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09/02/20

La Poesia della Domenica - "Itaca" di Konstantinos Kavafis



Itaca 


Quando ti metterai in viaggio per Itaca 
devi augurarti che la strada sia lunga, 
fertile in avventure e in esperienze. 
I Lestrigoni e i Ciclopi 
o la furia di Nettuno non temere, 
non sarà questo il genere di incontri 
se il pensiero resta alto e un sentimento 
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. 
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, 
né nell'irato Nettuno incapperai 
se non li porti dentro 
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga. 
Che i mattini d'estate siano tanti 
quando nei porti - finalmente e con che gioia - 
toccherai terra tu per la prima volta: 
negli empori fenici indugia e acquista 
madreperle coralli ebano e ambre 
tutta merce fina, anche profumi 
penetranti d'ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi, 
va in molte città egizie 
impara una quantità di cose dai dotti

Sempre devi avere in mente Itaca - 
raggiungerla sia il pensiero costante. 
Soprattutto, non affrettare il viaggio; 
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio 
metta piede sull'isola, tu, ricco 
dei tesori accumulati per strada 
senza aspettarti ricchezze da Itaca. 
Itaca ti ha dato il bel viaggio, 
senza di lei mai ti saresti messo 
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. 
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso 
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.




Konstantinos Kavafis, 1911

28/05/17

Poesia della Domenica: "A me pare uguale agli Dèi", di Saffo (Traduzione Salvatore Quasimodo).




A me pare uguale agli dèi 
chi a te vicino così dolce 
suono ascolta mentre tu parli 
e ridi amorosamente. Subito a me 
il cuore si agita nel petto 

solo che appena ti veda, e la voce 
si perde nella lingua inerte. 
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, 
e ho buio negli occhi e il rombo 
del sangue nelle orecchie. 

E tutta in sudore e tremante 
come erba patita scoloro: 
e morte non pare lontana 
a me rapita di mente. 
 
      [trad. di Salvatore Quasimodo]

08/06/15

Ulisse e la Madre. (Odissea XI - 186)






“Ma tuo padre
resta nei campi, alla città non scende;
e non ha per giacere, letti o splendidi
tappeti o coltri, ma in inverno dorme
dove gli schiavi in casa presso il fuoco,
nella cenere, e vesti umili ha indosso.
Quando viene l’estate o il ricco autunno,
per lui bassi giacigli di ammucchiate
foglie si fanno ovunque, sul declivio
del fertile vigneto: e qui egli giace
dolente e accresce in cuore la sua pena
sognando il tuo ritorno, e una vecchiezza
dura lo investe. Anch’io così mi spensi,
compiendo il fato, e non la saettante
che dritta mira, coi suoi miti dardi
mi colse e uccise nelle stanze, e morbo
non mi assalì che per lo più la vita
con tabe odiosa scioglie dalle membra;
ma il rimpianto di te, nobile Ulisse,
del tuo senno e del tuo tenero affetto,
mi ha tolto il bene della dolce vita”.

Disse; io tentai, con l’animo in tumulto,
l’ombra abbracciare della madre morta.
Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia
di abbracciarla, e tre volte dalle braccia
mi volò via, simile ad ombra o sogno;
sempre più mi cresceva in cuore acuto
strazio, e rivolsi a lei parole alate:

“Madre, perché non resti, se io mi struggo
di abbracciarti, così che entrambi al collo
gettandoci le braccia, anche nell’Ade,
gustiamo l’acre voluttà del pianto ?
O forse a me questo fantasma l’alta
Persefone ha mandato, perché io debba
piangere e lamentarmi anche più forte ?”

Dissi; e subito in cambio, mi rispose
l’augusta madre:

“Ahi, figlio mio, su tutti
gli uomini sventurato, non la figlia
di Giove, non Persefone ti inganna:
questa è la legge dei mortali, quando
qualcuno muore; ché le carni e le ossa
più non reggono i tendini congiunte,
ma tutto sfugge l’impetuosa furia
del fuoco ardente, appena esce la vita
dalle ossa bianche; e vagola per l’aria
l’anima, e fugge a volo come un sogno.
Ma tu tendi al più presto a ritornare
verso la luce, e tutto serba in mente
per ridirlo, più tardi, alla tua sposa."


Omero, Odissea, Libro XI – 186-223
Traduzione di Giovanna Bemporad da ‘Esercizi’, Garzanti,1980.

18/05/13

La poesia della domenica - 'Fra gli agapanti' di George Seferis






L'incrinato crepuscolo si attenuò, si perse:
era illusione chiedere i favori celesti
chinavi gli occhi. Il pruno della luna si aperse
calarono le ombre dal monte: le temesti.

Come s'affievolisce nello specchio l'amore
nel sogno i sogni, scuola d'un oblioso nulla ?
Negli abissi del tempo come si stringe il cuore
smarrito nell'amplesso estraneo che lo culla.



George Seferis, da Fra gli Agapanti, in  Poesie, Lo specchio, Mondadori, 1963, traduzione di Filippo Maria Pontani.