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30/04/22

Libro del Giorno: "La Roma di Pasolini" (Dizionario urbano) di Dario Pontuale

 


Tra le molte, moltissime uscite editoriali (anche troppe) concomitanti con il centenario della nascita del poeta, si segnala degno di nota questo volume uscito dalla Nova Delphi e firmato da Dario Pontuale, che si concentra sulla Roma di Pasolini, scandagliando in trecento serrate pagine, il rapporto e la vicenda sentimentale esistenziale e letteraria che Pasolini ha intessuto con la città che lo accolse, nel gennaio del 1950, insieme alla madre, entrambi sfollati dal nord-Italia dopo i tragici accadimenti della sua famiglia, con la morte dell'amato fratello diciannovenne Guido, ucciso nel 1944 durante i fatti di Porzus. 

A Roma, come è noto, Pasolini cambiò vita e poi anche mestiere. In un irrequieto e continuo spostamento, insieme alla madre, di quartiere in quartiere, alla ricerca di una sistemazione e di un lavoro, Pasolini, durante il periodo dell'insegnamento in una scuola privata di Ciampino, fece il suo apprendistato romano appropriandosi soprattutto di quel mondo di diseredati e poveracci che popolava le borgate e le periferie della Capitale, le quali a partire da quegli anni, conobbero una espansione micidiale e incontrollata, "effetto collaterale" del cosiddetto "boom economico" che avrebbe trasformato rapidamente gran parte della gente di Roma, per l'orrore di Pasolini, testimone furibondo di questi cambiamenti, in piccoli borghesi o aspiranti tali. 

La vita di Pasolini a Roma si svolgeva, rutilante, in quegli anni, su un doppio binario: quello della sua vita privata, consumata a metà tra la gente di periferia, dove inseguiva il mito di un "buon selvaggio" ormai in via di estinzione, e i salotti intellettuali di Roma dove venne molto gradatamente accolto grazie all'amicizia di poeti e scrittori (in primis Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Caproni, poi Moravia); e quello della sua vita pubblica, con i primi romanzi pubblicati, le controversie con i critici e con la censura e poi il folgorante esordio cinematografico con Accattone (1961) che gli aprì le porte della riconoscibilità, della considerazione internazionale, del mondo polemico e controverso delle battaglie civili di quegli anni, dentro una Italia fossilizzata nella gabbia di valori cattolici non più sentiti veri, molto lontani dal reale sentire di un popolo che era stato stremato dalla dittatura, dalla terribile guerra e voleva ricominciare a vivere, a modo suo. 

Il libro di Dario Pontuale racconta tutto questo e lo fa in modo originale, sotto forma di un pratico dizionario - quasi una sorta di moderno baedeker - che riassume in più di un centinaio di voci i luoghi romani che appartengono a quella che ormai è la mitologia pasoliniana: i suoi ristoranti, i suoi quartieri, le sue strade, le sue case, le tappe che hanno scandito la sua vita romana, consumata in appena venticinque anni eppure densissima di cose, avvenimenti, eventi tragici, fino al suo assassinio nella terribile notte di novembre del 1975. 

Ogni voce, nel libro di Pontuale è minuziosamente descritta; ogni borgata o quartiere periferico di Roma che ha visto il passaggio di Pasolini, la sua presenza. Il libro inoltre sfrutta un pratico espediente ipertestuale, per collegare tra di loro le diverse voci pasoliniane, permettendo al lettore, anche quello più attrezzato, di orientarsi, scovando dettagli e cose nuove. 

Oggi più che mai, riscoprire il cammino di Pasolini dentro Roma, il suo sviscerato amore e il suo sviscerato odio per la città che meglio di ogni altra rappresentava il collasso del mondo arcaico/contadino/proletario italiano e il trionfo del nuovo conformismo borghese, aiuta a capire meglio il nostro paese e anche a riscoprire la città della grande bellezza, in una veste del tutto nuova e ancora più autentica. 



26/04/22

Apre al pubblico "La solitudine dell'ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio"

 

Pier Paolo Pasolini in una delle sue tante partite al campetto di calcio

Apre al pubblico oggi, alla Galleria Harry Bertoia, a Pordenone "La solitudine dell'ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio", mostra composta per lo più da materiale inedito, realizzata da Cinemazero e Comune di Pordenone, con il sostegno della Regione Fvg e il patrocinio del Centro Studi Pasolini di Casarsa. 

Con 120 fotografie, filmati, scritti, memorabilia che per la prima volta si svelano al pubblico, il percorso espositivo, curato da Piero Colussi, ricostruisce le tappe salienti della passione sportiva, di Pasolini, nel centenario della nascita. 

La mostra, a ingresso libero, sara' aperta fino al 19 giugno. 

In un'intervista all'Europeo il 31 dicembre 1970, Pasolini dichiarava: «Il calcio e' l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se e' evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio e' l'unica rimastaci. Il calcio e' lo spettacolo che ha sostituito il teatro». 

La mostra narra questa passione dalle origini, a Bologna, citta' natale di Pasolini, dove frequentava il Liceo Galvani e il calcio riempiva le sue giornate; poi a Roma, nei campetti delle borgate, dove conobbe coloro che sarebbero diventati i protagonisti dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. 

A meta' degli anni '60 fu tra gli ideatori, con Ninetto Davoli e Franco Citti, della squadra Attori e Cantanti, che qualche anno piu' tardi sarebbe divenuta Nazionale dello Spettacolo, di cui fu a lungo capitano. 

Nella primavera 1975, qualche mese prima di essere assassinato, organizzo' a Parma la partita tra la troupe di Salo' e quella che a pochi chilometri di distanza girava Novecento di Bernardo Bertolucci. 

Fra i protagonisti della vittoria di Bertolucci, per 5 a 2, c'era un giovane della "primavera" del Parma, Carlo Ancellotti, che, era stato "assunto" come attrezzista nella troupe di Novecento e aveva pure segnato

Il legame di Pasolini con il calcio era fortissimo: nel 1973, a una domanda di Enzo Biagi, per La Stampa, dichiaro' che, senza cinema e senza scrivere, gli sarebbe piaciuto diventare «un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l'eros, per me il football e' uno dei grandi piaceri». 

12/03/22

Pasolini e l'amore per il calcio. Per chi batteva il suo cuore di tifoso, Bologna o Roma?

 



Pasolini romanista? No. Nella sua vita di tifoso non rinnegò mai il suo amore per il Bologna. 

Eppure nei venticinque anni romani imparò a conoscere e ad amare i tifosi romanisti. Nelle nuove borgate e nei popolari rioni del centro c'era solo una squadra. Difficile non farci i conti, prima o poi. 

Chi lo conobbe ricorda che Pasolini andava all'Olimpico anche quando non c'era il Bologna in trasferta. 

Lo faceva con un blocco degli appunti in tasca, per segnarsi espressioni e imprecazioni che per altri erano la normalità, per lui erano preziosi elementi di quella normalità che cercava di assimilare e restituire nei suoi romanzi. 

Ve lo immaginate? Un bolognese con la riga fra i capelli e vestito di tutto punto, che senza scomporsi annotava su carta i "malimortaccitua" sentiti in curva. Il contrasto doveva essere simile a quello delle tante foto che lo vedono sporcarsi di fango inseguendo un pallone in mezzo ai ragazzini già sporchi di fango. È allo stadio che probabimente sentì quel «Forza, a Treré!» che gli amici di Tommaso Puzzilli gridano giocando al biliardino in "Una vita violenta". 

Perché il calcio in borgata era una questione seria, tanto che attribuire a qualcuno il tifo per "quelli là" equivaleva a un insulto: «An vedi questi! Ammazza che broccolo! […] 'Sto laziale stronzo!», grida Tommaso proprio a quelli che non lo lasciano giocare. 

Ed è sempre lui che, escluso da una partita non di biliardino ma di calcio, si lamenta: «Quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete 'a Roma?». Per poi inserirsi di prepotenza: «Nun lo vedi che so' Pandorfini so'?».

La Roma non fu la squadra tifata da Pasolini, ma è quella tifata dalle sue opere. Anche nei primi racconti romani, datati 1950-51, è l'unica fede calcistica evocata. In "La passione del fusajaro" il venditore di fusaglie "Morbidone" si innamora di un maglione visto in una vetrina a Campo de' Fiori e l'infatuazione verso il costoso capo d'abbigliamento lo porta a fantasticare su una vita perfetta: «Gli sguardi di ogni pischella erano per lui. Poi, la domenica, a Ostia – no, alla partita di calcio. La Roma avrebbe vinto – a dispetto di Luciano e Gustarè – ed egli col maglione azzurro sarebbe andato a ballare in una sala del Trionfale: e avrebbe ballato con le più belle ragazze»

I suoi personaggi sono romanisti perché i suoi amici erano romanisti

Non una scelta, ma pura mimesi della realtà: era romanista il trasteverino come erano romanisti i dimenticati che vivevano nelle baracche fuori città. 

Chi ha visto e si ricorda l'episodio "Che vitaccia!" in "I mostri" di Dino Risi, in cui Vittorio Gassman spende gli utimi spicci per andare allo stadio, sa di cosa si parla. 

Per Pasolini, i romanisti «più commoventi» erano gli immigrati dalle campagne e dal Meridione: «Il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L'amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori e macinano gioie in silenzio. E non dimenticano facilmente»

Lo scrisse in un articolo uscito esattamente sessanta anni fa su "l'Unità". Era la cronaca di un derby del 1957 vinto 3-0 dalla Roma. 

Per il giornale comunista non andò in tribuna stampa (non ci volle andare nemmeno tre anni dopo, quando fece da cronista per le Olimpiadi): si tuffò nel settore popolare pieno di vita, accompagnato dall'esperto Sergio Citti, che all'epoca non era ancora Sergio Citti ma "er Mozzone" di Tor Pignattara, romanista come era romanista il fratello Franco e com'è romanista Ninetto Davoli. Ragazzi di vita, ragazzi di Roma. 

08/03/22

Quando Pasolini andò in Russia: "Mosca come la Garbatella"

 


L'interesse di Pier Paolo Pasolini per la letteratura russa è talmente ampio da meritare un posto a sé nell'ormai sconfinata bibliografia sulla sua opera. Dall'illimitatezza del mondo contadino sempre vagheggiato e poi cantato ne La religione del mio tempo sino al saccheggio di temi e immagini dostoevskijane, la scrittura del poeta di Casarsa risulta essere attraversata da un costante filo rosso che lega parte della sua produzione a quanto sperimentato in terra russa.

Pasolini era stato inviato per “Vie Nuove” al Festival della Gioventù a Mosca nel 1957, e lì, ospite del Congresso degli scrittori, Pasolini non vede che anime buone. Passa in Russia in tutto tre settimane, dal 27 luglio al 16 agosto, tra Mosca e Odessa, con una delegazione di cui facevano parte il filosofo senatore Banfi, Sandro Curzi, Mario La Cava, e subito si disveste dei “vizi acquisiti in secoli di storia”, dei russi “pigri, complicati ed eccessivi come al tempo di Dostoevskij”, per testimoniare una società “veramente diversa”. Semplice, diretta, umile.

Un idillio, “un’esperienza meravigliosa e fondamentale”. 

Mosca, poi, è ““una immensa Garbatella: un misto dunque di liberty e di Novecento, con pareti colossali e graticci di finestre. Spesso tuttavia con file di casette basse, ad un piano o due piani”. Ci sono grattacieli, “quegli «orrendi» edifici, condannati da Krusciov. Ma non sono insopportabili. Ispirano anzi della simpatia. Sono cose commoventi, come tutti gli sforzi degli umili per apparire grandi. Mosca è una città di contadini”. Un’altra storia, senza più classi sociali, non sottomessa, come si dice, a una “classe dirigente”. I russi sono i contadini padani della domenica, naturali tra di loro come “i ragazzini nelle piazzette dei paesi”. L’aria è pulita, il cibo sano, i rumori naturali, rapporti sinceri e solidali. Sono temi che riprenderà in una sezione di La religione del mio tempo.

Tra gli autori da egli più amati - oltre al citato Dostoevskij e a Osip Mandel'štam - spicca senz'altro la figura intellettuale e umana di Anna Achmatova. La poetessa, che conosceva bene l'italiano tanto da tradurre i "Canti" di Leopardi, è ammirata da Pasolini soprattutto in virtù della sua natura 'scomoda', da intellettuale disorganica come lui stesso si imponeva di essere. A lei dedica una poesia struggente, in cui la comunione ideale di anime e intenti è resa attraverso un'immersione nello stile dell'autrice, di cui sono riconosciuti la bellezza e il 'mistero'.
Pier Paolo Pasolini - Quasi alla maniera dell'Achmatova, per lei
Un poeta dice che un poeta è un passero
che ripete tutta la vita le stesse note.
Le tue sono le note di un passero che crede
che la sua vita sia tutta la vita.
Nessuno va a disilludere un passero, perché
un passero non può farsi disilludere:
la sua sicurezza è come la presenza –
sulla terra – del paese di Tsarskoe Selò.
È passata su Tsarskoe Selò la rivoluzione?
Certo, è passata, ma semplicemente come
"un evento che non ha l’eguale"
e il passero continua a cantare.
Nulla esiste se non si misura col mistero:
che testimonianza avremmo degli "eventi"
se non cantasse prima e dopo di loro
un passero col suo canto lieve e severo?
(Poesie marxiste, 1964-1965, in Tutte le poesie, Mondadori)

Fonte: Pier Paolo Pasolini e la Russia: una poesia per Anna Achmatov di Ginevra Amadio

10/02/22

Quando si incontrarono due geni: Pasolini e Orson Welles

 


Che incontro è stato, quello tra Pasolini e Orson Welles. 

Il grande regista americano nei primi anni '60 era alle prese con problemi familiari e soprattutto problemi economici.  Decise di tornare a lavorare in Italia visto l'ostracismo delle grandi majors americane, che gli avevano chiuso le porte per motivi politici e per motivi legati alla resa al botteghino dei suoi film, che costavano sempre tantissimo.

In Europa Welles accettò un po' di tutto, parti come attore in film popolari, e spesso anche di basso livello. 

L'incontro con Pasolini, però fu diverso:

Nel 1962, Pier Paolo Pasolini, i cui primi film erano improntati al neorealismo, fece un balzo nella frenetica modernità con questo breve e apocalittico film - uno degli episodi del film collettivo Ro.Go.Pa.G. - che ha come tema la freddezza non cristiana della contemporaneità. 

Orson Welles interpreta un regista che sta girando la Passione su una collina vicino a Roma. Stracci (Mario Cipriani), la comparsa che interpreta il ladro pentito, brama la ricotta per il suo misero sostentamento ma non può permettersela e, per averla, diventa, nella vita reale, un ladro

Le sequenze sul set sono selvaggiamente satiriche, quando una diva nutre con il caviale il suo cane mentre Stracci lo guarda, gli attori nella scena della Crocifissione si mordono il naso o ridono nei momenti inappropriati mentre  i membri della troupe invocano la corona di spine. 

In una concisa intervista a un giornalista in visita, Welles esprime il credo del marxismo cattolico di Pasolini; e Stracci, il vero Cristo tra gli uomini, subisce un'intima flagellazione di proporzioni bibliche mentre attende la sua scena legato alla Croce. 

Con dispositivi dirompenti come l'intersezione di filmati a colori e in bianco e nero, la parodia delle buffonate dei film muti e l'inserimento di scene di giovani che ballano il twist, Pasolini afferma la grandezza classica del modernismo cinematografico e trasmette il suo senso di un tempo ormai disconnesso. 

Welles era arrivato in Italia accompagnato dalla terza moglie, l'italiana Paola Mori (nata Contessina Paola Di Gerfalco) che il regista sposò nel 1955 e dal quale ebbe una figlia, Beatrice (lo stesso nome della madre di Welles), nata il 13 novembre dello stesso anno. 

Si erano conosciuti l'anno precedente a un party sul set del film Il maestro di Don Giovanni (1954) e per Welles, che aveva divorziato nel 1948 da Rita Hayworth, fu amore a prima vista. 

La coppia rimase sposata dal 1955 fino alla morte di lui, avvenuta nel 1985. La Mori morì l'anno seguente a 57 anni di età, in seguito a un incidente stradale occorsole in Nevada. 

I due non divorziarono mai, pur vivendo di fatto da tempo separati, poiché proprio in quell'anno, nel 1962 Welles aveva intrapreso una relazione con l'artista croata Oja Kodar, conosciuta durante la lavorazione del film Il processo (1962).

Orson Welles e Paola Mori a Venezia

Fabrizio Falconi - 2022

18/12/21

Cosa scriveva (e pensava) Pasolini del Natale?

E' noto come per Pasolini l'elemento spirituale del Natale cristiano fosse sostanzialmente e brutalmente tradito nei fondamenti, dalla furia consumistica di cui egli è stato uno dei massimi fustigatori (ante litteram). E' utile rileggere queste poche, fulminanti righe, in cui formula i suoi - molto particolari - auguri di Natale. 

«Tanti auguri ai fabbricanti di regali pagani! Tanti auguri ai carismatici industriali che producono strenne tutte uguali!

Tanti auguri a chi morirà  di rabbia negli ingorghi del traffico e magari cristianamente insulterà  o accoltellerà  chi abbia osato sorpassarlo o abbia osato dare una botta sul didietro della sua santa Seicento!

Tanti auguri a chi crederà  sul serio che l’orgasmo che l’agiterà  – l’ansia di essere presente, di non mancare al rito, di non essere pari al suo dovere di consumatore – sia segno di festa e di gioia!

Gli auguri veri voglio farli a quelli che sono in carcere, qualunque cosa abbiano fatto (eccettuati i soliti fascisti, quei pochi che ci sono); è vero che ci sono in libertà  tanti disgraziati cioè tanti che hanno bisogno di auguri veri tutto l’anno (tutti noi, in fondo, perché siamo proprio delle povere creature brancolanti, con tutta la nostra sicurezza e il nostro sorriso presuntuoso).

Ma scelgo i carcerati per ragioni polemiche, oltre che per una certa simpatia naturale dovuta al fatto che, sapendolo o non sapendolo, volendolo o non volendolo, essi restano gli unici veri contestatori della società. Sono tutti appartenenti alla classe dominata, e i loro giudici sono tutti appartenenti alla classe dominante».

Da Saggi sulla politica e sulla società, di P.P. Pasolini, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori, Milano, 1999

23/09/21

Quella volta che Pasolini perse le staffe e si scatenò la rissa

 


E' un episodio poco conosciuto della vita di Pier Paolo Pasolini, anche se è perfino documentato da questa rara foto che fu scattata da un reporter di quotidiani. 

Roma, 22 settembre 1962. In occasione della prima di "Mamma Roma" al cinema Quattro Fontane, alla fine della proiezione giornalisti e spettatori si avvicinano a Pasolini per fargli i complimenti, intervistarlo, stringergli la mano, chiedere un autografo

Dalla folla si stacca un giovane studente fascista che dopo averlo insultato prova a assestargli uno schiaffo. Pasolini reagisce furiosamente e mena il fascista. 

Dal Messaggero del 23 settembre 1962: «Pasolini ha avuto una reazione improvvisa, non si è lasciato intimorire dalla spavalderia del giovinastro e lo ha afferrato restituendogli, e con gli interessi, la razione di ceffoni. I due sono scivolati in terra ed hanno continuato a picchiarsi fin quando non sono intervenuti alcuni spettatori che hanno separato i contendenti. Pasolini, accompagnato da uno dei direttori del cinema — gremito ieri sera in ordine di posti — ha raggiunto uno dei camerini subito raggiunto dal giovane Ettore Garofolo e da altri attori. È qui che siamo riusciti a parlare con lo scrittore: "L'episodio — ha detto ancora stravolto in viso — mi addolora alquanto. La pellicola non era stata disturbata assolutamente ed il pubblico aveva gradito lo spettacolo. Quando il giovane si è avvicinato, ho creduto che anche lui, come molti altri, volesse stringermi la mano e congratularsi con me. Sono stato preso alla sprovvista ed ho reagito come ho potuto. Credetemi, non posso pensare che in Italia succedano ancora cose del genere. Durante la proiezione non vi era stato un solo fischio, perché i giovani neofascisti non avevano potuto appigliarsi ad un solo momento della pellicola che potesse far nascere il malcontento. Anche a Venezia avevano voluto provare a disturbare il film ma non c'erano riusciti. Non so proprio come spiegare quanto è avvenuto". Dopo l'inqualificabile gesto del teppista, gli agenti di polizia sono intervenuti ed hanno provveduto a far sgombrare al più presto la folla che ancora si attardava a commentare il fatto. Sono stati operati alcuni fermi, una decina tra i giovani estremisti e sono stati invitati negli uffici di polizia anche Sergio Citti, fratello di Franco e Paolo Morgia, uno dei protagonisti della pellicola. All'una e trenta Pier Paolo Pasolini, a bordo di un taxi, ha lasciato il Quattro Fontane applaudito dagli ultimi spettatori i quali gli hanno voluto ancora una volta confermare la loro solidarietà».

24/06/21

Tilda Swinton: "Pasolini un poeta politico senza tempo"






















"Un poeta politico senza tempo e per questo moderno". "Un artista sociale, senza legami". Ma anche, con un sorriso, "supersonico e intergalattico"

Il volto chiarissimo, gli occhi cerulei, l'attrice Premio Oscar Tilda Swinton, non lesina aggettivi per raccontare chi e' per lei Pier Paolo Pasolini, il regista e scrittore al quale dedica "Embodying Pasolini", performance realizzata insieme allo storico della moda, ex direttore del Museo Galliera di Parigi e fashion curator di fama mondiale Olivier Saillard, presentata in anteprima assoluta negli spazi del Mattatoio di Roma per il cartellone di Romaison. 

Cuore della performance, gli abiti capolavoro che Danilo Donati realizzo' per i film diretti da Pasolini e che ora la Swinton, semplice kimono bianco indosso, quasi fosse una seconda pelle, estrae da un grande scatolone e pezzo dopo pezzo indossa, in un gesto che e' molto piu' significante: e' quasi un incarnare su di se' cio' che tutte quelle creazioni raccontano, rappresentano, evocano, da pellicole come Il vangelo secondo Matteo, Uccellacci uccellini, Edipo re, Porcile, ma anche Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore dei Mille e una notte, fino a Salo' o le 120 giornate di Sodoma. 

Un omaggio non casuale. "Scoprii Pasolini girando il mio primo film, Caravaggio di Derek Jarman - racconta l'attrice - Lui ne era ispirato, come gran parte degli artisti intelligenti. E da allora Pasolini e' stato alla base di tutta la mia carriera. Oggi quando qualche studente mi dice di non conoscerlo rispondo: siete fortunati, perche' potete vederlo per la prima volta e andare a esplorarlo"

La performance debutta anche alla vigilia del centenario della nascita del regista, festeggiata il prossimo anno. 

31/01/21

Poesia della Domenica - "Profezia" di Pier Paolo Pasolini





Essi sempre umili 
Essi sempre deboli 
essi sempre timidi 
essi sempre infimi 
essi sempre colpevoli 
essi sempre sudditi 
essi sempre piccoli, 
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare, 
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi 
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo, 
essi che si costruirono 
leggi fuori dalla legge, 
essi che si adattarono 
a un mondo sotto il mondo 
essi che credettero 
in un Dio servo di Dio, 
essi che cantavano 
ai massacri dei re, 
essi che ballavano  
alle guerre borghesi , 
essi che pregavano 
alle lotte operaie...

Pier Paolo Pasolini (1951)

25/01/21

E' morto Alberto Grimaldi, uno dei più grandi produttori del Cinema Italiano

Alberto Grimaldi con Marlon Brando ai tempi di Queimada, 1969


All’età di 95 anni è morto il produttore Alberto Grimaldi. Ritiratosi a Miami, era nato a Napoli nel 1925.

Fondatore della PEA, Grimaldi si affermò negli anni Sessanta con gli Spaghetti Western, realizzando quelli che ormai sono classici del genere come Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima.

Dalla fine degli anni Sessanta Grimaldi divenne uno dei principali produttori del cinema d’autore. Dal 1968, a partire dall’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, iniziò a lavorare con Federico Fellini, un sodalizio che proseguì con Fellini Satyricon (1969), Il Casanova di Federico Fellini (1976) e Ginger e Fred (1986). Fondamentale la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, di cui Grimaldi produsse tutti i film da Il Decameron (1970) all’ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Un capitolo a parte merita l’avventura con Bernardo Bertolucci. Con la United Artists, Grimaldi realizzò Ultimo tango a Parigi (1972) e fu coinvolto, insieme a Bertolucci, nella lunga e tormentata vicenda legale, dal sequestro della pellicola alla condanna fino al rocambolesco salvataggio di una copia. Nonostante lo scandalo internazionale, il film riuscì a incassare 36 milioni sul mercato americano e oltre 90 in tutto il mondo, ottenendo due nomination all’Oscar. Nel 1976 fu la volta del kolossal Novecento.

Grimaldi produsse anche Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri (1969), Storie scellerate di Sergio Citti (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Viaggio con Anita di Mario Monicelli (1979). L’ultimo suo grande progetto è Gangs of New York di Martin Scorsese (2002).

fonte: il cinematografo.it

Alberto Grimaldi con Federico Fellini 



10/08/20

Terence Stamp, Fellini, Krishnamurti: un incontro magico (e inedito)



Che cosa hanno a che vedere tutti e tre insieme, Terence Stamp, il grande attore inglese oggi 82enne,  Federico Fellini e Jiddu Krishamurti, il grande filosofo del Novecento, grande anima che ha illuminato menti e cuore a Oriente (dove nacque, in India, a Madanapalle, nel 1895) e a Occidente, dove visse a lungo (in Gran Bretagna e in California)??

C'è un sottile fil rouge che lega queste tre grandi personalità, riemerso qualche anno fa in una intervista passata inosservata. 

Si sa che i destini di Stamp e Fellini si incontrarono proprio all'alba del 1968, quando l'attore inglese fu scelto come protagonista dal grande maestro riminese per il suo Toby Dammit, terzo episodio del film Tre passi nel Delirio, girato a 6 mani (3 episodi diversi, tutti tratti da racconti di Edgar Allan Poe) dai registi Roger Vadim, Louis Malle e per l'appunto Fellini. 

Per interpretare il personaggio maledetto dell'attore che scommette la sua testa col diavolo (Toby Dammit), Fellini aveva pensato in un primo momento a Peter O' Toole, che da tempo aveva fatto sapere di voler lavorare con Fellini. Il regista volò a Londra e dopo l'incontro tra i due, la trattativa sembrava andare a buon fine. 

O' Toole però ci ripensò dopo aver letto la sceneggiatura, preoccupato dall'aura sinistra del personaggio che avrebbe dovuto interpretare. 

La relazione tra O' Toole e Fellini finì malissimo, con un litigio e un reciproco mandarsi a quel paese. A quel punto Fellini virò su un'altra scelta e tra 3 nuovi pretendenti scelse Terence Stamp per il suo volto bello e allucinato e per il fatto che era già reduce dal Teorema di Pier Paolo Pasolini.

Stamp venne a Roma nell'inverno del '67/'68 e prima della primavera, in soli 26 giorni di riprese fu girato l'episodio - solo trentotto minuti - una delle pagine forse più geniali in assoluto della filmografia di Fellini. 

Stamp era in un momento molto particolare della sua vita: conduceva una vita sregolata, era sotto l'effetto di varie dipendenze.  E poco dopo questo film è noto che l'attore fuggì in India dove rimase per qualche anno a meditare sul suo futuro e sulla sua vita.  

Quello che non si sapeva finora era il motivo di questa improvvisa decisione.  E in questa intervista rilasciata a Maria Pia Fusco de La Repubblica nel 2013, Stamp racconta un interessantissimo retroscena, finora non conosciuto. Riporto per intero il passo:

Che ricordo ha di Teorema e di Fellini?
"Con Pasolini non è stata un'esperienza eccezionale: era un uomo riservato. Ma la verità è che sul set il mio interesse era tutto per Silvana Mangano: bellissima. Invece Fellini ha significato la svolta della mia vita. Lui aveva un rapporto amichevole con Peter O'-Toole, si vedevano quando veniva a Londra e Peter gli ripeteva "Voglio lavorare con te", finché capitò l'occasione diToby Dammit, uno degli episodi diTre passi nel delirio. Fellini mandò la sceneggiatura a Peter che, un mese prima delle riprese, una notte lo chiamò: "Quel Dammit è un vero bastardo, non voglio fare il tuo film. Goodbye". Fellini chiamòun agente a Londra, chiese di mandargli un attore decadente, stropicciato, bastardo. Io avevo appena fatto un western, avevo i capelli lunghi, scuri, ero sfatto, fumavo molto, di tutto allora. Fellini venne all'aeroporto, mi guardò, scoppiò a ridere, mi chiese di rimanere".


È vero che a Fellini deve anche la scelta dell'India?
"In una cena a casa di una contessa a Roma mi fece conoscere il maestro Krishnamurti, un piccolo indiano che diceva cose che non capivo. "Guarda quell'albero", lo guardavo, lui sorrideva. "Guarda quella nuvola". "Quando un'aquila vola non lascia tracce". Aveva uno sguardo magnetico, dolcissimo, mi sentivo inadeguato, troppo stupido per capire il senso delle sue parole e il desiderio di andare in India per avvicinarmi alla sua filosofia mi è rimasto dentro. Perciò dico che nella mia vita e nel mio lavoro c'è un prima e un dopo Fellini".


Insomma, che Stamp fosse diventato uno dei più famosi testimonals  della figura di Krishamurti era noto - riporto in calce a questo articolo uno dei molti interventi che l'attore ha fatto nelle diverse scuole e fondazioni intitolate a Krishnamurti nel mondo, che portano avanti i suoi insegnamenti - ma non era conosciuto che a presentare i due fosse stato proprio Fellini. 

Bisognerà approfondire. Sarebbe interessante conoscere l'opinione di Fellini a proposito di Krishnamurti e sarebbe anche interessante sapere chi era con esattezza quella contessa romana e quando si svolse esattamente la fatidica cena. 

Fabrizio Falconi -2020


25/04/19

25 Aprile: "La Resistenza e la sua luce" di Pier Paolo Pasolini.


La Resistenza e la sua luce

Così giunsi ai giorni della Resistenza 
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza 
di sole. Non poté mai sfiorire, 
neanche per un istante, neanche quando
l'Europa tremò nella più morta vigilia. 
Fuggimmo con le masserizie su un carro 
da Casarsa a un villaggio perduto 
tra rogge e viti: ed era pura luce. 
Mio fratello partì, in un mattino muto 
di marzo, su un treno, clandestino, 
la pistola in un libro: ed era pura luce. 
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano 
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino 
del piano friulano: ed era pura luce. 
Nella soffitta del casolare mia madre 
guardava sempre perdutamente quei monti, 
già conscia del destino: ed era pura luce. 
Coi pochi contadini intorno 
vivevo una gloriosa vita di perseguitato 
dagli atroci editti: ed era pura luce. 
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato 
si riconobbe nuovo nella luce...

Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia. 
La luce è sempre uguale ad altra luce. 
Poi variò: da luce diventò incerta alba, 
un'alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge...
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l'alba nascente fu una luce
fuori dall'eternità dello stile...
Nella storia la giustizia fu coscienza
d'una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.


La Resistenza e la sua luce 

da La religione del mio tempo 

Pier Paolo Pasolini (1922- 1975)

20/06/16

La Profezia di Pasolini (1975): "Prevedo la spoliticizzazione completa dell'Italia".




Prevedo la spoliticizzazione completa dell'Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. 
Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. 
La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come. 


Da Luisella Re, Pasolini: Il nudo e la rabbia, Stampa sera, 9 gennaio 1975.

12/10/15

L'omicidio Pasolini - Una foto misteriosa e un bellissimo articolo su Il Manifesto di Aldo Colonna.


riporto il bellissimo pezzo di Aldo Colonna su Alias, il supplemento de Il Manifesto



La bandaccia


La visione di un morto suscita quasi sem­pre, e comun­que sem­pre se ci è ignota la sua nefan­dezza, un moto a tratti incon­te­ni­bile di pie­tas. 

Quel corpo esa­nime è stato un tempo un coa­cervo di sen­ti­menti, di pro­po­si­zioni, di festa e di grida ed ora giace per ricor­darci il nostro limite di umani, o grida ven­detta per l’oltraggio subito e grida per­ché qual­cuno ripari quel torto o, al limite, ci indi­chi una strada meno imper­via della deso­lata ster­rata dell’Idroscalo. 

Il cada­vere di Paso­lini, rimesso in posi­zione supina, rimanda a «La morte di Chat­ter­ton» di Henry Wal­lis, lad­dove il sui­ci­dio del gio­vane poeta si ammanta di sim­boli e a que­sti rimanda per la sua inter­pre­ta­zione; e, ancora, «La morte di Marat» di Jacques-Louis David anch’esso, forse in misura mag­giore, con­tiene rife­ri­menti sim­bo­lici e segni. Marat, nel qua­dro, sem­bra con­tra­stare la morte con il sor­riso che la bef­feg­gia. 

Il rivo­lu­zio­na­rio sem­bra in posa, non nella con­di­zione tota­liz­zante della morte, ma per­ché tende a costi­tuirsi come icona della rivo­lu­zione, di una rivo­lu­zione vin­cente. Sono i chia­ro­scuri cara­vag­ge­schi che con­fe­ri­scono a «La morte della Ver­gine» una valenza di epi­fa­nia e di attesa, pur nello sgo­mento degli astanti. Gli apo­stoli affranti e la per­duta dispe­ra­zione della Mad­da­lena fanno da cor­nice ad un corpo riverso su un letto, con la mano destra sul ven­tre ad indi­care cotanta mater­nità e i piedi nudi offerti al ludi­brio e allo scon­certo dei ben­pen­santi. 

Un sim­bo­li­smo accen­tuato da un drappo color ver­mi­glio che indica san­gue, la vita e la morte dun­que ma, anche, nella sua com­po­si­zione aerea rivolta verso il cielo, la nostra caducità. Ma è «La zat­tera della Medusa» di Géri­cault a ripor­tare alla nostra memo­ria l’orrore della notte della ragione che con­tem­plò il sup­pli­zio del poeta. Le grida dei nau­fra­ghi che sovra­stano la morte dei com­pa­gni e, ad uno ad uno, i volti dei morti e dei mori­turi ci ven­gono in aiuto nella deci­fra­zione –in parte– della mat­tanza di Paso­lini; i due nau­fra­ghi in cima alla pira­mide umana che con un drappo cer­cano di atti­rare l’attenzione di una vela all’orizzonte, ahimè troppo lon­tana, la vela della zat­tera che rigon­fia allon­tana l’imbarcazione di for­tuna dalla sal­vezza pos­sono essere assunti a teo­ria para­dig­ma­tica di una verità che viene via via allon­ta­nata da inqui­renti ignavi. 

Il volto sfi­gu­rato di Paso­lini sem­bra coperto dal bel­letto, ma non stiamo par­lando di terra di cromo, di cina­bro, di rosso car­mi­nio ma di san­gue, di fango, di olio motore che con­di­rono la sua pas­sione ripor­tan­doci agli incubi e alla visio­na­rietà di Joel Peter Witkin. 

 E anche la foto che ripro­du­ciamo, per i mes­saggi che invia, diventa ico­nica. Riaf­fiora Nico­lino Selis, riaf­fiora Mas­simo Bar­bieri, uno della mala con­ti­guo alla Banda dive­nuto inaf­fi­da­bile a causa della sua tos­si­co­di­pen­denza ed eli­mi­nato da Danilo Abbru­ciati in seguito ad uno sgarbo che quello gli aveva fatto e al ten­ta­tivo di omi­ci­dio che lo stesso Bar­bieri aveva com­piuto spa­rando ad Abbru­ciati da una moto in corsa. E c’è poi Mau­ri­zio Abba­tino. Il suo volto attento guarda in dire­zione del cada­vere. 

Il volto di Bar­bieri si sta­glia tra un poli­ziotto in divisa e uno in bor­ghese come se sbir­ciasse, anche lui, alla volta del corpo di Paso­lini rico­perto dal suda­rio men­tre Selis, in terza posi­zione, è ripreso di pro­filo e sta sor­ri­dendo, igno­riamo a chi e con chi. Selis vive ad Ostia, la sua pre­senza potrebbe essere resa plau­si­bile dal clan­gore che la morte dello scrit­tore sta via via pro­du­cendo: da dove abita all’Idroscalo si va a piedi. Il 2 novem­bre è un giorno festivo e quella morte diventa l’occasione della festa, una spe­cie di attra­zione da circo Bar­num. 

Abba­tino no, lui non vive ad Ostia ma alla Magliana. La foto è stata scat­tata nella for­chetta tem­po­rale che va dalle 9 alle 10, minuto più minuto meno. Non esi­stono ancora tele­foni cel­lu­lari; la Poli­zia comin­cerà ad arri­vare poco prima delle 7. Chi avverte Abba­tino –e per­ché?- di por­tarsi all’Idroscalo?

È quanto meno curioso che due dei pro­ta­go­ni­sti della Banda della Magliana, due anni prima della costi­tu­zione ‘uffi­ciale’ della Ban­dac­cia, si ritro­vino insieme in quel con­te­sto e in quel fran­gente. Per non par­lare di Bar­bieri che, anche lui, avrà a che fare negli anni a venire con la banda. Inol­tre, c’è una sug­ge­stione da sot­to­li­neare. 

Al netto delle men­zo­gne che Pelosi ha pro­pa­lato da quando è rima­sto invi­schiato in que­sta sto­ria, al netto della ritrat­ta­zione sulla pre­senza di sici­liani che si espri­me­vano in ver­na­colo («jarrusu»,ricordate?), non ha mai negato la pre­senza sul luogo del delitto di un uomo cor­pu­lento e con la barba, lo stesso che lo avrebbe allon­ta­nato a forza dal campo visivo. Que­sto farebbe pen­sare a Danilo Abbru­ciati. Abbru­ciati col­la­bora con la Banda dei Mar­si­gliesi, è vero­si­mil­mente già in con­tatto con Bar­bieri, è uomo di corag­gio, solito ad azioni fuori degli schemi come l’attentato a Rosone finito male. Abbiamo par­lato di sug­ge­stioni, il con­di­zio­nale è d’obbligo. Ma le tes­sere del mosaico combacerebbero.


31/03/14

Ezra Pound a Siena: quando voleva combattere l'usura.




Ezra Pound fotografato da Richard Avedon nel 1958.


Un tassello che completa il quadro quasi inestricabile di un pensatore che ha sempre amato viaggiare ai limiti della provocazione, tendenza esistenziale che nel dopoguerra gli costo' la condanna per collaborazionismo e l'internamento in un ospedale criminale americano. 

Ezra Pound, candidato al Nobel nel 1959, continua a rimanere al centro dell'attenzione degli studiosi, soprattutto italiani, che onorano cosi' i tanti anni trascorsi dal poeta nel Belpaese, Venezia in primis, dove arrivo' per la prima volta nel 1908 e dove morira' nel 1972. 

A riaccendere le luci sulla figura di Pound è il nuovo saggio di Stefano Adami, filosofo e docente all'Università di Chicago, Ezra Pound a Siena tra Accademia Chigiana e Monte dei Paschi. 

Adami, noto in Italia e negli Usa anche per le sue ricerche su Italo Calvino, inizia il suo agile pamphlet prendendo spunto da un'intervista che Pound, a Venezia, rilascio' nel 1967 a PierPaolo Pasolini. 



In quell'occasione, e questo e' uno dei temi portanti del saggio, il vecchio poeta torna a parlare delle idee economiche di Douglas e Gesell, e del suo arrivo a Siena per combattere l'usura. 

Con una ricerca documentale inedita e approfondita, Adami ripesca dall'oblio alcune riflessioni di Pound sulla usurocrazia, che nei Cantos definisce "una tassa prelevata sul potere d'acquisto senza riguardo alla produttivita', e sovente senza riguardo persino alla possibilita' di produrre". 

In questo, ricorda Adami, si fa sentire in particolare il pensiero di Hugh Clifford Douglas, ingegnere inglese di sei anni più vecchio di lui, conosciuto dal poeta anni prima a Londra, che stigmatizza il fatto che "la produzione di merci e l'accumulazione di moneta sono concentrati nelle mani di un numero di individui sempre minore. E che, attraverso la circolazione della cartamoneta - questo ristretto numero di persone orienta l'economia verso la moltiplicazione finanziaria della ricchezza, svuotando la ricchezza reale degli individui, le loro concrete capacita' creative e produttive e vincolando cosi' l'umanita' a un progetto oscuro di asservimento". 

Per questo Pound benedice l'idea di Silvio Gesell, economista e anarchico tedesco, che concepisce l'idea di creare una 'moneta a tempo', 'prescrittibile', che chiama 'denaro libero', vale a dire una moneta che abbia la stessa durata delle merci che serve ad acquistare e che perda valore con il tempo'. 

Idea peraltro non nuova, riconosce Pound, visto che, scrive in 'Lavoro e usura', "i vescovi del medioevo gia' emettevano una moneta che fu richiamata alla zecca per essere riconiata alla fine di un periodo definito". 

Il lavoro di Adami premia il lettore visto che getta una nuova luce sul Pound che nel 1927 si mette a studiare l'atto di fondazione del Monte dei Paschi di Siena, risalente al 1624, e quello precedente del 1472 come Monte di Pieta'. 

Una banca, e' convinto, lontano dalle logiche usuraie, capace di mettere al centro della sua attivita' l'uomo e il suo lavoro. 

Certamente un paradosso della storia, visto lo scandalo che ha travolto recentemente l'istituto senese. 

Ma Pound, ricorda l'autore del saggio, e' attratto anche dalla dimensione culturale del nostro Paese, in particolare quello musicale. 

A questo aspetto, e in particolare al suo legame con l'Accademia Musicale Chigiana, Adami dedica una parte della sua indagine, che tuttavia avrebbe forse meritato un saggio a parte.

15/10/13

"Pasolini e Roma" - Una grande esposizione alla Cinematheque francese di Parigi.




Pasolini e Roma, un legame inscindibile e un rapporto di scambio tra il regista, sceneggiatore, poeta e scrittore, nato a Bologna il 5 marzo 1922, uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX/o secolo, ma anche il piu' "scandaloso e controverso", e la capitale italiana (dove si e' trasferito dal 1950 fino alla morte nel 1975). E' il tema dell'ampia e ricca esposizione che si apre domani alla Cinematheque francaise di Parigi (fino al 26 gennaio) organizzata in collaborazione con il Centro de cultura contemporanea di Barcellona (dove e' stata in cartellone fino al 15 settembre), il Palazzo delle esposizioni di Roma (in cui fara' tappa dal 3 marzo all'8 giugno 2014) e il Martin-Gropius-Bau di Berlino (in mostra dall'11 settembre 2014 al 5 gennaio 2015). Gli archivi di Bologna e Firenze e l'Istituto Luce, con il contributo della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, custode dell'eredita' letteraria del maestro, hanno messo a disposizione lettere autografe, sceneggiature, foto, film, documenti inediti, libri, locandine, dipinti, disegni e oggetti personali e intimi. 

Il percorso espositivo di 'Pasolini-Roma' e' cronologico e la voce di Pasolini accompagna il visitatore attraverso le varie sezioni che sono anche i luoghi della capitale che il maestro frequentava.

"La mostra - dice il direttore della Cineteca, Serge Toubiana - cerca di rendere conto dell'importanza e della complessita' dell'uomo attorno a un tema preciso, Roma vista attraverso lo sguardo Pasolini: i film, le amicizie, i suoi lavori come l'incarico di professore in un liceo di Ciampino, le case in cui ha abitato. Pasolini si e' impregnato di questa citta' per ridipingerla a suo modo".

Si parte con il suo arrivo in "una casa di poveri" nella periferia di Roma dal Friuli, quindi l'appartamento in via Fonteiana 86, nel quartiere di Monteverde, dove porta a compimento il suo primo romanzo 'Ragazzi di vita', quello in via Giacinto Carini 45, dove visse dal 1959 al 1993, nello stesso palazzo di Bernardo Bertolucci, il quale e' diventato poi il suo assistente, e poi l'ultima residenza in Via Eufrate e la trattoria di Ostia dove ha cenato prima di essere assassinato. Nel mezzo vari flash back: Piazza del popolo e il bar Rosati dove era solito incontrare gli amici, Elsa Morante, Alberto Moravia e Laura Betti, la collaborazione con Fellini sul set de 'Le notti di Cabiria'. Ma anche le frequentazioni con Ungaretti e Calvino, i viaggi a New York, Parigi e in Africa, la relazione professionale e di profonda amicizia con Ninetto Davoli (presente all'inaugurazione della mostra che lo ricorda con grande affetto e fierezza), le sue 33 denunce e l'accanimento della giustizia nei suoi confronti, tra l'altro, per vilipendio alla religione con il film 'La ricotta', per una presunta tentata rapina ai danni dell'addetto a un distributore di benzina, per censurare 'Accattone' e per le parolacce in 'Mamma Roma'. Ci sono anche estratti e sceneggiature di film (in programma nella sala della Cinematheque fino al 2 dicembre) da 'Accattone' (1961), a 'Il vangelo secondo Matteo' e 'Comizi d'amore' (1964), 'Uccellacci e uccellini' (1966), 'Teorema' (1968), 'Medea' (1969), 'Salo' e le centoventi giornate di sodoma' (1975). Tra le novita' della mostra un percorso virtuale sulla Roma di Pasolini disponibile sul web. Oltre a spettacoli, letture, giornate di studi. Persino due stazioni della metropolitana parigina dedicate a Pasolini.

"Questa esposizione non e' assolutamente commemorativa, Pasolini non deve diventare un monumento - spiega il curatore francese, Alain Bergala -: Pasolini non e' morto, il suo pensiero non e' morto". "Nel XX/o secolo gli artisti che hanno meglio interpretato o incarnato Roma non erano romani, salvo due eccezioni, Roberto Rossellini e Alberto Moravia - ricorda anche Gianni Borgna -. Pasolini, bolognese e friulano, fa cadere il velo che nascondeva la Roma di periferia. Nei suoi romanzi e film mostra un'altra Roma, a tal punto che si puo' dire che c'e' una Roma prima e dopo Pasolini".


02/11/12

Le ultime foto di Pier Paolo Pasolini.



Questa foto qui sopra è l'ultima in assoluto che ritrae Pier Paolo Pasolini in vita. E fu scattata da Dino Pedriali  all'alba del 29 ottobre 1975, tre giorni prima della morte. Le foto di Pedriali sono esposte per la prima volta in una mostra, alla Triennale di Milano. Qui sotto un articolo su Pedriali e sulla realizzazione di queste foto. 

Pier Paolo Pasolini nel suo studio, a Sabaudia.

In giro per Roma, alla guida della sua mitica Alfa 2000. Pasolini nel «rifugio» a Torre di Chia, vicino a Viterbo, in una casa immersa nella vegetazione mediterranea dove l'intellettuale scrive, disegna e si mette - letteralmente - a nudo. Sono scatti straordinari, e li ha firmati Dino Pedriali, allora venticinquenne. 


Attenzione alle date: le foto sono state fatte durante la seconda e la terza settimana di ottobre del 1975. Nella notte tra l'1 e il 2 novembre il poeta fu trovato morto sul litorale di Ostia. In quelle due settimane Pasolini commissionò al suo giovane amante un reportage intenso che, stando alle intenzioni dello scrittore, avrebbe dovuto illustrare «Petrolio», il romanzo cui stava lavorando (poi pubblicato postumo). 


La mostra «Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali» (fino al 28 agosto) raccoglie settantotto scatti in bianco e nero sulla quotidianità di Pasolini, ripreso mentre scrive con la sua Olivetti 22 (forse proprio qualche pagina di «Petrolio»), mentre guarda l'obbiettivo con i capelli scompigliati dal vento, mentre legge, mentre dipinge. 


E, soprattutto, mentre è nudo. In questa «consegna del corpo alla fotografia» emerge tutta la grandezza di Pedriali che, giovanissimo e sentimentalmente coinvolto, seppe catturare una sequenza dall'alto valore simbolico: è quella con Pasolini che si muove senza veli per casa, che poi si affaccia alla finestra, cercando quasi con stupore, in un gioco di sguardi con l'obbiettivo nascosto del fotografo, Dino Pedriali. 


I due si erano accordati per scegliere gli scatti migliori del servizio il 2 novembre del '75: sappiamo che Pasolini non ebbe più la possibilità di vederli. 

Che ne fu di tutti quegli scatti, segno di un fortissimo legame tra il giovane fotografo e l'intellettuale scomparso? L'allora sindaco di Roma Giulio Carlo Argan le usò per organizzare una mostra, altri scatti furono pubblicati («i giornali se ne appropriarono invocando il diritto di cronaca», racconta Pedriali). 

Si deve alla costanza di Giovanna Forlanelli, editore di Johan&Levi, la pubblicazione, per la prima volta in un volume, di questo reportage che nelle intenzioni di Pasolini doveva servire a illustrare il suo romanzo più discusso e che invece, beffardamente, vale ora come suo testamento artistico. 

Di questo ha parlato, ieri in Triennale, Dino Pedriali: «Sono l'unico custode del corpo del poeta», ha detto in un momento di estrema commozione, inveendo contro la politica («che non ha mai amato Pasolini») e contro un articolo di Walter Veltroni uscito sull' «Espresso» lo scorso febbraio («Tutti gli anni si parla di Pasolini e immancabilmente spunta fuori la tesi del complotto politico»). Poi si è tolto le vesti, rimanendo nudo davanti agli scatti, nudi, di Pier Paolo Pasolini, sotto lo sguardo di giornalisti e addetti al museo. 


In mano un coltello in una provocazione disperata, come la domanda contenuta nella sua introduzione al volume che accompagna la mostra: «Ero l'unico che aveva il corpo del poeta intatto. La cultura si è nutrita almeno del suo pensiero?».