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10/07/14

Bernardo Bertolucci racconta (e ricorda) Marlon Brando. Una bellissima intervista di Paola Zanuttini.


Dieci anni dalla morte del grande Marlon Brando. Il ricordo e il racconto di Bernardo Bertolucci per il Venerdì di Repubblica in una intervista di Paola Zanuttini.

Roma. Al primo ciak di Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci grida «Buona la prima!». Ma non è tanto buona. Perché l’operatore di macchina Enrico Umetelli, arrossendo, gli sussurra: «Scusa, mi sono trovato Marlon Brando nella loop e sono rimasto a guardarlo, paralizzato». L’arrivo di Brando sul set ha sprigionato meraviglia, innamoramento, tremore. Anche Vittorio Storaro, che non è un principiante, si fa intimidire: nei camerini allestiti sul ponte di Passy, ha notato che l’attore ha la faccia troppo rossa, ma non osa farne parola con lui. Interpella il regista: «Secondo te, si offende?». Bertolucci lo tranquillizza: «Ma va’, diglielo». Storaro va. Il divo non si scompone, anzi. Piglia un asciugamano, se lo strofina in faccia, porta via tutto il cerone e domanda: «Meglio, così?».
Nel soggiorno color sabbia, con il soffitto azzurro come un cielo sul deserto, Bertolucci rievoca il suo Marlon Brando, a dieci anni dalla morte e a 42 dalla lavorazione di Ultimo tango. Intanto, una seducente gattina, passata con nonchalance dal randagismo ai divani, fa di tutto – fusa, moine, coda ritta – per occupare la scena: va detto che ci riesce. Perché, mentre il padrone mi racconta la sua triste storia a lieto fine, io la carezzo a dovere. Poi esagera, la micia: monta sul tavolo e lappa nel mio bicchiere. Gag da applauso, ma Bertolucci la esilia dalla stanza. A malincuore.
Per il ruolo di Paul in Ultimo tango lei aveva pensato prima a Jean-Louis Trintignant, poi a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Come è arrivato a Brando?
Con Trintignan e Dominique Sanda avevo appena girato Il conformista; mi piacevano molto, pensavo di ricomporre la coppia, ma Dominique era incinta e Jean-Louis declinò l’offerta quasi piangendo: non se la sentiva di spogliarsi. Soprattutto per sua figlia, la piccola Marie che ora non c’è più: temeva i commenti a scuola. Allora, visto che si girava a Parigi e la cooproduzione era francese, mi rivolsi alle due star francesi del momento: Belmondo e Delon, che mi piacevano. Belmondo quasi mi buttò fuori dal suo ufficio. Secondo lui gli stavo proponendo un porno.
Conservatore dentro, Belmondo.
Lo so, ma aveva fatto  Fino all’ultimo respiro, film determinante, per me. Delon, invece, aveva amato la sceneggiatura, ma voleva un ruolo da coproduttore, per mantenere un suo controllo. Non mi pareva il caso, e quindi adieu. Tempo dopo, ero a cena a piazza Navona, c’erano dei francesi, la costumista Git Magrini e Luigi Luraschi, il distributore Paramount che avrebbe preso il film. Uscì il nome di Brando, Luraschi disse che conosceva il suo agente, e, forse, poteva chiamarlo.
A lei piaceva Brando?
Certo, ma mi sembrava irraggiungibile. Come Zapata o Il selvaggio. Mi dava la sensazione di fare un film antihollywoodiano, ma hollywoodiano in quanto antihollywoodiano.
Questa è un po’ fumosa. E imbevuta di rivoluzionaria intransigenza.
No. Amando il cinema, non avrei mai potuto dire che le commedie musicali facevano schifo perché erano politicamente disimpegnate.
Lei era un talento emergente di trent’anni, Brando un mostro sacro di quasi cinquanta. Come andò il primo incontro?
Non sapeva niente di me. Aveva chiesto informazioni a una sua amica cinephile, una cinese ricchissima proprietaria di supermarket che aveva visto Il conformista e gli aveva intimato: “Devi andare assolutamente!”. Ci incontriamo a Parigi, all’hotel Raphael. Sono stravolto, non ci credo, eppure è lì. Tengo le gambe accavallate, ma ho un piede fuori controllo che scatta come una molla. Con l’inglese me la cavo male, ho fatto una settimana alla Berlitz, buona per spiegargli il film in dieci parole e, mentre tento di farlo, lui sta a occhi bassi. Gli chiedo perché non mi guarda in faccia: “Guardo il tuo piede. Voglio vedere quando la finisci con quel su e giù”.
Il duca nel suo dominio, come nella famosa intervista di Truman Capote.
Sì, ma sorridente. Poi si va a mangiare e dopo ancora in una saletta a vedere Il conformista. Durante la proiezione esco, non ho voglia di star lì. Quando torno mi fa: “Vieni a Los Angeles un mese. Ci mettiamo a casa mia e parliamo della sceneggiatura”. Adattava i dialoghi alla sua voce, Marlon, ma io lo faccio con tutti miei attori. In realtà, a casa sua, una villa su Mulholland Drive, non abbiamo mai parlato del film. Mi portava a mangiare dal giapponese, io gli chiedevo perché era sempre solo e lui rispondeva che stava benissimo così, che non gli piaceva andare in giro. Però era curiosissimo delle persone. A cento metri da casa sua, più in basso, c’era quella di Jack Nicholson; mi ha fatto sporgere dal giardino per mostramela: “Jack fa le cosacce con una ragazza in piscina”.
Nel ruolo fatale di Jeanne, Maria Schneider era molto nuda, Brando meno. Allora, lei ha giustificato la disparità di trattamento con la tesi che un uomo senza braghe perde mistero. Ne è ancora convinto?
No, è una sciocchezza. Nel film di Abel Ferrara su Strauss-Kahn, Depardieu è nudissimo e meraviglioso, una specie di Pantagruel. Però Marlon si è spogliato abbastanza, c’è anche quella posizione incriminata – quasi yoga – con Maria, che poi è stata ripresa da un logo di abbigliamento. Il problema è che aveva il pancione, non volevo esporlo troppo.
Altro indumento, più rispettabile: il cappotto di cammello di Marlon-Paul, molto simile a quello di Alain Delon nel contemporaneo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini: coincidenza o plagio?
Il mio film è uscito prima. E Alain aveva letto la sceneggiatura. In ogni caso, io ho visto La prima notte di quiete dopo l’anteprima mondiale di Ultimo tango al New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. La critica Pauline Kael ha scritto che quella data sarebbe diventata una pietra miliare nella storia del cinema, come lo era quella della prima rappresentazione della Sagra della primavera, il 29 maggio 1913, nella storia della musica. L’avevo trovato bello, il film di Zurlini.
Non era troppo melodrammatico?
Può darsi, non mi ricordo più niente, solo il cappotto. Forse l’ho perdonato proprio perché c’era il cappotto di cammello.
Nel 1972, dopo anni di stracca, Brando esce con due film epocali che lo rilanciano: Il padrino a marzo e Ultimo tango aottobre. Mentre Coppola gli restituisce la gloria, ma non la carica erotica – con quelle guance imbolsite dal cotone – lei lo incorona di nuovo sex symbol. Sgualcito e irresistibile.
Accidenti! Avrà pure avuto la pancia, ma la sua testa era meravigliosa.
Brando si divideva fra i due set? E metteva zizzania fra lei e Coppola?
Per niente. Le riprese del Padrino erano già terminate, quando lavorava con noi. Un sabato pomeriggio, Coppola, che era a Parigi, passò a trovarci. Giravamo in esterni, senza Marlon perché il sabato non lavorava, per la felicità di Jean-Pierre Léaud, che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria ed era terrorizzato dall’idea di incontrarlo. Visto che avevo due biglietti per un balletto, ci andai con Francis. Mi raccontò del Padrino e mi chiese di Marlon. Non troppi anni dopo, sul set di Apocalypse Now, avrebbe avuto i suoi problemi con lui: Brando non voleva girare e Francis ci diventava pazzo, poi decise di fare solo l’inquadratura con The horror, the horror. Il direttore della fotografia era Storaro e quando Marlon si decise finalmente a parlare gli domandò mie notizie: “Come sta il bambino profeta?”. Ma sul set di Ultimo tango non è successo niente di tutto questo. Mi spiace, non ho aneddoti di screzi, liti o dispetti da star impazzita. È sempre stato puntuale ed estremamente professionale.
Intervista di Paola Zanuttini a Bernardo Bertolucci, che diresse Brando in Ultimo tango a Parigi, uscita su il Venerdì di Repubblica