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28/01/13

Pietro Citati - Elogio delle Chiese silenziose e vuote.



La fede solitaria al posto di quella solenne, il vero cristianesimo Qualche tempo fa — il giorno di Santo Stefano — sono andato in una chiesa del mio quartiere. Tutte le porte erano chiuse a chiave o con robusti catenacci. La chiesa era impraticabile, come certe chiese protestanti olandesi, che aprono un'ora al giorno o meno, solo durante le striminzite funzioni che il pastore accorda ai suoi fedeli.

È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. La mente sembra più libera, più vasta, più oggettiva, più sicura di sé; e vaga dovunque attraverso i cieli oppure si concentra in un punto fisso del cielo.

Vive di pura contemplazione, nello spazio pieno di silenzio e di echi. Essere soli nella chiesa vuota dà all'anima una quiete e una profondità, che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c'è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell'io, l'orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere.

L'Islam conosce un'altra esperienza dello spazio religioso. Quando si entra in una moschea egiziana o persiana, centinaia di persone stanno sedute a terra, su un tappeto o con le spalle contro il muro.

Qualche volta parlano con Dio: più spesso parlano, chiacchierano, cinguettano tra loro. Tanti sono gli argomenti possibili: gli amori, gli odi, la politica, gli affari del giorno o della settimana. Si compra, si vende. 

Qualche ragazzo studia, a mezza voce, su un libro di testo gualcito. Un europeo ha l'impressione che nella moschea piena una sola figura manchi: quella di Dio.

Non è vero. Sotto la cupola della moschea, Dio esiste, ma confuso con tutti gli esseri umani, con tutta l'immensa e colorata realtà, della quale è Signore unico e nella quale sembra perdersi. Se le nostre chiese sono vuote, la ragione è semplice e tutti la conosciamo. Come deplora il Pontefice, il cristianesimo, almeno in apparenza, è stanco: i cristiani, che frequentano le chiese occidentali, diminuiscono ogni giorno. La nostra religione si sta dunque estinguendo?

Non lo credo affatto. In questi ultimi sessant'anni, il cristianesimo ha perduto i fedeli che veneravano il Cristo perché così volevano il potere e la società: dunque, mai o quasi mai per un impulso religioso. Ora, dopo tante perdite, sono rimasti i cristiani puri: quelli che siedono o pregano nelle chiese vuote, che leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli.

Labbra silenziose discorrono con il loro nascosto ispiratore. C'è una prova. Oggi, quando il loro numero è diminuito, i cristiani dell'Occidente leggono molti più libri di ispirazione cristiana o religiosa, di quanti non ne leggevano sessant'anni prima.


Elogio delle chiese silenziose e vuote Fonte: PIETRO CITATI - Corriere della Sera Lunedì 28 Gennaio 

26/11/12

Pietro Citati: Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario.




Riporto qui una anticipazione del bellissimo articolo comparso il 20 novembre 2012 sul Corriere della Sera, su Gustave Flaubert, firmato da Pietro Citati. 


Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario Era nato per il riso, il grottesco e la buffoneria ma con la malattia scoprì il senso della rinuncia

A ventun anni Gustave Flaubert era bellissimo: di una bellezza eroica, scrisse Maxime du Camp. Aveva una pelle bianca leggermente rosata sulle guance, lunghi capelli fini e ondeggianti, era alto e largo di spalle, aveva la barba abbondante e di un biondo dorato, gli occhi enormi, color verde mare, protetti da sopracciglia nere: mentre una voce echeggiante come un suono di tromba, i gesti eccessivi e un riso squillante ricordavano i giovani condottieri galli che avevano lottato contro le armate romane. Salmodiava la prosa, urlava i versi, s'infatuava di una parola che ripeteva sino alla sazietà, riempiva tutto col suo rumore, sdegnava le donne attratte dalla sua bellezza, svegliava gli amici alle tre del mattino per portarli a vedere un effetto di chiaro di luna sulla Senna. Aveva un'immensa vitalità fisica. Sembra che solo il mare potesse fronteggiarlo. La primavera e l'estate era sempre nell'acqua, nella Manica e nella Senna, nuotando e vogando su un canotto, che il padre gli aveva acquistato.

Il padre gli aveva imposto di studiare legge, abbandonando la letteratura; e il 10 novembre 1841 si iscrisse alla facoltà di Diritto di Parigi, sebbene continuasse ad abitare a Rouen. L'8 gennaio 1842 era a Parigi. Discese all'Hôtel de l'Europe, rue Le Pelletier, e scrisse alla madre. «Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile, come dice Candide»: poi si informò sul programma e gli orari del corso del primo anno. Ma il diritto non era, per Flaubert, «il migliore dei mondi possibili». «La giustizia umana», scrisse qualche mese dopo a un amico, «è per me quello che c'è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà... Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto».

Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell'appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l'Est. Era furibondo. «Il diritto mi uccide - scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier -, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei». «Voglio finirla prima possibile - ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline -, perché non può durare più a lungo così, finirei per cadere in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito». «Sono così irritato, così infastidito, così furioso - continuava 5 mesi dopo -. Qualche volta ho voglia di dare dei pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l'accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz'ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima». Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione.

Quando lo studio del diritto non gli offuscava la mente, faceva la parte del Garçon: un ruolo ilare, grottesco, rabelaisiano, che derideva l'immensa idiozia del mondo, e insieme se stesso. Se entrava in questa parte, non poteva uscirne. Diceva e ripeteva levando le braccia in un gesto di ammirazione: «Non so se tu capisci la grandezza di questo: quanto a me, lo trovo enorme (anzi: hénaurme)». E gridava. «È enorme! Enorme!». Quando gli amici non condividevano il suo entusiasmo, li trattava da bourgeois, che era la sua massima ingiuria. A Parigi, cenava frequentemente da Dagneau, rue de l'Ancienne Comédie, insieme a Louis de Cormenin, Maxime du Camp e Alfred Le Poittevin. Restavano sino all'ora della chiusura, chiacchierando con i gomiti sul tavolo. Parlavano di tutto, tranne che di politica. Dalla personalità di Dio e dall'identità dell'io fino alle buffonerie dei piccoli teatri, tutto era buono per gettarsi in teorie a perdita d'occhio. «Saltavamo - continua Maxime du Camp - da un soggetto all'altro senza preoccuparci troppo delle transizioni. Mi ricordo una conversazione a proposito di una farsa recitata allora al Palais-Royal, che continuò con l'analisi del libro di Gioberti sull'estetica, e finì con l'esposizione delle Idee ebraiche di Herder».

Malgrado la compagnia degli amici, aveva una profondissima nostalgia per la famiglia. Scriveva a Caroline: «Ora sono tutto solo che penso a voi, immaginando quello che fate. Siete là tutti accanto al fuoco, dove io solo manco. Si gioca al domino, si grida, si ride, si è tutti insieme, mentre io sono qui come un imbecille, con i due gomiti sulla tavola a non sapere che fare... Amo la mia vecchia stanza di Rouen, dove ho passato delle ore così tranquille e così dolci, quando sentivo attorno a me tutta la casa muoversi, quando tu venivi alle quattro per fare della storia o dell'inglese, e invece di storia e inglese parlavi con me fino a cena. Per amar vivere in qualche luogo, bisogna viverci da molto tempo. Non è in un giorno che si scalda il proprio nido». «Quando penso a voi altri, qualcosa di buono e di dolce mi rianima e mi rinfresca, mille tenerezze gaie mi tornano al cuore, e vado dall'uno all'altro guardandovi tutti andare, venire, parlare col suono della vostra voce».

A Rouen, amava soprattutto Caroline, il suo «topo», il suo «topolino»: «Se mi ami molto è giusto, perché io ti 
ho molto amata». A Caroline era legato da una strettissima complicità: insieme condividevano la letteratura e il riso - le due divinità di Gustave. «Ho nelle orecchie il tuo riso sonoro e dolce, quel riso per il quale mi farei crepare in buffonerie, per il quale darei la mia ultima facezia, persino la mia ultima goccia di saliva». A volte, solo, nella camera di Parigi, faceva smorfie nello specchio, o gettava il grido del Garçon, come se la sorella fosse là per vederlo e ammirarlo. «Che sciocchezze dirò e farò nella carrozza con te! Quali smorfie e quali buffonerie! Ti prometto un riso come non ne hai mai sentito». Intanto, Caroline era a Rouen: disegnava, dipingeva, suonava il piano; e pensava al fratello, desiderava vederlo e parlargli. Senza il fratello la casa era vuota e triste: anzi, faceva «vomitare di noia».

13/03/12

"Quel primato degli umili che rovesciò il mondo. Perché la predicazione di Gesù si distingue da tutte le altre" di Pietro Citati.



Un bellissimo articolo oggi, di Pietro Citati, sul Corriere della Sera. Eccolo: 


In quel tempo Gesù rispondendo disse: «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così piacque al tuo cospetto. Ogni cosa mi è stata rivelata dal Padre mio. E nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e gravati, e io vi ristorerò. Prendete su voi il mio giogo, e imparate da me, poiché io sono mite e umile di cuore. E troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero.
(Vangelo di Matteo 11,25-30; i primi versetti sono, quasi nella stessa forma, nel Vangelo di Luca, 10, 21-22) 

Il frammento del Vangelo di Matteo, che vorrei commentare, comincia con una nota solenne. «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra»: vale a dire, io confesso il mio peccato, e insieme ti lodo, ti ringrazio, ti esalto, invoco il tuo nome, professo la mia fede in te, ti prometto solennemente come tu mi prometti. In queste parole risuona l'eco di un passo di Enoc: «In quel giorno, tutti ad una voce cominceremo a lodare, esaltare, glorificare, magnificare nello spirito della fede, della sapienza, della misericordia, della giustizia, della pace e della bontà, e tutti quanti diranno con una sola voce: "Lodatelo, e il nome del Signore degli spiriti sia glorificato per ogni eternità"». 

Questa solenne glorificazione promette, a tutti quanti confessano che Gesù è il Signore, la salvezza alla fine dei tempi. Perché il lettore di Matteo glorifica Dio con queste parole solenni? La spiegazione potrebbe essere molto semplice: egli glorifica Dio perché ha creato l'universo, o perché è buono, o perché ci soccorre, o perché ci ama. In realtà, il testo dice tutt'altro: Dio ha nascosto qualcosa (che per ora resta indeterminato) agli uni e lo ha rivelato agli altri. Se ci chiediamo chi sono gli uni, penetriamo di colpo nel cuore del paradosso cristiano. Gli uni, ai quali la rivelazione viene nascosta, sono i sapienti e gli intelligenti, cioè i maestri professionali di sapienza e di cultura, che specialmente l'ebraismo ha tanto esaltato, e tutti i sapienti e gli intelligenti che nei secoli cristiani educheranno i popoli e i re, e pretenderanno di conoscere, essi soli, il vero segreto della realtà e della verità. San Paolo insiste con grandioso estremismo: «Disperderò la sapienza dei sapienti e renderò vana l'intelligenza degli intelligenti», sviluppando un passo di Isaia. 

Con queste parole, la storia del mondo è rovesciata: la luce non illumina più chi dovrebbe ricevere e diffondere la luce in tutto il mondo. Né sapienti né intelligenti: il cristianesimo ha sempre avuto scarsa tenerezza per loro, se non ricevono dal cielo un altro dono. A chi va dunque la rivelazione? Con immenso scandalo del mondo greco-latino, Gesù risponde: ai népioi. Nel greco classico népioi significa: i bambini, i figli, i figli degli animali, gli indifesi, gli stolti, gli inesperti, coloro che mancano di discernimento e non comprendono né la realtà né la volontà degli dei né i segni del destino.