Visualizzazione post con etichetta netflix. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta netflix. Mostra tutti i post

22/04/24

Ma perché così tanti errori in "Ripley", la serie Netflix di Steven Zaillian ?


"Ripley" (su Netflix) va a diventare la serie dell'anno, ma perché tutti quegli errori?

Ho provato a capire perché in un prodotto di così grande qualità vi siano così tante inverosmiglianze, dettagli, ricostruzioni sbagliate, incoerenze dei luoghi, dei tempi e della sceneggiatura, e alla fine l'unica risposta che mi convice è quella che scherzando, ma non tanto, un amico mi ha dato: "Perché Zaillian (regista e sceneggiatore della serie, colosso del cinema americano, premio Oscar per Schindler's List, e sceneggiatore di molti film di Scorsese) si sente come il Cavaliere Nero, nella celebre barzelletta raccontata da Gigi Proietti, e a lui non puoi... "rompere le scatole" (eufemismo).
La fulminante battuta sembra in effetti l'unica spiegazione possibile: Zaillian è un maestro troppo esperto per mettere in scena questa sequela di piccoli e grandi errori/orrori senza averlo voluto. Probabilmente, dunque, trattasi di una ostentazione/provocazione voluta: "la storia la conoscete già, ora mi diverto a fare quello che voglio".
Il fatto è che sono talmente tante e alla fine - almeno a me- hanno un po' rovinato il gusto estetico di una grande serie che trova i suoi due punti di forza 1) nella magnifica interpretazione di Andrew Scott (un cupo misantropo, misogino, bugiardo, cinico, manipolatore che in fondo non ha nessuno scopo che quello di produrre il male - per tutta la serie non ha praticamente il conforto di un solo amico, di una persona che conosce, di una situazione relazionale (uomo o donna), il suo è un moto perpetuo fine a se stesso, che non è basato sull'appagamento); 2) nel grandioso bianco e nero di Rober Elswit, anche lui premio Oscar e fotografo di film importantissimi.
Ecco dunque in ordine sparso, le molte cose che - specialmente a un pubblico italiano (l'intera serie è ambientata in Italia tranne un brevissimo prologo newyorchese) - risultano incomprensibili e in alcuni casi veramente grottesche:
- La prima volta che Ripley passa per Napoli, Zillian ci mostra le consuete "cartoline", scorci della città. Il primo tipo che vediamo seduto al bar però legge chissà perché "La Stampa" di Torino.
- Quando Dickie propone a Tom di andare a Sanremo nessuno spiega il perché. Che cosa deve andare a fare Dickie a Sanremo e d'inverno, poi?
- Appena scesi a Sanremo, i due vanno a dormire in un albergo. La mattina dopo seguiamo Dickie che va a cercare un profumo per Margie. Tom lo aspetta fuori dal negozio. Subito ci accorgiamo che tutti gli scorci fotografati all'esterno, non sono di Sanremo ma di Roma, finché non compare addirittura e resta per parecchio, la facciata della Chiesa di Sant'Eustachio a Roma, con l'immancabile cervo e il suo campanile. Non possono essere nemmeno "ricordi" di Tom, perché lui fino a quel momento non è mai stato a Roma. Tutta Sanremo, chissà forse per questioni di budget, è stata filmata con scorci tutti riconoscibili di Roma.
- La scena dell'omicidio sulla barca (lunghissima, occupa quasi tutta la puntata) è una sequenza di assurdità: dopo aver ucciso Dickie, Tom cade in acqua come Fantozzi dopo aver acceso involontariamente il motore della barca. Come si è raccontato nelle puntate precedenti lui non sa nuotare bene e ha paura dell'acqua: eppure, da vero supereroe, resta a galla mentre per due o tre volte la barca gli passa sulla testa, riceve un colpo in testa dal blocco di cemento che fa da ancora, sviene, resuscita sempre in acqua, riesce a prendere al volo la corda che passa trainata dalla barca a tutta velocità, si issa a forza di mani, arriva a 1 centimetro dall'elica senza essere risucchiato, riesce a spegnere il motore e risale sopra.
Poi, quando torna a riva e dopo mille capriole in acqua, ha ancora tutti gli oggetti di Dickie nelle tasche e perfino l'accendino - che gli serve per incendiare la corda dell'ancora e tagliarla - funziona perfettamente al primo clic. E' tutto ben pettinato, non si cambia i vestiti, rimane con quelli inzuppati addosso, e sale sul treno con quelli.
- Anche l'omicidio di Freddy Miles è pieno di assurdità. Dopo averlo ucciso e avergli spaccato il cranio, lo porta a spalle a mezzanotte (non le cinque di mattina) giù in ascensore e per le scale del palazzo; naturalmente per tutto il tempo non incontra anima viva, imbratta di sangue tutto, ascensore che si blocca e lo costringe a uscire a metà delle rampe, scale, pianerottolo, ecc... si assenta per un sacco di tempo per arrivare fino all'Appia Antica, tornare a piedi e in taxi, quando torna nessuno l'ha scoperto e lui pulisce gli ettolitri di sangue lasciati in giro con una pezzetta di 10 cm. quadrati (la mattina dopo, l'imbranata portiera-Buy pensa che le chiazze di sangue siano quelle di un topo...)
- Il commissario romano Ravini, è il personaggio più divertente e assurdo: nei primi anni '60 è un romano poliglotta, che parla un inglese più fluido di quello di Carlo d'Inghilterra e anche il francese, perfetto, ma non sa pronunciare il cognome Miles (nome comunissimo) che invece di "Mails" pronuncia incomprensibilmente per tutta la serie "Milasi". Ravini è un brocco, e però un brocco simpatico. Uno a cui piace fare conversazioni, ma parlare lui. Le notizie sui crimini su cui sta indagando gli interessano poco o niente. Nonostante i sospetti evidenti, lascia Tom libero di andarsene a villeggiare a Palermo.
- Anche molti altri personaggi italiani della serie parlano un inglese fantastico, ma poi chissà perché il noleggiatore delle barche di Sanremo ha l'accento romano, come anche un antiquario di un negozio di Napoli.
- Dopo l'omicidio di Dickie, Tom va in giro per due giorni presentandosi in giro, anche nelle reception degli alberghi, con il passaporto di Dickie e la foto di Dickie. Ma nessuno, guardando la foto sembra capace accorgersi che con ogni evidenza, non è lui. E soltanto dopo il secondo giorno cambia la foto sovrapponendo la sua foto su quella di Dickie.
- La questione delle foto poi è assurda: l'omicidio di Miles, di cui Dickie/Tom viene ritenuto responsabile, va a finire su tutti i giornali italiani, tutti i giorni, ma nessuno mette mai una foto dello scomparso e ricercato Dickie, anche semplicemente quella del passaporto o una delle mille che potrebbe fornire Marge, che Ravini va a trovare fino ad Atrani e che fa la fotografa (una qualsiasi foto di Dickie, ovviamente metterebbe fine immediatamente al giallo, evidenziando che Tom si spaccia per lui). E naturalmente lo stesso Ravini non pensa neanche lontanamente a chiedere a Marge che gliene mostri qualcuna.
- Marge, la fidanzata di Dickie è poi una specie di bella addormentata nel bosco. Scompare (a Sanremo per fare cosa?) il suo fidanzato in compagnia di un uomo di cui lei subito diffida e che gli appare come un truffatore, e non fa nulla. Ci mette una vita a mettersi in moto, arriva a Roma e anziché aspettare Dickie sotto casa, si accontenta delle 3 cose in croce che gli dice Tom e se ne torna serenamente a casa.
- Il massimo dell'inverosimiglianza poi è quando, nell'ultima puntata, Ravini viene al corrente del fatto che Tom è vivo e che vive a Venezia. Naturalmente lo va ad incontrare, e alla prima occhiata dovrebbe accorgersi che è il falso Dickie (cioè la stessa persona che ha incontrato sotto le vesti di Dickie fino a quel momento e con cui si è incontrato e ha parlato tante volte) camuffato sotto un burlesco travestimento a metà tra diabolik e la commedia dell'arte, e invece non solo non lo riconosce (anche se perfino la voce è identica e inconfondibile, e poi il volto è praticamente lo stesso), ma ci conversa abilmente del più e del meno, gli stringe la mano da 2 cm. di distanza e se ne torna serenamente a casa.
A nota bisognerebbe poi aggiungere tutte le inesattezze/errori/assurdità a proposito di Caravaggio i cui quadri, a Roma, e poi a Napoli e Palermo diventano l'ossessione del fuggitivo Tom. Una per tutte, nella ricostruzione seicentesca all'inizio della 6a puntata, in costume, Ranuccio Tomassoni - l'uomo che fu assassinato da Caravaggio viene fatto morire sulla riconoscibilissima Salita dei Borgia, che non c'entra niente con i luoghi originari, visto che il ferimento a morte avvenne notoriamente nel campo della Pallacorda, in Campo Marzio. Quando poi le guardie pontificie fanno irruzione nella casa/studio del pittore, vi trovano la Crocefissione di San Pietro, il quadro che si trova oggi nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo e che Caravaggio ha dipinto parecchio tempo prima del fattaccio che lo costringe a lasciare Roma.
Vabbè, questo è soltanto una piccola selezione ed era un po' per puntualizzare un po' per divertimento. Onore comunque al merito di Zillian, Elswit, Andrew Scott e tutti i bravi attori (purtroppo Malkovich si vede per 30 secondi in tutto) stranieri e italiani, e pure del povero imbranato Ravini, per sei serate trascorse comunque nella beatitudine di immagini meravigliose.

Fabrizio Falconi - 2024

20/03/24

Sull'ottovolante con "The Gentleman", geniale e divertente serie di Guy Ritchie su Netflix


E' rutilante, dal ritmo indiavolato, divertente e stilosa - e ancora ad alto livello - la nuova serie britannica "The Gentleman" appena lanciata da Netflix, creata dal geniaccio sregolato e incline a capitomboli imbarazzanti di Guy Ritchie, che nonostante alcune cose buone o molto buone che ha fatto, ancora fatica a togliersi di dosso la fama di "(ex) marito di Madonna".
Qui si tratta del riutilizzo (o meglio dello spin-off come dicono quelli che ci capiscono) di un'idea divenuta già a suo tempo un film, scritto e diretto da Ritchie nel 2019, con lo stesso titolo: "The Gentleman", uscito nel 2019, con un gran cast (McCaughney, Hugh Grant, Michelle Dockery, Colin Farrell) che, incappato nella pandemia da Covid, ha comunque incassato 115 milioni di dollari.
Ritchie rilancia dunque l'idea, espandendo la storia in 8 divertenti e elaborati episodi in cui assistiamo alle (complicate e grottesche) vicende riguardanti un giovane nobile inglese, Edward Horniman che eredita inaspettatamente (pur essendo secondogenito) la tenuta di 15.000 acri e il titolo di Duca di Halstead per volontà e testamento del padre recentemente scomparso.
Dietro la nomina prestigiosa, però si nasconde un incubo: Edward apprende infatti che la terra di famiglia è diventata da anni, parte di un impero segreto di coltivazione di erbe infestanti gestito dal gangster Bobby Glass.
Ora deve esplorare un mondo di personaggi eclettici e pericolosi con obiettivi nefasti, cercando allo stesso tempo di proteggere la sua casa e restare in vita.
L'idea di fondo, del film come della serie, che sta a cuore a Ritchie, è quella di mostrare - con una certa perfidia - come la classe aristocratica (britannica, in questo caso) e la criminalità organizzata più violenta siano fatte, in fondo della stessa identica pasta, basata sulla violenza, l'umiliazione e la sopraffazione.
E i buoni propositi morali dell'inizio saranno ben presto travolti da questa evidenza, capace di corrompere anche l'apparentemente savio Edward.
La serie è girata magistralmente, le musiche originali sono fantastiche. Il cast vede protagonista il bel tenebroso Theo James nei panni di Edward e una serie di ottimi comprimari, tra cui tre attrici brave e bellissime: Kaya Scodelario nei panni di Susie (la figlia del boss), la francese Gaia Weiss e Ruby Sear nei panni di Gabrielle.
Si ride molto, la sceneggiatura è scoppiettante ed è un fuoco di fila di trovate (a tratti correndo anche il rischio di rendere esausto lo spettatore), che oscillano sui registri dei Coen, di Scorsese e di Tarantino.
Raccomandato.

Fabrizio Falconi - 2024

 

16/02/24

ONE DAY (LA SERIE) - GLI INGLESI NON HANNO PAURA DELLA LEGGEREZZA

 


Senza scomodare Calvino, ognuno sa che la leggerezza può essere un valore importante, in campo creativo: a patto che non debordi nella superficialità o vacuità.
La fiction inglese pratica con successo la leggerezza (basti pensare al successo planetario di Downton Abbey) di qualità.
Non per niente, di un certo tipo di classico romanticismo-introspettivo psicologico è insuperata modello Jane Austen, la cui opera ha dovuto faticare (in quanto donna e in quanto esponente di una letteratura definita all'inizio "femminile" o "rosa") per essere ammessa senza indugi nel Canone letterario, con piena legittimità.
Anche in tempi moderni, dunque, gli inglesi manifestano una felice propensione per il genere, che viene rinnovata da questa spigliata serie, ONE DAY (su Netflix) in 14 brevi puntate, tratta da un romanzo (di David Nicholls, in italia lo ha pubblicato nel 2009 Neri Pozza) e da un film (regia di Lone Sharfig, 2011), entrambi di successo.
La storia richiama gli archetipi classici (si pensa a Come Eravamo - The Way We Were di Sidney Pollack, 1973), con l'incontro alla festa di laurea di un blasonato college inglese, di un ragazzo e una ragazza apparentemente dissimili: bianco, ricco e bello lui, di origini indiane, di classe sociale più modesta, di bellezza non straordinaria, lei.
L'espediente narrativo è quello di seguire la vita di questa coppia-non coppia (nessun rapporto è stato consumato), dal momento in cui si incontrano e per i venti anni successivi, lo stesso giorno dell'anno - il 15 luglio - in ogni anno diverso.
Sulla definizione della diversità dei caratteri e delle propensioni scandita all'inizio da toni quasi di pura comedy, la storia prende presto altre strade, parlando(ci) di qualcosa che tutti, prima o poi, hanno attraversato nelle loro vite: l'inspiegabilità della specificità di un incontro, gli ostacoli (altrettanto inspiegabili) che si frappongono a una reale evoluzione dello stesso, le paure, le incapacità di esprimersi e di riconoscere i sentimenti (e di viverli).
Se Dexter è un bello inutile (da tutti viene ritenuto più o meno un coglione), incapace di emanciparsi, ma dall'animo gentile che suscita tenerezza, Emma è barricata nelle sue convinzioni e, ai limiti del masochismo, dentro la paura di farsi male.
La storia procede, con tutti i travagli della vita, accompagnata da una straordinaria "compilation sonora", di fantastiche canzoni che ricreano il clima dal 1988 al 2007 (già solo questo, motivo di godimento).
I due attori iper-protagonisti, sono di freschezza fantastica e molto bravi: Leo Woodall, 27enne già star in patria, e Ambika Mod, ragazza indiana di genuina intensità.
Completano il cast Eleanor Tomlison (la Demelza di Poldark) e Jonny Weldon nei panni dell'insopportabile Ian.
Si vede con piacere, emozionandosi senza ricatti narrativi, con semplicità. Operazione assai lodevole.

Fabrizio Falconi - 2024

02/01/24

"SALTBURN" IL FILM DI EMERALD FENNELL, GENIALE E DISTURBANTE


"Saltburn" è quello che una volta si definiva un film "disturbante".

Lo ha scritto e diretto la geniale londinese trentottenne Emerald Fennell, alla seconda prova dopo l'assai interessante "Una donna promettente", candidato all'Oscar 2021 come migliore sceneggiatura e al Golden Globe come miglior film drammatico.
La Fennell lanciata dalla serie di successo "Killing Eve", da lei ideata e scritta, è ormai diventata un po' la gallina dalle uova d'oro del nuovo cinema anglosassone.
E lo è per merito, perché i suoi lavori sono sempre originali, spiazzanti, qualitativamente alti, notevoli per scrittura e realizzazione.
Con "Saltburn" la Fennell non ha avuto paura di compiere un passo ulteriore, affrontando un copione tutto 'in negativo', una specie di discesa ad inferos, realizzata attraverso la particolarissima "formazione" di un apparente "absolute beginner" (di famiglia borghese) alla scoperta del mondo della alta nobiltà britannica.
Sostanzialmente alla Fannell interessava provare a realizzare un film "cattivo", un film cioè sul male, sulla corruzione, sulla trasgressione, sul rovesciamento delle parti sociali, sulla vendetta, l'ambiguità e sulla frustrazione, partendo da esempi illustri come "Il servo" di Joseph Losey (1963), capolavoro del cinema inglese, oppure lo stesso "Parasite" di Bong Joon Ho dominatore degli Oscar 2019.
Si può dire poco della trama, se non si vuole spoilerare e dunque rovinare il piacere dello spettatore nello scoprire le molte sorprese che si dipanano lungo la storia.
Basterà dire che Barry Keoghan (uno dei tanti bravissimi attori qui convocati) straordinario nell'impersonare il luciferino Oliver Quick (evidente richiamo ad Oliver Twist) approdato a Oxford come studente, cerca in ogni modo di diventare amico dell'irraggiungibile Felix, bellissimo e ricchissimo, appartenente alla aristocratica famiglia dei Catton.
Nella primaria illusione che Oliver sia soltanto un innocuo e tenero parvenu in cerca d'affetto, è nascosta invece la rivelazione di una terribile escalation di crudeltà, che al termine delle due ore, non conosce alcun riscatto morale.
"Saltburn" è una favola nera, che mette a nudo l'incapacità post-moderna di riconoscere e vivere i sentimenti - quindi direi, molto attuale - e il tentativo generalizzato di scambiarli con emozioni ed esperienze forti, in grado di annullare la richiesta che ogni sentimento ci chiede: quella della consapevolezza.
Oliver è una brillante personificazione del male, e il suo balletto finale, con nudo integrale, attraverso le sale del castello dei Catton, un colpo assoluto di genio (oltre che un virtuosismo registico).
Detto questo, la Fannell stavolta sembra esagerare: alcune trovate paiono fuori luogo, inutilmente trasgressive, immotivate. E anche la scrittura non ha un crescendo così irresistibile come quella del suo film precedente (che non ha mai cadute).
Barry Keoghan, dopo "Dunkirk" di Nolan, "Il sacrificio del servo sacro" di Lanthimos e "Gli spiriti dell'Isola" di Mc Donagh si conferma uno straordinario giovane attore, al quale questo personaggio si attaglia in modo perfetto (nato a Dublino nel quartiere di Summerhill, Barry è nato da una madre eroinomane, quindi dai 5 ai 12 anni fu affidato a tredici famiglie affidatarie diverse, assieme a suo fratello Eric, potendo vedere la madre soltanto nei fine settimana. Nel 2004 la madre morì a trentuno anni per un'overdose, lui e il fratello furono affidati alla nonna e alla zia.)
Accanto a lui, un ottimo cast che mette insieme giovani talenti del cinema anglosassone, tra cui l'australiano Jacob Elordi, nei panni di Felix, oltre a Rosamund Pike e la stessa Carey Mulligan nella parte di Pamela.
Esteticamente il film si fa apprezzare per la brillante regia che ripropone i colori e le atmosfere di "Patrick Melrose" (la serie) e per le musiche, sempre adeguate e originali.
Un film che va visto, e che anche se, mentre lo si vede, si fa di tutto per non prenderlo sul serio, alla fine lascia molta inquietudine e molte domande, il che - nel cinema di oggi - è un raro pregio.

Fabrizio Falconi - 2023

19/06/23

"La Famiglia dei Diamanti" - saga familiare Netflix nel quartiere ortodosso di Anversa


La Famiglia dei Diamanti (Rough Diamonds), visibile sulla piattaforma Netflix, serie belga, del 2023, si inserisce sulla scia delle diverse serie che, dalla meravigliosa Shtisel a Unorthodox, si sono addentrate nel mondo della cultura e della vita delle comunità ebree ortodosse.

In questo caso siamo in Belgio, ad Anversa, da sempre "la città dei diamanti", lì dove cioè hanno prosperato da secoli commercianti - non solo ebrei - che si sono specializzati nel mercato delle preziose pietre provenienti dalle miniere dell'Africa.
Il pretesto narrativo è il suicidio - perché coinvolto in debiti di gioco - di un giovane membro della famiglia Wolfson, una delle più blasonate del quartiere dei diamanti.
Al capezzale del morto accorre anche il più classico figliol prodigo: Noah, che venti anni prima ha lasciato la famiglia, lasciando la fede ortodossa. Noah, che è fratello del suicida, vive a Londra e si occupa di affari poco puliti.
La morte del fratello lo spinge però a riconnettersi con la comunità Haredi e con la sua famiglia, che si trova adesso in guai molto seri - ricattata dalla malavita albanese - e che lui si sente in dovere di aiutare.
Coprodotta dagli israeliani Keshet, la serie, solida e ben scritta si segue volentieri fino all'ultima delle 8 puntate.
I punti deboli sono gli attori, in particolare Kevin Janssens, il protagonista, dall'espressione fissa e stolida, modesto come modesti sono anche altri nei ruoli secondari; i personaggi fra l'altro, tranne quello del fratello maggiore, Eli, non "crescono" ; e una inconcludenza generale della vicenda, specie nell'epilogo, irrisolto e tirato via senza convinzione, soltanto per preparare il terreno a una probabilissima seconda stagione.

Fabrizio Falconi - 2023

16/06/23

"Blue Jay" (2016), un gioiello su Netflix, per commuoversi senza sentirsi in colpa


'Blue Jay' (2016)
è uno strano, toccante film indipendente, che dura solo 80 minuti, ora visibile su Netflix.

E' così strano che è anche difficile chiamarlo 'film', somigliando più a una confessione 'in presa diretta' o a una duplice prova d'attore.
Lo ha realizzato in un elegante bianco e nero Alex Lehmann, su un copione scritto da Mark Duplass, che è il protagonista maschile del film.
La storia - se storia si può chiamare - è presto detta: in un supermercato si rincontrano dopo molti anni, Jim e Amanda, che sono stati insieme da giovanissimi: un primo amore intenso, finito male.
Il caso li ha riportati lì nello stesso momento: lui deve chiudere la casa della madre che è morta, lei è venuta in visita alla sorella che è incinta.
Il film descrive le ore di questa giornata e della notte trascorsa insieme, tra allegria - ritrovando molta di quella magia che li aveva fatti innamorare l'uno dell'altro da giovanissimi - e principio di realtà - misurando la distanza tra quel che si era, quel che si voleva diventare e quel che si è diventati.
Un pretesto narrativo che sembrerebbe fin troppo facile.
Eppure il film vince la scommessa, facendosi apprezzare proprio per semplicità, misura, autenticità.
Gran merito è dei due attori, sempre in scena: Mark Duplass (impacciato e simpatico, ironico, irrisolto) e soprattutto Sarah Paulson, incantevole e di bravura davvero mostruosa.
'Blue Jay' ha girato molto nei festival di cinema indipendente, poi è riaffiorato grazie alla piattaforma globale e ha trovato un suo pubblico. Meritatamente. Si ride e ci si commuove, senza facili ricatti.

Fabrizio Falconi - 2023

30/05/23

"Diplomat", la serie Netflix, un prodotto di alta qualità


 Diplomat - disponibile sulla piattaforma Netflix - deve la sua qualità in primis a una magnifica attrice, Keri Russell, che i più hanno conosciuto in "The Americans" , oggi cinquantenne, che qui oltre ad essere protagonista assoluta, è anche produttrice esecutiva.

Scritta brillantemente da Debora Cahn, una delle migliori sceneggiatrici di Hollywood, Diplomat ci porta nel mondo dell'alta diplomazia internazionale, nel pieno di una crisi: una nave inglese è stata attaccata da un (finto) peschereccio nelle acque del Golfo Persico, e i riflettori vengono subito puntati sull'Iran.
Nel pieno di questa crisi, Kate Wyler, esperta funzionaria di casa in paesi difficili come Iraq e Afghanistan, viene nominata ambasciatrice degli USA a Londra. Portandosi dietro l'ingombrante fardello di un marito anch'egli diplomatico ed ex ambasciatore, messo ai margini per il suo carattere indipendente e piuttosto incontrollabile.
Marito e moglie sono in crisi, c'è aria di divorzio da tanto tempo, ma i due sono legati da qualcosa di profondo, una mutua protezione, un attaccamento sensuale e di umana comprensione-accoglienza per le rispettive fragilità, soprattutto quella di Kate, specialmente ora che ha un incarico così importante e delicato.
Hal, il marito, promette di "fare il buono" e di fare "la moglie" dell'ambasciatore, ma ovviamente non va così.
La serie è costruita interamente su dialoghi serratissimi e intrighi diplomatici difficilissimi da decifrare. Se non ci si annoia è proprio per merito della bravura degli interpreti, soprattutto i due principali: oltre a Keri Russell, il perfetto Rufus Sewell. Il matrimonio in crisi e i rispettivi caratteri di Kate e di Hal sono ciò che conferisce alla serie la qualità e l'intelligenza, e che rende piacevole proseguire fino in fondo, fino a un finale a sorpresa che lascia tutto aperto.
Mi è piaciuto molto il franco femminismo della serie: Kate è una donna con le palle; Hal come uomo esperto e abituato ad essere al centro dell'attenzione deve fare esercizio quotidiano (e fa di tutto per farlo), per accettare di essere in secondo piano. Mi è piaciuta l'originalità dell'ambientazione, la grande qualità complessiva della messa in scena.
E' oltretutto illuminante percepire quanto sia precario e inautentico il mondo dell'alta diplomazia internazionale, ormai pesantemente condizionato dall'immagine, dal web, da twitter, dai vuoti rituali, dalle intemperanze caratteriali dei singoli; da come tutto, compresa una grave crisi internazionale che può mettere a rischio migliaia o milioni di persone o tutto il pianeta, può essere potenzialmente motivato da futili o futilissimi motivi (come già il Dr. Strangelove di Kubrick insegnava molti molti anni fa).
Serie consigliabile e prodotto di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

17/04/23

André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin: protagonisti di una bellissima serie Tv su Netflix, "Transatlantic"


André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin, sono loro qui i protagonisti.

Davvero un'altra insperata bellissima sorpresa nel panorama delle serie tv, che ritenevo stesse diventando asfittico, in crisi.
Invece non perdete Transatlantic (titolo fuorviante, completamente sbagliato, NON è una storia ambientata in un Transatlantico e non c'entrano niente i transatlantici), una bellissima serie di produzione tedesco/francese/inglese ora su Netflix.
La storia vera di Varian Fry e Mary Jane Gold che nel 1941 misero in salvo a Marsiglia, circa 2000 persone destinate ai campi di sterminio nazista.
Tra di loro molti intellettuali, artisti, i più prestigiosi dell'epoca, quelli che ho citato, e altri celebri, fedelmente rappresentati qui.
Una serie molto diversa da quelle storiche ambientate in quel periodo. Un tocco meraviglioso della ideatrice Anna Winger e due registe svizzere, a metà e in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, con sfumature che fanno pensare a Wes Anderson, fotografia bellissima, musiche all'altezza, cast freschissimo, che diverte e commuove.
8 puntate che si vedono con grande piacere, un prodotto notevolmente intelligente e di livello inusuale rispetto alle offerte di grande consumo di Netflix.

Fabrizio Falconi - 2023

01/03/23

Ma perché nessuno parla di "Athena"? Il grande film di Romain Gavras


Ma perché nessuno parla di Athena?

Dopo l'inaugurazione del Festival di Venezia 2022, in concorso ufficiale, e gli applausi, il film di Romain Gavras, 43enne figlio d'arte, del grande Costa-Gavras, sembra caduto nell'oblio.
Eppure si tratta di uno dei film più importanti della stagione, destinato a durare. L'affresco epico - in presa diretta, virtuosisticamente girato - dei durissimi scontri che avvengono ad Athena, banlieu parigina abitata soprattutto da immigrati e figli di immigrati musulmani, prende il via dopo che il video della uccisione di un ragazzo di 13 anni, Idir, apparentemente da parte di poliziotti, diventa virale.
Quando il quartiere viene occupato e messo a ferro e fuoco dai rivoltosi, il film segue le vicende dei 3 fratelli di Idir, direttamente coinvolti nei propositi di vendetta, da una parte e l'altra delle barricate, con la polizia che cerca di riprendere il controllo dei territori occupati e i rivoltosi che prendono in ostaggio un poliziotto per ottenere la consegna dei responsabili della morte di Idir.
E' un film visivamente, esteticamente, drammaturgicamente straordinario, che si vive come se si fosse lì, in mezzo al frastuono e all'orrore - tra Pasolini e Pontecorvo - e non si dimentica.
Alla critica di sinistra - in patria - compresa Libération, non è piaciuto perché distribuito da una grande piattaforma - Netflix - e per motivi politici (alla fine la polizia viene discolpata, non sono stati loro i responsabili, ma un gruppo di estrema destra con false divise della polizia).
All'estero invece, i consensi e gli entusiasmi sono stati pressoché unanimi, da Variety a Rolling Stone.
Già solo il long take iniziale - prodigioso, più di 10 minuti, con utilizzo di droni - varrebbe da solo il prezzo del biglietto, come si diceva una volta.
Ma tutto il film si fa ammirare per coraggio, crudezza, forza emotiva, contenuti impliciti.
Se davvero si voleva un'opera di denuncia contro la follia umana, contro la follia delle faide umane, delle guerre, della violenza, e se soprattutto dalle parti di Hollywood fossero più coraggiosi, sarebbe stato più giusto e doveroso dare 9 candidature ad Athena, piuttosto che all'innocuo e preconfezionato The Banshees of Inisherin, adesso sulla bocca di tutti.

Fabrizio Falconi - 2023

18/02/23

Una buona serie per le vostre serate: "Le Combattenti ("Les Combattantes") dalla Francia, su Netflix


Non è male la serie Le Combattenti (per una volta rispettato l'originale Les Combattantes) visibile su Netflix.
TF1 ci ha investito una cifra astronomica, per una serie: 20 milioni di euro.
L'impegno produttivo si vede: ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, è interamente ricostruita la cittadina di Saint-Paulin che si trova sulla strada attraverso la quale i tedeschi sperano di arrivare direttamente a Parigi, ricostruiti minuziosamente ambienti, costumi, battaglie con gran dispiego di comparse.
Per centrare il bersaglio, i produttori hanno richiamato le tre protagoniste della serie Le Bazar de la Charité (tradotto in italiano con l'orribile titolo: Destini in fiamme), uscita un paio d'anni fa, affiancandovi pezzi da novanta come Sandrine Bonnaire e l'inossidabile Tchéky Karyo.
Come la precedente, anch'essa in costume, Les Combattants mette in scena un melodramma nel quale si svolgono quattro destini femminili, nel furore della guerra, nelle malefatte di personaggi disgustosi che della guerra approfittano per qualche loro miserabile interesse.
La sceneggiatura è ben fatta, gli intrecci reggono e si vede piacevolmente fino alla fine, anche se non mancano incomprensibili cose stupide nella messinscena, come una delle quattro protagoniste che va in giro con una pettinatura bionda, mechata, che sembra uscita da un numero di Vanity Fair 2023, e non da un film di guerra ambientato nel 1915.
Sono anche fasulle le strizzate d'occhio scioviniste, e qualche espediente narrativo poco o pochissimo credibile.
Tra le attrici protagoniste la più brava è la rossa Audrey Fleurot, che a quasi 50 anni, sa fare tutto, essere sensuale, materna, melodrammatica, moderna.

Fabrizio Falconi - 2023

19/01/23

"The Pale Blue Eyes" non vincerà l'Oscar, ma è un bellissimo film


The Pale Blue Eyes
è un gran bel film, che purtroppo non vincerà gli Oscar di cui farà razzia The Fabelmans, già solo per il fatto di essere uscito il 23 dicembre, quindi troppo alla fine dell'anno - e troppo tardi per suscitare le attenzioni dei membri Academy.

Il piacere di vederlo è stato nel mio caso rovinato da un vergognoso articolo online di una "rivista" di cinema, che al 3o rigo, senza nessun pudore, fa esplicito spoiler, svelando tranquillamente tutto il finale e quindi, diciamo, il colpevole.
Io purtroppo, in cerca di informazioni sul film, avevo letto l'articolo qualche giorno prima.
Ciò non toglie che il film di Scott Cooper sia magnifico. Non ho letto il romanzo da cui è tratto, ma il pretesto della trama è noto: un episodio reale della vita di Edgar Allan Poe - la sua esperienza come cadetto nella sperduta Accademia Militare di West Point- inserito in una trama di fiction all'altezza.
L'ambientazione, la messinscena, la regia, sono di livello. La fotografia straordinaria (quasi tutti gli interni sono girati al lume naturale di candele).
Ma la cosa più preziosa è il cast. Protagonista a parte, Christian Bale, per il quale sono finiti da tempo gli aggettivi, Cooper è riuscito a radunare nello stesso film Gillian Anderson, Charlotte Gainsbourg, Lucy Boynton (una delle attrici più interessanti e talentuose tra le nuove leve inglesi), Toby Jones, Herry Melling (su cui tornerò tra poco) e addirittura il leggendario Robert Duvall, che ha 94 anni (!) ma che ancora è in grado di recitare, alla grande, una piccola ma importante parte di un film.
Melling è il coprotagonista - interpreta la parte di Poe - e il confronto con Bale/Landor regge tutto il film.
Francamente finora conoscevo poco l'attore londinese - Melling - che deve essere una vecchia conoscenza dei fans di Harry Potter (io non ho mai visto nessun film della saga). Lo ricordo solo nel recente La regina degli scacchi (serie) e in Waiting for the Barbarians, di Ciro Guerra (film) tratto dal romanzo di Coetzee.
Melling però mi ha fatto una impressione straordinaria. Se gli Oscar avessero un senso, dovrebbe stravincere la statuetta come miglior attore maschile protagonista o coprotagonista, per questo film.
Nella migliore tradizione della recitazione britannica, Melling interpreta questo ruolo molto difficile, duettando in bravura con Bale. Interpretare Poe sarebbe dura per chiunque, e con un concreto rischio di essere ridicolo (in Italia la parte di Poe finirebbe sicuramente a Castellitto). Melling supera la prova, "reiventando" Poe senza tradirlo, facendone un essere lunare, spiritato, naif ma intensissimo. Senza gigionamenti. Semplicemente inventando, con l'arte della recitazione.
Insomma, chi può, non lo perda. Merita di essere visto anche solo per queste prove d'attore.
E' bello pensare che in tempi come questi, escano ancora prodotti così ben fatti, di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

21/09/22

La migliore sorpresa della stagione per quanto riguarda le serie: "Kleo"


E' la più bella sorpresa della stagione: Kleo

Da tempo sostengo che i tedeschi stiano da anni producendo cose bellissime, e tra le migliori che si vedano nel formato serie-TV.
Kleo, in programmazione su Netflix è firmata Zeitsprung Pictures e gli autori che l'hanno scritta e realizzata sono colmi di genialità.
La vicenda racconta la storia (inventata) di Kleo Straub, spia della STASI, che dopo la caduta del Muro esce dal carcere e vuole capire perché e chi l'abbia punita e per cosa, vendicandosi di tutti loro.
Il pregio più grande della serie è il tono, miracolosamente in bilico tra farsa e dramma. Ci si diverte molto e con grande intelligenza. Allo stesso tempo si aprono squarci di lucida ferocia sulla transizione della Germania dell'Est, "assorbita" da quella dell'Ovest e dai traumi che ne sono seguiti.
Girata magnificamente, con una protagonista - Jella Hause - in stato di grazia e perfetta, la serie riproduce con meticolosa bravura, i colori, gli arredi, la luce di quegli anni e di quei luoghi, con esercizi di stile notevoli e grande fantasia.
Vanno segnalati poi i 7/8 minuti finali del V episodio - intitolato Uwe - dove un inseguimento drammatico diventa un pezzo di puro virtuosismo registico (ho visto qualcosa di equivalente solo in "True Detective 1" e in "Giri/Hagi/") sulla musica sublime di Max Richter (On The Nature Of Daylight (Entropy).
Da non perdere (e da vedere in lingua originale, sottotitolato).

Fabrizio Falconi - 2022

05/07/22

"The Staircase" - Una bellissima serie con super cast su Sky Tv e NowTv, che racconta una storia vera


The Staircase è (almeno) due cose diverse, di cui una, la serie televisiva attualmente in onda su Skytv-Nowtv realizzata nel 2022 con un super-cast che comprende Colin Firth, Toni Colette e Juliette Binoche.

Entrambi però hanno lo stesso oggetto: Il processo a Michael Peterson, giornalista e scrittore americano, accusato dell'omicidio della moglie, Kathleen Peterson, ritrovata morta ai piedi della scala interna di casa sua nel 2001.
Per un curioso gioco di specchi, il documentario francese - e i suoi autori, compresa la montatrice - sono finiti, come protagonisti, nella serie televisiva del 2022.
Ai documentaristi francesi infatti, Peterson consegnò la sua vicenda e la sua vita, quando fu accusato della morte della moglie e cominciò il processo. E il documentario francese - convintamente innocentista - finì per rendere nota a tutti l'intricata vicenda di Peterson e dei suoi 5 figli, della sua famiglia allargata, appassionando il pubblico di mezzo mondo.
Il perché è presto spiegato: "The Staircase" ha in tutti e due i casi al centro della vicenda, il tema della "giustizia giusta" (o ingiusta), e - ancora di più - il tema della verità giudiziale e di quella reale (e di ogni versione che noi definiamo verità e cosa serve per questa).
La serie 2022 è di livello molto alto: Colin Firth riesce ad essere un protagonista credibile; la sua recitazione - da Oscar- è fantastica, tutta in sottrazione e colora di mille ambiguità il personaggio che interpreta, un manipolatore che si è allontanato talmente tanto da se stesso da non sapere nemmeno più chi è; Toni Colette è l'infelice moglie assassinata - o morta "per accidente"; Juliette Binoche è l'ingenua montatrice che sposa visceralmente la causa del'innocenza di Mike Peterson, affrontandone le conseguenze.
Nell'arco di 8 puntate da un'ora ciascuno si pensa, si riflette e ci si diverte anche, alle prese con un legal del tutto insolito e con l'ironia di Firth che tiene banco con la sua recitazione alla Mastroianni, sempre in levare.
Grande produzione HBO, qualità assicurata. Ne vale la pena.

Fabrizio Falconi - 2022

26/03/22

Storia di un Matrimonio - un meraviglioso film da non perdere


Storia di un Matrimonio (Marriage Story) di Noah Baumbach è un meraviglioso film uscito soltanto per qualche settimana nelle sale nel 2019 e attualmente visibile su Netflix.

Baumbach ha realizzato una sorta di requiem per il matrimonio tra due creativi, il regista tetrale off Charlie, e l'attrice Nicole, sua musa e moglie. I due sono in crisi. La terapia non aiuta. La decisione di Nicole - che si sente schiacciata dalla personalità e dalla creatività del marito - di lasciare New York e trasferirsi insieme al figlio piccolo a Los Angeles, nella casa dove abitano la madre e la sorella, scatena il conflitto.
Ne nasce una quasi involontaria battaglia legale, perché Charlie non è in nessun modo disposto a trasferirsi sulla West Coast e nello stesso tempo pretende che il figlio divida il suo tempo tra New York e Los Angeles.
Scaturisce così un film a quadri assai doloroso, dove l'intelligenza e la sensibilità di due persone evolute si scontra con le tentazioni di distruggere con la guerra ciò che si è costruito.
Qualcuno ha accostato questo film a Kramer contro Kramer, ma è una vera eresia.
K. contro K. era un film totalmente hollywoodiano. Storia di un matrimonio ricorda invece, per lo stile con cui è girato, Cassavetes.
Un film e una scommessa simile può essere vinta solo se si dispone di due attori dalla capacità espressiva mostruosa come Scarlet Johansson e Adam Driver.
Con la camera sempre stretta intorno ai visi, a spalla, per lunghi monologhi e atroci litigi, la Johansson e Driver si superano in bravura.
Un film di rara intelligenza che apre il cuore e lo fa dolorare.
Alle due grandissime prove d'attore - la Johansson si cimenta in un monologo in piano sequenza che dura quasi 10 minuti, Driver, nella scena del furibondo litigio tira fuori ogni nervo espressivo dalla sua faccia estremamente mobile - si uniscono i "comprimari" Laura Dern (che per questo film ha vinto l'Oscar) e addirittura il grande Alan Alda, nei panni dei due avvocati.
Un vero spettacolo di film, non perdetelo.

Fabrizio Falconi