravigliosa.
Brando si divideva fra i due set? E metteva zizzania fra lei e Coppola?
Per niente. Le riprese del Padrino erano già terminate, quando lavorava con noi. Un sabato pomeriggio, Coppola, che era a Parigi, passò a trovarci. Giravamo in esterni, senza Marlon perché il sabato non lavorava, per la felicità di Jean-Pierre Léaud, che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria ed era terrorizzato dall’idea di incontrarlo. Visto che avevo due biglietti per un balletto, ci andai con Francis. Mi raccontò del Padrino e mi chiese di Marlon. Non troppi anni dopo, sul set di Apocalypse Now, avrebbe avuto i suoi problemi con lui: Brando non voleva girare e Francis ci diventava pazzo, poi decise di fare solo l’inquadratura con The horror, the horror. Il direttore della fotografia era Storaro e quando Marlon si decise finalmente a parlare gli domandò mie notizie: “Come sta il bambino profeta?”. Ma sul set di Ultimo tango non è successo niente di tutto questo. Mi spiace, non ho aneddoti di screzi, liti o dispetti da star impazzita. È sempre stato puntuale ed estremamente professionale.
Intervista di Paola Zanuttini a Bernardo Bertolucci, che diresse Brando in Ultimo tango a Parigi, uscita su il Venerdì di Repubblica

02/06/14

'Se è amore sconvolge la vita', di Umberto Galimberti.



Quando incontriamo l'amore non racchiudiamolo nei contatti fisici, non tratteniamolo nelle nostre difese, e neppure affoghiamolo nelle turbolenze dei nostri sentimenti. 

L'amore, comunque si presenti, apre un mondo: il mondo della vita ben diverso dalla semplice sopravvivenza. Ma per questo non dobbiamo leggere l'amore a partire dal nostro desiderio, che è troppo angusto per esserne all'altezza.

Non possiamo attenderlo nelle modalità che ci siamo costruiti a partire dalla nostra educazione, dai nostri principi, dal concetto che abbiamo di noi, dalla letteratura che abbiamo frequentato, dall'esperienza che abbiamo maturato. 

L'amore ci chiede innocenza. Quella del bambino che si apre al mondo. Perché il dono che ci fa amore, non è la persona che lo suscita, ma il mondo che, attraverso quella persona, si dischiude ai nostri occhi. Un mondo mai visto perché le nostre difese, in quell'occasione, sono cadute.  E, con le difese, anche i nostri modi, lussuriosi o pudichi, di concepire l'amore.

Vertigine del pensiero che si trova tra pensieri mai pensati, tonalità affettive per le cose di tutti i giorni che, per consuetudine, prima ci erano indifferenti, luminosità dello sguardo che si è aperto in modo del tutto nuovo sul mondo, parole nuove rispetto a quelle abituali che prima dicevamo e sentivamo. 

La nostra anima, come effetto di ogni incontro d'amore, ci cede il suo segreto e ci fa conoscere quel mondo sconosciuto che noi siamo e, fino ad allora, ignoravamo. 

Questo è l'amore, e non l'altro che ci ama o non ci ama come vorremmo che lui ci amasse.  

Perché quando le nostre attese pregiudicano l'amore, già abbiamo perso l'innocenza, e con essa la chiave che ci porta alla scoperta di tutte le nostre parti segrete che, con l'avanzare degli anni, rischiano di morire senza essere mai nate.

Ma per accedere ai doni dell'amore dobbiamo in qualche modo mettere da parte il nostro io e la nostra abituale visione del mondo, perché l'altra parte di noi stessi possa emergere, sorprenderci e sconvolgerci.  Amore infatti non è una cosa tranquilla, delicata, gentile, comprensiva, rispettosa, e tanto meno suggello di fede eterna, che è un desiderio troppo rassicurante per il lavoro che amore compie quando, bruscamente, ci sveglia dalla consuetudine monotona della nostra esistenza, dall'immagine ben strutturata della nostra identità, dai nostri desideri che cercavano appagamento quando invece amore è sconvolgimento.

Solo se comprendiamo queste cose ci portiamo all'altezza dell'amore che una cosa sola vuole: che la nostra vita non prosegua più sul binario stanco sul quale le nostre difese, e allo stesso modo, le nostre attese lo avevano incanalato, sotto il regime del nostro io che si difendeva dall'altra parte di noi stessi che pure invocava di vivere.

in testa: Antonio Canova, Tre Grazie (particolare). 



27/05/14

Una bellissima intervista ad Eugenio Borgna, di Antonio Gnoli per Repubblica.





Vi propongo questa bellissima intervista ad Eugenio Borgna realizzata da Antonio Gnoli. 


Eugenio Borgna: "L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra" Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina - di  Antonio Gnoli - Da Repubblica.it 


LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. 

Nelle movenze dinoccolate di quest'uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l'altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell'ascolto. 

Ci fermiamo, vista l'ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: "Qui veniva Scalfaro", ricorda Borgna. E ho l'impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.


Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
"Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita".

Che ha avuto inizio dove?
"A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l'adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l'ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo".

Quanto durò?
"Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l'Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose ".

Perché quel tipo di scelta?
"Sulle orme paterne avrei potuto fare l'avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza".

Essere autentici è un dovere?
"Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".

Mi faccia capire.
"Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".

Perché?
"Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".

Non le bastava la verità clinica?
"No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".

E invece?
"Decisi  -  tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici  -  di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".

Una scena irreale?
"Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".

Come reagì?
"Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".

Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
"Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".

Non è facile trovare un varco per la comprensione.
"Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".

Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
"La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".

di Antonio Gnoli - da Repubblica.it

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12/02/14

"Vi racconto Elsa segreta" di Brunella Schisa. (dal Venerdì di Repubblica).



Parigi. Il primo incontro tra Elsa Morante e Jean-Noël Schifano fu brusco e terribile. La scrittrice era ricoverata alla clinica Villa Margherita di Roma dove cercava invano di riprendersi dalle complicanze dopo un tentativo di suicidio. Il giovane entrò nella stanza con in mano la traduzione francese di Aracoeli sulla quale aveva sgobbato per un anno intero. Elsa Morante era in compagnia di Carlo Cecchi e lo aspettava. Era stato l'attore a combinare l'appuntamento. La scrittrice aveva un foulard azzurro che le copriva i riccioli bianchi e dei grandi occhiali da miope sul naso. Prese il libro, lo sfogliò appena e poi piantando i suoi occhi violetti sul giovane emozionato sentenziò: «Manca una pagina!». Nel ricordare quel momento Schifano sorride. «Ero giovane, terrorizzato da quel mostro sacro. Avevo letto tutti i suoi libri, provavo per lei un'ammirazione sperticata, una devozione totale. Ma il suo commento mi parve ingiusto e reagii. "Non manca proprio niente, ne sono sicuro!". Evidentemente voleva provocarmi perché accettò di rivedermi il giorno dopo con un ammonimento: "Non pensi di ottenere alcuna intervista, perché non ne do!"».

In effetti Elsa Morante fu di parola. Non diede nessuna intervista il giorno dopo, e nemmeno il seguente. Ma concesse molto di più a quel giovane francese: la sua amicizia, la sua confidenza. Le sue confessioni. Per un anno intero, fino alla morte della scrittrice, avvenuta il 25 novembre 1985, ci fu tra loro una lunga condivisione di pensieri, parole, racconti. «Nell'ultimo periodo Elsa aveva litigato con tutti, non voleva vedere più nessuno. E forse perché anche io avevo un padre siciliano ed ero un bastardo come lei, o forse perché ha visto in me un figlio, un'amante dell'ultima ora, ha sentito che poteva andare oltre il dicibile. Io avrei capito».

Dalle confessioni nella stanza 127 della clinica è nato il romanzo-memoir E.M. O la Divina Barbara, quarant'anni dopo la pubblicazione de La Storia e trenta da quegli eventi. Un tempo lunghissimo. «Ho aspettato tre decenni perché mi sentivo depositario di una specie di tesoro. Elsa mi aveva confessato i suoi segreti, per esempio la sua data di nascita. Aveva sempre imbrogliato tutti. Sull'edizione francese di Aracoeli era scritto 1916, invece era nata nel '12. Della morte non aveva paura, temeva la vecchiaia. Mi aveva raccontato dei suoi due padri. Augusto Morante, il marito di sua madre. Che, essendo impotente, per non perdere la faccia aveva preteso che la moglie si facesse fecondare da un altro. E la madre aveva scelto un siciliano biondo con gli occhi azzurri, Ciccio Lo Monaco, che le aveva dato quattro figli Morante. Lei disprezzava il padre legittimo e considerava quello naturale un estraneo e non ha mai potuto pronunciare la parola papà».

Brunella Schisa, Vi racconto Elsa segreta, Il venerdì di Repubblica, 7.2.2014.

23/11/13

"The way we were (Come eravamo)" compie 40 anni. Il film di tutti quelli che si lasciano. Un bellissimo pezzo di Annalena Benini.





Dal 1973, quando uscì Come eravamo, ogni storia d'amore in cui ci si lascia senza smettere di amarsi ha per protagonisti Katy Morosky e Hubbell Gardner, Barbra Streisand e Robert Redford. 

E dal 1973, dalla sera della prima, Barbra Streisand non ha più perdonato Sydney Pollack, che tagliò senza dirglielo (di corsa, in una notte, dopo una proiezione privata in cui nessuno pianse) cinque scene del film. 

Scene politiche, per lo più, ma anche la scena con dentro il vero motivo per cui Katy e Hubbell, la ragazza ebrea, comunista, super impegnata e il ragazzo biondo, sorridente, wasp (che si sono perfino sposati, aspettano un figlio e vivono a Hollywood), si lasciano. 

Con quei tagli Sydney Pollack trasformò Come eravamo in un grandioso successo, in un film eterno, indimenticabile e dimostrò una cosa importante: non lo vogliamo sapere, qual è il vero motivo per cui due che si sono amati così tanto, e detestati, sempre amandosi, si lasciano. 

Vogliamo deciderlo noi. Si lasciano perché sono troppo diversi, si lasciano perché lui l'ha tradita con un'altra, si lasciano perché lei insegue la purezza e l'impegno con troppa ostinazione, si lasciano perché lui non la sopporta più, si lasciano perché lui ha deciso di cedere, di fare compromessi con la vita e non vuole che lei lo guardi mentre svende il suo talento, svende se stesso, ritorna a essere lo smidollato che era prima di incontrare Katy. 

Potevamo scegliere, possiamo scegliere di nuovo e ogni volta, commuovendoci, sempre ripetendo quelle frasi imparate a memoria e adattandole alla nostra vita: "Tu non molli mai, eh", è una di queste, sono le parole che ritornano, Hubbel le ripete a Katy in più di vent'anni d'amore in infinito conflitto, sempre con quell'aria, ammirata e ironica insieme, di chi in fondo vorrebbe essere come lei, così appassionata, seria, convinta e arrabbiata, ma sa già, fin dai giorni lievi dell'Università , che Katy è un'altra cosa. Lui pensa che:«la vita è troppo seria per prenderla seriamente», lei è convinta di dovere e potere cambiare tutto, anche lui («Porta una bandiera o diventerai un vegetale»). 

A lui piace stare a Hollywood alle feste davanti al mare, ma sogna la passione pura di lei, i suoi occhi accessi sul mondo. Lei è sempre arrabbiata, piena di battaglie da combattere, ma sogna il sorriso di lui, gli scosta i capelli dalla fronte, gli stira la giacca bianca da ufficiale, si stira i capelli, per lui si veste da signora elegante, ma non riesce mai a tenere la bocca chiusa, a non litigare. Sono due modi diversi di essere americani, dalla fine degli anni Trenta a New York alla morte di Roosevelt, fino al maccartismo, alle liste nere dei sospettati di essere comunisti. Sono due modi diversi di essere giovani, anche, e poi di lasciarsi alle spalle la giovinezza e diventare per sempre adulti. 

Katy non molla mai, nemmeno con una figlia, nemmeno con la perdita dell'amore della vita. Come ha scritto Francesco Piccolo nel suo ultimo libro, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), Hubbel sa benissimo che, alla fine chi tra loro due è migliore, è lei. 

Forse lo sa dall'inizio. Mentre la guarda distribuire volantini a Manhattan e invitare a firmare contro la bomba atomica con lo stesso entusiasmo con cui vent'anni prima arringava gli studenti all'Università contro il fascismo. Hubbel la guarda, e capisce che lei non ha rinunciato all'intensità, del resto non avrebbe potuto, non l'ha fatto nemmeno per un grande amore. 

Scrive Piccolo che Katy "ha conservato, dentro, la testardaggine dell'impegno politico, la sua giovinezza". Mentre Hubbel è diventato un adulto disincantato, ben pagato, deciso a fare per sempre in modo che le cose che succedono nel mondo non succedano a lui personalmente (Robert Redford non voleva girare questo film, non voleva essere Hubbel: si sentiva troppo scemo, troppo pin up, Pollack lo convinse per sfinimento).

Se Sydney Pollack non avesse tagliato la scena cruciale adesso avremmo la certezza che ci si può lasciare per un motivo preciso, e quindi ci saremmo immedesimati di meno, di volta in volta in Katy, o in Hubbell, o desiderando essere Katy e sentendoci superficiali come Hubbell: si lasciano (ma davvero abbiamo bisogno di saperlo, adesso?) perchè Katy è entrata nella lista nera dei sovversivi. 

Un suo compagno di università, quello che era evidentemente innamorato di lei fin dalla prima scena, quello che lavorava con lei nella Lega dei giovani comunisti, è diventato un informatore del governo, e in questa caccia alle streghe Katy è considerata una pericolosa comunista, moglie di uno sceneggiatore che quindi potrebbe essere stato contagiato dall'ideologia. 

Sta per venire messo nella lista nera anche lui, e gli verrebbe impedito di lavorare. E'  lei a dirgli: «Ma esiste il divorzio», e lui scuote la testa, ma è già rassegnato. Quella scena spiegava molte cose, ma non commuoveva, non colpiva al cuore, Pollack la tolse.

E in fondo, forse, non spiegava niente di più: loro si lasciano davvero perché sono troppo diversi, hanno scopi diversi, perché lei resta pura e «spinge troppo», come la rimprovera lui, perchè stare con lei è facile solo in confronto alla Guerra dei Cent'anni, perché lui ha amici troppo stronzi. 

Lui avrebbe potuto dire: al diavolo questi cafoni di Hollywood, torniamo a New York, andiamo in Francia come piace a te, facciamo questo figlio e amiamoci e basta, scriverà un libro bellissimo. Non l'ha fatto. 

Per questo Come eravamo è il film sull'impossibilità di un amore puro, senza compromessi, pieno soltanto di certezze e di luci accese e di giovinezza. "Sei proprio tanto certa delle cose di cui sei certa?", le chiede Hubbel, che non è davvero una pin up, che sa vedere i due lati di un problema. Lei è sempre certa, lui mai.

Ma alla fine è lei ad accettare la realtà . Come eravamo è il film di tutti quelli che si lasciano, e che guardano indietro con struggimento, con nostalgia, al tempo perduto della purezza. 

«Vorrei che ci si potesse amare», dice Katy: è questo il punto, è questa la cosa più difficile di tutte, per cui nemmeno l'amore può bastare. E' per questo che non importa più il motivo preciso per cui ci si è lasciati, e forse non importa mai: la verità è che ci si è amati, e poi non ci si è più potuti amare.




10/11/13

Intervista a Ian Mc Ewan su 'Stoner' di John Williams:




Vi propongo oggi una intervista a Ian Mc Ewan, di  Sarah Montague: spiega perché Stoner, il romanzo di John Williams sia stato salutato (seppure pubblicato nel 1965) come uno dei più grandi del XX secolo: Stoner di John Williams. 

In Italia molti hanno amato e stanno amando questo libro e anche io qui ne ho parlato tempo fa. E' una intervista acuta e consapevole, che spiega anche il motivo perché nessuno dei romanzi scritti fin qui da Mc Ewan (con l'eccezione di Bambini nel tempo) o quelli di Javier Marias (altro ottimo scrittore, forse troppo prolifico e prolisso) possa essere paragonato ad un semplice, meraviglioso romanzo come Stoner. 


Cosa c'è di così bello in questo romanzo?
"Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può suonare molto noiosa e un po' troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più straordinaria scoperta per noi fortunati lettori".

È piuttosto singolare che dopo così tanto tempo un romanzo di cui non si è scritto né parlato, quindi sconosciuto, improvvisamente sia sulla bocca di tutti come sta accadendo adesso.
"È una vecchia storia. È successo con altri scrittori, pensi a Irène Némirovsky, che era piuttosto conosciuta in vita, poi dimenticata e poi di nuovo riscoperta. E poi anche il caso di Hans Fallada, che visse a Berlino, un altro caso di scrittore morto ed escluso dalla mappa culturale. E ora accade di nuovo, credo sia una scoperta gioiosa".

Dunque il romanzo parla della vita di William Stoner, che appare relativamente povera di accadimenti. 
"Relativamente. Stoner viene da una povera famiglia di contadini, frequenta la scuola di agraria, dove accede nel 1910 e segue, come ne esistono in un altro migliaio di università americane, un corso di Lettere e Filosofia. Il professore di letteratura durante una lezione legge il sonetto di Shakespeare n. 73 ("In me tu vedi quel periodo dell'anno") e qui lo studente ha un'epifania. Stoner lo ascolta e ne è trasformato, l'insegnante gli chiede cosa voglia dire il sonetto e tutto ciò che Stoner riesce a dire, flebilmente, è "significa...". E l'insegnante capisce immediatamente che il ragazzo è stato colpito dalla letteratura inglese. Stoner poi diventa un professore associato all'università e insegnerà fino alla sua morte, che avverrà molte decadi più tardi. Si sposa, il matrimonio va male, ha una figlia e anche la figlia va male, entra in una faida amara, o meglio è perseguitato da un collega per venticinque anni e conosce l'unico momento di riscatto della sua vita in una tenerissima storia d'amore che poi svanirà. C'è tutta la sua vita".

Ma è la scrittura, ovviamente, che ha conquistato lei e tutti gli altri. 
"Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. Ha una tale chiarezza, è una scrittura molto limpida. È straordinario ed è un avvertimento per tutti noi scrittori: potresti essere anche molto conosciuto in vita e poi, qualche anno dopo la tua morte, essere dimenticato".


Lei ha detto che la rappresentazione della morte di Stoner è un passaggio supremo della letteratura contemporanea. 
"Sì, noi esperiamo la morte di Stoner. È raccontata in terza persona, ma è molto in soggettiva, è scritta in maniera molto diretta. E quindi vediamo la rappresentazione della sua morte attraverso la percezione di quel momento dello stesso Stoner, tutta la vita che scorre davanti ai suoi occhi. E da lettore hai quasi la sensazione che il libro stesso stia morendo tra le tue mani e che il personaggio stia morendo tra le tue mani, tu stesso sembri percepire un po' della tua morte. La lettura delle ultime pagine è un'esperienza piuttosto forte".

Questo non sembra esattamente il tipo di storia da leggere sotto l'ombrellone.
"Semmai è vero il contrario. Non sarò mai abbastanza convincente nel sostenere che è questo il libro da portare in vacanza. Si insinuerà nelle stanze d'albergo, ovunque. Questa è una scoperta meravigliosa per tutti gli amanti della letteratura".

tratto da Repubblica.it