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03/10/14

La gentilezza nel donare crea amore. Lao Tzu, Marina Cvetaeva e Rilke.



La gentilezza nel donare crea amore. 

Così scrive Lao-Tzu, e davvero - se solo vi si porge attenzione - questo è ciò che crea un amore, una relazione d'amore: gentilezza nel donare

Non occorre cioè, dice Lao-Tzu, solo la capacità di donare perché ci sia amore.   Occorre anche la gentilezza nel donare.  La gentilezza, che a noi spesso appare come una qualità esteriore, formale, è invece, sembra dirci Lao-Tzu, sostanza. Proprio perché nell'amore, tutto ciò che è forma è anche sostanza. 

A questo punto, se vi è gentilezza del donare, ogni amore è possibile. Ogni tipo di amore. Non importa quali implicazioni terrestri vi saranno.

Ci ripenso, ricordandomi dello struggente amore scritto tra Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva, che pure, non si incontrarono mai di persona. 


Nel maggio del 1926 Rainer Maria Rilke si trova nella clinica svizzera di Val-Mont per curare un malessere ancora ritenuto lieve, di probabile origine nervosa (in realtà sono le avvisaglie di quella leucemia che lo condurrà alla morte il 29 dicembre dello stesso anno).

Da tempo ormai, da quando ha terminato il decennale lavoro delle Elegie duinesi, la vita in lui si è fatta «stranamente pesante», il suo corpo, prima così servizievole, ora sembra rifiutarsi di assecondarlo; e su tutto la terribile sensazione di vuoto, di spaesamento, di chi si è ormai lasciato alle spalle il culmine della propria parabola umana e creativa.

Nel mezzo di una simile crisi, trova però il tempo, esaudendo una richiesta di Boris Pasternak, di scrivere a un’intima amica di quest’ultimo, la poetessa Marina Cvetaeva, per inviarle con dedica un proprio volume di liriche.

La risposta di lei non si fa attendere: un’appassionata, debordante dichiarazione d’amore verso il poeta Rilke, anzi, verso un Rilke che è addirittura «l’incarnazione della poesia», nonché «quanto di più caro possieda al mondo » questa esule russa dall’esistenza difficile e tormentata. E al suo tono appassionato, come all’uso del «tu» con cui la Cvetaeva supera d’un balzo, sin dall’inizio, le convenzioni di uno scambio epistolare tra sconosciuti, lui si adegua immediatamente.

Comincia così tra i due il breve, folgorante carteggio ora pubblicato nella traduzione italiana di Ugo Persi (Lettere, SE, pp. 104, € 13); comincia, possiamo dire, una breve ma intensissima storia d’amore tra un uomo e una donna accomunati dalla più profonda diffidenza verso ciò che nell’amore è adempimento, legame, possesso.

Entrambi, per tutta la vita, hanno sempre cercato tutt’altro: quello slancio dell’anima che è sinonimo, o traduzione, o alimento dello slancio poetico; quel «bacio assoluto» rispetto al quale ogni bacio concreto rappresenterebbe già una forma di degradazione.

Tanto Amelia Valtolina quanto Pina De Luca, autrici delle due interessanti postfazioni che completano il volume, sottolineano appunto la centralità, in questo carteggio, dell’idea di una «produttività del non-possesso», sia sul piano dei sentimenti sia su quello, quasi inscindibile, della riflessione poetica.

È una consapevolezza che spesso, soprattutto in Rilke, si vena di rassegnazione: la consapevolezza, come egli scrive nell’Elegia dedicata a Marina, che entrambi sono soltanto «dispensatori di segni» e che «quest’opera lieve, quando uno di noi/ più non regge e s’induce alla presa, / si vendica e uccide».

L’«opera lieve» del poeta, che solo attraverso il più paziente e sistematico sacrificio dell’Io può arrivare davvero ad abbracciare e trasfigurare tutte le cose nello spazio dei propri versi, del proprio «invisibile cuore»; ma anche l’opera altrettanto lieve e delicata degli amanti, che vive di un fragilissimo equilibrio tra prossimità e distanza.

Eppure, dopo alcuni mesi, la Cvetaeva tenta di spezzare questo equilibrio. Sente di dover «approfittare del caso di essere ancora (e pur sempre!) un corpo vivo», e propone a Rilke di incontrarsi «in qualche posto della Savoia francese molto vicino alla Svizzera».

La reazione di lui a questa proposta è cauta, vagamente intimorita; tanto da spingerla a dichiarare, nella lettera successiva, «Tu credi che io creda alla Savoia? Sì, come anche Tu, come al regno dei cieli». E infatti, i due non si vedranno mai.

All’accorato «Mi ami ancora?» inviato il 7 novembre su una cartolina postale Marina non riceverà risposta; la «strana gravezza», la «discordanza» tra l’anima e il corpo hanno sospinto Rilke in una regione inaccessibile, sottraendolo a qualsiasi relazione umana. 

Gli scriverà un’ultima volta la sera del 31 dicembre, dopo aver appreso della sua scomparsa, per commentare di nuovo, con l’amarezza delle parole definitive: «Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra - come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero?»

Paola Capriolo per Corriere della Sera. 

28/02/12

Paola Capriolo su Rainer Maria Rilke, il doppio regno della vita e della morte.


Oggi, sul Corriere della Sera un bellissimo articolo di Paola Capriolo su Rilke. La Capriolo è ormai da parecchi anni, l'autore che forse più, in Italia, ha studiato e compreso la grandezza del genio delle Elegie Duinesi. Vi propongo il testo.

In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l'essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt'altro che accattivante. 

Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l'amore, il lutto, l'emozione di fronte a un paesaggio... mentre l'«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l'arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell'uomo. 

Chi è dunque l'uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba, ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell'aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po' eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente. Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell' Ottava elegia , diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell'atteggiamento di chi parte e «... sull'ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s'arresta, si volge indietro, indugia -».

 In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d'occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo... Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall'orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l'animale, che è di casa nell'aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l'avvenire, là vede il tutto e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l'anima possedeva in sé a propria insaputa. 

Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l'errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno se vanno tra vivi o tra morti». 

 Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l'una nell'altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno». Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l'aspetto della negazione.