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04/10/22

Keanu Reeves, uno dei più interessanti attori di Hollywood, e l'ombra di Jennifer Syme, la compagna perduta

 


Ha da poco compiuto 58 anni Keanu Reeves, uno degli attori e delle personalità più interessanti espresse dal cinema americano negli ultimi decenni. 

Reeves, porta nel suo DNA un incredibile miscuglio di etnie e forse è questo a renderlo così interessante, rispetto a profili di suoi colleghi molto più sbiaditi: è nato infatti a Beirut il 2 settembre 1964, figlio di Patricia (nata Taylor), costumista e interprete, e Samuel Nowlin Reeves Jr. Sua madre è inglese, originaria dell'Essex .  Suo padre americano è originario delle Hawaii ed è di origine nativa hawaiana , cinese, inglese, irlandese e portoghese. 

Sua nonna paterna è cinese hawaiana . Sua madre lavorava a Beirut quando incontrò suo padre, che ha abbandonato la moglie e la famiglia quando Reeves aveva solo tre anni. Reeves ha incontrato suo padre l'ultima volta sull'isola hawaiana di Kauai quando aveva 13 anni . 

Dopo che i suoi genitori divorziarono nel 1966, sua madre trasferì la famiglia a Sydney, e poi a New York City, dove sposò Paul Aaron, un regista di Broadway e Hollywood , nel 1970.

La vita di Reeves dunque non è stata proprio semplicissima, nemmeno da adulto: nel 1998, Keanu aveva  incontrato Jennifer Syme , assistente del regista David Lynch , a una festa organizzata per la sua band Dogstar, e iniziarono a frequentarsi. 

L'anno dopo, la vigilia di Natale, il 24 dicembre 1999, Syme ha dato alla luce prematuramente la figlia della coppia, Ava Archer Syme-Reeves, che però era nata morta . La coppia si sciolse diverse settimane dopo, ma in seguito si riconciliò. 

Il 2 aprile 2001, un'altra tragedia: Syme rimase uccisa in un incidente automobilistico, con il suo veicolo che finì per schiantarsi su tre auto parcheggiate su Cahuenga Boulevard a Los Angeles. Secondo quanto riferito, Syme non indossava le cinture di sicurezza. 

Reeves raccontò agli investigatori che erano tornati insieme, e avevano fatto un brunch insieme a San Francisco il giorno prima dell'incidente. 

Reeves portò sulle spalle la bara della compagna, che fu sepolta vicino a sua figlia. 

Keanu avrebbe dovuto girare il sequel di Matrix la primavera successiva, ma rinunciò per cercare, disse, "pace e tempo". 

Reeves è sempre stato discreto riguardo alle sue convinzioni spirituali, dicendo che è qualcosa di "personale e privato". Alla domanda se fosse una persona spirituale, ha detto di credere «in Dio, la fede, la fede interiore, il sé, la passione e le cose», e che è «molto spirituale».

Sebbene non pratichi formalmente il buddismo , la religione ha lasciato una forte impressione su di lui, soprattutto dopo le riprese di Little Buddha, di Bernardo Bertolucci, di cui è stato protagonista. 

Raccontò: "La maggior parte delle cose che ho tratto dal buddismo sono state umane: capire i sentimenti, l'impermanenza e cercare di capire le altre persone e da dove provengono".

Alla domanda su The Late Show con Stephen Colbert nel 2019 sulle sue opinioni su ciò che accade dopo la morte, Reeves ha risposto: "So che mancheremo a quelli che ci amano"

Reeves supporta diversi enti di beneficenza e cause. In risposta alla battaglia di sua sorella contro la leucemia , ha fondato una fondazione privata sul cancro, che aiuta gli ospedali pediatrici e fornisce ricerca sul cancro. Nel giugno 2020, si è offerto volontario per Camp Rainbow Gold, un ente di beneficenza per bambini dell'Idaho. 

Riguardo a successo e denaro, ha detto: "Il denaro è l'ultima cosa a cui penso. Potrei vivere di ciò che ho già guadagnato nei prossimi secoli". 

06/06/21

Famiglia, teatro del mondo - di Claudio Magris

 


Famiglia, teatro del Mondo - di Claudio Magris.

di Claudio Magris

dal Corriere della Sera del3/6/12

 

Le grandi religioni universali, e soprattutto il Cristianesimo, non sono cosa da family day. Cristo è venuto a cambiare la vita degli uomini e a proclamare valori più alti dell'immediata cerchia degli affetti, anzi a sferzare duramente questi ultimi quando essi regressivamente si oppongono a un amore più grande. Perfino il legame più forte, quello tra il figlio e la madre, è trattato bruscamente quando Maria vuole interferire: «Donna, che c'è tra me e te?» le dice.

Quando, mentre sta parlando a una folla, gli vengono a dire che sua madre e i suoi fratelli lo stanno cercando, Cristo replica: «Chi è mia madre? E chi sono i miei fratelli?», aggiungendo che è suo fratello chi fa la volontà del Padre. Se c'è conflitto tra il rapporto di parentela e il comandamento, la scelta è chiara: egli afferma di essere venuto a separare, ove sia necessario, «il figlio dal padre, la figlia dalla madre».

La sua stessa nascita, del resto, scandalosa rispetto alle regole, non rientra certo nel modello dall'ordine famigliare.

Naturalmente Cristo non intende negare l'amore fra e per gli sposi, i figli, i fratelli, i genitori. Vuole potenziarlo, liberarlo dalla sua così frequente degenerazione egoistica, benpensante e riduttiva che immiserisce quei legami universali-umani in una chiusura pavida e arida, sbarrando la porta alla vita e agli altri, trincerandosi in un piccolo mondo pulito e perbene ma indifferente alla miseria e alla sofferenza, che magari iniziano fuori della porta sbarrata.

C'è una colorita espressione veneta che raffigura questa falsa e piccina armonia famigliare basata sul rifiuto degli altri: «far casetta».«Tengo famiglia» è la scusa migliore per tirarsi indietro dinanzi a un dovere che ci chiama a metterci a rischio.

A questo proposito, Noventa — grande poeta cattolico, uno dei grandi poeti del Novecento — replicava nel suo dialetto veneto a chi piega vilmente la testa («son vigliaco») accampando i vecchi genitori, la moglie ancor giovane e i figli da mantenere: «Copé la mare, / Copé el pare, /La mugier zóvene / e i fioi — (…) No' saré più vigliachi».

La famiglia è certo una realtà storica, anche se di particolare durata, e come tale soggetta a trasformazioni e a mutamenti, mai così intensamente e confusamente come oggi, in un groviglio di liberazioni ora giuste ora pacchianamente ideologiche e stupide, conformismi travestiti da trasgressione o da sacri principi, esibizionismi supponenti, in un sommovimento di secolari tradizioni, costumi, valori, forme di aggregazione familiare.

La famiglia è stata e difficilmente potrà cessare di essere una cellula primaria dell'universale umano; il Teatro del Mondo in cui l'individuo viene al mondo, le cui voci gli sono giunte già quando era ancora nella prima stazione del suo viaggio, nel ventre della madre; in cui l'individuo scopre il mondo, fa l'esperienza fondante dell'amore o devastante del disamore, impara con i fratelli il gioco, l'avventura, la lotta, l'ambivalenza di affetto e rivalità; in cui il padre e la madre gli trasmettono non solo la vita ma anche il suo senso.

Non sbagliava Francesco Ferdinando, l'erede al trono absburgico ucciso a Sarajevo, quando volle che sulla sua tomba venissero incise solo tre date: della nascita, del matrimonio e della morte.La famiglia può essere l'incantevole scenario della scoperta del mondo, come in Guerra e pace di Tolstoj, e può essere tragedia e abiezione, odio e violenza, Caino e Abele, gli Atridi e la stirpe di Edipo.

Può essere luogo di opaca estraneità, di meschini risentimenti, di violenza e di oppressione; violenza di padri o di mariti padroni su figli e su mogli, sordida rivalsa femminile di soffocanti tirannidi domestiche, incombenti clan parentali che hanno trapiantato la tribù nella civitas e risucchiano l'individuo, come scriveva Kafka, nella pappa informe delle origini.

Già la parola famiglia è un Giano bifronte: indica il mondo che ci è più caro e può indicare il bestiale legame mafioso. Gide poteva dire: «Famiglie, quanto vi odio». Le nuove forme di famiglia radicalmente diverse da quella tradizionale, che si annunciano pure sbracciandosi con enfasi, possono portare valori o disvalori ma non sono certo al riparo dalle degenerazioni della convivenza.La liberazione dell'uomo — il senso del Cristianesimo — non può non liberare pure la famiglia; anche da se stessa, se occorre. E allora la famiglia può diventare veramente un Teatro del Mondo e dell'universale-umano: quando, giocando con i propri fratelli e amandoli, facciamo il primo fondamentale passo verso una fraternità più grande, che senza la famiglia non avremmo imparato a sentire così vivamente; quando i genitori ci fanno capire concretamente che cosa significa essere portati per mano nella giungla del mondo, da una mano che continua a sorreggere anche quando non la si stringe più fisicamente.

In una famiglia libera e aperta anche l'Eros trova la sua avventura più grande, misteriosa e conturbante; mangiare in pace il proprio pane con la donna amata in giovinezza, come dice un passo biblico spesso citato da Saba, è esperienza di grandi amanti.

E i figli, in un universo di rapporti liberati da familismo (ansioso, autoritario, debole, ossessivo, a seconda dei casi) diventano realmente la passione più grande che la vita ci fa conoscere. La civiltà greca ci ha dato Edipo e gli Atridi, ma anche Ettore che, senza preoccuparsi della propria morte, sulle mura di Troia assediata gioca con suo figlio Astianatte e il suo desiderio più grande è che questi cresca migliore e più forte di lui.

 

Claudio Magris 

 

06/08/19

Libro del Giorno: "Dove va l'anima dopo la morte" di Cesare Boni




Al contrario di molti libri futili pubblicati sull'argomento, questo volume è uno studio serio, erudito, profondo e comparato dei più grandi testi sapienziali di tutte le tradizioni che descrivono, istante per istante, il viaggio dell'anima dopo la morte, una ricerca condotta meticolosamente da uno dei più brillanti tanatologi italiani. 

E dunque quest'opera non è affatto di facile lettura. 

Ma se si ha costanza e voglia di conoscenza, spalanca notevoli orizzonti.

Cesare Boni, già docente alla Scuola di Specializzazione in "Psicologia del Ciclo della Vita" ed insegnante nei Corsi di Perfezionamento dell'Università Statale Federico II di Napoli, ha insegnato nelle più prestigiose scuole di psicologia in Italia e nel "Master in psicologia oncologica" dell'Ospedale Bellaria di Bologna. e in questo libro ha condensato le pratiche di conoscenza della vita e della morte e dell'accompagnamento del morente maturata sul campo in numerosi grandi ospedali italiani.

Boni parte anche da esperienze personali approfondite poi in lunghe permanenze in India e in numerosi convegni universitari in Italia e all'estero, collaborando con l'Università di Roma "La Sapienza", con quelle di Parma, Magonza (Spagna), Monaco di Baviera (Germania), New Delhi, Mumbai e Varanasi (India).

La morte come si sa, è divenuta, nel mondo contemporaneo l'ultimo dei grandi tabù.  Della morte, sempre in Occidente, è divenuto sempre più difficile parlare. Come altrettanto difficile è parlare, informare, diffondere conoscenza sul cammino di avvicinamento della morte e su quello che le grandi tradizioni sapienziali e quelle spirituali dicono sul post-mortem (in alcune parti rilevanti suffragate dalle testimonianze di coloro che hanno vissuto esperienze di pre-morte, le cosiddette NDE, Near Death Experience). 

L'Occidente ha un ossessivo timore per un processo che non conosce: è ossessionato dal mito dell'eterna giovinezza, vede la morte come la fine della vita, e dunque la tratta come un argomento tabù. 

Eppure i grandi libri sapienziali di tutte le tradizioni e i grandi saggi di ogni epoca dicono esattamente l'opposto, descrivendo una dimensione eterna della vita, che già esisteva ben prima della nascita e che non finirà con la nostra morte. 

Cesare Boni in questo testo più volte ristampato, ripercorre l'affascinante cammino di conoscenza delle pratiche di pre e post-morte, confrontate con  le teorie dei maggiori studiosi di questa fase dell'esistenza umana, il professor Moody, la dottoressa Kübler-Ross e il dottor Melvin Morse. 

Dalle oltre 400 pagine di questo libro si esce affascinati dalla constatazione del pozzo di misteri nel quale la nostra vita terrestre è calata, ma anche fortificati dalle massime sapienziali di culture antichissime che hanno indagato ad Oriente, come ad Occidente, i limiti della vita, o meglio - come direbbe l'autore - l'altra faccia della vita, perché la morte, se soltanto vi si riflette, non è qualcosa di separato dalla vita, ma qualcosa che è essenzialmente legato alla vita, dal suo punto di vista più naturale. 

Come scrive Mario Mastropaolo nella prefazione: "Il libro è un racconto attendibile e circostanziato del viaggio che attende l'anima, una volta lasciato il corpo, verso il compimento del suo destino: la fusione con la Luce. Intriso della tristezza del distacco, struggente per l'inevitabilità dell'evento e nello stesso tempo gioioso, aperto, fiducioso della realtà ultima dell'uomo."

Un viaggio, insomma, che è necessario prepararsi immediatamente, dopo aver preso coscienza della dimensione dualistica dell'esistere e di quella profonda nostalgia per l'unità perduta che viene continuamente espressa dal tentativo di confluire nell'indifferenziato senza aver raggiunto la piena consapevolezza della separazione e della disperazione che ne consegue.

Fabrizio Falconi



15/02/17

Libri: "Sono stata all'inferno", Il racconto drammatico di una donna e della sua bambina, scampate da Boko Haram.




A mille giorni dal rapimento delle studentesse di Chibok da parte dei miliziani di Boko Haram, la storia coraggiosa di Patience e della sua bambina. 

 Patience ha diciannove anni quando precipita all’inferno.

Un giorno torna a casa, nel suo villaggio in Nigeria, e suo marito è a terra, morto: ucciso dagli uomini di Boko Haram, il gruppo di fondamentalisti islamici che terrorizza da anni quelle terre dell’Africa occidentale. La colpa: essere cristiano. E anche Patience lo è. 

Non passa molto tempo prima che si ritrovi a sua volta rapita da una banda di soldati di Boko Haram, costretta ad affrontare assieme ad altre ragazze le marce forzate, la fatica e la fame, le violenze quotidiane. Con un problema in più: è incinta, e se i suoi torturatori lo scoprono, per lei e per la vita che porta in grembo non ci sarà salvezza. 

Deve fuggire, anche se fuori dal campo di lavoro la attende solo l’incognito di una società prigioniera della paura. E anche se sarà costretta a dare alla luce da sola, in mezzo agli alberi, una figlia che chiamerà Gift. Il Dono.


Nella storia di Patience, narrata in prima persona e raccolta dalla penna sensibile di Andrea C. Hoffmann, risuonano la sofferenza, la tenacia e il coraggio di una moltitudine di donne che combattono e soffrono in troppi terribili scenari del mondo.

Un racconto mozzafiato, una testimonianza unica su una tragedia di cui sappiamo assai poco, un inno alla libertà femminile al di là di ogni etnia, di ogni religione, di ogni distanza geografica, in nome di quel luminoso, irrinunciabile valore assoluto che è la vita.

“Fuori iniziava a fare buio. Nel cortile sentii gli uomini di Boko Haram pregare. Che strano dio è il loro, pensai. Quale dio ordina ai suoi fedeli di uccidere o catturare altri esseri umani?”

Andrea C. Hoffman. È una scrittrice e giornalista tedesca. Ha collaborato con importanti giornali come «Zeit», «Berliner Zeitung», «Focus», e realizzato reportage dai punti più caldi del mondo, come Afghanistan, Iraq, Libano, Siria. In Italia ha pubblicato con Farida Khalaf, La schiava bambina dell’Isis (Piemme, 2016).

29/12/16

Hervé Clerc - "Le cose come sono - una iniziazione al buddhismo comune" (Recensione)




Per chi è in cerca di una introduzione (o una iniziazione, come è scritto nel sottotitolo) al buddhismo, come filosofia di vita e come pratica quotidiana, il libro di Clerc è un ottimo strumento. 

Scritto con tono completamente a-confessionale, da un punto di vista sostanzialmente laico, Le cose come sono racconta prima di tutto un incontro molto personale con l'essenza del buddhismo, come è stato vissuto dall'autore. 

Clerc (a indurlo a scrivere è stato il suo amico Emanuele Carrère) si è portato questa storia dentro per quattro decenni. Fu infatti più di quarant'anni fa che, reduce dai fervori e dai clamori del maggio '68, ebbe «un'esperienza incommensurabile rispetto a tutte quelle che avrebbe poi fatto nella sua vita e, ovviamente, a quelle fatte in precedenza»: si trattò di una vera e propria illuminazione, pervenuta al termine di una esperienza di droghe, che spalancò le porte ad una nuova percezione della realtà: una esperienza squassante di nudo, immobile, vuoto. 

Clerc non sapeva allora non sapeva che cosa fosse. Soltanto più tardi ha trovato la radice di questa esperienza meticolosamente, miracolosamente descritta negli antichi testi buddhisti. 

Così, riprendendo oggi il filo della propria biografia, riesce a renderci partecipi di un insegnamento plurimillenario, e nella forma più semplice e spoglia possibile, scardinando cliché, tic accademici, gerghi, mode, che invoglia alla lettura. Allo stesso tempo lo studio dei testi classici del buddhismo e delle sue radici è comparato con l'esperienza occidentale, in particolare con gli esiti di quella ricerca fenomenologica che da Husserl ad Heidegger si è avvicinata - per certi toni - alla tradizione millenaria orientale. 

Un libro insomma affascinante, denso di spunti e con un prezioso glossario finale che racchiude i termini e le formule principali del pensiero buddhista. 


Hervé Clerc 
Le cose come sono 
Una iniziazione al buddhismo comune 
Traduzione di Carlo Laurenti 
Piccola Biblioteca Adelphi 2015, 
3ª ediz., pp. 259 € 14,00 

17/06/16

21 giugno giornata mondiale dello Yoga - proiettato in tutta Italia il film-biografia su Paramahansa Yogananda.



Viene proiettato anche a Torino al Cinema Massimo-Museo del Cinema, come in altre 50 sale italiane, il 21 giugno, Solstizio d'estate e Giornata mondiale dello yoga, il film 'Il Sentierodella Felicita' (Awake: The Life of Yogananda) di Paola diFlorio e Lisa Leeman, biografia del maestro Yogananda che negli anni '20 ha introdotto lo yoga e la meditazione al mondo occidentale. 

Paramahansa Yogananda arrivo' negli anni 20 negli Stati Uniti e affascino' il mondo con lo yoga e la sua filosofia. Il suo famoso libro 'Autobiografia di uno Yogi', un classico della letteratura spirituale che ha venduto milioni di copie nel mondo, ancora oggi costituisce un riferimento essenziale per ricercatori, filosofi e cultori dello yoga. 

 Il film, presentato in una nuova versione integralmente doppiata, viene introdotto al pubblico da Stefano Paino, noto Indologo e Orientalista dell'Universita' di Torino. 

06/02/16

Il Destino, una parola fuori moda.




Anche alle parole, come ai vestiti e ad ogni altra cosa umana, capita di passare di moda. 

Succede ora alla parola Destino, che quasi nessuno ormai pronuncia più.  Fa parte di un comune sentire, che riguarda il tentativo di esorcizzare quello che non comprendiamo e che tutto sommato ci disturba. 

Il pensiero dominante infatti è tetragono oggi nel credere e nell'affermare che in definitiva tutto è sempre nelle nostre mani, tutto possiamo decidere, tutto possiamo scegliere e alla fine siamo noi gli artefici di tutto quello che (ci) accade. 

Una pubblicità della TIM anzi, ultimamente alletta i suoi consumatori con lo slogan: La libertà di non scegliere.  Il sottotesto è che ormai siamo così ricchi, così pieni di opzioni (ricordate l'altro spot della Vodafone: Tutto intorno a te ?) che possiamo anche concederci di non scegliere nulla, tanto - verrebbe da dire - qualcun altro ha scelto per noi, e questo va comunque bene anche per noi. 

Eppure è così evidente - agli antichi questo lo appariva ancor di più, esposti com'erano alle furie naturali, delle guerre, dei massacri, delle epidemie - che c'è una grossa parte di quello che (ci) accade sulla quale noi non abbiamo proprio nessun controllo. 

Per gli spagnoli la parola 'Destino' significa arrivo. Noi per lo stesso significato abbiamo destinazione.  Destino invece, per noi, ha un senso profondamente arcaico che ha sostituito il Fatus dei Romani. 

Le due cose infatti, per i Romani, erano molto diverse. Il Destino  (fortuna) era infatti legato alle caratteristiche umane e si sposava perciò con le volontà individuali (e il libero arbitrio) che determinano la propria sorte.  Il Fatus invece per i romani indicava l'essere sottoposti a una necessità che non si conosce e che non si può controllare. Che appare come casuale (ma per i romani non lo è). 

Oggi per noi Destino significa il Fatus dei Romani. E come ogni cosa che non comprendiamo, tendiamo a rimuovere.  Se proprio poi si deve dedicare attenzione a questo fenomeno degli eventi, vi si attribuiscono gli attributi di caso, accidente, fatalità.

Eppure la tradizione umana, in occidente come in oriente, ha sempre attribuito al Destino, cioè al Fato, una caratteristica non legata fondamentalmente/esclusivamente al caso. Che un vaso di fiori cada in testa ad un passante dunque, è certamente casuale.   Ma sotto questo mantello del caso inviolabile,  la tradizione orientale ha individuato le più diverse necessità del Karma (per i buddhisti), quella occidentale un disegno non leggibile dagli umani, ma che può essere variamente interpretato, fino alle moderne scuole di psicologia del Novecento. 

Tutto questo appare oggi cancellato.  Tutto è nelle nostre mani.  E quel (poco) che non è nelle nostre mani è puro caso ( e questo sentire è ad esempio diffusissimo anche tra chi si dichiara credente di una qualche confessione religiosa), ruota della roulette. E quindi, non vale nemmeno la pena di discuterne.

Ecco dunque che si spiegano le reazioni nevrotiche di fronte ai grandi e improvvisi lutti, alle grandi e improvvise tragedie, di fronte alle quali siamo sempre più impreparati, senza strumenti (anche soltanto interpretativi) di qualunque senso. 

Fabrizio Falconi

foto in testa: frame dal video Losing my religion, dei R.E.M.


28/01/16

Senso di colpa e peccato, Cristianesimo e Buddhismo.





Una delle vulgate più comuni di questi nostri tempi è quella che il Cristianesimo - ma si dovrebbe dire ancor di più l'ebraismo, di cui il Cristianesimo è figlio - è una religione fondata sul peccato e (quindi) sul senso di colpa. 

Nelle chiacchiere da bar, questa è diventata una affermazione che nessuno discute più e che anzi è uno dei motivi principali per i quali tanti cristiani - sarebbe meglio dire tanti battezzati - si avvicinano al buddhismo e alla pratica buddhista, che fra proseliti anche tra gli agnostici, confortati dal fatto di avere a che fare con una pratica che non mette "il dito nella piaga", che lascia liberi, che non condanna e non spaventa con scenari catastrofici di inferni e giudizi universali. 

Tralasciando qui il discorso sul Cristianesimo e sul fatto di come esso è percepito oggi, che ci porterebbe lontano, è il caso di sottolineare che nel buddhismo, il peccato (che non si chiama peccato) cioè il vivere male, vivere contro i precetti del bene, non è affatto un elemento secondario. Tutt'altro. 

(*) Ma che succederà dopo la morte, di colui che non ha riconosciuto l'Atman (in termini occidentali potremmo dire, lo Spirito) ? Che ne sarà dei buoni, che dei cattivi ? 
Il Rig-Veda della vita dell'oltretomba ci dà qualche accenno: i buoni andranno in un luogo di eterne delizie, i malvagi di pene eterne. 

Secondo le Upanishad, solo chi ha conosciuto l'Atman, morto, si assorbirà in esso, né più tornerà in questo mondo; ma chi non è riuscito  a squarciare il velame che ricopre l'Atman e a estinguere in sé il desiderio della vita e dei piaceri, colui rinascerà in altre forme e in altri mondi, di felicità o di infelicità, a seconda che in terra avrà bene o male operato. 

Finito il periodo di espiazione o premio, ritornerà in terra dove, o conoscerà l'Atman, e morto, si assorbirà in lui, né più rinacerà, oppure, NON conosciutolo, opererà bene o male, e saranno le sue opere (Karma) le artefici del futuro destino. 

Come si vede, le buone opere non ottengono la liberazione dal circolo dell'esistenza, ma procacciano soltanto un buon avvenire dopo morto; è la conoscenza dell'Atman che libera da quel circolo. 

E perché è necessario operar bene per non incorrere in un avvenire di dolori ? Perché chi opera bene rispetta se stesso nel suo prossimo e in ogni essere vivente, l'Atman occulto in lui essendo lo stesso di quello occulto di tutte le creature;  mentre chi opera il male offende nell'altro se medesimo, nell'Atman dell'altro il suo proprio Atman. (*)

Come si vede, anche nel Buddhismo non si fanno sconti. Ma forse in tempi come questi, semplicemente il non uso della parola occidentale 'peccato' è di per sé rassicurante.



Fabrizio Falconi

17/11/15

Le Chiese e i siti cristiani di Nagasaki. Una bellissima mostra sul Giappone al Palazzo della Cancelleria, a Roma.

Cattedrale di Oura


La mostra, "Le Chiese e i Siti Cristiani di Nagasaki", candidati al riconoscimento come patrimonio culturale dell’umanità, intende presentare come si è radicato il cristianesimo in Giappone e come esso abbia favorito per quattrocento anni lo scambio di valori tra Giappone ed Europa, sarà aperta al pubblico dal 23 al 29 di novembre 2015, è organizzata dalla Prefettura di Nagasaki, Prefettura di Kumamoto, Comune di Nagasaki, Comune di Sasebo, Comune di Hirado, Comune di Goto, Comune di Minamishimabara, Comune di Ojika, Comune di Shinkamigoto, Comune di Amakusa, è realizzata grazie al contributo dell’ANA, Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone e si avvale del Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri del Giappone e del Pontificio Consiglio della Cultura.



Una statuetta di Maria Kannon XIX secolo Arcidiocesi di Nagasaki La leggenda vuole che la statua fosse di proprietà dei credenti di Urakami. Sculture raffiguranti la Dea kannon venivano prodotte in massa in Cina, perciò questo tipo di scultura fu scelta per rappresentare la Vergine Maria. I “senpuku kirishitan” (cristiani clandestini) la chiamavano “Hanta Maruya” (Santa Maria)

“Le Chiese e i Siti Cristiani di Nagasaki”, candidati al riconoscimento tra i patrimoni culturali dell’umanità. Le orme dello straordinario cristianesimo giapponese. PALAZZO DELLA CANCELLERIA (PIAZZA DELLA CANCELLERIA 1, ROMA)

Da lunedì 23 a domenica 29 novembre

Chiesa di Egami 


Situata all'estremo occidente del Giappone, la regione di Nagasaki è un territorio costituito da una miriade di isole i cui colori dominanti sono l'azzurro e il verde grazie all'intenso tono blu del cielo che le sovrasta ed al verde cristallino del vasto mare che le circonda. Sin dall'antichità attiva protagonista degli scambi culturali con il continente, la regione di Nagasaki, nel suo ruolo di porta d'ingresso per gli scambi con l'Occidente, ha svolto un ruolo determinante per lo sviluppo della cultura giapponese e per il processo di modernizzazione della stessa. In tale contesto, si è assistito alla creazione di una cultura originale di questa regione, che come caratteristica principale ha quella di essere in grado di testimoniare il processo di radicamento del cristianesimo in Giappone.



Un paravento decorativo pieghevole raffigurante l’arrivo degli europei in Giappone (copia) ca. 1600 Questo paravento ritrae in maniera estremamente vivida le scene di arrivo in Giappone di missionari e mercanti. Nella parte in alto a destra si può notare una chiesa, circondata da numerosi negozi che vendono rosari e altri oggetti di culto.





L'introduzione del cristianesimo in Giappone, ad opera del missionario gesuita Francesco Saverio, avvenne nel 1549 e a partire dal XVI secolo la regione di Nagasaki costituì il centro delle attività dei missionari, che portarono alla diffusione della religione cristiana. In seguito, a causa dei divieti, delle oppressioni e delle persecuzioni delle autoritàà politiche del tempo, per un periodo di circa 250 anni i credenti della regione di Nagasaki tramandarono la loro fede costituendosi in comunità clandestine, fino a che, alla metà del XIX secolo, non riuscirono a ricongiungersi alla chiesa cattolica. 



L’“O-kake-e” (L’Annunciazione) Risalente alla seconda metà del XVIII secolo- inizio XIX secolo circa Museo di Shimanoyakata nell'isola di Ikitsuki, Comune di Hirado Immagine sacra tramandata dai “senpuku kirishitan” (cristiani clandestini) dell' isola di Ikitsuki di Hirado, denominata “Il bucato”, poiché vi si sovrappongono strati pittorici di diverse epoche, che testimoniano la trasformazione dallo stile pittorico occidentale a quello giapponese. Nel dipinto, che raffigura la scena dell’Annunciazione, sono ritratti l’Arcangelo Gabriele, con le ali sul dorso, la Vergine Maria che già tiene il Cristo tra le braccia e, nella parte superiore, Dio

Con la mostra "Le Chiese e i Siti cristiani di Nagasaki", candidati al riconoscimento tra i patrimoni culturali dell’umanità, intendiamo illustrare la peculiare storia del processo di recepimento del cristianesimo da parte del Giappone, verificatosi a partire dal XVI secolo e per un periodo di circa 400 anni e presentare la cultura e i patrimoni culturali ad esso legati, attraverso gli oggetti, le immagini e i documenti esposti. In un paese come il Giappone, le cui radici spirituali erano legate al buddismo e allo shintoismo sin dalla più remota antichità, come è stato possibile diffondere il cristianesimo ed assistere alla sua drammatica rinascita dopo un lungo periodo di agonia La meraviglia di questa storia è sotto i vostri occhi.
Villaggio di Sakitsu a Amakusa



Un’orecchia di mare (copia) Museo della chiesa di Dōzaki Una conchiglia chiamata “orecchia di mare”, riportante l'iscrizione: “San Givan”. Si ritiene che il nome “San Givan” indichi San Giovanni Battista. I “senpuku kirishitan” (cristiani clandestini) intravedevano la figura del Santo nei riflessi che risplendono nella parte interna della conchiglia. Fu così che queste “orecchie di mare” iniziarono ad essere utilizzate e tramandate in vari luoghi come oggetti di devozione.

24/10/12

Crisi delle religioni e isolamento individuale (nelle questioni ultime).




Nessuno più parla del termine alienazione - così in voga nel Novecento - corollario che sembrava quasi indistinguibile da quello di modernità.

Eppure sintomi diversi di alienazione - il disagio dell'uomo nell'età moderna, ormai lontano dalle radici e dal contesto naturale - continuano a manifestarsi e riguardano l'essenza stessa dell'umano: le domande fondamentali alla base di ogni coscienza.  

La crisi delle religioni - soprattutto nell'aspetto della pratica collettiva - sta portando e porta infatti come effetto collaterale anche quello di sospingere ogni tema meta-fisico - la percezione di esso, nell'ambito strettamente individuale.

Ciascuno è incoraggiato, invitato - dal mondo in cui vive - e in certi casi perfino costretto a sbrigare questo radicale confronto nell'appartato mondo del proprio sé.  

Ciò comporta che di temi metafisici - che in definitiva sono quelli che più ci occupano mentalmente durante la vita (chi siamo, perché siamo qui, dove andiamo a finire, esiste dio) non è più conveniente parlare in pubblico. Anzi, questi temi sono caldamente banditi da ogni consesso pubblico e il nuovo conformismo prevede che debbano essere vissuti interiormente e individualmente.

Tale tendenza - è appena il caso di sottolineare che per molti secoli non è stato così, i temi metafisici venivano con-divisi socialmente - porta ad un sempre crescente isolamento e in definitiva ad una sempre crescente infelicità, perché ogni uomo è lasciato solo a ruminare i suoi dubbi, i suoi scoramenti, la sua inadeguatezza di fronte all'incomprensibile e all'infinito.

La nuova umanità - vagheggiata -  comincerebbe da qui: da una nuova possibilità che su queste vicende ultime, e essenziali, ogni uomo possa ritornare ad aprire - senza paura - il suo cuore (oltre che la sua mente) e la sua bocca. 

Fabrizio Falconi

21/04/12

Il relativismo contemporaneo filosofia inevitabile e virtuosa - Dario Antiseri sul "Corriere della Sera".




Vi riporto questo interessante articolo comparso ieri sul Corriere della Sera a firma Dario Antiseri, nelle pagine della cultura. 


«Non esiste un principio etico razionale che valga più di altri» «Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste nessuna autorità umana e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi». È questo il messaggio epistemologico di Albert Einstein. 

Lo stesso di quello di Karl Popper: «Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. Il vecchio ideale scientifico dell' episteme - della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile - si è rivelato un idolo. 

L'esigenza dell'oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo. Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l'uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta della verità». Tutta la ricerca scientifica, in qualsiasi ambito essa venga praticata - in fisica e in economia, in biologia e in storiografia, in chimica come nella critica testuale - si risolve in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di ipotesi o teorie da sottoporre ai più severi controlli al fine di vedere se esse sono false. 

Cerchiamo, insomma, di falsificare, dimostrare false le nostre congetture per sostituirle, se ci riusciamo, con teorie migliori, vale a dire più ricche di contenuto esplicativo e previsivo. Ciò nella consapevolezza che, per motivi logici, non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria: anche la teoria meglio consolidata resta sempre sotto assedio. La realtà è che evitare l'errore è un ideale meschino; se ci confrontiamo con problemi difficili è facile che sbaglieremo; conseguentemente, razionale non è un uomo che voglia avere ragione, ma è piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui. 

Ancora Popper: l'errore commesso, individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza. Dunque, nello sviluppo della ricerca scientifica, non ogni teoria vale l'altra e, di volta in volta, accettiamo quella teoria che ha meglio resistito agli assalti della critica. Il fallibilismo, in breve, è la via aurea che, in ambito scientifico, consente di evitare sia il dogmatismo sia l'arbitrio soggettivistico. 

Ora, la storia delle vicende umane, come anche la realtà dei nostri giorni, ci mostra una Terra inzuppata di sangue versato in nome di concezioni etiche legate a differenti prospettive filosofiche e religiose. Partendo dall'esperienza, ripete Max Weber con John Stuart Mill, si giunge al politeismo dei valori. E con ciò siamo nel mezzo delle questioni connesse al relativismo etico. Certo, è falso sostenere che tutte le etiche sono uguali. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è un principio ben diverso da quello dove si grida «occhio per occhio dente per dente», o da quello leninista per cui «la morale è in tutto e per tutto soggetta agli interessi della lotta di classe del proletariato», talché «non bisogna accarezzare la testa di nessuno: potrebbero morderti la mano. Bisogna colpirli sulla testa senza pietà». 

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fonte Corriere della Sera.

in testa una tavola di Escher,  Encounter.

15/12/11

George Steiner: sulle "questioni ultime" in 2000 anni non abbiamo fatto un solo passo avanti, nella conoscenza.



Quando leggo quasi ogni giorno sui giornali delle grandi scoperte della scienza che sembra spieghino tutto della nostra vita biologica (il dominio della genetica) mi tornano in mente le parole di George Steiner, il grande scrittore e saggista francese, che qualche tempo fa ammoniva sugli scarsi risultati raggiunti, complessivamente, dalla storia umana, riguardo alle cosiddette 'questioni ultime': chi siamo, da dove veniamo, se c'è un motivo per cui siamo qui, cosa è la morte. E' molto interessante rileggerle. 

Ma resta un fatto schiacciante: ..Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell'enigma della natura - o dello scopo, se ce n'è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio. 

Potremmo anche essercene allontanati. I tentativi di "pensare fino in fondo" questi problemi ... hanno prodotto la nostra storia religiosa, filosofica, letteraria, artistica e scientifica. 

Questi tentativi hanno impegnato i migliori intelletti e le migliori sensibilità creative del genere umano - un Platone, un sant'Agostino, un Dante, uno Spinoza, un Galileo, un Marx, un Nietzsche o un Freud. Hanno generato sistemi teologici e metafisici affascinanti per la loro sottigliezza e suggestivi per la loro forza propositiva. In ultima analisi, comunque, non andiamo da nessuna parte. 

Per quanto riguarda il loro risultato concreto, la danza aborigena intorno al totem e la summa di Tommaso, il voodoo e Plotino sulle emanazioni, mettono in atto, comunicano miti che condividono analogie più che accidentali. Non producono alcuna prova. 

A dire il vero la storia degli sforzi che si sono succeduti per provare l'immortalità e l'esistenza di Dio costituiscono una cronaca imbarazzante della condizione umana. Nessuna confutazione è assiomaticamente possibile. 

La verificabilità, la falsificabilità delle scienze, il loro progresso trionfante costituiscono il prestigio e il crescente dominio che esercitano nella nostra cultura, ma la scienza non può dare nessuna risposta alle questioni quintessenziali che ossessionano lo spirito umano. Wittgenstein lo ha sottolineato con insistenza: La scienza può soltanto negarne la legittimità. 

Tuttavia siamo creati in modo tale che indaghiamo comunque, e potremmo trovare molto più persuasiva la congettura di Sant'Agostino che quella della teoria delle stringhe. La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l'uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. 

Ma lo lascia straniero a sè stesso e all'enormità del mondo. 

In effetti, Steiner, mi sembra, non ha torto: la capacità cognitiva del mondo, delle grandi questioni legate all'esistenza - al di fuori di un'ottica di fede - non ha fatto un solo passo avanti, in millenni di storia. Le domande sono sempre le stesse, ma le risposte sono sempre un mistero.

29/04/08

La conversione di Magdi Allam.


Vorrei tornare per un attimo sulla questione della conversione di Magdi Allam, battezzato durante la veglia Pasquale da Papa Benedetto XVI, una notizia che come sappiamo ha fatto il giro del mondo, anche se il personaggio non è così universalmente conosciuto, ma proprio per il valore simbolico di tale gesto, come si legge in questo articolo del Corriere della Sera.


Bene, in un articolo apparso sul Sole 24 Ore Domenicale, Roberta De Monticelli analizza i contenuti e la motivazione di questa 'conversione' e la mette a confronto con quella di Angelus Silesius, (1642-1677) poeta e mistico, autore de Il Pellegrino Cherubico, uno dei testi di riflessione mistica più famoso di tutti i tempi.

Silesius si convertì dal Protestantesimo al Cattolicesimo. Ma le motivazioni, dice la De Monticelli, non furono dettate dall'attribuire - come nel caso di Allam - agli 'altri' (in quel caso protestanti, oggi mussulmani) - una più intrinseca predisposizione alla violenza e all'odio.

Da qui, la De Monticelli, parte per definire cosa è - o meglio, cosa dovrebbe essere - una reale 'conversione'.

" La conversione cristiana - scrive - in greco si chiama metanoia, cioè renovatio mentis, e va sempre insieme con una certa poenitentia: sarebbe cioè la nascita di un uomo nuovo e di una vita nuova, sulle ceneri di quella vecchia e dell'uomo vecchio, il quale - lui, e non gli altri - è fatto oggetto di riprovazione.

L'uomo nuovo - continua la De Monticelli - è capace anche di perdono, non solo rispetto alle pagliuzze ma perfino alle travi: perchè vede quello che l'uomo vecchio non vedeva, perchè l'orizzonte del valore si è allargato.

Se non è bastato il Cristo, con le sue parole e con la sua croce, a impedire gli incendi di biblioteche, le distruzioni di templi, le crociate, gli stermini, le conversioni forzate, i roghi di eretici e di streghe, un cristiano non ha forse in quanto tale il diritto di imputare ad altre religioni cose che forse non c'entrano con le fedi, ma solo con le istituzioni che le ospitano."

Penso che forse su queste parole varrebbe la pena di meditare parecchio, quando, con molta semplicità, che assomiglia a faciloneria, oggi sentiamo parlare spesso, a ogni piè sospinto, di 'conversioni' più o meno improvvise, ma non sulla via di Damasco.