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24/02/23

Presentazione de "Le Basiliche di Roma" di Fabrizio Falconi a Via Panisperna, il 3 marzo !

 



Nella bellissima Libreria Panisperna (Via Panisperna 220), ci incontriamo, Venerdì 3 marzo alle ore 18 per parlare - con Luigi Galluzzo - della meraviglia di Roma, delle sue antiche o antichissime basiliche, partendo da quelle imperiali romane alle cristiane. Curiosità, storie, che abbiamo sotto i piedi ogni giorno.
E quindi del nuovo Libro appena uscito, Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi da Newton Compton, in tutte le librerie,

28/01/23

L'intervista a RadioUno: Le Basiliche di Roma, Il nuovo libro di Fabrizio Falconi




Un viaggio avventuroso nella storia bimillenaria delle meravigliose Basiliche di Roma. Dalle Basiliche antiche del Foro Romano, ancora superstiti, alle quattro patriarcali, alle tre minori, alle oltre venti paleocristiane, piene di storia.

Questo è Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi, appena uscito in tutte le librerie. 

E ordinabile su Amazon e su tutte le librerie online.

Del Libro e delle Basiliche di Roma ho parlato nella intervista a Alessandra Rauti di Radio Rai nella intervista andata in onda a Incontri d'Autore su RadioUno domenica 23 gennaio 2023.

L'intervista è ascoltabile su Rayplaysound:

CLICCA QUI

18/11/20

Dal 26 novembre in libreria il nuovo libro di Fabrizio Falconi: "La Storia di Roma in 501 domande e risposte"

 



Esce giovedì 26 novembre in tutte le librerie (e nelle vendite online) il nuovo libro di Fabrizio Falconi dedicato a "La Storia di Roma in 501 domande e risposte", un manuale che ripercorre le vicende della Città Eterna lungo 3000 anni di storia.  Qui riporto la prefazione al libro.

   Qualunque libro decida oggi di affrontare l’argomento complessivo della storia di Roma andrebbe incontro a un probabile fallimento. Non è soltanto una questione della quantità di tempo che è passata dai tempi della sua fondazione, ché esistono luoghi al mondo che possono vantare una storia millenaria ancora più lunga di quella di Roma.  La particolarità della città eterna è piuttosto quella di una storia enormemente complessa, di una città che ha saputo e potuto “cambiare faccia e pelle” molte e molte volte in questa lunghissima storia, rinascendo ogni volta dalle sue ceneri e restando comunque centrale  nella storia dell’Occidente anche nei momenti più bui.

    La via che si è scelta per questo volume è quella di un manuale di rapida consultazione e di agile lettura che, nel dipanarsi di cinquecentouno domande, ripercorre il nastro degli eventi più importanti della storia della città, degli eventi, delle glorie guerresche, delle invasioni subite, delle miserie e delle incoronazioni, dei potenti e del volgo, i quali compongono un insieme unico, una lunga storia che ogni volta può essere raccontata in modo diverso, senza tradire la realtà degli eventi.

   Si è scelto di suddividere il libro in dieci parti, la prima delle quali prende le mosse dalla fondazione stessa della città, più di settecento anni prima della nascita di Cristo e l’ultima delle quali giunge fino ai giorni nostri. 

   La quantità e la qualità degli eventi storici che hanno visto Roma protagonista sono dunque qui ripercorsi  senza dimenticare che qualunque tentativo di riassumere la storia della città – specie in un numero tutto sommato esiguo di pagine – resta sempre parziale e opinabile.

   Anche raccontandone la storia, Roma resta per coloro che la visitano e per coloro che la abitano, un mistero, custodito dalle sue stesse pietre millenarie. Questo tutto sommato è confortante anche per chi cerca, oggi, di raccontarla.  Perché, come scriveva Ferdinand Gregorovius nel 1870, “Roma è silenziosa e pesante, come fuori dal mondo, come intrecciata in se stessa e incantata. Lo scirocco persiste. I momenti più drammatici del tempo cadono qui senza eco, come nell'eternità.”

 



01/07/20

I meravigliosi Sotterranei di Napoli - Un tesoro da scoprire



I sotterranei di Napoli 


Esiste come è noto una vasta mitologia, antica e moderna, legata ai sotterranei di Napoli. Una delle città più affascinanti del mondo, oggi divenuta tentacolare, dallo sviluppo urbanistico e edilizio spaventoso, ormai giunto ad aggredire anche lo stesso minaccioso nume che la domina – il Vesuvio – nasconde nelle sue viscere un’altra città altrettanto caotica ed estesa: un vero e proprio labirinto di profondissime gallerie, cunicoli, grotte, ipogei che costellano gran parte del territorio e che ne costituiscono una specie di tessuto invisibile, propizio per la generazione di leggende, miti, tradizioni legate alla magia bianca e nera, in una città del resto già secolarmente predisposta al culto della superstizione e del soprannaturale.

Questa Napoli sotterranea ha in realtà origini antichissime, che sono quasi del tutto coeve con i primi insediamenti umani: le datazioni al radiocarbonio degli archeologi hanno permesso di stabilire che alcune prime cavità furono scavate cinque o sei millenni prima di Cristo, in epoca preistorica. 

Non sappiamo bene che cosa spinse quegli uomini, originariamente a proiettarsi nelle profondità di quel territorio. Sicuramente uno dei motivi che favorì questa attività fu la relativa permeabilità del suolo, la sua natura lavica o tufacea, che permetteva piuttosto facilmente di penetrarla. 

C’era sicuramente, all’origine, insieme alle pratiche di inumazione delle popolazioni preistoriche, la necessità di preservare i corpi dei familiari morti. E di venerarli post-mortem. Insieme a questa prima funzione cultuale, però, cominciò ben presto anche la pratica estrattiva: già nel III e nel II secolo a.C. i greci cominciarono a scavare nel sottosuolo per ricavare i grandi blocchi di tufo necessari alla fondazione della loro colonia, Neapolis, che prese il posto della cumana Partenope, fondata addirittura nell’viii secolo a.C. 

Ma il vero massiccio lavoro di scavo dei cunicoli della Napoli sotterranea fu sostenuto dai romani, i quali anche in questa occasione dimostrarono la loro incredibile perizia ingegneristica, soprattutto per quanto concerne l’approvigionamento idrico.  

Alcuni degli ipogei che oggi sono visitabili – come la grotta di Seiano o la grotta di Cocceio – testimoniano di una attività inesauribile, sempre alla ricerca di risorse idriche – come quelle del fiume Serino – che venivano convogliate e utilizzate a uso e consumo degli abitanti della ricca colonia romana. 

La manifestazione più alta di questa capacità ingegneristica è costituita proprio dalla cosiddetta Piscina mirabilis, un’enorme vasca costruita a Miseno che con i suoi imponenti quarantotto pilastri cruciformi, garantiva la riserva d’acqua – ben 13.000 metri cubi – per le navi della flotta romana che scandagliavano in lungo e in largo il Mediterraneo. 

Ma l’attività di perforazione del sottosuolo napoletano proseguì incessantemente, nei secoli, trasformandosi in un’opera immane di scavo che aggiunse agli originari scopi di approvvigionamento idrico, altre e più complesse funzioni, fino a realizzare un mostruoso reticolo di condotti – alcuni dei quali sufficiente a malapena per far  passare un uomo – che si ritiene abbia circa due milioni di metri quadri. Una percezione di questa opera – sedimentata in strati diversi, l’uno sull’altro – si ha visitando per esempio gli scavi della basilica di San Paolo Maggiore, uno dei monumenti più insigni di Napoli, costruita sui resti di una agorà greca nella odierna piazza San Gaetano. 

Lì, scendendo ben quaranta metri sotto il livello stradale attuale, in una lunga teoria di gradini e rampe, si possono toccare con mano i diversi livelli di reticoli sotterranei – diversi anche nella realizzazione e nelle tipologie – che conducono fino ai cunicoli d’epoca romana, culminanti nei magnifici resti del teatro romano di Neapolis. 

È soltanto una piccolissima porzione di quel mondo nascosto che volenterose associazioni di speleologi locali sta ancora tentando di esplorare compiutamente e di mappare: non è semplice, visto che è stata appurata l’esistenza di cunicoli lunghi chilometri in grado di mettere in comunicazione punti molto distanti della città. 

Per capire come fu possibile questo dobbiamo appunto procedere in avanti con la storia e comprendere come, alla funzione relativa prima alla sepoltura e poi all’ingegneria idraulica, se ne aggiunsero presto altre: le cavità sotterranee di Napoli, ad esempio, svolsero un ruolo importante nella spaventosa epidemia di peste, che nel 1656 si abbatté sul capoluogo campano e sul Regno di Napoli, mietendo, soltanto nella città, qualcosa come 200.000 vittime in pochi mesi. 

Tra le ragioni che scatenarono il rapidissimo diffondersi del morbo vi fu anche e soprattutto la sovrappopolazione della città e le pessime condizioni igieniche. Nel 1631 un’improvvisa e terribile eruzione del Vesuvio – che aveva ricordato a quelle popolazioni il ricordo ancestrale del disastro di Pompei – aveva causato la fuga di migliaia di persone che si erano rifugiate in città, credendo di trovare un sicuro riparo. 

Le risorse idriche risultarono ben presto insufficienti e i moti che instaurarono la Repubblica napoletana nel 1647 diedero il colpo di grazia, favorendo la diffusione della malattia, forse introdotta da alcune navi che provenivano dalla Sardegna. Nell’anno della peste, i cunicoli sotterranei di Napoli svolsero un ruolo molto importante: dapprima in esso prese a rifugiarsi parte di quella popolazione sfollata a causa della eruzione del Vesuvio. In seguito alla diffusione della epidemia, in molti credettero di poter scampare al morbo, resistendo al chiuso dei cunicoli e delle grotte sotterranee. 

Ma la peste si diffuse presto anche lì e gli stessi cubicoli finirono per diventare ossari dove venivano deposti i corpi degli appestati, cosparsi da uno strato di calce. Un esempio di questa funzione è la cosiddetta, leggendaria grotta degli sportiglioni cioè “dei pipistrelli”, ubicata al di sotto della odierna chiesa di Santa Maria del Pianto, nucleo originale del cimitero di Poggioreale

La grotta, che non è stata ancora localizzata nonostante le molte ricerche degli anni passati, è il classico esempio del diverso utilizzo delle cavità sotterranee di Napoli, dapprima usata per la ricerca di risorse idriche, poi come ricovero o nascondiglio (fu anche usata dalle truppe francesi del capitano Lautrec nel 1528), infine come ossario e sepoltura degli appestati partenopei.


Fabrizio Falconi

Il racconto continua su:


08/01/20

La versione integrale dello Speciale "Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi andato in onda ieri sera



Al link sottostante la versione integrata dello speciale sui "Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi andato in onda su Italia Uno ieri sera alle 18.50.

Si tratta di una cavalcata notturna sui luoghi di Roma che raccontano le millenarie storie dei fantasmi della città. 

Ispirate al libro omonimo, scritto per Newton Compton e più volte ristampato. 

Per vedere la puntata CLICCA QUI:


https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/studioaperto/i-misteri-di-roma_F310140601014C10

04/05/19

Lunedì prossimo, 6 maggio, Conferenza di Fabrizio Falconi su "I Fantasmi di Roma".




In bilico tra storia cittadina millenaria, tradizioni, credenze, archeologia e aneddotica, Lunedì prossimo, 6 maggio, alle ore 16.30 a Roma presso L'Incontro, Via Cortina d'Ampezzo 144, la Conferenza di Fabrizio Falconi (con molte foto) sui Fantasmi di Roma, con le storie che fanno parte del volume omonimo ristampato nella nuova edizione e in tutte le librerie.

L'ingresso è libero.



20/03/19

Le mille storie della Tomba di Giulietta a Verona - (da "Monumenti Esoterici d'Italia" in ristampa dal prossimo 18 aprile in Libreria)



Torna in tutte le librerie dal prossimo 18 aprile Monumenti Esoterici d'Italia di Fabrizio Falconi, appena ristampato da Newton Compton Editore. 
Riporto uno stralcio di uno dei capitoli, dedicato alla Tomba di Giulietta a Verona. 

D’altro canto è pur vero che molte delle vicende narrate nelle opere di Shakespeare ambientate in Italia erano già note in Inghilterra grazie alla diffusione in quel paese della novellistica italiana. In particolare per quanto riguarda Romeo e Giulietta, la derivazione diretta fu senz’altro quella dalla Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, nella quale nel 1530 il vicentino Luigi da Porto riprendeva la tradizione delle due famiglie in lotta, che risaliva addirittura a Dante e alla Divina Commedia (Purgatorio, canto VI, verso 105), spostandone l’ambientazione da Siena a Verona.  

La versione di Luigi da Porto fu poi consegnata definitivamente alla popolarità dalla rielaborazione che ne fece Matteo Bandello, nelle sue Novelle, pubblicate nel 1554.
La lunga premessa – necessaria – sulla identità reale dell’uomo che scrisse la tragedia e sulle fonti, più o meno misteriose, che la ispirarono, ci porta ora sui luoghi reali della vicenda narrata da Shakespeare e che come abbiamo visto all’inizio del capitolo, sono oggetto del culto e della venerazione degli innamorati ancora oggi.

Se dunque, l’identificazione del Cortile del Palazzo di Giulietta, gode di alcuni argomenti favorevoli, dovuti in particolare alla presenza dello stemma del cappello – che ancora oggi si può scorgere -  sulla chiave di volta dell’arco di entrata del cortile (il cappello rimanderebbe dunque al giusto cognome della famiglia, che è quello riportato da Dante nella Divina Commedia, ovvero Cappelletti e non Capuleti), il cosiddetto sarcofago di Giulietta appartiene ad una tradizione che ha molto o quasi tutto di leggendario e che però non smette di incuriosire.

Innanzitutto c’è da dire che all’epoca dei fatti raccontati dal dramma Shakespeariano, nella Verona del Trecento, ai suicidi – ed è questo il caso della Giulietta dei Cappelletti – venivano negati i riti e la sepoltura ecclesiastica.  E’ dunque assai improbabile – anche se si può pensare ad una eccezione concessa per rango -  che alla giovane fosse stata riservata una tumulazione così solenne. 

La sistemazione del sarcofago non è comunque quella originaria.  Il convento di San Francesco, oggi adibito a Museo degli affreschi, dispone di un sotterraneo dove al centro di una artefatta cripta è posizionato il sarcofago in marmo rosso, senza coperchio e con i bordi superiori completamente abrasi, senza nessuno stemma gentilizio o iscrizione.

La leggenda vuole che l’urna fosse in origine, sin dalla fine del Trecento, posta nel chiostro del Convento, ma profanata già in epoca cinquecentesca: per stroncare il culto profano dei due amanti disgraziati, infatti,  sembra che i cappuccini decisero di aprire il sarcofago e, dopo aver disperso le ossa in una tomba comune, di adibirlo a cisterna per l’acqua del pozzo. 

L’escamotage, però non riuscì a frenare la crescente popolarità del mito di Giulietta e della sua presunta sepoltura, che si accresceva nei secoli con la fortuna della tragedia shakespeariana e delle sue infinite repliche e versioni, in tutta Europa.

Il sarcofago di Giulietta, quello che veniva indicato come tale, rimase oggetto di un pellegrinaggio continuo da parte di personalità illustri, che di passaggio a Verona, chiedevano ai francescani di poter ammirare i resti materiali di quella nobile leggenda.

Transitarono così davanti al mitico sepolcro, l’imperatrice Maria Luisa d’Austria,  duchessa regnante di Parma e Piacenza che nel 1822 pretese addirittura di farsi realizzare alcuni monili con i frammenti di marmo prelevati dal sarcofago o Lord Byron, che rimase colpito dallo squallore e dall’abbandono di quel sepolcro (8), che divenne ancora più evidente dopo che le ultime suore francescane abbandonarono definitivamente il convento nel 1842. All’epoca di Charles Dickens, come si ricava dalle sue memorie italiane, il sarcofago era ormai ridotto ad essere un semplice abbeveratoio.

Fu soltanto nel secolo scorso e precisamente nel 1910 che l’urna – per intervento della Congregazione della Carità che aveva preso possesso del complesso - fu finalmente spostata e sottratta alla rovina e alle intemperie, ponendola accanto ad un busto dedicato a Shakespeare.

La sistemazione definitiva del sarcofago si deve al direttore dei musei veronesi Antonio Avena che dopo aver subodorato l’affare – era stato scritturato come consulente nel 1936 dalla Metro Goldwyn Mayer per il kolossal Romeo and Juliet diretto da George Cukor, ma il film poi non fu girato nei luoghi originali – decise di sistemare il sepolcro marmoreo in una cornice scenografica adeguata, cioè in una falsa criptacon tanto di lapidi pavimentali autentiche - realizzata ad hoc nei sotterranei del complesso dell’ex convento.

Nell’assenza comunque di uno scheletro, dei resti di un corpo reale riferibile a Giulietta – c’è anche chi propone di svolgere una indagine a tappeto presso le fosse comuni dei francescani, impresa ovviamente improba e impraticabile – la sfortunata erede della famiglia dei Capuleti continua a inquietare i sonni di quei luoghi che la videro protagonista, nella realtà e soprattutto nella finzione shakespeariana. 

A parte fenomeni folkloristici, come quello di un mago che qualche anno fa pretese di far riapparire dal nulla Giulietta in carne e ossa, nel cortile del Castello di Montecchio Maggiore e il fantasma della giovane Capuleti fa di tanto in tanto capolino nelle cronache locali veronesi.  Ancora più radicata è invece la tradizione legata al fantasma di Luigi da Porto, che a quanto pare scrisse la sua novella, fonte diretta per la ispirazione di Shakespeare, nella quiete della sua dimora di campagna a Montorso Vicentino, nella valle del Chiampo.  Dove sorgeva la casa colonica oggi esiste una villa palladiana, e della casa dei fattori, dalla quale lo scrittore ammirava i due castelli di Montecchio Maggiore (che gli ispirarono la faida tra le due famiglie), restano soltanto pochi resti.  Ciò nonostante qui pare aggirarsi il fantasma di da Porto,  con gli abiti d’epoca e i terribili segni di quella ferita di guerra che aveva sul volto: c’è chi giura di averlo visto sostare, nelle notti d’estate, ai piedi della salita, in quell’angolo che sembra fosse il suo favorito,  e sospirare ancora per la verginea bellezza della sua Giulietta e per il suo infelice destino.





26/11/17

I Fantasmi di Roma: Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito.



Storia infelice di Berenice, l’amante dell’imperatore Tito, e del suo fantasma

      Un fantasma romano molto popolare è quello di Berenice.
      E il suo luogo di elezione sembra essere il Portico d’Ottavia, a Roma, in quello stretto dedalo di vicoli e strade che si snodano tra il quartiere del vecchio Ghetto ebraico – il più antico d’Europa – e la Via del Teatro Marcello, alle spalle.  In particolare, il fantasma di Berenice pare scelga di manifestarsi proprio tra i ruderi romani sparsi in terra nello spazio antistante il teatro che fu dedicato nell’anno 13 a.C.  al generale Marco Claudio Marcello, nipote di Augusto (era infatti il figlio della sorella, Ottavia).

      Ma chi era Berenice ?
   
     La fortuna letteraria di questo personaggio è legata soprattutto, ovviamente, alla storia del teatro, e in specie al testo che a lei dedicò, nel 1670, Jean Racine, uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi.
      Di Berenice, della vera Berenice, sappiamo che nacque nel 28 d.C. in Asia Minore,  e che era la figlia di Erode Agrippa, detto il Grande, che fu quel membro della dinastia dei re di Giudea che più ebbe contatti con il mondo romano, visto che fin da giovanissimo fu inviato nella capitale dell’Impero e divenne intimo dello stesso imperatore (Tiberio). 
      
     Berenice doveva essere davvero bellissima se è vero che a vent’anni era già stata sposata due volte, e alla morte del secondo marito – che era nientemeno che lo zio paterno -  si trasferì in Grecia, alla corte del fratello Agrippa II.   Ma anche in questo nuovo ambiente, decisamente più sofisticato del precedente, Berenice trovò il modo di ritrovarsi al centro di un nuovo scandalo, e per mettere fine alle voci di un incesto con il fratello, accettò di sposare il Re di Cilicia Polemone, molto più anziano di lei,  che la riportò in Asia Minore. 
      Ma il temperamento irrequieto di Berenice la portò ben presto a stancarsi di Polemone e della sua noiosa corte: riuscì a fuggire, e tornò nuovamente dal fratello.
      
      Ed è a questo punto della storia che nel cuore di quella che già era definita una meretrice si fece largo addirittura il nuovo imperatore di Roma, Tito, salito al potere nel 79 d.C. alla morte del predecessore, il padre Vespasiano.

     In realtà la tresca amorosa tra Tito e Berenice era cominciata ben prima della morte di Vespasiano,  allorquando l’imperatore aveva mandato proprio il suo prediletto figlio, Tito, che era stato allevato ai più nobili principi ed era un esempio di moderazione, in Palestina, per sedare le rivolte che erano scoppiate. Tito diede alle fiamme Gerusalemme, dove si erano asserragliati gli ebrei, distruggendo completamente il Tempio, e ottenne una vittoria completa.
     
      Quando tornò in patria, trovò che suo padre gli aveva preparato un tributo eccezionale (con l’erezione del celebre Arco che ancora fa mostra di sé nel foro Romano), ma l’anziano genitore rimase interdetto quando si accorse che il valoroso figlio attraversava l’Arco, tra le grida osannanti del Popolo Romano, portando al braccio una preda bellica imprevista, e cioè proprio quella bellissima principessa ebrea – Berenice -  che già numerosi cuori aveva infranto dall’altro lato del Mediterraneo, ma che aveva ben ventuno anni più di suo figlio.
      
       
Uno scandalo in realtà non v’era, perché questa di presentare le proprie conquiste amorose – specie se di rango regale – non era inconsueto per un comandante militare.  Il problema sorse però quando Tito comunicò al padre che non intendeva semplicemente inserire la nuova fiamma nell’elenco delle concubine, ma voleva addirittura sposarla, cioè inserire un’estranea nella linea di successione imperiale.  La vicenda divenne esemplare quando Vespasiano – ripetendo un copione consueto dei padri – cercò in ogni modo di convincere il figlio, adducendo anche la propria esperienza personale: anche lui, rimasto vedovo, aveva ceduto alle grazie di una concubina, ma s’era ben guardato dall’idea di sposarla. In questo caso poi, si trattava di un ebrea e la faccenda era ancora più grave.
           
          I dubbi e le insinuazioni paterne si unirono alle malelingue di corte, alle calunnie interessate, ma per qualche tempo non ottennero risultati e Berenice rimase al suo posto.  Soltanto, però, fino alla morte dell’imperatore Vespasiano: forse in un rigurgito di riconoscenza filiale, Tito, divenuto imperatore, trovò la forza di sottrarsi alla schiavitù amorosa impostole dalla bella e appassionata Berenice, e la cacciò – in omaggio alla ragion di stato – da Roma.  L’infelice, a quanto pare, stremata dai suoi tiramolla per sposarla, aveva finito anch’essa per disamorarsi del suo compagno, e come sintetizza eloquentemente Svetonio, Berenice statim ab urbe dimisit, invitus, invitam, ovvero Tito una volta diventato imperatore, controvoglia allontanò da Roma Berenice che anch’essa non lo voleva.    
      
      La vicenda di questo amore contrastato, che ripercorre l’antico tema del conflitto tra sentimento e doveri,  trovò come abbiamo detto in Racine un cantore memorabile, il quale rovesciò completamente gli stereotipi su Berenice, omettendo del tutto i suoi trascorsi scandalosi e incestuosi, trasformandola in un personaggio totalmente virtuoso, inventando un triangolo amoroso con il principe Antioco, re di Comagene (regione meridionale dell’Anatolia),  e facendone una vittima della bruta ragion di stato.   Nelle memorabili scene finali del dramma scritto da Racine, le reciproche minaccie di suicidio di Tito, di Antioco e di Berenice, finiscono in un nulla di fatto, e i tre decidono di accettare la volontà superiore e di separarsi, sacrificando totalmente l’amore, o quel che ne resta.
      
        È dunque senza alcun dubbio questo elemento romantico ante litteram, ad aver alimentato la leggenda dell’esistenza del fantasma di Berenice che ancora aleggerebbe sulla città di Roma: perché se quella dolorosa separazione fu accettata obtorto collo in vita,  essa brucerebbe ancora nell’intreccio delle anime.  E questo spiega perché la caratteristica attribuita al fantasma di Berenice sia proprio quella di manifestarsi nella zona del Portico d’Ottavia – non è un caso che la tradizione popolare abbia scelto questa zona, dunque,  ricordando le origini ebree della principessa -  per cercare di incontrare nuovamente il suo amante, l’imperatore Tito, e ottenere un tardivo risarcimento a quella inopinata cacciata.

       Il Portico d’Ottavia però, è legato strettamente anche al simbolo del potere esercitato da Tito, e quindi è davvero lo scenario perfetto per le ansie notturne del fantasma di Berenice:  è proprio in questo luogo infatti,  raccontano le cronache dell’epoca, che nel 71 d.C.  Tito e suo padre si presentarono dei tradizionali vestiti di seta color porpora, e con la corona d’alloro sul capo, circondati dai membri del senato e dai più alti magistrati, per ricevere l’omaggio delle truppe prima di iniziare il sacrificio  e la processione trionfale davanti a tutto il popolo di Roma festante.
      Per questo, sembra dire il fantasma di Berenice, per questo potere, oggi divenuto rovina,  tu mi hai sacrificato.











31/10/17

I resti della grandiosa Meridiana di Augusto nelle cantine dei palazzi di San Lorenzo in Lucina !




I resti della grandiosa Meridiana di Augusto nelle cantine dei palazzi di San Lorenzo in Lucina

Nel 1457 il cardinale allora titolare della chiesa di San Lorenzo in Lucina, Filippo Calandrino, fu involontariamente protagonista di una delle scoperte più stupefacenti della storia archeologica di Roma. Durante i lavori di ristrutturazione delle fondamenta del palazzo Fiano-Almagià, (sulla piazza di San Lorenzo in Lucina, alla sinistra della chiesa) e di erezione della cappella dei Santi Filippo e Giacomo (l’attuale sacrestia della chiesa), infatti, venne in luce, a otto metri di profondità rispetto al piano stradale attuale, un intero settore dell’horologium fatto costruire dall’imperatore Augusto nel 10 a.C.: una delle più grandiose opere della Roma antica, che originariamente misurava ben centosessanta metri per settantacinque.


Di questo prodigio, meraviglioso e ancora in parte misterioso, si erano perse, nei secoli, le tracce. 
Quella zona, infatti, sulla quale si erano sedimentate le sabbie melmose portate da numerose inondazioni del Tevere, si era densamente popolata in epoca medievale. 

La scoperta, compiuta dai picconatori del cardinale Calandrino, suscitò l’enorme entusiasmo degli antiquari, tra cui Pomponio Leto, il quale ne lasciò memoria nei suoi appunti.
L’episodio, accaduto in epoca rinascimentale, fa il paio con una molto più recente e altrettanto clamoroso, risalente al 1979, quando a pochi metri di distanza dalla chiesa di San Lorenzo in Lucina, nelle cantine di una casa in via di Campo Marzio, al civico numero 48, sotto uno strato di dieci centimetri d’acqua, affiorò un’altra grande porzione di quell’orologio: maestose lastre di travertino, lunghe più di dieci metri, sulle quali sono chiaramente visibili le tacche di bronzo della Meridiana, con le riproduzioni dei segni zodiacali di Ariete, Toro, Leone e Vergine e le grandi scritte in lettere greche (vedi foto in testa al testo).


Visitando oggi questo luogo segreto e misterioso, si può avere un’idea della grandiosità dell’opera immaginata da Augusto e realizzata dal matematico Facundus Novius (della cui vita non sappiamo quasi nulla).
Come è noto, sovrapposto al grande horologium vi era l’obelisco fatto trasportare dall’imperatore dall’Egitto e attualmente posizionato sul piazzale di Montecitorio, di fronte all’edificio che ospita oggi la Camera dei deputati.
L’obelisco era stato cavato dalle montagne di Assuan, eretto dal faraone Psammeticoii  nel sesto secolo a.C. e portato da Augusto a Roma, insieme a quello Flaminio (oggi in piazza del Popolo) per celebrare la conquista dell’Egitto.



Augusto lo fece erigere all’altezza del  civico 3 dell’attuale piazza del Parlamento (dove ancora oggi una targa testimonia l’antica collocazione) sul suo basamento originale, apponendovi l’iscrizione “Soli donum dedit” , presente anche sull’analogo monumento al Flaminio.

Nel 1792, rappezzato con il granito rosso ricavato dalla distruzione della Colonna Antonina, fu spostato nella sede definitiva.

L’obelisco aveva dunque la funzione di gnomone, cioè di ago indicatore: il raggio solare intercettava un globo dorato posto a ventinove metri di altezza, sulla sommità del monolite, che proiettava l’ombra della sfera sul quadrante monumentale, indicante il giorno dell’anno e il mese, il segno zodiacale e l’ora, gli equinozi e i solstizi.

Una dettaglio stupefacente di quest’opera era la meridiana, costruita in modo tale che al tramonto del 23 settembre di ogni anno, giorno e ora della nascita dell’imperatore, la luce solare proiettasse l’ombra della sfera esattamente sull’Ara Pacis, l’altare voluto dallo stesso imperatore nella medesima zona del Campo Marzio.



Questa meravigliosa invenzione restò in funzione, purtroppo, soltanto per poco più di cinquant’anni. Come racconta Plinio,infatti, fu distrutta prima da un terremoto e poi dalle inondazioni del Tevere.


È bene anche segnalare come il globo di bronzo originale sia andato perduto. Quello forato, realizzato con lo stesso materiale e recante gli stemmi araldici di papa Pio vi, che attualmente sovrasta il monumento in piazza Montecitorio, è un’invenzione degli astronomi settecenteschi, ed è stato ideato sulla base delle ipotesi antiche, il più vicino possibile cioè a quello che si ritiene fosse l’originale. 


Fabrizio Falconi, tratto da: Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editori, Roma, Roma rist.2017.

31/08/17

Il Cenacolo di Leonardo - Un mistero senza fine.




..... Un Leonardo regista ante litteram, che costruisce e mette in scena le sue visioni, attingendo a figure simboliche e ad espressioni umane a lungo studiate, le quali ri-velano le profondità recondite dell’animo umano e i destini personali.
Basandosi su questo, un ricercatore spagnolo, Javier Serra (1) è giunto recentemente ad elaborare un’altra sorprendente teoria che riconduce l’origine del Cenacolo all’ars memoriae, quella disciplina antica basata sulla prevalenza della memoria visiva rispetto a quella concettuale, che permetteva di memorizzare parole o frasi – e quindi contenuti – associandole ad immagini successive raggruppate in un unico luogo.  Assegnando a ciascuno oggetto di una abitazione, per esempio, una parola e imprimendo nella memoria il percorso in quella casa, lo scorrere di determinati oggetti o figure, si poteva riannodare il filo di una lunga frase o di un elenco di molte parole diverse.  
Il metodo poteva poi essere applicato a luoghi simbolici più grandi come edifici sacri, facciate di cattedrali, o opere d’arte con molte figure.
Attraverso questo metodo – con certezza Leonardo era un appassionato cultore dell’ars memoriae – Serra ha scoperto una parola criptata nel Cenacolo vinciano, che si ricaverebbe dalle iniziali delle diverse virtù attribuite ai dodici apostoli sulla base della Leggenda Aurea, la raccolta medievali delle vite dei santi, scritta alla fine del Duecento dal frate domenicano Jacopo da Varagine.
Seguendo dunque l’ordine predisposto da Leonardo, in cui figurano i 12 apostoli, da destra a sinistra nell’affresco, si leggerebbero le dodici virtù: Confector, cioè colui che porta a termine, attribuito a Simone; Occultator, colui che nasconde per Giuda Taddeo; Navus, cioè il diligente, per Matteo; Sapiens, cioè il sapiente per Filippo; Oboediens ovvero obbediente per Giacomo; Litator, colui che placa gli dèi per Tommaso; Mysticus, cioè il mistico per Giovanni; Exosus, colui che odia, per Pietro; Nefandus, l’empio, per Giuda Iscariota; Temperator, il moderatore, per Andrea;  Venustus, cioè pieno di grazia per Giacomo il minore; Mirabilis, cioè il prodigioso per Bartolomeo. 
Le dodici lettere iniziali delle dodici virtù, lette in questa sequenza, formerebbero dunque la parola Consolamentum.
Consolamentum è il battesimo dei Catari, il movimento eretico, detto anche degli Albigesi,  che si diffuse in Europa nel Duecento e nel Trecento e che fu combattuto ferocemente dalle gerarchie cattoliche con la sanguinosa crociata indetta da Innocenzo III nel 1208, causando massacri in Provenza e nella Linguadoca.
I Catari rimproveravano al clero la sua corruzione ed auspicavano il ritorno della Chiesa alla primitiva purezza. Questo credo, nella sua radicalità,  comportava una serie di conseguenze, come il rifiuto di tutte le autorità, considerate emanazioni del demonio, compreso il potere della Chiesa di Roma.
Ma perché Leonardo avrebbe dovuto inserire la parola chiave del battesimo cataro nel Cenacolo ?
Secondo Serra, il grande Da Vinci, durante il suo soggiorno alla corte degli Sforza si sarebbe avvicinato alle conoscenze e ai dogmi dei catari, i quali, dopo gli stermini medievali, sopravvivevano in ristrette comunità, una delle quali attiva ancora nel Rinascimento nella zona di Concorezzo. In effetti questa cittadina oggi in provincia di Monza era stata sede di una delle sei chiese catare d’Italia, con più di 1500 perfetti (coloro che avevano rinunciato a qualsiasi forma di proprietà e vivevano soltanto di elemosina) su un totale di meno di 4000 per tutta l’Europa. E non è un caso che il clamoroso assassinio del frate domenicano Pietro da Verona, inquisitore di Como e Milano, ucciso nel 1252 dal sicario cataro Carino de Balsamo fosse stato organizzato proprio da un alto esponente della chiesa catara di Concorezzo,  il nobile Stefano Confalonieri di Agliate.
La reazione a questo assassinio fu durissima e anche in Italia si ripeterono stragi di catari e di eretici organizzate dal Podestà di Milano, Oldrano da Tresseno.
La principale obiezione alla teoria di Serra è dunque che il catarismo italiano, come anche quello francese, era stato estirpato a furia di eccidi ed è davvero molto arduo sostenere che all’epoca di Leonardo fossero ancora presenti comunità così radicate, in grado di avvicinare e influenzare un grande artista, ospite della corte degli Sforza.
Obiezioni ancora più radicali sono state mosse all’ultimo dei libri dedicati al Cenacolo, quello scritto dal canadese Ross King nel 2012, e che si basa sulla presunta scoperta di un doppio autoritratto: Leonardo, secondo questa teoria, avrebbe ritratto se stesso nei volti degli apostoli Tommaso e Giacomo minore. 

La prova, secondo King, risiederebbe in un carme poco noto scritto da Gaspare Visconti, signore di Zeloforamagno, consigliere di Ludovico il Moro, e amico di Leonardo, nel quale il poeta prendeva bonariamente in giro l’amico pittore (del quale non si fa il nome) per aver messo il suo ritratto nei suoi dipinti per quanto bello possa essere. L’autore, poi, per suffragare la scoperta tira in ballo anche un altro ritratto di Leonardo, realizzato a seppia da uno dei suoi assistenti nel 1515. (2)
Davvero molto poco per imbastire chissà quale mistero.
Eppure il Cenacolo, insieme al suo contenitore, il refettorio di Santa Maria delle Grazie restituito al suo aspetto originale dai meticolosi restauri del Novecento, continua a richiamare folle di visitatori da tutto il mondo (è secondo le ultime statistiche, relative al 2010, il quarto museo o sito artistico/archeologico più visitato in Italia) e a suscitare le più diverse teorie e interpretazioni.
Come abbiamo visto in questo rapido excursus, gli ingredienti ci sono tutti: il genio di Leonardo, il contesto religioso dell’epoca, le implicazioni teologiche del convento, le intenzioni dei committenti, gli studi e gli appunti del Da Vinci contenute nei fogli di Windsor,  le dimensioni dell’opera, il disegno e le attribuzioni dei personaggi, oltre alla scelta del soggetto.
Una domanda tra tutte, quella che forse più di ogni altra, ha dato adito alle teorie esoteriche più spericolate: perché, se Leonardo ha voluto rappresentare l’Ultima Cena di Gesù Cristo, come momento fondativo del Cristianesimo, così come raccontato nei Vangeli, ha dimenticato di inserire, accanto al pane, il calice del vino simbolo dell’Eucarestia, il cui rito si ripete ad ogni celebrazione, da due interi millenni ?
E’ stato semplice alludere, con superficialità, al mistero del Santo Graal e alla caccia che ad essa hanno dato nei secoli cavalieri e archeologi dell’intero Occidente. Come se Leonardo avesse voluto proporre, con la sua assenza dalla scena, un significato nascosto e rivolto soltanto a potenziali adepti di chissà quale culto misterico.
Eppure anche qui basterebbe leggere con attenzione i testi e i documenti per scoprire che la scelta di Leonardo fu motivata semplicemente dal Vangelo che egli scelse – come abbiamo visto – come riferimento per ritrarre la scena, ovvero quello di Giovanni, che a differenza dei tre sinottici, non fa riferimento alcuno al calice e non riporta la frase: Poi prese il calice e dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: bevetene…

Anche qui, dunque bisogna forse, prima di sbrigliare la fantasia, ammirare il rigore inimitabile di coloro che, come Leonardo, resero l’arte italiana, nei fasti del Rinascimento, immortale nel mondo. 



1. La teoria di Javier Serra è proposta nel libro La cena segreta, pubblicato in italia da Tropea editore, 2005.
2. Ross King, L’enigma del Cenacolo, Rizzoli, Milano, 2012.

15/08/17

Ferragosto macabro: 1503, la terribile inumazione di Papa Borgia - Alessandro VI.




In una collezione di personaggi famosi maledetti a Roma – intorno ai quali sono sorti racconti di apparizioni post-mortem – non potevano e non possono mancare i rappresentanti della famiglia Borgia, o meglio Borja come sarebbe più corretto chiamarli visto che Rodrigo de Borja (quarto papa spagnolo della storia) eletto al soglio pontificio col nome di Alessandro VI, apparteneva come lo zio, Callisto III (al secolo Alonso de Borja) ad una potente famiglia originaria di Xàtiva, a 50 chilometri da Valencia. 

Eletto cardinale giovanissimo, a venticinque anni, grazie ai potenti influssi dello zio, Papa Callisto III, Rodrigo fu eletto papa nella notte tra il 10 e l’11 agosto del 1492 (due mesi esatti prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo) , quando aveva già 61 anni. 

All’epoca della sua elezione, Rodrigo era già un personaggio leggendario, a Roma. Dissoluto e libertino, asservito in ogni modo ai piaceri della carne, il futuro Papa aveva già messo al mondo una schiera di figli, tutti illegittimi, e – cosa ancora più grave per un ecclesiastico, ma certamente non rara all’epoca – si era disinvoltamente prestato alla simonia, cioè alla compravendita di cariche ecclesiastiche e della pratica delle indulgenze e delle assoluzioni. Queste cattive abitudini peggiorarono, anziché migliorare, una volta ottenuta la nomina papale

Ebbe altri due figli illegittimi dall’amante, ed esercitò uno spietato nepotismo per garantire ogni sorta di immunità e di potere per il figlio Cesare, detto Il Valentino, uomo particolarmente avido, violento e senza scrupoli, al quale il padre costruì un regno su misura, permettendogli la conquista di città e signorie in Italia, con l’aiuto perfino del nemico storico del papato, l’imperatore Carlo VIII di Francia. 

In questo modo Rodrigo-Alessandro VI riuscì nell’intento di farsi odiare dal popolo di Roma – arringato dalle piazzate del frate domenicano Girolamo Savonarola, che per la sua pubblica denuncia finì per essere arso vivo a Firenze nel 1498 - e dalla corte dei nobili che non vedevano l’ora di sbarazzarsi di un despota di tali dimensioni, sfacciatamente arrogante nella esibizione del lusso e della corruzione, adottata come lingua ufficiale dello Stato, e usata soprattutto per favorire la parte spagnola della corte papale

 Odio e maldicenza nei confronti del Papa si trasmettevano inevitabilmente anche ai suoi figli, soprattutto a Cesare e a Lucrezia, sul conto della quale – nata a Subiaco nel 1480 dalla relazione clandestina di Rodrigo con Vannozza Cattanei – cominciò a circolare ogni sorta di leggenda nera, compresa quella che la vedeva protagonista di vere e proprie orge incestuose, insieme al padre e al fratello. 

 In realtà molti testi recenti hanno riabilitato la figura di Lucrezia, delineando la figura di una donna più vittima degli eventi che realmente depravata: andata in matrimonio a soli tredici anni a un Conte, e dichiarato il matrimonio nullo, Lucrezia si sposò a diciotto con Alfonso, figlio del re di Napoli. Alfonso fu brutalmente ucciso per ordine di Cesare Borgia, forse geloso della sorella, o forse semplicemente desideroso di utilizzare nuovamente Lucrezia come pedina di scambio per i suoi desideri di conquista: cosa che puntualmente avvenne con un terzo matrimonio, stavolta con Alfonso I d’Este. 

Il terzo matrimonio fu anche l’ultimo: Lucrezia morì a Ferrara, a soli 39 anni di età, per una febbre infettiva. 

 Il grande caos messo in piedi da Alessandro VI, e dalla sua dissoluta famiglia, come si vede, autorizzava pienamente i nemici a tentare di escogitare ogni mezzo possibile per liberarsi del papa-tiranno. 

 Ciò che alimentò per molto tempo, e per i secoli a venire – anche se oggi la circostanza è oggetto di forte discussione tra gli storici - la voce che la fine stessa del Papa fosse dovuta ad un avvelenamento. 

Un avvelenamento che in realtà era stato, secondo il racconto, organizzato dallo stesso Alessandro VI ai danni di un cardinale nemico, durante un convivio, ma che per errore aveva finito per ritorcersi contro lo stesso Papa, e contro il figlio Cesare (miracolosamente sopravvissuto) per un banale scambio di calici

 Avvelenamento che fosse – o semplice malaria come si sospetta oggi – il Papa cadde malato l’11 agosto del 1503

 L’11 doveva essere il suo numero fatale: l’11 agosto, infatti era stato eletto, 11 agosto il giorno della malattia letale, e 11 anni esatti, dunque, la durata del suo Regno pontificio.

La malattia del Papa tiranno, come raccontano le cronache dell’epoca, assunse da subito contorni macabri: vi fu chi affermò recisamente di aver visto distintamente sette dèmoni in guisa di scimmie nere appollaiate di guardia nel soffitto della camera dove Alessandro moriva, mentre nel delirio invocava proprio il Principe delle Tenebre, il Maligno, affinché – in ossequio al patto maledetto contratto all’epoca della sua elezione - gli consentisse di regnare ancora per qualche anno, e di sopravvivere alla terribile congestione

L’appello, a quanto pare non venne ascoltato, non solo: i servitori del Papa, i funzionari di curia, perfino le suore che lo accudivano – secondo il racconto del cronachista Jacopo da Volterra – abbandonarono in fretta e furia il papa agonizzante, nel terrore certo che i dèmoni sarebbero presto giunti a impossessarsi dell’anima del defunto. 

 Il corpo di Alessandro VI andò così in fretta incontro ad una spaventosa putrefazione, al punto tale che i falegnami dovettero incassarlo a calci e martellate per come e quanto si era gonfiato, si trattava insomma del « più orribile e mostruoso corpo di defunto mai visto. Un cadavere talmente deforme che non aveva più figura umana » come annotò il diplomatico veneziano Antonio Giustiniani nel suo resoconto ufficiale

 Ora, se è pur certo che molti di questi particolari furono alimentati necessariamente dall’alone macabro che circondava la figura di Alessandro, resta il fatto che le circostanze della sua inumazione furono particolari, se non altro per il fatto che si svolsero nel caldo torrido di ferragosto: il cadavere del Papa, esposto parzialmente (soltanto i piedi, per l’adorazione dei fedeli) dietro l’inferriata del coro, cominciò ben presto a puzzare orribilmente. 

 Cosa che consigliò l’immediata inumazione che fu celebrata a mezzanotte (!) nella Rotonda degli Spagnoli (l’antica cappella che fiancheggiava la vecchia Basilica di San Pietro, che venne distrutta nei lavori di riedificazione della Cupola). 

 Narrare le peripezie del sepolcro dei Borgia – di quello di Alessandro che poi divenne anche quello di suo figlio, Cesare – sarebbe impresa ardua: basti dire che per quattro secoli queste spoglie non trovarono mai pace, più volte violate, riassemblate in casse comuni, trasportate da un luogo all’altro fino all’ultima destinazione, la chiesa di Santa Maria di Via Monserrato, alle spalle di Via Giulia, dove furono inumate nel 1881 e dove ancora si trovano, nella prima cappella dal lato dell’Epistola. 

 E proprio questo luogo, o meglio questa antica zona di Roma è teatro delle apparizioni del fantasma di Rodrigo de Borja: per molti anni, le spoglie dei Borgia giacquero nella chiesa del tutto dimenticate, ragione per cui non fu facile mettere in relazione quella misteriosa apparizione di un uomo avvolto da una tunica rossa e dal viso deforme più volte segnalata da terrorizzati passanti che ne riferivano l’incontro a notte fonda nei vicoli intorno a Piazza Farnese, in Via Giulia o lungo il Ponte Sisto. 

Quando dei Borja si ricominciò a parlare - anche per via della riabilitazione storica che qualche studioso ne tentò, e per l’interesse suscitato dagli spagnoli che vivevano a Roma, e che erano desiderosi di visitare quelle spoglie di cui nemmeno i diretti discendenti (i conti di Gandìa) avevano voluto occuparsi – fu naturale mettere in relazione la leggenda del terrorizzante fantasma che agitava le notti romane con il Papa dissoluto le cui ossa più volte profanate giacevano nella Chiesa di Santa Maria in Monserrato, denominata degli Spagnoli. 

 La leggenda nera dei Borja o dei Borgia, non poteva poi coinvolgere anche la bella Lucrezia. Anche il fantasma di colei che aveva soggiogato principi e regnanti, e che così infelicemente si era prestata alle oscure trame famigliari, infatti ha trovato il modo di manifestarsi più volte nella storia: in particolare un pianto accorato sembra che sia il segnale che del fantasma di Lucrezia Borgia è possibile ascoltare passando sotto il vecchio Forte di Nepi, una cittadina non lontano da Roma, in provincia di Viterbo. Di Nepi, Lucrezia divenne in vita Signora grazie ad una solenne cerimonia che si svolse nel 1499, e durante le quali le furono affidate le chiavi della città. 

 Per Lucrezia, il padre Rodrigo fece costruire, alla confluenza di due torrenti, quella grandiosa Rocca, negli appartamenti della quale, la ragazza riuscì a vivere però – insieme allo sposo Alfonso – soltanto per un anno, prima che come abbiamo detto i sicari di Cesare non la resero vedova. Ed è nelle sale e nei giardini di questo castello, a quanto pare, che il fantasma di Lucrezia ancora non ha smesso di cercare pace.