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31/03/15

Nail Chiodo - Luigi Attardi : La sua "Lettera d'addio" pubblicata da Empiria. Il ricordo romano.



Luigi Attardi (conosciuto con lo pseudonimo di  Nail Chiodo) era (ed è) un amico poeta ed è morto in Svizzera pochi mesi fa, a 62 anni, il 31 ottobre 2014, dopo aver scoperto nella primavera 2014 di avere una malattia terminale. 

Laureato in Filosofia a Yale Nel 1974, Attardi negli ultimi anni si era dedicato esclusivamente alla scrittura di versi in lingua inglese e alla sua agenzia professionale di Traduzione Internazionale Lyrical Traduzioni. 

Il Suo addio alla vita è stato particolarmente toccante. Prima di partire per la Svizzera, senza che nessuno ne avesse notizia, ha scritto una Lettera d'addio in versi (Rambling Poem-Finale Poem), spedita per posta a poeti, amici e conoscenti. 

Gli amici l'hanno ricevuta senza rendersi conto, nella maggior parte dei casi, che Luigi aveva già deciso di non esserci più. 

Ieri, presso le Edizioni Empiria - la  Libreria  di  via Baccina 79 a Roma, si sono ritrovati gli amici di una vita: Carlo Bordini, Justin Bradshaw, Francesco Dalessandro, Frédéric Dévé, Marco Fabiano, Giuseppe Gandini in occasione della pubblicazione - proprio per Empiria - della Poesia finale di Attardi. La pubblico qui nella versione in Italiano e in Inglese.


Poesia errabonda
in forma di lettera d’addio 
a parenti, amici e conoscenti
 
Non bisogna stupirsi, osservò Ludwig, 
quando qualcuno che non ha la chiave
 
per entrare nel testo di un autore
 
non ha nemmeno i mezzi per capire
 
ciò che quello vorrebbe preservare
 
da un’attenzione importuna e indiscreta.
 
La metrica può invogliare alla lettura
 
o scoraggiare: chi non ne è convinto
 
non potrà penetrare questi versi.
 
La
 privacy permessa dalle regole formali, 
che impedisce un esame maldisposto,
 
è un vantaggio e un’opportunità
 
per la poesia di raggiungere lo scopo.
Prendete per esempio questo testo: 
grazie a rime ed a ritmi un po’ incerti,
 
poche sillabe appena e perderà interesse
 
per esteti irriducibili e per inveterati
 
prosafondai. Il suo valore dipende
 
dall’effetto che avrà, non sulla gente
 
tarda a capire, ma sulla ristretta
 
minoranza convinta che c’è sempre
 
qualcosa d’importante e nuovo da imparare,
 
qualcosa che scopriamo solo grazie
 
al divagare dei pensieri e una poesia
 
errabonda dal principio alla fine
 
è il miglior modo per cominciare a farlo.
Io mi sono ammalato ed incontrerò presto 
il mio creatore. Grazie al loro metro
 
rilassato, confido che i miei versi
 
parlino con franchezza in piena libertà,
 
senza avere timore che chi ascolta
 
non sia
 affatto d’accordo con il loro 
spirito, e affido alla carta riflessioni
 
che spero interessanti e utili per chi
 
presterà loro il tempo e l’attenzione –
 
«… e intanto cercherò di non stonare».
«Cari parenti, amici e conoscenti», 
così comincia questa che è una lettera
 
di addio a chi ricordo e di me si ricorda:
 
una poesia che svela i miei pensieri
 
e sentimenti in merito alla mia dipartita;
 
e che – seppur di dubbia qualità
 
poetica – soddisfi qualche curiosità.
«Vi scrivo in piedi, una postura nuova 
che è meno dolorosa per me che star seduto.
 
Ma non voglio addentrarmi nell’eziologia
 
della mia malattia, basti sapere che
 
colpisce le ossa, è in fase terminale
 
e si addice a un poeta che da tempo
 
ha iniziato a studiare i vari aspetti
 
che dal principio può assumere il dolore.
«Tranne un attacco di encefalite acuta 
(tra i più strazianti mezzi di tortura
 
naturali, come avere una vite ficcata
 
nel cranio) avuto da bambino e per fortuna
 
prontamente curato dai dottori,
 
non ricordo altri dolori nei sessantadue
 
anni di una vita generosa.
 
Gran parte dei tormenti patiti fino a cinque
 
mesi fa erano di natura spirituale.
 
Più o meno tutti quelli nati da conflitti
 
interiori li ho trattati e trascritti.
 
E qui è bene finire la mia triste lezione
 
con quello che i recenti avvenimenti
 
m’hanno insegnato sull’intensità
 
che può raggiungere il dolore.
Una gran sofferenza fisica riesce sempre 
a spazzar via tutte le preoccupazioni
 
che di solito riempiono la giornata d’un uomo:
 
se niente lo distrae, ha l’unico pensiero
 
di trovare un sollievo o di morire presto.
 
Tutti i modi di uccidersi una volta
 
impraticabili, sembrano all’improvviso
 
fattibili; le difficoltà tecniche, sparite
 
o liquidate con un’alzata di spalle.
 
Senza oppiacei, io ora non sarei
 
qui ancora in piedi a scrivervi una lunga
 
lettera di commiato.
Col loro aiuto posso 
ancora aspirare alla virtù, a un’ideale “mens sana
 
in corpore moribundo”, all’uso migliore
 
del tempo che mi resta. Ma la tregua
 
con la morte, ben si sa, non può durare a lungo:
 
ne approfitto per trattare questioni personali:
 
di stile, gusto, valori che ne sono alla base.
 
Se aggiungere a un già lungo percorso
 
qualche altro passo è quello che gradite,
 
perfetto. Io preferisco prendere
 
in mano il mio destino e accorciare
 
questa vita e così chiudere il cerchio.
 
Naturalmente, vivo da solo e non ho figli.
«Mi scuso in anticipo della sorpresa 
che il mio suicidio potrà provocare:
 
per me è
 d’oblige, ho provato a spiegarlo. 
Credo più interessante
 come mi accingo a farlo – 
non da solo, ma con l’aiuto di altri.
 
L’Incarico affidato alla poesia
 
mi stimola, ma rendere giustizia
 
alla squadra in questione non è facile.
 
Va da sé che farò tutto il mio meglio.
«Aiutandomi a morire, hanno probabilmente 
salvato la mia vita da una sopravvivenza
 
indecorosa lasciata in mano a estranei –
 
e infine dall’usare un coltello su me
 
stesso, pasticciando miseramente!
 
Da tutto questo nasce il loro impegno
 
per una morte dignitosa. È difficile
 
non apprezzarlo, sapendo di che si tratta.
 
Non serve essere in punto di morte
 
per sapere come operano e dove
 
e perché, e sostenere la loro associazione
 
per la salute dell’ultimo momento.
 
Andate al loro sito www.dignitas.ch
 
riflettendo sul futuro, e su quel che potrebbe
 
riservarvi. Il rispetto delle volontà
 
del paziente e la riservatezza che offrono
 
meritano appoggio anche quando la morte
 
non sembra ancora dietro l’angolo.
«Ma ora basta parlare della morte! 
Ho paura che i parenti mi rinneghino,
 
gli amici mi disconoscano e i conoscenti
 
sogghignino quando pensano a me!
 
Da cosa sto partendo, e non come o per dove 
– col cuore e con la mente – sto partendo
 
è il vero nodo di questa lettera. Non dico
 
dal mondo là fuori, quel grande casino,
 
ma da tutti coloro che mi stanno a cuore.
 
M’è impossibile scrivere ad ognuno,
 
ché sono troppi e avrei troppo da dire.
 
Dovranno bastare i contatti quotidiani
 
che abbiamo avuto, le cose condivise.
«Questa lettera d’addio con rime occasionali 
io spero che compensi in qualche modo
 
il fatto che, accadendo tutto in fretta,
 
io non riesca a incontrare un’ultima volta
 
neanche quelli di voi più a portata di mano.
 
Confido che crediate al dispiacere
 
che provo non potendo più guardarvi
 
negli occhi e controllandomi per quanto
 
possibile non cedere a singhiozzi o sospiri;
 
ma, soprattutto, senza poter scambiare
 
una cordiale stretta di mano, come
 
nelle scene raffigurate sui bassorilievi
 
delle antiche stele funerarie greche.
«Ho iniziato dicendo che vi scrivevo in piedi, 
una postura che in effetti mi resta
 
più comoda di altre giusto mentre
 
m’avvicino alla fine delle mie divagazioni.
 
Tutte le mie poesie prima di questa
 
le ho scritte da disteso. Una signora
 
austriaca ha suggerito che dovendo
 
farmi una statua sarebbe più fedele
 
al suo soggetto se lo mostrasse a letto.
 
Lei l’ha detto – benedetta sia l’anima gentile! –
 
con ironia, però è una buona idea
 
e, francamente, se fosse un umorista
 
scultore a realizzarla, non avrei obiezioni
 
che mi si celebrasse in questo modo.
«Ecco, miei cari, il tempo di partire è arrivato. 
Questa poesia errabonda sia pegno del commiato».



Traduzione di Francesco Dalessandro