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10/01/19

L'altare della Patria, tempio massonico.



L’Altare della Patria, tempio massonico

In fondo a piazza Venezia, in posizione prospettica ideale alla fine del rettifilo di via del Corso, addossato al Colle Capitolino, principale simbolo laico della città di Roma, sorge il grandioso monumento a Vittorio Emanuele ii re d’Italia, che viene detto anche Il Vittoriano e nel parlare comune dei romani è l’Altare della Patria o anche, con un nomignolo a metà tra il dispregiativo e l’ironico, la Macchina da scrivere, per le sue forme che ricordano le vecchie Olivetti.

In effetti, per la tradizione di Roma, quest’opera è sempre risultata un po’ ingombrante e imbarazzante: in parte per la sua mole gigantesca, che ha finito quasi per oscurare il vicino colle del Campidoglio, in parte per le origini della sua costruzione, che sono legate all’affermazione della unità d’Italia (e in qualche modo quindi simbolo del potere piemontese sulla Capitale), in parte per lo sfacelo, compiuto all’epoca della edificazione, di interi quartieri di Roma e di rovine antiche, e in parte infine per il materiale utilizzato – quel calcare di Botticino (in provincia di Brescia – così luminoso e abbagliante che male si concilia con l’opaco travertino simbolo della Città, insieme al giallo all’arancione e all’ocra dei suoi palazzi più antichi.

L’Altare è principalmente opera dell’architetto Giuseppe Sacconi e fu iniziato nel 1885. Ma i complessi lavori si protrassero per ventisei anni e l’inaugurazione dell’edificio si ebbe soltanto nel 1911.

La collocazione nel monumento della Tomba del Milite Ignoto risale invece soltanto al 1921, e da allora, con la sepoltura di un anonimo caduto italiano durante la guerra del 1915-18, all’Altare si legò una nuova valenza simbolica, emblema della unità del Paese che ancora oggi viene omaggiata dai presidenti della Repubblica nelle circostanze e nelle ricorrenze ufficiali.

L’idea di Sacconi infatti fu quella di realizzare una allegoria dell’Italia, per mezzo di una galleria di sculture, bassorilievi, fontane, esedre, mosaici, statue e quadrighe  armonizzati in un unico disegno complessivo.

Il monumento fu ideato dopo la morte di Vittorio Emanuele ii e proprio per celebrare la figura dell’uomo che più di ogni altro era considerato il Padre della Patria, colui che per la prima volta era riuscito nell’impresa di unificare un territorio sempre diviso e disperso come quello italiano.

Il bando per il progetto fu varato nel 1882 e, tra le novantotto proposte pervenute, si affermò proprio quella del giovane architetto marchigiano Giuseppe Sacconi, il quale si ispirò esplicitamente all’Altare di Zeus a Pergamo, uno dei capolavori assoluti dell’arte ellenistica fatto erigere dal re Eumene ii tra il 166 e il 156 a.C., smontato dai luoghi originari e trasportato a Berlino nel 1886, dove si trova attualmente.

Sacconi ebbe il pieno appoggio della potente massoneria romana, esponente di una “seconda religione”, laica e anticlericale, che aveva trovato nell’unità d’Italia il suo simbolo e voleva celebrarla in un grandioso monumento che si presentava come una enorme piazza sopraelevata, dentro la città, nel cuore della città, una specie di moderno Foro che non inneggiasse alle persone, ma ai simboli, della libertà, della fraternità, dell’uguaglianza, dell’economia, della unità.

Il vero ispiratore di questa idea era stato Giuseppe Zanardelli, uno dei politici più importanti del periodo seguente alla unificazione d’Italia, massone, sul quale circolano i più disparati aneddoti, tra cui uno racconta che, per polemizzare contro chi, a Montecitorio si lamentava dei troppi parlamentari massoni, giunse a sfilarsi il cappotto per mostrare orgogliosamente il grembiule massonico che indossava.

Fu proprio Zanardelli a esprimere il parere favorevole al progetto di Sacconi ispirato a un grande e celebrato simbolo della grandezza classica ellenica, e fu lo stesso Zanardelli – sembra -  a sostenere la scelta di sostituire il travertino (materiale con il quale Sacconi aveva pensato di realizzare il monumento, sicuramente più consono alla storia e alla tradizione di Roma) con il botticino, il marmo bianco estratto dalle cave di Brescia, di cui Zanardelli era originario.

Sacconi era il nipote di un cardinale e aveva persino curato i lavori di  restauro del Santuario di Loreto. Ma  era considerato da Zanardelli sufficientemente ambizioso e volitivo per occuparsi della realizzazione di un monumento così imponente.

All’Altare della Patria, in effetti, Sacconi dedicò l’energia di una vita intera, anche se non riuscì a vedere il monumento ultimato: morì infatti nel 1905, sei anni prima della inaugurazione e i lavori vennero ultimati dagli architetti Koch, Manfredi e Piacentini.

Gran parte del lavoro però fu effettuato sotto la sua guida di Saconi: la prima pietra del futuro monumento fu posta nel 1885. Poi, lentamente, si cominciarono a distruggere e demolire le case della zona adiacente al Campidoglio, abbattendo la torre medievale di papa Paolo iii (1468-1549), Farnese, l’ispiratore del Concilio di Trento, l’Arco di San Marco, un ponte sospeso che metteva in comunicazione Palazzo Venezia con il Campidoglio e i tre meravigliosi chiostri del convento francescano dell’Ara Coeli che furono sacrificati al nuovo monumento.

Ma Sacconi si trovò di fronte a mille difficoltà: prima fra tutte il fatto che il colle del Campidoglio risultò essere composto di materiali argillosi, frutto di sedimentazioni successive e molto friabile, non di tufo come si pensava.

Durante gli scavi, poi, venne fuori di tutto, come era scontato in quella zona nevralgica dove sorgevano molte delle più rilevanti rovine della Roma antica: gallerie, sotterranei, porzioni di mura serviane, reperti di ogni genere, perfino lo scheletro di un elefante, conservato da chissà quanto tempo.

Le ruspe sabaude comunque andarono avanti senza fermarsi, fino al completamento dell’opera, inaugurato a da Vittorio Emanuele iii il 4 giugno del 1911, nella occasione della Esposizione internazionale per il cinquantenario della Unità d’Italia, insieme alla nuova piazza Venezia, ridisegnata secondo il disegno dello stesso Sacconi, nel corso di una solenne e imponente cerimonia alla quale presero parte, oltre alle più alte cariche dello Stato, seimila sindaci provenienti da ogni regione d’Italia.

Il completamento del corredo esterno e interno di statue e mosaici dell’enorme monumento proseguì però per parecchi anni dopo la sua inaugurazione. Le due grandi quadrighe bronzee vennero poste sul terrazzo del monumento (oggi visitabile grazie all’ascensore trasparente realizzato sotto la giunta Rutelli) tra il 1924 e il 1927; qualche anno dopo si completò la cripta del Milite Ignoto, e negli anni ’30 fu terminata anche la facciata del monumento esposta a sud, verso via di San Pietro in Carcere, con la realizzazione del Museo del Risorgimento.

Qualche numero serve a capirne le dimensioni: è alto 81 metri e largo 135 e occupa una superficie pari a diciassettemila metri quadrati, 196 sono i gradini che mettono in comunicazione il colonnato con la terrazza, dalla quale si gode di una vista impareggiabile sulla città; 12 metri di altezza per una lunghezza di dieci sono invece le dimensioni della statua equestre dedicata a Vittorio Emanuele ii, per la quale furono fuse cinquanta tonnellate di bronzo (nel ventre del cavallo sembra possano essere stipate venti persone comodamente sedute).

Molti sono i simboli (vegetali, animali) che ricorrono nel monumento, gioia degli appassionati di esoterismo che vi leggono un codice nascosto: la palma per la vittoria, l’alloro per la pace vittoriosa, il mirto per il sacrificio, l’ulivo per la concordia, la quercia per la forza; poi una donna che afferra un serpente con la mano sinistra, simbolo della conoscenza segreta.

Tratto da Fabrizio Falconi, Roma segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2017

07/06/16

La casa (scomparsa) di Michelangelo a Roma.



La casa di Michelangelo a Macel de’ Corvi (oggi Piazza Venezia)

Una delle curiosità romane meno conosciute è nascosta sulla facciata laterale di uno dei grandi palazzi che affacciano su Piazza Venezia, quello delle Assicurazioni Generali, che fronteggia, con i suoi merli e i suoi muri di mattoni chiari, il Palazzo Venezia. 

Sulla facciata sud del Palazzo delle Generali (costruito ai primi del Novecento su progetto di Giuseppe Sacconi), quella prospiciente l’Altare della Patria e la Colonna Traiana, è possibile scorgere ad una certa altezza, una targa con l’iscrizione: Qui era la casa/consacrata dalla dimora e dalla morte/ del divino Michelangelo/S.P.Q.R. 1871

E più sotto un’altra con la dicitura: Questa epigrafe apposta dal Comune di Roma nella casa demolita per la trasformazione edilizia è stata collocata nello stesso luogo per cura delle Assicurazioni Generali di Venezia. 

Si tratta dunque della importante memoria del luogo esatto in cui sorgeva la casa in cui visse i suoi anni romani e nella quale morì il grande Michelangelo: quella nel quartiere chiamato Macel de’ Corvi che fu interamente spazzato via durante i lavori che alla fine dell’Ottocento ridisegnarono l’urbanistica del centro della città con la realizzazione del gigantesco Altare della Patria e più tardi della trionfale Via dei Fori Imperiali. 

In quella casa in quel borgo che veniva definito dai visitatori stranieri sordido, Michelangelo visse per cinquant’anni. 

Gli era stata messa a disposizione dalla famiglia Della Rovere, per ospitare il grande artista che avrebbe dovuto completare la tomba del loro congiunto, il Papa Giulio II morto nel 1513 (progetto faraonico che non fu mai portato interamente a termine). Nelle sue lettere e nei suoi sonetti, Michelangelo descrive a forti tinte le vie del quartiere che lo ospitava e anche quella casa, piuttosto modesta, con due camere da letto e la bottega al pianterreno. Il quartiere era quasi una discarica a cielo aperto, maleodorante e colmo di ogni rifiuto proveniente dalla macellazione degli animali. Anche il nome, del resto, era piuttosto eloquente. Eppure, il grande artista non volle mai lasciare quella specie di colorato tugurio. 

In questa casa ideò, progettò tutti i lavori che lo resero immortale, ma le fortune accumulate non gli fecero mai cambiare stile di vita. Non fu solo questione di avarizia, come da più parti è stato sostenuto, quanto di misantropia. A Macel de’ Corvi Michelangelo visse da solo, circondato da uno stuolo di serve (che giudicava puttane e porche) e soprattutto del garzone fidato Urbino (Francesco di Bernardino) che lo accompagnò per ventisei anni, difendendolo dalla curiosità degli avventori e dai fastidi di una vasta parentela vera o presunta che cercavano continuamente di spillargli denaro. 

A Macel de’ Corvi andò in scena anche l’ultimo, misterioso atto, della vita di Michelangelo: quello della sua morte, quand’era ormai ottantottenne (una età per l’epoca piuttosto eccezionale) preceduta da quella specie di malessere o di demone che descrisse all’allievo Tiberio Calcagni quando questi lo sorprese a vagare sotto la pioggia: non ho requie in nessun luogo, disse il Maestro con un filo di voce, disperato. Riportato a casa, qualche tempo dopo morì dopo tre giorni di febbre alta, lasciando una casa vuota piena di vecchie cose e di arnesi consunti

La morte, il 18 febbraio del 1564, lo colse mentre lavorava alla sua opera ultima, più inquietante, la Pietà Rondanini, oggi conservata nel Castello Sforzesco di Milano. Pochi giorni prima della sua morte, ironia della sorte, la Congregazione del Concilio di Trento aveva disposto l’ordine di far coprire le parti scabrose dell’affresco del Giudizio Universale, al quale il Maestro aveva lavorato per vent’anni. Le solenni esequie furono celebrate parecchi giorni dopo a Firenze, con l’inumazione della Chiesa di Santa Croce. La Casa di Macel de’ Corvi, rimasta vuota, fu rapidamente spogliata dei beni e degli effetti personali del Maestro (primi fra tutti i sacchetti con le innumerevoli monete d’oro che teneva sempre con sé) fino poi ad essere cancellata e rasa al suolo per la realizzazione di quel pomposo edificio che oggi soltanto così marginalmente ricorda la vicenda di uno dei più grandi artisti nella storia dell’umanità.


Tratto da Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Newton Compton, 2013.