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09/04/13

Intervista a Peter Greenway: "Sto pensando a un film sul "Figlio di Maria" "




"Oggi abbiamo una nuova Trinita': cellulare, cinepresa e computer portatile. Stiamo solo aspettando che le grandi case le diano una nuova forma, ma e' dietro l'angolo. E poi 'Star Wars', 'Avatar', 'Titanic' sembreranno qualcosa di vecchio, del secolo scorso". 

A parlare, sotto la volta affrescata del Trionfo della divinita' di Pietro da Cortona, e' Peter Greenaway, il regista che più al mondo ha saputo mettere in movimento le opere d'arte, da Leonardo da Vinci a Rembrandt (con La Ronda di notte che ha ispirato il suo 'Nightwatching'), ospite della rassegna Il gioco serio dell'Arte promossa da Lottomatica a Palazzo Barberini. 

Un incontro, condotto da Massimiliano Finazzer Flory, che diventa insieme uno spettacolo e una coltissima lezione del regista che molti definiscono "un pittore su celluloide" e che, rivelera' all'ANSA, sta pensando a un film sul "figlio di Maria". 

"Io sono fortunato a poter ancora dipingere, ma c'è un'inevitabile continuita' tra pittura e cinema - esordisce il regista - Da Pompei ad 'Avatar', e' la stessa attività, solo con differenti tecnologie". 

A dimostrarlo, nove grandi capolavori, da L'ultima cena di Leonardo alle Nozze di Cana di Paolo Veronese, che Greenaway ha moltiplicato, scomposto, illuminato, animato, fino a trasformale in un piccolo film, davanti a una platea che forse poco capisce del digitale, ma ne rimane estasiata come davanti a un Giudizio Universale di Michelangelo. 

"Oggi il montatore e' il vero re del cinema", prosegue Greenaway, che per vent'anni si e' occupato di montaggio prima che di regia. "Con le nuove tecnologie - spiega - e' lui che puo' creare, trasformare le immagini. Il 3D? Non sono un gran devoto, non credo abbia molto da aggiungere al cinema. E' un fenomeno piuttosto effimero". 

Piuttosto, il futuro del cinema dovrebbe affrancarsi dal legame troppo stretto con la parola ("una delle grandi bestemmie e' il suo rapporto con la letteratura: andiamo a vedere storie che in realtà sono romanzi del XIX secolo, da Jane Austin a Flaubert e Zola") e puntare a inglobare l'esperienza dello spettatore. "'Anche 'Avatar' di James Cameron - dice - e' limitato perché proiettato su schermo piatto e non su uno schermo che circonda architettonicamente lo spettatore, come già avevano intuito artisti italiani come Botticelli e Michelangelo". Ironicamente critico sulle sue origini ("Io vengo da un'isola ventosa e protestante. I Britannici sono antibarocchi, nel senso che sono sospettosi nei confronti degli eccessi e dell'immaginazione. Truffaut diceva che non si puo' essere sia cineasta che inglese") come su un'icona apparentemente intoccabile come Margareth Thatcher che a poche ore dalla morte non esista a definire una donna "stupida, malvagia, diabolica, che ha fatto danni enormi all'Inghilterra", Greenaway usa le nuove tecnologie come il suo più tradizionale pennello, pur restando saldamente ancorato nei suoi racconti agli archetipi di eros e thanatos, al centro anche del suo ultimo film, Goltzius and the Pelican Company.

"Sono provocatorio - risponde - ma il sesso e la morte sono le due attività primarie che coinvolgono ogni essere su questo pianeta. Il resto cambia, ma queste no e non puoi controllarle. Questo mi affascina". 

E i prossimi progetti? "Sto lavorando al remake di 'Morte a Venezia' - rivela a margine dell'incontro all'ANSA - In autunno girero' invece il film dedicato al regista piu' grande di tutti i tempi, Sergej Eisenstein, e molto presto un altro sul pittore austriaco Oskar Kokoschka. E poi ci sara' Joseph. Ha presente 'Rosemary's baby' di Polansky? Beh, io penso a un Mary's baby".

di Daniela Giammusso per ANSA

22/09/11

Carnage, il nuovo film di Roman Polanski. La recensione.


Carnage, il film di Roman Polanski (tratto dall'opera teatrale di Yasmina Reza) è quella che una volta si sarebbe chiamata operetta morale.

Bastano poco più di 70 minuti per mettere in scena, con una efficacia tragica e comica insieme, la disperazione della condizione umana, di occidentali all'alba del terzo millennio.

Il pretesto narrativo è noto: in una lite al parco, un ragazzino di 11 anni colpisce un coetaneo al volto con un bastone. I genitori, due coppie di Brooklyn, decidono di incontrarsi per discutere del fatto e risolvere la cosa da persone civili. Gli iniziali convenevoli si trasformano però subito in battibecchi velenosi e il comportamento delle due coppie degenera in situazioni paradossali.

Quel che qui interessa - a parte l'inaudita bravura dei 4 interpreti claustrofobicamente chiusi nell'appartamento middle class newyorchese, Jodie Foster/Penelope, Kate Winslet/Nancy, John C.Reilly/Michael, Christoph Waltz/Alan) è quello che quest'opera ci racconta, a noi, disincantati e spersi viaggiatori di questi tempi fragili.

Credo che davvero ci sia molto da riflettere. E questo film parli da molto vicino di noi.

Penelope, Nancy, Michael e Alan partono con tutte le migliori intenzioni (riparare una brutta cosa, la violenza dei figli, nel modo più civile).

Ma come scrisse quel tale, delle migliori intenzioni è lastricato l'inferno.

Ed ecco così che in quei 70 minuti quello che si spalanca davanti agli occhi di ciascuno dei 4 'operatori di pace' sarà proprio l'inferno: il personale inferno e quello degli altri tre. Tanto è vero che: questa è la giornata più infelice della mia vita, ripeteranno uno dopo l'altro, a conclusione dello spettacolo osceno che metteranno  in scena, dando generosamente ciascuno il peggio di sé 


Ecco, ma perché l'operazione di pace fallisce così clamorosamente ? Perché i 4, incapaci di trovare un minimo di accordo su ciò che è giusto fare, o al limite anche solamente ciò che è giusto dire, finiscono con l'assecondare i loro peggiori istinti ?

L'operetta morale di Reza/Polanski è particolarmente preziosa, perché ci illumina su una delle caratteristiche primarie del nostro tempo e - ahimè - della generazione dei 50enni che oggi questo tempo dovrebbe illuminare di senso, dirigere, orientare: l'inautenticità. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, non sono persone autentiche.

Non è autentico il cinismo adulto di Alan, alle prese con la sua dipendenza dal gioco degli affari e dalla tecnologia del telefonino; non è autentico il nichilismo di Michael, fragile come un bambino; non è autentica la disperazione di Nancy, borghese annoiata e viziata, non è autentico il volontarismo altruistico di Penelope, fatto di stereotipi. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, alle prese con una questione morale piuttosto semplice:  di chi è la colpa di ciò che è successo ? Perché due ragazzini si sono picchiati selvaggiamente ? come si può riparare il danno ? vanno nel pallone più totale.

Non sono in grado di stabilire risposte morali, perché in realtà non conoscono cosa è la morale. E non conoscono (più) la morale, perché ormai da troppo tempo vivono come bambini, senza la più piccola consapevolezza di cosa sono diventati, di quel che sono come persone. Non sanno nulla delle proprie anime. Dunque, non sono in grado di dire nulla di sensato su ciò che è il mondo, su ciò che bisognerebbe o non bisognerebbe fare. Sono allo sbando. 


Le frasi che ripetono ossessivamente sono soltanto formule senza significato, che tentano penosamente di riempire il vuoto delle loro vite.  Il cinismo (Alan), il nichilismo (Michael), il capriccio (Nancy), il volontarismo (Penelope) sono soltanto le figure e i nomi che hanno saputo dare, in mancanza di meglio, a un vuoto esistenziale spaventoso.

E' piuttosto eloquente - e geniale - il fatto che l'epilogo del film (chi ancora non l'ha visto può astenersi dal leggere ulteriormente)  sia l'immagine dei due bambini - che all'inizio abbiamo visto all'inizio picchiarsi - riconciliati. Naturalmente riconciliati.

Può essere anche una chiave di lettura generazionale.  Le nuove generazioni - forse - sapranno fare a meno di queste orrende sovrastrutture mentali (inautentiche) che hanno ucciso il pensiero delle generazioni precedenti, dei quarantenni/cinquantenni, partiti con le migliori intenzioni per cambiare il mondo e finiti ad annegare la loro disperazione nell'alcol, nei sigari e nel vomito incontrollato. 

La riappropriazione della vita, comincia da piccoli gesti. Come quello di perdonare e di comprendersi.  E soprattutto di non spaccare ogni pretesa di verità  in infinite piccole derive personali senza spessore, senza sofferenza vera, senza dolore vero, senza pathos vero, che avvelenano la vita rendendola, per l'appunto, un inferno.  

Fabrizio Falconi