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29/01/23

Un film di puro godimento per le vostre serate: "Amsterdam" di David O. Russell


Ci sono stati pochi film che ultimamente mi hanno dato un godimento assoluto, come "Amsterdam", firmato dal genio di David O. Russell (regista di American Hustle nel 2013, dieci nominations agli Oscar e nessuna statuetta, credo cosa mai successa) e uscito quest'anno.
Godimento perché più che la vicenda raccontata - poco più di una fiaba, la storia di tre amici, due reduci della Prima Guerra e una infermiera che si trovano coinvolti, negli anni '30 in una cospirazione per insediare anche negli Stati Uniti una dittatura simil fascista - conta il piacere della messinscena, dalla quale ci si lascia incantare.
Tutto in questo film è intelligente. I dialoghi sono tra i più brillanti visti ultimamente, non c'è una pausa, sono carichi di ironia e a volte si aprono al gusto per la massima, per la sentenza morale.
I tre protagonisti, incarnati da Christian Bale (per il quale sono finiti gli aggettivi), Margot Robbie e David Washington (figlio di Denzel), fanno a gara di bravura, rimpallandosi le battute e soprattutto i tempi tra esse.
Perfetta la ricostruzione dell'epoca, la fotografia, il gioco sottile delle citazioni al cinema di quegli anni, la bellissima musica, scritta da quel geniaccio di Daniel Pemberton. Mi ero augurato che i premi Academy non sottovalutassero questo lavoro è infatti è arrivata la strameritata candidatura all'Oscar per la migliore canzone a Time, che ne fa parte.
C'è una lunga scena, circa a metà del film, nella quale sono contemporaneamente, tutti insieme, 5 attori: i tre suddetti più Rami Malek e Anya Taylor-Joy (la protagonista de La regina degli scacchi). 5 attori di così alto livello è difficile vederli tutti insieme nella stessa (lunga) scena, ed è veramente uno spettacolo.
Il film si fa amare anche (e forse proprio) per la sua imperfezione, giacché è un film imperfetto, costruito sul gusto personale e sullo stile di Russell.
Robert De Niro giganteggia da par suo (senza gigioneggiare) nella seconda parte del film.
E fra i "comprimari" figurano gente come Taylor Swift (che vende milioni di dischi ed è brava anche come attrice) e l'abbagliante Zoe Saldana (protagonista di Avatar).
Insomma, fregatevene degli orrendi "aggregatori", del tipo di Rotten Tomatoes e dei suoi numerini del cacchio, e concedetevi il lusso di una gran bella serata.

Fabrizio Falconi - 2023

 

21/04/22

"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot


 

Aprile è il più crudele dei mesi: uno dei più celebri incipit della poesia mondiale è anche - non del tutto stranamente, viste le capacità profetiche di T. S. Eliot - incredibilmente attuale. 

Lo sono i versi che introducono La Terra Desolata (The Waste Land) e tutto il poemetto pubblicato nel 1922, una delle pietre miliari della poesia del Novecento. 

Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era con la moglie in Svizzera, a Losanna, dove fu ricoverato per problemi di instabilità psichica, in seguito ad un forte esaurimento nervoso

Il poeta veniva da un periodo durissimo: alla crisi personale - e relazionale con la moglie - si legava la sofferenza psichica conseguente agli eventi catastrofici del primo conflitto mondiale. 

La "terra desolata" è contemporaneamente la terre gaste (terra guasta) dei poemi epici medievali, cioè un territorio privo di vita, sterile e mortale che devono attraversare i cavalieri per arrivare al Graal (uno dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, contrassegnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà occidentale, giunta forse al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale, terminata neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto, era stata vissuta da Eliot come un'inutile e folle strage che aveva dilapidato milioni di vite e portato quasi alla bancarotta le grandi nazioni europee. 

La "terra desolata" è infine anche Londra, città dove Eliot risiedeva, e nella quale ha ambientato alcune scene del poemetto 

Tra le molte voci narranti che intervengono nel poeta, quella di Tiresia, che funge da alter ego del poeta, ma è al tempo stesso il personaggio ripreso dall'Odissea di Omero: Tiresia, che tutto ha visto e tutto sa, funge in più punti da disincarnato e distaccato narratore. 

L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non stimava affatto Conrad e che intervenne drasticamente a "tagliare" The Waste Land su richiesta dell'amico, dissuase il poeta: fu così che il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon, in ogni caso assai adatto.

La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per gli oracoli enigmatici. La sua aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire: il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita - secondo Petronio - divenne un'agonia di noia, poiché essa, rinsecchita e chiusa in un'ampolla, veniva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. 

La citazione dal Satyricon recita, in un misto di latino e greco:

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”». 

E cioè: «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

Se il mondo è una Terra Desolata - per causa principale dell'uomo, che è un distruttore (distruttore peraltro anche della natura, nonostante la natura possa vivere benissimo senza uomo, ma non viceversa) - la scelta estrema è quella di non giocare al gioco degli uomini, quindi morire. 

Eliot, già l'anno dopo, prenderà le distanze da una interpretazione così cupa del suo poemetto, ma quel che è certo che in The Waste Land sono configurate con esattezza insuperabile - perché poetica - i frutti velenosi piantati dalle guerre passate e presenti e di quelle future, nel cuore della Terra degli uomini.


in testa: una illustrazione di Noah Reagan 

23/06/21

"Chadzi-Murat" il capolavoro di Tolstoj sulla Guerra, che stregò Ludwig Wittgenstein


Adesso che l'ho finalmente letto - uno dei pochi Tolstoj che ancora mi mancavano - capisco pienamente perché Ludwig Wittgenstein, ai suoi studenti di Cambridge che partivano per la mattanza della Seconda Guerra Mondiale, raccomandava fortemente la lettura di questo breve romanzo e anche che lo portassero con loro in trincea.

A sua volta, Wittgenstein aveva letto e portato con sè, Chadzi-Murat quando si era arruolato volontario nelle file dell'esercito imperiale austro-ungarico all'indomani dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale.

Era stata per lui una lettura fatale.

E se a distanza di 30 anni lo raccomandava alle reclute inglesi (nel frattempo egli si era stabilito a vivere e a insegnare a Londra), era perché aveva toccato con mano la portata dirompente di quel racconto lungo, come un definitivo apologo sulle dinamiche della guerra, di chi la conduce e di chi la vive sul fronte, della sua imbecillità e della sua ambiguità sottile.

Nessuno, meglio di Tolstoj, ha potuto e saputo raccontare la guerra, non solo nei suoi orrori ma anche e soprattutto nella folle ebbrezza che provoca in chi viene mandato al macello (ebrezza che nel caso della Wermacht era amplificata dalla diffusione obbligatoria massiccia delle potentissime metanfetamine che venivano assunte a manciate dai combattenti di ogni ordine e grado).

Tolstoj aveva vissuto in prima linea per anni la guerra in Crimea, conoscendo profondamente quei sentimenti profondi di dissoluzione e esaltazione che rapiscono i soldati mobilitati da un qualche ideale patriottico o semplicemente da primari registri umani come il rancore, la rivincita, la vedetta, l'onore.

Ma in Chadzi-Murat Tolstoj allarga il suo affresco fino alle stanze dei potenti, di coloro che la guerra la decidono, la impongono, la vivono, la giocano come ambizione personale e accrescimento smisurato del proprio potere.

In un lungo capitolo, il XV, Tolstoj descrive il ritratto forse più vero e terribile che sia mai stato scolpito di un tiranno, in questo caso lo zar Nikolaj Pavlovic.

In queste pagine nulla viene risparmiato, tutto viene mostrato: della pochezza umana, della qualità miserabile di questo essere umano che la sorte ha dotato di un potere di vita e di morte immenso. Dei suoi meccanismi psicologici primari, di lui e della ridicola corte di servili parvenu che gli si muove intorno.

Il capitolo XV venne, come è ovvio, interamente cassato dalla censura zarista quando il romanzo fu pubblicato a Mosca nel 1912, due anni dopo la morte di Tolstoj.

Fabrizio Falconi - 2021

14/06/21

Libro del Giorno: "Ludwig Wittgenstein e la Grande Guerra" a cura di Marco De Nicolò, Micaela Latini e Fausto Pellecchia

 


Che cosa indusse il grande Ludwig Wittgenstein, poco più che ventenne, ad arruolarsi volontario nell'esercito tedesco allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale quando avrebbe tranquillamente potuto evitare la leva considerando che veniva da un doppio intervento di ernia e che proveniva da una delle più potenti e aristocratiche famiglie viennesi dell'epoca? Cosa accadde in quei lunghissimi cinque anni, fino all'armistizio e la prigionia - per sette mesi - in un campo di lavoro nel sud dell'Italia? 

Questo libro appena uscito dall'editore Mimesis indaga soprattutto la prigionia di Ludwig Wittgenstein (1889- 1951) a Cassino – catturato il 3 novembre 1918 e giunto nel campo di internamento di Caira nel gennaio 1919 – ma è lo spunto per ripensare le condizioni dei prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, ma soprattutto per rileggere quelle pagine che il filosofo austriaco portava con sé, ancora in forma di bozze e di appunti, nel suo zainetto personale e che sarebbero divenute il testo di un libro famoso in tutto il mondo: il Tractatus logico-philosophicus (pubblicato nel 1921), uno dei libri capitali della filosofia. 

In questo volume, storici, germanisti e filosofi non solo ricostruiscono la vita di Wittgenstein durante il periodo della prigionia e della Guerra, ma colgono l’occasione per rivisitare un pensiero complesso, che indaga sul senso, sui limiti e sulle potenzialità del linguaggio e dell’esperienza in genere.

Un viaggio assai affascinato, con l'unico difetto di essere costellato di molti refusi ed errori di redazione. 


Ludwig Wittgenstein e la grande guerra

Curatore: Marco De NicolòMicaela LatiniFausto Pellecchia

07/06/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 27. "La Grande Guerra" di Mario Monicelli (1959)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 27. "La Grande Guerra" di Mario Monicelli (1959)

Film straordinario, che ebbe e continua ad avere uno straordinario successo all'estero, rappresenta uno dei migliori esempi di sempre del felice connubio di tragedia e commedia che in Italia è stato genericamente chiamato "commedia all'italiana". 

In realtà il film non può essere tecnicamente compreso sotto quella definizione: La Grande Guerra è infatti un affresco corale, ironico e struggente che consiste in un grande apologo contro la guerra, muovendo i passi dalla vita di trincea durante la prima guerra mondiale, con le vicissitudini di un gruppo di commilitoni sul fronte italiano nel 1916, narrate con piglio neorealista e con una maniacale  attenzione ai particolari storici. 

Monicelli trasse lo spunto per il film da un'idea di Luciano Vincenzoni che si era a sua volta ispirato ad un racconto di Guy de Maupassant, Due amici, affidando la sceneggiatura allo stesso Vicenzoni e ad Age & Scarpelli. 

I protagonisti del film sono due soldati, il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) che si incontrano per la prima volta in un distretto militare durante la chiamata alle armi  e finiscono sulla stessa tradotta per il fronte, diventando nonostante le rispettive differenze e diffidenze, amici. 

Seppure di carattere completamente diverso, i due sempliciotti sono uniti dalla mancanza di qualsiasi ideale e dalla volontà di evitare ogni pericolo pur di uscire indenni dalla guerra. 

Attraversate numerose peripezie durante l'addestramento, i combattimenti e i rari momenti di congedo, in seguito alla disfatta di Caporetto vengono comandati come staffette portaordini, mansione molto pericolosa, che viene loro affidata perché considerati come i "meno efficienti". 

Una sera, dopo aver svolto la loro missione, si coricano nella stalla di un avamposto poco lontano dalla prima linea, ma una repentina avanzata degli austriaci li "trasporta" in territorio nemico. 

Sorpresi ad indossare cappotti dell'esercito austro-ungarico nel tentativo di fuga, vengono catturati, accusati di spionaggio e minacciati di fucilazione. 

Sopraffatti dalla paura ammettono di essere in possesso di informazioni cruciali sul contrattacco italiano sul Piave, e pur di salvarsi decidono di passarle al nemico. 

Ma proprio quando stanno per concretizzare il loro tradimento, l'arroganza dell'ufficiale austriaco ed una battuta di disprezzo verso gli italiani ridà forza alla loro dignità, portandoli a mantenere il segreto fino all'esecuzione capitale, l'uno insultando spavaldamente il capitano nemico (il milanese Busacca)  l'altro (Jacovacci), dopo la fucilazione del compagno, fingendo di non essere a conoscenza delle informazioni, finendo così per essere fucilato poco dopo l'amico. 

La battaglia si conclude poco tempo dopo, con la vittoria dell'esercito italiano e la riconquista della postazione caduta in mano agli Austriaci, ignorando il sacrificio nobile di Busacca e Iacovacci, ritenuti fuggiaschi, i quali hanno optato per la fucilazione pur di non tradire i propri connazionali. 

Tra i molti film contro la Guerra, questo di Monicelli è probabilmente l'unico ad aver mescolato così sapientemente i toni della tragedia a quelli della farsa: una sorta di Orizzonti di Gloria senza il cinismo, la brutalità e la ferocia morale di Kubrick, e con la levità invece, tutta italiana e universale, di Monicelli, virata ad un atavico pessimismo, al quale fornisce una parziale compensazione solo la scelta di restare umani, con tutte le proprie bassezze o debolezze.

Il film vinse il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia (ex aequo con il Generale della Rovere di Rossellini) e ottenne la nomination al Miglior Film Straniero, sia al Globo d'Oro sia agli Oscar.

Fabrizio Falconi

La Grande Guerra
di Mario Monicelli
Italia, 1959 
Durata: 129 minuti
Con: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Folco Lulli, Bernard Blier, Romolo Valli.




10/01/19

L'altare della Patria, tempio massonico.



L’Altare della Patria, tempio massonico

In fondo a piazza Venezia, in posizione prospettica ideale alla fine del rettifilo di via del Corso, addossato al Colle Capitolino, principale simbolo laico della città di Roma, sorge il grandioso monumento a Vittorio Emanuele ii re d’Italia, che viene detto anche Il Vittoriano e nel parlare comune dei romani è l’Altare della Patria o anche, con un nomignolo a metà tra il dispregiativo e l’ironico, la Macchina da scrivere, per le sue forme che ricordano le vecchie Olivetti.

In effetti, per la tradizione di Roma, quest’opera è sempre risultata un po’ ingombrante e imbarazzante: in parte per la sua mole gigantesca, che ha finito quasi per oscurare il vicino colle del Campidoglio, in parte per le origini della sua costruzione, che sono legate all’affermazione della unità d’Italia (e in qualche modo quindi simbolo del potere piemontese sulla Capitale), in parte per lo sfacelo, compiuto all’epoca della edificazione, di interi quartieri di Roma e di rovine antiche, e in parte infine per il materiale utilizzato – quel calcare di Botticino (in provincia di Brescia – così luminoso e abbagliante che male si concilia con l’opaco travertino simbolo della Città, insieme al giallo all’arancione e all’ocra dei suoi palazzi più antichi.

L’Altare è principalmente opera dell’architetto Giuseppe Sacconi e fu iniziato nel 1885. Ma i complessi lavori si protrassero per ventisei anni e l’inaugurazione dell’edificio si ebbe soltanto nel 1911.

La collocazione nel monumento della Tomba del Milite Ignoto risale invece soltanto al 1921, e da allora, con la sepoltura di un anonimo caduto italiano durante la guerra del 1915-18, all’Altare si legò una nuova valenza simbolica, emblema della unità del Paese che ancora oggi viene omaggiata dai presidenti della Repubblica nelle circostanze e nelle ricorrenze ufficiali.

L’idea di Sacconi infatti fu quella di realizzare una allegoria dell’Italia, per mezzo di una galleria di sculture, bassorilievi, fontane, esedre, mosaici, statue e quadrighe  armonizzati in un unico disegno complessivo.

Il monumento fu ideato dopo la morte di Vittorio Emanuele ii e proprio per celebrare la figura dell’uomo che più di ogni altro era considerato il Padre della Patria, colui che per la prima volta era riuscito nell’impresa di unificare un territorio sempre diviso e disperso come quello italiano.

Il bando per il progetto fu varato nel 1882 e, tra le novantotto proposte pervenute, si affermò proprio quella del giovane architetto marchigiano Giuseppe Sacconi, il quale si ispirò esplicitamente all’Altare di Zeus a Pergamo, uno dei capolavori assoluti dell’arte ellenistica fatto erigere dal re Eumene ii tra il 166 e il 156 a.C., smontato dai luoghi originari e trasportato a Berlino nel 1886, dove si trova attualmente.

Sacconi ebbe il pieno appoggio della potente massoneria romana, esponente di una “seconda religione”, laica e anticlericale, che aveva trovato nell’unità d’Italia il suo simbolo e voleva celebrarla in un grandioso monumento che si presentava come una enorme piazza sopraelevata, dentro la città, nel cuore della città, una specie di moderno Foro che non inneggiasse alle persone, ma ai simboli, della libertà, della fraternità, dell’uguaglianza, dell’economia, della unità.

Il vero ispiratore di questa idea era stato Giuseppe Zanardelli, uno dei politici più importanti del periodo seguente alla unificazione d’Italia, massone, sul quale circolano i più disparati aneddoti, tra cui uno racconta che, per polemizzare contro chi, a Montecitorio si lamentava dei troppi parlamentari massoni, giunse a sfilarsi il cappotto per mostrare orgogliosamente il grembiule massonico che indossava.

Fu proprio Zanardelli a esprimere il parere favorevole al progetto di Sacconi ispirato a un grande e celebrato simbolo della grandezza classica ellenica, e fu lo stesso Zanardelli – sembra -  a sostenere la scelta di sostituire il travertino (materiale con il quale Sacconi aveva pensato di realizzare il monumento, sicuramente più consono alla storia e alla tradizione di Roma) con il botticino, il marmo bianco estratto dalle cave di Brescia, di cui Zanardelli era originario.

Sacconi era il nipote di un cardinale e aveva persino curato i lavori di  restauro del Santuario di Loreto. Ma  era considerato da Zanardelli sufficientemente ambizioso e volitivo per occuparsi della realizzazione di un monumento così imponente.

All’Altare della Patria, in effetti, Sacconi dedicò l’energia di una vita intera, anche se non riuscì a vedere il monumento ultimato: morì infatti nel 1905, sei anni prima della inaugurazione e i lavori vennero ultimati dagli architetti Koch, Manfredi e Piacentini.

Gran parte del lavoro però fu effettuato sotto la sua guida di Saconi: la prima pietra del futuro monumento fu posta nel 1885. Poi, lentamente, si cominciarono a distruggere e demolire le case della zona adiacente al Campidoglio, abbattendo la torre medievale di papa Paolo iii (1468-1549), Farnese, l’ispiratore del Concilio di Trento, l’Arco di San Marco, un ponte sospeso che metteva in comunicazione Palazzo Venezia con il Campidoglio e i tre meravigliosi chiostri del convento francescano dell’Ara Coeli che furono sacrificati al nuovo monumento.

Ma Sacconi si trovò di fronte a mille difficoltà: prima fra tutte il fatto che il colle del Campidoglio risultò essere composto di materiali argillosi, frutto di sedimentazioni successive e molto friabile, non di tufo come si pensava.

Durante gli scavi, poi, venne fuori di tutto, come era scontato in quella zona nevralgica dove sorgevano molte delle più rilevanti rovine della Roma antica: gallerie, sotterranei, porzioni di mura serviane, reperti di ogni genere, perfino lo scheletro di un elefante, conservato da chissà quanto tempo.

Le ruspe sabaude comunque andarono avanti senza fermarsi, fino al completamento dell’opera, inaugurato a da Vittorio Emanuele iii il 4 giugno del 1911, nella occasione della Esposizione internazionale per il cinquantenario della Unità d’Italia, insieme alla nuova piazza Venezia, ridisegnata secondo il disegno dello stesso Sacconi, nel corso di una solenne e imponente cerimonia alla quale presero parte, oltre alle più alte cariche dello Stato, seimila sindaci provenienti da ogni regione d’Italia.

Il completamento del corredo esterno e interno di statue e mosaici dell’enorme monumento proseguì però per parecchi anni dopo la sua inaugurazione. Le due grandi quadrighe bronzee vennero poste sul terrazzo del monumento (oggi visitabile grazie all’ascensore trasparente realizzato sotto la giunta Rutelli) tra il 1924 e il 1927; qualche anno dopo si completò la cripta del Milite Ignoto, e negli anni ’30 fu terminata anche la facciata del monumento esposta a sud, verso via di San Pietro in Carcere, con la realizzazione del Museo del Risorgimento.

Qualche numero serve a capirne le dimensioni: è alto 81 metri e largo 135 e occupa una superficie pari a diciassettemila metri quadrati, 196 sono i gradini che mettono in comunicazione il colonnato con la terrazza, dalla quale si gode di una vista impareggiabile sulla città; 12 metri di altezza per una lunghezza di dieci sono invece le dimensioni della statua equestre dedicata a Vittorio Emanuele ii, per la quale furono fuse cinquanta tonnellate di bronzo (nel ventre del cavallo sembra possano essere stipate venti persone comodamente sedute).

Molti sono i simboli (vegetali, animali) che ricorrono nel monumento, gioia degli appassionati di esoterismo che vi leggono un codice nascosto: la palma per la vittoria, l’alloro per la pace vittoriosa, il mirto per il sacrificio, l’ulivo per la concordia, la quercia per la forza; poi una donna che afferra un serpente con la mano sinistra, simbolo della conoscenza segreta.

Tratto da Fabrizio Falconi, Roma segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2017

02/11/18

La strana tribù degli Hemingway, segnata dalla depressione. Un libro.



"Quando mio nonno apri' la porta e vide suo figlio, cioe' mio padre, con i collant da donna, non disse nulla e richiuse la porta. Poi avrebbe detto soltanto 'noi Hemingway apparteniamo a una strana tribu''.

John Hemingway, nipote del grande scrittore, ricorda cosi' in modo toccante un momento difficile della sua famiglia, riportato nel libro "Unastrana tribu'" (Marlin), presentato giorni fa al Caffe' degli Specchi, 70 anni dopo la visita del nonno in quella città e in quel luogo.

Il libro, pubblicato nel 2007 negli Stati Uniti e da allora uscito in tanti Paesi e in Italia soltanto da pochi mesi, e' un ritratto affettuoso ma impietoso della famiglia Hemingway, segnata da un tratto depressivo che "avrebbe portato mio nonno a subire l'elettrochoc, cosi' come mio padre Gregory, piu' volte - racconta John - Mio padre era bipolare, poi all'eta' di 65 anni circa, ha cambiato sesso. Mia madre era schizofrenica, un mio bisnonno si e' suicidato", precisa ancora. 

Insomma, come scrive nell'introduzione del libro Roberto Vitale, "John riesce a mostrare il lato umano e vero di un uomo che ha usato la propria immagine come corazza per proteggersi dalle difficolta' e da quella quotidianita' difficile da affrontare".

Ha avuto il coraggio di "aprire l'armadio di famiglia", come ha detto alla presentazione. Hemingway, uno scrittore che, come ha indicato il docente di Letteratura angloamericana all'Universita' di Trieste Leonardo Buonomo, "con la sua modernita', lo stile monastico e la precisione" ha influenzato "non soltanto la letteratura alta ma anche quella popolare, si pensi ad esempio al noir americano, alla figura del detective di poche parole. E in Italia ancora di piu'".

John oggi vive a Montreal (Canada), ma e' stato a lungo a Milano e conosce bene i luoghi che contribuirono a fare di Ernest uno dei principali scrittori al mondo.

"La guerra combattuta in Italia dove rimase ferito rimanendo miracolosamente vivo, e l'Italia stessa hanno forgiato mio nonno", racconta oggi.

Fonte ANSA

22/10/12

Creare sotto le bombe.






Questo è dedicato a tutti coloro che pensano e sono convinti che per esprimere la propria creatività - qualunque essa sia - bisogna necessariamente rifugiarsi in un eremo, stare tranquilli, trovare il tempo, isolarsi da tutto e da tutti:

Ludwig Wittgenstein cominciò a scrivere la prima pagina del suo diario, nel 1914, appena entrato in trincea. Lo terminò alla fine della guerra.

Era il Tractatus logico-philosophicus, l'opera filosofica più importante del Novecento. Nel dicembre del 1914, imbarcato su un cargo militare, egli annotò: 

di notte i cannoni hanno fatto fuoco talmente vicino a noi, che la nave traballava. Ho lavorato molto e con successo.

Allora, forza: un po' di coraggio..  Coraggio: sembra essere quel che manca in questi tempi confusi e adagiati.  Qui le bombe non le abbiamo, ma ogni giorno ciascuno si carica di mille alibi per non fare nulla.



foto in testa: manoscritto originale del Tractatus, 1915.