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01/12/20

Ecco perché Mario Luzi non vinse mai il Nobel - Il libraio di Stoccolma


Giacomo Oreglia, titolare dell'Italica di Stoccolma, che pubblicava autori italiani, pattuiva con essi che, in caso di vincita del Nobel, avrebbero dovuto riconoscergli un contributo

Quasimodo tenne fede alla parola e gli diede 20 milioni; Montale, invece, che ne aveva promesso 50, si limito' a chiedergli se in Svezia il Premio venisse tassato dallo Stato

Lo scrive oggi sul quotidiano "Libertà'" di Piacenza, Sebastiano Grasso in un articolo dedicato all'anniversario della morte di Mario Luzi, piu' volte nella rosa dei Nobel

Secondo Grasso a Luzi rimase il rimpianto del mancato Nobel e la colpa, a suo avviso, per molti, era stata proprio di Oreglia. 

"Piemontese di Mondovi', nel 1949 Oreglia si trasferisce a Stoccolma, dove fonda l'Italica, casa editrice che traduce autori italiani

Fra essi, Quasimodo e Montale (entrambi vincitori del Nobel di letteratura: una delle condizioni per potere avere il Premio e' quella di essere tradotti in svedese). 

Oreglia, che pubblica diversi libri di Luzi e insegna all'Istituto italiano di Cultura, quando la Farnesina decide di sistemare giuridicamente il personale precario estero e a Stoccolma arriva come ambasciatore Sergio Romano, deve scegliere se fare il docente o l'editore. 

Qualcuno suggerisce una soluzione "tecnica": intestare l'«Italica» alla figlia

Oreglia non solo rifiuta, ma attacca l'ambasciatore Romano su giornali svedesi - racconta ancora Grasso - e italiani, facendo la vittima (ruolo che non gli si addice proprio), urlando che, senza l'Italica, Quasimodo e Montale non avrebbero avuto il Nobel.

Nell'operazione coinvolge la natura generosa di Luzi, che sposa le sue ragioni e interviene a suo favore. Le polemiche, pero', non piacciono agli Accademici, che accantonano definitivamente il nome del poeta toscano"

28/09/20

Quando Steinbeck andò in Vietnam (e tornò disilluso)

 


Il 30 aprile 1975 la caduta di Saigon pone fine alla lunga guerra del Vietnam, un conflitto che nel corso degli anni '60 vide gli Stati Uniti sempre piu' direttamente coinvolti nel contenimento dell'espansione comunista nel sud est asiatico e che si concluse con la piu' grande sconfitta militare della storia degli Stati Uniti con costi umani altissimi

Nel conflitto perdono la vita 58 mila soldati americani, 250 mila soldati sudvietnamiti, 1 milione di combattenti tra vietcong e soldati nordvietnamiti, 2 milioni di civili

Tra il dicembre del 1966 e l'aprile del 1967 lo scrittore John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, segue da vicino il conflitto al fianco dei militari americani in Vietnam, come inviato di guerra. 

Il suo reportage, 58 dispacci dal fronte, viene pubblicato sul quotidiano Newsday, sotto forma di lettere indirizzate ad Alicia, moglie di Harry Frank Guggenheim, proprietario ed editore del giornale. 

Anni dopo, le lettere di Steinbeck sono raccolte e pubblicate in un libro: "Vietnam in Guerra. Dispacci dal fronte".

Dal quale oggi è stato tratto un documentario: "Steinbeck e il Vietnam in guerra" (in onda stasera alle 22.10 su Rai Storia), che ruota intorno al reportage dello scrittore sulla guerra in Vietnam "vista da vicino", alla sua volonta' di raccontarla "in maniera oggettiva". 

Steinbeck e' convinto, come molti americani, che l'intervento militare in Vietnam serva a "difendere la liberta' di una piccola nazione coraggiosa dall'invasione comunista". 

Quella guerra avrebbe inoltre fatto emergere il meglio dell'America, e il Paese, affrontando quella sfida, si sarebbe rigenerato. 

Fino alla fine della sua permanenza al fronte e al suo ritorno a casa quando il grande scrittore cambia il suo giudizio su quella guerra, cresce la sua perplessità sulla necessita' di quel conflitto e nasce una nuova consapevolezza sulla sua illegittimità

Il documentario, ideato e diretto da Francesco Conversano e Nene Grignaffini, realizzato da Movie Movie per Rai Cultura, raccoglie le testimonianze di tre protagonisti italiani di quella stagione: il giornalista Furio Colombo che per anni, come corrispondente della Rai dagli Stati Uniti, ha raccontato la guerra in Vietnam attraverso una serie di reportage; Francesco Guccini che, ispirato da Bob Dylan, diventa presto in Italia "la voce della protesta", dell'antimilitarismo e del pacifismo, della cultura libertaria e punto di riferimento di una intera generazione; e, infine, la scrittrice Lidia Ravera che, ancora giovanissima e' partecipe, insieme a migliaia di giovani donne, delle lotte e delle manifestazioni di protesta che portano nell'Italia di quegli anni grandi cambiamenti sociali, civili e culturali, alla nascita del femminismo e alla rivoluzione sessuale.




16/02/20

Libro del Giorno: "La ladra di frutta" di Peter Handke



Personalmente, come tanti elettori, ho accolto con gioia il riconoscimento del Premio Nobel per la Letteratura 2019 al grande Peter Handke, che ha segnato la letteratura degli ultimi 40 anni. 

Peter Handke, nato a Griffen (Austria), nel 1942, è romanziere, drammaturgo e poeta e le sue opere sono state formative per una intera generazione di lettori, non solo europei: Storie del dormiveglia, Falso movimento, Il peso del mondo, La storia della matita, Pomeriggio di uno scrittore, Epopea del baleno, Saggio sul luogo tranquillo, Saggio sul cercatore di funghi, Prima del calcio di rigore, I giorni e le opere, I calabroni oltre alla produzione poetica culminata nel celebre Canto alla durata.  

Ha vinto innumerevoli premi tra cui il premio Franz Kafka nel 2009 e ­l’International Ibsen Award nel 2014.
Famose e celebrate le sue collaborazioni con Wim Wenders, fino a Il cielo sopra Berlino.

Nelle motivazioni dell'Accademia Svedese per il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura si legge: “la sua opera influente che ha esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana”.

E' quello che succede  anche nell'ultimo fluviale romanzo, scritto da Handke, e uscito nel 2019.

Ad aprire il nuovo libro di Peter Handke, definito dall’autore stesso «Ultimo Epos», è una puntura d’ape, la prima dell’anno, che in una giornata di mezza estate rappresenta per lui un segnale. È il momento di lasciare la «baia di nessuno», la casa nei pressi di Parigi, per mettersi in cammino verso la regione quasi disabitata della Piccardia, ripercorrendo l’itinerario compiuto, in un passato non meglio definito, dalla ladra di frutta.

La ragazza – un personaggio sfuggente, dai tratti leggendari – «afflitta dalla smania di vagare» e incline a scartare dalla strada maestra per «sgraffignare» e assaporare i frutti di orti e frutteti, è partita invece con un intento preciso: ritrovare la madre, scomparsa da circa un anno dopo aver lasciato senza preavviso il suo posto di dirigente in una banca.

Il viaggio della ladra di frutta e quello del narratore finiscono per sovrapporsi, per confondersi, per specchiarsi l’uno nell’altro: una serie di peripezie, incontri, folgorazioni ispirate dal contatto con la natura, che culminano in una grande festa.

E questa sarà un approdo e un ricongiungimento, ma anche l’occasione per celebrare il vagare, l’erranza fine a se stessa, tutte quelle deviazioni dal tracciato che regalano visuali e doni inaspettati, come i frutti presi di soppiatto dai frutteti altrui, tema da sempre centrale nella narrativa di Handke. 

Il «semplice viaggio nell’entroterra» è ricco di rivelazioni e scoperte, e diventa, o forse è sempre stato, anche un percorso interiore.

03/03/19

Poesia della Domenica: "Addio a una vista" di Wislawa Szymborska.


Addio a una vista

Non ce l'ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.

Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d'erba, se oscilla,
è solo al vento.

Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sull'acqua
abbiano di nuovo con che stormire.

Prendo atto
che la riva d'un certo lago
è rimasta - come se tu vivessi ancora -
bella com'era.

Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.

Riesco perfino a immaginare
che degli altri, non noi,
siedano in questo momento
su un tronco rovesciato di betulla.

Rispetto il loro diritto
a sussurrare, a ridere
e a tacere felici.

Suppongo perfino
che li unisca l'amore
e che lui la stringa
con il suo braccio vivo.

Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.

Non pretendo alcun cambiamento
delle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.

Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro,
ora nere.

Una cosa soltanto non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza -
ci rinuncio.

Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.

03/07/18

Libro del Giorno: "Incidente di Notturno" di Patrick Modiano.



A Parigi, in una notte di parecchi anni fa, un ventenne viene investito da un'auto (una Fiat color verde acqua) in Place des Pyramides. Soccorso nella hall di un vicino hotel, il ragazzo si sveglia in compagnia della donna che era al volante e di un misterioso uomo bruno che si occupa di loro, accompagnandoli a bordo di un cellulare della polizia all'ospedale più vicino. 

Sedato per curare le sue ferite, il ragazzo trascorre alcuni giorni in stato di semi-incoscenza, poi quando viene dimesso riceve - senza altre spiegazioni - dal misterioso uomo una busta con molti soldi: una sorta di indennizzo per il suo silenzio. 

Comincia così Incidente notturno, il romanzo scritto nel 2003 da Patrick Modiano (che qualche anno più tardi - 2014 - ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura), tradotto nel 2016 da Emanuelle Caillat per Einaudi. 

Il lettore che non conosce ancora Modiano però, aspetterà invano di veder scorrere nel breve volgere di 115 pagine, l'intrico di un giallo. 

Come spesso avviene nei romanzi dello scrittore Boulogne-Billancourt, il pretesto del racconto, la chiave - pur efficace per tenere stretta l'attenzione sul racconta - funziona come messa in moto di un meccanismo narrativo introspettivo fondato sullo studio di una coscienza: quello del giovane protagonista, di cui non sappiamo nemmeno il nome, della sua vita randagia, dei rapporti con un padre misterioso che incontra soltanto nei bar in disparate zone della città, della sua infanzia, con un altro incidente subito all'età di sei anni nelle strade di un villaggio di provincia, della ricerca ossessiva della Fiat verde acqua e della sua proprietaria di cui sa soltanto il nome - Jacqueline Beausergent - e della quale conserva solo allucinati ricordi della notte dell'incidente. 

La lingua di Modiano - asciuttissima, lavorata fino a renderla quasi eterea come la trama del racconto - diventa materiale sensibile del viaggio allucinato e picaresco del giovane senza soldi e senza parte, che si muove, come all'interno di una segreta topografia già tracciata - da un quartiere all'altro di Parigi, da una sponda all'altra della Senna, da una strada all'altra, da una piazza a un vicolo. 

Come un delicato gioco di domino, la ricerca del giovane avrà fine. E noi avremo l'impressione di conoscerla retrospettivamente, anche se nulla di esplicito e garantito, nulla di effettivo e razionale verrà spiegato fino in fondo. 

Quello di Modiano è un mondo di sogni. Un mondo che rifiuta ogni tirannia del prosaico e rivolta ogni immagine come se fosse vista e percepita dal vetro di un bicchiere rovesciato. 

Il gioco potrà apparire a qualcuno stucchevole, ma non è mai stato facile e non lo è neanche ora, scrivere un romanzo come questo.



Fabrizio Falconi



06/06/17

Bob Dylan arriva il testo del ringraziamento per il Nobel: "La mia non è letteratura."



"La mia non e' letteratura". Sono solo canzoni "fatte per essere cantate e non lette". 

Bob Dylan ha inviato agli accademici del Nobel il suo discorso di ringraziamento per un il premio ricevuto ma mai fino in fondo onorato. Non ha fatto dichiarazioni, non ha ringraziato, non e' andato alla cerimonia di premiazione ha inviato in Svezia Patti Smith che ha eseguito il classico dylaniano A Hard Rain's A Gonna Fall

A rendere pubblica la lettera di ringraziamento il Segretario permanente del Nobel Sara Danius per la quale "Il discorso e' straordinario e, come ci si poteva aspettare, eloquente; ora che il discorso e' stato letto dall'Accademia, e' tutto regolare e Dylan e' a tutti gli effetti un premio Nobel"

Il messaggio e' arrivato con un audio link e Dylan ha spiegato di non considerarsi uno scrittore o un letterato. "Non appena ho vinto il premio - scrive - mi sono subito domandato quale legame ci fosse fra le mie canzoni e la letteratura»

Poi ha citato i suoi artisti preferiti, tra cui Buddy Holly che "mi ha cambiato la vita" e i suoi libri preferiti: Moby Dick, l'Odissea e Niente di nuovo sul fronte occidentale. Infine ha scrtitto: 

"Le canzoni sono vive in una terra di vivi. Le canzoni non sono letteratura. Nascono per essere cantate, non lette. I testi di Shakespeare sono fatti per essere portati in palcoscenico, cosi' come le canzoni sono fatte per essere cantate, non stampate su una pagina. E io spero che molti di voi ascoltino i miei testi nel modo per cui sono stati creati: cioe' in concerto, sui dischi o sui nuovi media. Vorrei citare ancora Omero che disse: Canta in me, o Musa, e attraverso me racconta una storia

30/04/17

Poesia della domenica - "Egli desidera il tessuto del cielo" di William Butler Yeats.




Egli desidera il tessuto del cielo
Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.

He Wishes For the Cloths of Heaven
HAD I the heavens’ embroidered cloths,
Enwrought with golden and silver light,
The blue and the dim and the dark cloths
Of night and light and the half light,
I would spread the cloths under your feet:
But I, being poor, have only my dreams;
I have spread my dreams under your feet;
Tread softly because you tread on my dreams.



W.B. Yeats (1865–1939)
from the Collected Works of W.B. Yeats

18/04/17

E' morto Mr. Tambourine Man, Bruce Langhorne, lo straordinario outsider (senza dita) che ispirò Bob Dylan.


Arrivo' in studio con un tamburello turco "grande come la ruota di una macchina" e decorato di campanellini e nacque una canzone immortale

Oggi il mondo della musica dice addio a Bruce Langhorne, il chitarrista che ispiro' "Mr. Tambourine Man" di Bob Dylan. 

"In the jingle jangle morning I'll come following you," canto' il il piu' recente tra i premi Nobel per la Letteratura nel celebre brano dalle mille interpretazioni. 

Langhorne e' morto nel giorno di Venerdi' Santo a Venice, in California. Aveva 78 anni

E' stato lo stesso Dylan a dare a Langhorne il credito di essere stato la sua musa per il brano dal tono surreale ispirato, tra l'altro alle immagini cinematografiche di "La Strada" di Federico Fellini

Piu' in generale, il chitarrista e' stato l'anima di "Bringing It All Back Home", l'importantissimo album del 1965 in cui i suoi accordi elettrici hanno tessuto la trama di canzoni come "Maggie's Farm", "Love Minus Zero/No Limit" e "She Belongs To Me". 

Impegno musicale e impegno politico: nell'agosto 1963 Bruce sali' sul palco allestito sul National Mall di Washington per un duetto con la folk singer Odetta subito prima del celebre discorso di Martin Luther King "I have a dream", ho un sogno, l'eguaglianza tra neri e bianchi. 

Langhorne era nato in Florida in una famiglia della classe media nera.

I genitori avevano divorziato quando lui era piccolissimo e la madre lo aveva cresciuto a East Harlem iscrivendolo alle migliori scuole private da cui il ragazzo venne espulso perche' accusato di appartenere a una gang. 

Figlio di afro-americani dalla pelle chiara, da piccolo Bruce non era mai stato a suo agio dentro nessuna etnia, accusato spesso di essere troppo bianco, o troppo nero, o troppo portoricano. 

Aveva cominciato a suonare la chitarra a 17 anni, dopo aver lasciato il violino per la perdita di tre dita della mano destra. 


 Negli anni '60 aveva fatto i primi passi nei club folk di Greenwich Village dove sei era fatto notare con una Martin acustica collegata a un amplificatore Fender Twin. 

Oltre che con Dylan, nella sua lunga carriera musicale Langhorne aveva collaborato con altri cantanti (lo si sente ad esempio di sfondo a "Farewell Angelina" di Joan Baez) e nel cinema: con le colonne sonore di Hired Hand" di Peter Fonda, "Fighting Mad" di Jonathan Demme e "Pat Garrett & Billy The Kid" di Sam Peckinpah con Bob Dylan nel cast. 

Ma e' stato Dylan l'artista a cui lui si sentiva piu' legato: "Comunicavamo telepaticamente", disse in una intervista del 2007, quando aveva abbandonato la chitarra dopo aver sofferto un ictus. 

Langhorne era tornato allora alle percussioni ed e' del 2011 il suo primo ed unico album di musica caraibica che si intitola, vedi caso, "Tambourine Man".

fonte ANSA

14/03/17

"Scene di vita di provincia" di J.M.Coetzee, un grande Libro (Recensione).



Einaudi ha recentemente riunito in un solo volume, con il titolo complessivo di Scene di vita di provincia, le tre parti del racconto autobiografico di J.M.Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, pubblicate in tre differenti volumi, pubblicati nel 2001, 2002 e 2010.  E nel corso delle 558 pagine c'è modo non soltanto di ricostruire porzioni della vicenda biografica del grande scrittore, ma soprattutto i nodi cruciali della sua ispirazione. 

Nel primo dei tre capitoli, Infanzia, Coetzee racconta - in terza persona - la vita di un ragazzino nel quartiere anonimo di una desolata provincia sudafricana, a centosessanta chilometri da Città del Capo, Worcester. Un ragazzino molto intelligente e chiuso, che cerca una via di fuga da un padre ordinario che non riesce a rispettare e da una madre che ama di amore viscerale ma che non gli dà certezze, dai riti di una scuola dove le regole non sono uguali per tutti, dai turbamenti di un'infanzia già minata nel suo carattere più sensibile.  dagli angusti orizzonti nazionalistici del Sudafrica nel secondo dopoguerra. 

Comincia qui, tra le esperienze famigliari, le fughe nel selvaggio Veld con la cuginetta preferita, la percezione di quel profondo senso di inadeguatezza nei confronti della vita, che è soprattutto un blocco relazionale, costruito intorno ad una intelligenza e ad una sensibilità troppo precoci. La difficoltà di costruirsi un'identità nella babele di etnie, lingue, religioni del Sudafrica a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, al di là di ogni pregiudizio, è la sfida che il ragazzino accetta, con la condizione di pagarne il prezzo. 

Nella seconda parte, Gioventù Coetzee è già diventato poco più che ventenne e ha già cambiato vita e continente. Dopo la laurea ha scelto di abbandonare il Sudafrica, quel luogo violento e radicale che gli imprigiona l'anima e ha scelto la disinibita Londra, dove si parla l'inglese che la sua famiglia ha sempre parlato (pur essendo di origini olandesi), dove è possibile sentirsi vicini al cuore europeo dei poeti, i grandi poeti - Pound, Holderlin - e narratori - Ford Madox Ford - che hanno riempito l'immaginazione e i sogni dell'adolescente provinciale.    

A Londra, Coetzee  è ben lungi dal diventare un poeta o uno scrittore, però. Essendo un abile matematico, finisce a lavorare come programmatore presso l'IBM, un mestiere frustrante e solitario che finisce per isolarlo ancora di più, in una città dove non trova sostanzialmente né amici, né rapporti sentimentali stabili, ma anzi dove assapora l'amaro di fugaci sperimentazioni quasi sempre insoddisfacenti.  

Licenziatosi dall'IBM e indeciso tra il proseguire la vita bohémian negli ancora più stranianti Stati Uniti, o fare ritorno a casa (dove comunque sarà costretto a fare rotta più avanti, per la morte della madre), Coetzee cerca affannosamente la propria strada, senza riuscire a fare breccia dentro di sé, senza trovare una via ad una apertura più sincera e radicale del cuore. 

L'ultima parte, Tempo d'Estate, scritta dieci anni dopo le prime due e non nella stessa forma della terza persona come le altre due, Coetzee inventa un proprio ritratto post-mortem: immagina infatti che dopo la sua morte un ricercatore universitario, volendo approfondire aspetti della vita dello scrittore, scelga di intervistare cinque persone che lo hanno conosciuto: quattro donne e un uomo. 

Le cinque lunghe interviste ricostruiscono soprattutto il lato più umano di Coetzee, la sua fragilità emotiva e psicologica, la carenza di affettività, le difese strutturate dietro le quali lo scrittore ha protetto il suo nucleo più profondo. 

Ne escono opinioni crudeli, a volte crudelissime, come nel caso della ballerina brasiliana, conosciuta da Coetzee durante il suo ritorno in SudAfrica per prendersi cura del padre rimasto vedovo e malato, che sprezzantemente giudica lo scrittore un mezzo uomo, un uomo inutile. 

In altri casi i toni sono più vicini - come quelli usati dalla cugina, Margot - o più tranchant come quelli usati dalla insopportabile Julie, la psicologa che ha avuto Coetzee come amante per un lungo periodo.  

Durante quest'ultima parte il lettore è portato costantemente a interrogarsi sul contenuto di verità espresso da Coetzee in questo racconto volutamente frammentario: come in un complicato gioco di specchi, l'autore di Vergogna si nasconde dietro una sofisticata teoria di simulazioni. 

Cosa è vero, cosa è finzione ? Cosa è immaginazione dell'autore su se stesso, cosa denudamento baudelairiano ? 

L'intento forse è proprio questo: dimostrare che nel cuore profondo di ogni esistenza c'è un grande e piccolo mistero insondabile, che nessuno può esplorare, nemmeno chi lo ospita. Ciascuno vive e si guarda vivere in gioco di rifrazioni che comprende gli sguardi degli altri, i giudizi e le omissioni e le proprie ombre e debolezze che abitano i recessi meno illuminati, quelli più oscuri e difficili da decifrare. 

Tutto è parvenza, tutto è dolorosa sostanza. 

In fondo è anche per questo che è così difficile resistere alla tentazione di vivere. 

Fabrizio Falconi 


06/02/17

"C'è una profonda congruenza tra ragione e struttura dell'Universo." Una intervista a J.M.Coetzee (di Piergiorgio Odifreddi).


J.M.Coetzee

Ripropongo questa intervista realizzata da Piergiorgio Odifreddi a J.M. Coetzee nel 2004 a Mantova, una delle rarissime interviste rilasciate da colui che è considerato uno dei più grandi scrittori viventi.
Secondo Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991, John Coetzee è il più rappresentativo scrittore sudafricano vivente. Ma la connotazione geografica non è certamente l'aspetto più significativo delle opere del premio Nobel per la letteratura nel 2003: il quale, fra l'altro, dopo aver lavorato qualche anno in Inghilterra, e insegnato a lungo negli Stati Uniti, vive ora in Australia.

Le sue opere più profonde, infatti, sondano le dimensioni dell'angoscia in una serie di narrazioni strazianti che, spesso, mettono in scena in prima persona personaggi femminili. Dopo una serie di romanzi straordinari, come Terre al crepuscolo (1974), Deserto (1977), Aspettando i barbari (1980), La vita e il tempo di Michael K. (1983), Età di ferro (1990), Il maestro di Pietroburgo (1994) e Vergogna (1999), e i due racconti autobiografici Infanzia (1997) e Gioventù (2002), Coetzee ha recentemente inventato un nuovo genere: le conferenze-racconto di La vita degli animali (1999) e Elizabeth Costello (2003).

L'abbiamo incontrato l'11 settembre 2004 al Festival di Letteratura di Mantova, per parlare con lui dei suoi studi matematici e dei suoi esordi da informatico. 

Lei si è laureato sia in letteratura che in matematica: interessi contradditori o complementari? 
Interessi che non hanno interagito fruttuosamente fra loro. Guardando indietro, ora penso che avrei dovuto studiare filosofia, lingue moderne, o addirittura lingue classiche, invece che matematica, visto che poi ho comunque dovuto farlo in seguito. 


Che cosa l'attraeva di più, nella matematica? 
Agli inizi la teoria dei numeri. In seguito, la probabilità. 

Continua a interessarsene anche ora? 
No, non mi sono più aggiornato sugli sviluppi contemporanei. 

Lei è stato addirittura un programmatore informatico, per tre o quattro anni. 
Sí, in Inghilterra, prima di iniziare il dottorato in letteratura negli Stati Uniti. 

Cosa faceva? 
Dapprima ho lavorato in una ditta che accettava lavori di programmazione su commissione. Poi con un gruppo che faceva programmazione di sistemi. 

E le piaceva? 
Non posso dire che fosse un lavoro creativo, ma era coinvolgente: allo stesso modo in cui possono esserlo gli scacchi. C'erano periodi in cui lavoravo con intensa concentrazione, fino a sedici ore al giorno. Ora penso a quegli anni come persi: avrei potuto spendere quelle infuocate energie mentali su qualcosa di più importante che la programmazione. Tra l'altro, si trattava di programmi che comunque diventavano obsoleti in un paio d'anni, superati dai nuovi sviluppi dell'informatica. 

Che cosa le ha comunque lasciato questo suo background, nel suo lavoro di scrittore? 
Mi ha insegnato a concentrarmi. E mi ha abituato a completare per bene una costruzione in ogni dettaglio, non solo qui e là. 

In Gioventù lei dice che "la poesia è verità''. Come paragonerebbe la verità matematica a quella di un'opera d'arte? 
Gioventù è il racconto di un giovane: oggi non direi più niente di cosí romantico. Comunque, le verità matematiche sono analitiche, e già implicite negli assiomi: come poi accada che esse abbiano poteri descrittivi e predittivi sul mondo reale, è qualcosa che non posso dire di capire. Le verità della poesia, e più generale dell'arte, se ci sono, sono invece verità empiriche: più precisamente, sul modo in cui noi, come esseri animati, sperimentiamo il mondo. 

Gioventù tocca anche il problema delle relazioni tra pensiero intuitivo da un lato, e meccanico o formale dall'altro. Ci può essere creatività e bellezza anche in quest'ultimo? Penso, ad esempio, alle opere di Bach o Perec.
 
Non credo che si possa instaurare un valido paragone tra le forme di pensiero che occorrono in musica o in letteratura, anche quando sono di natura relativamente formale, come negli esempi che lei cita, e i processi di ragionamento "meccanico'', del tipo di quelli a cui obbedisce un programma di computer. Se paragoniamo un musicista creativo come Bach con uno relativamente non creativo come Telemann, la differenza che ci colpisce è proprio che Bach trascende sempre il formale, in modi assolutamente non prevedibili, mentre Telemann rimane in genere invischiato nel formalismo. 

In Gioventù lei solleva il problema se la logica sia un'invenzione umana, e in Elizabeth Costello fa lo stesso per la nozione di infinito e, più in generale, per la matematica. Logica e matematica possono essere considerate tipi di creazioni artistiche, come la letteratura e la musica? 
Non saprei cosa pensare, a questo proposito. Logica e matematica sono certamente creazioni della ragione umana, ma la storia della matematica mostra che ciò che al momento può essere visto come un atto di libera creazione, in seguito può avere applicazioni nel mondo reale. In altre parole, sembra esserci una profonda congruenza tra le facoltà della ragione e la struttura dell'universo. 

E questo cosa significa? 
Non lo so. A meno di postulare un creatore la cui essenza sia il logos

In Elizabeth Costello l'omonima protagonista dice che la sua professione è scrivere, non credere. E' veramente possibile realizzare costruzioni intellettuali senza possedere forti credenze? Non penso a una religione, ma a una visione del mondo o una metafisica. 
Ci sono almeno tanti tipi di scrittori quanti ce ne sono di matematici, se non di più. Naturalmente molti scrittori si basano su forti credenze, ma per altri la cosa più importante è essere ricettivi: si potrebbe usare qui la metafora dell'arpa eolica, le cui corde vibrano al vento. Questi scrittori credono di essere stati "dotati'' di una facoltà, che rischia di essere intralciata o impedita se essi permettono alle proprie vite di essere dominate da forti convinzioni intellettuali. 

In Che cos'è un classico lei discute musica e letteratura, ma non la matematica. Non è strano, visto che essa è in fondo il migliore esempio di qualcosa che parla attraverso i tempi e le nazioni? 
A parte una piccola minoranza di casi, le dimostrazioni dei teoremi matematici non parlano affatto attraverso i tempi: in questo senso, sono diverse non soltanto dai testi letterari o musicali, ma anche da quelli filosofici. Detto approssimativamente, non c'è niente che si possa chiamare "stile individuale'', in matematica: in ogni tempo, e in ogni campo, sembra esserci un approccio uniforme riguardo al tipo di domande che bisogna porre, e di risposte che bisogna dare. 

A me sembra che l'oggettività della matematica riguardi soltanto i risultati, che si scoprono, e non la soggettività delle loro dimostrazioni, che si inventano. Non solo Ramanujan, che lei cita in La vita degli animali, ma tutti i grandi matematici sembrano avere uno stile definito e riconoscibile. Basta ricordare l'episodio in cui Johann Bernoulli, vista la soluzione di un problema che Newton gli aveva mandato anonimamente, esclamò: "Riconosco il leone dalla zampata''. 
Allora forse devo ritrattare la mia precedente risposta. 

A proposito de La vita degli animali, Elizabeth Costello traccia una connessione fra il genocidio degli ebrei e degli animali. Cosa risponderebbe, a chi le obiettasse che Hitler era vegetariano? 
Che il fatto che una particolare persona sia o sia stata vegetariana, non ha nessuna importanza. 

E all'osservazione che il 90% dell'agricoltura mondiale è dedicata alla produzione di mangime per animali? 
Che dedicare cosí tanto del potenziale agricolo mondiale a produrre cibo per nutrire animali, affinchè i ricchi possano mangiare tanta carne quanto desiderano, è moralmente vergognoso. 

In La vita degli animali lei cita l'articolo di Nagel su "cosa significa essere un pipistrello'', e in Vergogna solleva la questione se un uomo possa mettersi nei panni di una donna. Quali sono i limiti dell'identificazione negli altri (animali, persone, alieni, macchine pensanti)? 
In parte non si può rispondere alla domanda: ad esempio, nel caso degli animali, coi quali non condividiamo un linguaggio. Per quanto riguarda uomini e donne, invece, ci sono scrittrici che, a mio parere, capiscono perfettamente l'esperienza maschile. E ho tutti i motivi di credere che ci siano scrittori che capiscono bene l'esperienza femminile ... 

Parlando di identificazione con gli altri, qual è il prezzo psicologico che uno scrittore deve pagare per inventare personaggi angosciati e angoscianti come quelli di Aspettando i barbariLa vita e il tempo di Michael K. o Vergogna? 
Nessun prezzo. 

A proposito di quei romanzi, come mai presentano uomini sulla cinquantina come avviati alla decadenza fisica? Mi sembra un po' prematuro, forse perchè io ho esattamente la loro età ... 
Quando ho scritto Aspettando i barbari ero sulla trentina, e quell'età mi sembrava lontana. Ma rimane il fatto che gli uomini sulla cinquantina non sono attraenti per le giovani donne che loro invece trovano cosí attraenti. 

Allora ho qualche motivo di credere che ci siano matematici che non capiscono bene l'esperienza femminile ...


Piergiorgio Odifreddi

13/10/16

Il Nobel per la Letteratura a Bob Dylan - Dalla Svezia: "E' come un grande cantore greco."




Il Premio Nobel della Letteratura va dunque quest'anno al grande Bob Dylan. 

"Spero non ci siano critiche per questo premio". L'auspicio e' di Sara Danius, segretaria permanente dell'Accademia Svedese, che ogni anno assegna il Nobel. La scrittrice spiega perche' assegnarlo a un cantautore come Bob Dylan non e' un atto rivoluzionario. "Puo' sembrarlo - sottolinea in un'intervista rilasciata subito dopo l'annuncio del vincitore del Nobel per la Letteratura -, ma se si guarda indietro a 2500 anni fa, si incontrano poeti come Omero o Saffo che scrissero testi che dovevano essere interpretati o ascoltati anche con l'accompagnamento di strumenti musicali. Lo stesso accade con Bob Dylan. Noi leggiamo ancora Omero e Saffo e ci piacciono, anche Dylan puo' e dovrebbe essere letto oggi, perche' e' un grande poeta".

La motivazione ufficiale e' "per aver creato una nuova espressione poetica nell'ambito della tradizione della grande canzone americana".

"Bob Dylan scrive poesia per le orecchie, ma e' del tutto corretto leggere il suo lavoro come poesia - aggiunge Danius -. E' un grande poeta della tradizione in lingua inglese, un esempio meraviglioso e molto originale di quella tradizione. Per 54 anni e' stato attivo e ha reinventato se stesso costantemente, creando sempre nuove identita'".

 Secondo la docente universitaria e saggista svedese, "se si vuole iniziare ad ascoltare o leggere la sua poetica si potrebbe partire da Blonde on Blonde, album del 1966 che contiene molti classici ed e' uno straordinario esempio del suo brillante modo di mettere insieme i versi e della sua visione delle cose". Quanto al suo personale rapporto con il cantante americano, Danius fa sapere di non essere stata una sua fan. "Non ho ascoltato molto le sue canzoni, ma erano sempre intorno - sottolinea -. Conosco la sua musica e ho cominciato a apprezzarlo molto piu' ora che in passato. Ero fan di David Bowie, forse e' una questione generazionale".

fonte: ANSA

27/07/16

Il libro del giorno: "Tutti i nomi" di Josè Saramago.




Il Signor Josè, scrittore ausiliario presso la Conservatoria Generale dell'Anagrafe, per caso si imbatte durante la raccolta di dati per la sua nascosta collezione di notizie su persone famose, nel "modulo" di una donna sconosciuta. 

Il Signor Josè si mette sulle tracce della donna per cercare di scoprire tutto sulla sua vita ma non arriverà a conoscerla prima del suo misterioso suicidio.  

Ma per l'oscuro funzionario sarà l'occasione per un illuminante chiarimento con il suo capo sui confini labili che dividono i morti dai vivi. 

Geniale, ancora un altro geniale romanzo di Saramago, virtuosistico nella costruzione. Un romanzo che sembra parlare soltanto di nomi - di vivi, di morti - eppure nel quale non è riportato neppure un solo nome, tranne quello del protagonista, il Signor Josè, un ricercatore di anime, in bilico sopra i nonsensi apparenti della vita, e sulla sua innegabile sublimità. 


Tutti i nomi
di José Saramago
Traduz. di Rita Desti
Ediz. Einaudi 1998. 




19/01/16

E' morto il grande Michel Tournier.




A 91 anni e' morto, lontano dai riflettori di Parigi, Michel Tournier, considerato uno dei più grandi scrittori francesi del secolo scorso, più volte citato come candidato al Nobel per la letteratura.

Arrivato tardi alla scrittura - aveva 42 anni alla pubblicazione del suo primo romanzo - Tournier ha scritto per adulti e adolescenti, riuscendo a mescolare mito e storia.

Per Gallimard, pubblicò a meta' anni Sessanta "Venerdi' o il limbo del Pacifico", ispirato al Robinson Crusoe di Daniel Defoe.

Nel 1970 ottiene - unico scrittore francese nella storia - il premio Goncourt all'unanimità della giuria, per "Il re degli Ontani", che vendera' in 4 milioni di copie.

"Venerdi' o la vita selvaggia", versione semplificata della sua prima opera, vendette 7 milioni di copie e fu tradotta in 40 lingue, diventando un classico per ragazzi letto ancora oggi in tutte le scuole.


fonte ANSA


30/03/15

Pamuk in Italia: "All'utopia preferisco la memoria."




Nobel Pamuk: "all'utopia preferisco la memoria". 

L'Autore agli Eventi letterari Monte Verita a Ascona (di Paolo Petroni) (ANSA) 

Si pensa al sociale e alla politica, da Tommaso Moro a Marx, quando si parla di utopia, "ma io, pur avendo avuto problemi di tipo politico, posso dirmi una persona felice, sono un ottimista che all'utopia preferisce la memoria", ha dichiarato Orhan Pamuk, aprendo gli Eventi letterari Monte Verita' (ad Ascona, in Svizzera), dedicati appunto al tema Utopia e memoria, con una conversazione con Joachim Sartorius (direttore artistico della manifestazione con Irene Bignardi e Paolo Mauri). 

Per il premio Nobel turco "l'umanita' ha prodotto 100 tonnellate di memoria a fronte di 100 grammi di utopia" e il suo intervento sui "Ricordi: la piu' potente arma della fantasia" ha spaziato da Darwin, "per sopravvivere bisogna avere memoria per ricordarsi dove trovare cibo e acqua, dove si nascondono i pericoli", a Proust con i suoi personaggi con la loro memoria involontaria; "il narratore mangia una petite madeleine e, senza rendersi conto, ricorda", messi a contrasto con i personaggi dei suoi romanzi che, secondo le parole dello stesso Pamuk, "hanno a che fare con una memoria volontaria, alla ricerca della vita perduta"

L'esempio che porta e' quello del romanzo 'Il museo dell'innocenza' (Ed Italiana, Einaudi2009), divenuto poi un vero e proprio museo a Istanbul, con gli oggetti citati nel libro accolti in apposite teche e trasformati in alcuni casi in opere d'arte. 

Ma il momento clou dell'intervento di Pamuk e' stato la lettura di un capitolo di questo romanzo, che lo stesso autore ha fatto, su richiesta del pubblico che aveva la traduzione in mano, nella lingua originale, il turco, riuscendo a comunicare comunque, al di la' delle parole, quel pathos e quelle emozioni del romanzo che solo gli autori sanno vivere e trasmettere proprio attraverso la scrittura. 

Gli Eventi letterari Monte Verita' sono andati in scena con incontri, letture e dibattiti sul tema 'Utopia e memoria', trattato dagli autori italiani Paolo Giordano e Paolo Di Stefano, dallo scrittore svizzero Thomas Hurlimann, dall'autrice Tere'zia Mora, dallo scrittore francese vincitore del premio Goncourt Jerome Ferrari, nonchè dall'autore e regista belga Jean-Philippe Toussaint. 

A questo si e' aggiunto per la prima volta al festival uno spazio per la danza, che, grazie a Rudolf von Laban e alle sue allieve, fu la forma d'arte piu' ricca di sviluppi tra quelle praticate dalla comunita' di utopisti al Monte Verita' ai primi del Novecento. A esibirsi la coreografa e ballerina Sasha Waltz, in scena insieme col batterista Robyn Schulkowsky al Teatro San Materno. 

Anche quest'anno, in occasione del festival, e' stato consegnato il Premio Enrico Filippini (giornalista culturale, editor e traduttore (1934- 1988), con cui si intende onorare le persone che lavorano dietro le quinte delle case editrici e dei giornali.

Dopo Bernard Comment (2013) e Klaus Wagenbach (2014), nel 2015 questo riconoscimento e' stato attribuito alla traduttrice e operatrice culturale italiana Renata Colorni, traduttrice storica di Sigmund Freud e di Thomas Mann e editor dei Meridiani Mondadori. 

La laudatio della vincitrice e' stata tenuta dallo scrittore Claudio Magris. 

09/10/14

Premio Nobel per la Letteratura 2014 a Patrick Modiano. VIDEO.



Molti oggi sentendo l'annuncio di Patrick Modiano come Premio Nobel per la letteratura 2014 hanno insistito sulla bizzarria dell'Accademia svedese, che da un po' di anni a questa parte si diverte a spiazzare il pubblico dei lettori forti e meno forti, con i quali evidentemente non è in sintonia.  

Anche Modiano è in Italia un quasi perfetto sconosciuto, anche se le Edizioni Einaudi pubblicano dal 2005 quasi regolarmente ogni sua nuova uscita (si immagina con poco successo di vendite.. prima di oggi).

In Francia Modiano è un autore molto conosciuto, da sue opere sono stati tratti parecchi film.  Per i lettori italiani questo qui sotto è un piccolo ritratto-video in due minuti.



Mentre QUI potete trovare una bella intervista a Modiano realizzata da Bernard Pivot, all'uscita del suo romanzo Le petit Bijou, tradotto in italiano soltanto come Bijou ed edito, come gli altri da Einaudi.

Al prossimo Nobel.

16/10/13

Intervista al premio Nobel 2013 Alice Munro - di Irene Bignardi.





Dopo La vista da Castle Rock aveva giu­rato che non avrebbe scritto più. E il suo edi­tore ita­liano, per con­so­larci di non poter più con­tare sull’atteso perio­dico appun­ta­mento con i bel­lis­simi rac­conti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrit­trici di que­sti due secoli, ha pen­sato bene di pub­bli­care una intensa, fre­schis­sima rac­colta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, tra­du­zione sem­pre impec­ca­bile di Susanna Basso).ù
Rac­conti acuti, dolo­rosi, su gente vera e nor­male, su fram­menti di vita impec­ca­bil­mente ricreati. Ma, dice ora mali­ziosa e rilas­sata la bella signora con i capelli bian­chi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E per­ché ha men­tito, signora? «Pen­savo che fosse una buona idea. Pen­savo che la gente mi potesse essere grata per que­sto». E Alice Munro, cana­dese, anni set­tan­ta­sette por­tati con gra­zia estrema («ma se mi penso mi penso a qua­ranta, quando sei ancora capace di eser­ci­tare un’attra­zione ses­suale e hai tempo davanti a te»), autrice di un cor­pus rela­ti­va­mente pic­colo e molto accla­mato di opere, sor­ride, beve vino bianco e ricorda. 

«Sono nata nel 1931, durante la depres­sione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disa­strosa. Non era­vamo dispe­ra­ta­mente poveri. Era­vamo men­tal­mente poveri. Col­ti­va­vamo il nostro cibo, le nostre ver­dure. E nostro padre alle­vava volpi argen­tate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le foto­gra­fie di Elea­nor Roo­se­velt aveva sem­pre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diven­tare ricco con que­sta atti­vità, ma non ha avuto mai abba­stanza soldi per inve­stire, e non ci è riu­scito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pel­licce è pas­sato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavo­rare in una fab­brica, in una fon­de­ria. Mia madre si è amma­lata molto gra­ve­mente di Par­kin­son ed è vis­suta per quasi vent’anni in que­sta condi­zione dispe­rata. E io, io ero la figlia più grande. E imma­gino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rima­sta a casa, con mia madre e mio fra­tello e mia sorella più pic­coli. Invece ho vinto una borsa di stu­dio e me ne sono andata. All’ uni­ver­sità. Per la verità non avevo abba­stanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quat­tro. Dovevo tro­vare qual­che forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non basta­vano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era spo­sarmi». 

Scherza? Spo­sarsi per soprav­vi­vere? 
«No, ero anche inna­mo­rata. Sa, ai ragazzi della mia città non pia­cevo affatto, per­ché ero così strana, una che leg­geva sem­pre. Ma è suc­cesso che all’ uni­ver­sità ho incon­trato un ragazzo capace di accet­tare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non pote­vano sop­por­tare che le loro donne si impe­gnas­sero seria­mente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era feli­cis­simo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto per­ché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bam­bina Sheila, poi una seconda bam­bina Cathe­rine, che è morta subito, poi una terza, Jean­nie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vive­vamo a Van­couver, nei sob­bor­ghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle pic­cole rivi­ste e una radio che pro­muoveva la let­te­ra­tura nazio­nale. Ho comin­ciato a ven­dere qual­che rac­conto, ad essere cono­sciuta nei giri che si occu­pa­vano di let­te­ra­tura…»

La leg­genda di Alice Munro vuole che per le short sto­ries si sia ispi­rata alla Sire­netta di Ander­sen e per i romanzi a Cime tem­pe­stose. 
«Non ose­rei mai di scri­vere sul modello di Cime tem­pe­stose, è un libro unico. Ma è vero che La sire­netta ha avuto un influsso molto pro­fondo su di me. Si è con­dan­nata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tra­ge­dia. In genere si pensa che una scrit­trice donna debba scri­vere come Jane Austen. E Jane Austen è bra­vis­sima. Ma per qual­cuna della mia classe sociale non è inte­res­sante come le Bronte. Io non sono mai stata inte­res­sata alla società ben edu­cata. Volevo che la gente avesse dei destini tra­gici e grandi emo­zioni. Quando i bam­bini erano pic­coli ho letto come una dispe­rata, tutto, ma non sono mai stata influen­zata dai clas­sici del ven­te­simo secolo come Proust, Mann, la let­te­ra­tura nobile, sa, per­ché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scri­vere sono Flan­nery O’ Con­nor, Car­son McCul­lers, Eudora Welthy, scrit­trici che rac­con­tano le pic­cole città, la povera gente. Il mio ter­ri­to­rio. Per­ché non solo ho avuto la for­tuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità»

Ci sono state anche altre influenze. 
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come came­riera, presso una fami­glia, durante le vacanze su un lago. Era­vamo in un posto molto iso­lato. Il padrone di casa mi ha dato da leg­gere le Sette sto­rie goti­che di Karen Bli­xen. E le ho amate mol­tis­simo, anche se poi più tardi ho pen­sato che non mi pia­ceva il suo punto di vista - quello di un’ ari­sto­cra­tica, e non solo, una che pen­sava che all’ ari­sto­cra­zia vanno riser­vati trat­ta­menti spe­ciali. Quando leggo una scrit­trice così penso sem­pre che nei suoi rac­conti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche gra­zie a lei se ho sco­perto la bel­lezza della forma rac­conto - senza tut­ta­via mai cer­care di imi­tare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la paro­dia del bello stile»

Ma lei fa dello stile: la lin­gua che usa è ricca, pre­cisa, a volte per­sino pre­ziosa nella scelta les­si­cale. «E’ un fatto cana­dese. La lin­gua è rima­sta pro­tetta in una cap­sula che non è tanto cam­biata»

Dif­fi­cile, per una donna, scri­vere nel suo paese? 
«Non dif­fi­cile, quasi impos­si­bile. Ero una gio­vane moglie e madre. Gli uomini non mi pren­de­vano sul serio. Be’, vera­mente, alcuni sì. Per esem­pio Robert Wea­ver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Diri­geva una rivi­sta, e non ha mai smesso di inco­rag­giarmi. Ma quando andavo agli incon­tri con gli altri scrit­tori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sop­por­ta­vano»

Per­ché era troppo bella? 
«Non mi sono mai con­si­de­rata bella. No. Per­ché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o orna­menti. Nes­suno mi pren­deva sul serio come scrit­trice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai mar­gini. Scri­vevo sulle cose sba­gliate, non scri­vevo di guerra, di poli­tica - ed era ancora l’ epoca Heming­way»

Ed è uno stu­pendo con­trap­passo che lei oggi sia il nome più grande della let­te­ra­tura cana­dese. «Sì. Una stu­penda ven­detta». Per­ché si è eser­ci­tata soprat­tutto la forma della short story? 
«Per via del mio lavoro da casa­linga. Non ho mai avuto un anno in cui lavo­rare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sem­pre inter­rotto. Non potevo nem­meno lon­ta­na­mente pen­sare a un romanzo»

Cin­que rac­conti di Le lune di Giove sono in prima per­sona. Siamo auto­riz­zati a pen­sare che sono molto per­so­nali? 
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto auto­bio­gra­fico: cose che ho vis­suto, per­ché non puoi scri­vere d’ amore senza aver avuto una certa quan­tità di espe­rienze d’ amore. O di sof­fe­renza»

O, come in L’inci­dente, dell’ azione del caso, del suo potere di scon­vol­gere e ridi­se­gnare le vite. «Non ho mai avuto un’ espe­rienza del genere, ma era impor­tante scri­vere quella sto­ria. E se in pas­sato ho capi­ta­liz­zato sulla mia vita, ora mi guardo mag­gior­mente in giro. Per esem­pio, sto lavo­rando adesso su una vec­chia signora che ho visto andare a farsi tin­gere i capelli di viola e di blu, ma che non ha nean­che un filo di trucco. Mi sono chie­sta: che cosa sta cer­cando, che cosa vuol pro­vare? E la mia fan­ta­sia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le sto­rie della comu­nità in cui vivo. Da qual­che anno sono tor­nata a vivere con il mio secondo marito in una pic­cola città, a trenta miglia da quella in cui sono cre­sciuta. Non scrivo diret­ta­mente sulla vita dei miei co­cittadini, ma mi incu­rio­si­sce come la orga­niz­zano - e la vita è sem­pre molto dif­fi­cile, è dif­fi­cile attra­ver­sarla ed essere felici»

Accet­te­rebbe la defi­ni­zione di pie­tas per il suo modo di guar­dare ai per­so­naggi dei suoi rac­conti? 
«O di com­pren­sione. O di capa­cità di per­do­nare i torti degli altri. Sì, se è pie­tas sapermi iden­ti­fi­care nella con­di­zione degli altri, nei loro com­por­ta­menti. Non scrivo così per­ché io sia par­ti­co­lar­mente buona. Ma per­ché posso imma­gi­nare che io stessa, in certe con­di­zioni, potrei com­por­tarmi in maniera diso­no­re­vole». 

Lei è molto amata e letta, ma i suoi rac­conti non sono certo con­so­la­tori o tran­quil­liz­zanti, sca­vano, fanno sof­frire. 
«Credo che la gente legga le mie sto­rie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Per­ché non cerco lo happy ending, per­ché scrivo per un momento di choc, di stu­pore, di rive­la­zione - ciò che rende la vita appas­sio­nante per me. E se rie­sco a susci­tare negli altri que­sto effetto, è mera­vi­glioso. Lo so, parlo di cose dif­fi­cili, di sof­fe­renza, di come si soprav­vive alla sof­fe­renza». Di Le lune di Giove, il rac­conto che dà il titolo alla rac­colta e che ha al cen­tro la figura di suo padre, col­pi­sce il suo rap­porto con la vec­chiaia. «Non ho mai avuto paura della vec­chiaia, ma ora, a set­tan­ta­sette anni, sento che il tempo si sta chiu­dendo. E ho un po’ paura delle cose che pos­sono suc­ce­dere. Di quello che ho visto suc­ce­dere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in pas­sato a come uso il tempo che mi è con­cesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sor­ride - per scri­vere». 

Intervista di Irene Bignardi,  Repubblica 5 marzo 2005