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17/10/23

"Il Complotto contro l'America" - perché è una serie da vedere oggi


E' un'opera che tutti, specialmente oggi, dovrebbero vedere.

"Il Complotto contro l'America", miniserie HBO (un marchio di garanzia), in 6 puntate da un'ora ciascuna, disponibile su Sky e NowTv, è tratta dall'omonimo romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2004.
In quel romanzo, Roth metteva in scena una ucronia (o storia alternativa o allostoria o fantastoria), collocandola nel 1940, cambiando il corso degli eventi e quindi raccontando non della vittoria di Franklin D. Roosevelt, al suo terzo mandato - come è avvenuto nella realtà - ma di quella del trasvolatore Charles Lindbergh, che per primo aveva attraversato l'oceano Atlantico in solitaria con il suo aereo e che negli anni immediatamente prima della guerra godeva di enorme popolarità negli USA.
Lindbergh fu in effetti, nella sua vita, simpatizzante del regime nazista, accolto anche con mille onori da Adolf Hitler a Berlino.
La vittoria di Lindbergh a quelle elezioni, immaginata da Roth, cambia completamente il destino della storia: il Lindbergh del romanzo - e anche della serie, ovviamente - si è candidato contro Roosevelt proprio rivendicando la necessità e il diritto degli USA di rimanere neutrali nella guerra che si è scatenata in Europa e di non intervenire al fianco degli inglesi, sommersi da un diluvio di bombe naziste.
Il paese resta, così, neutrale. E addirittura il ministro degli esteri nazista Von Ribbentrop, viene ricevuto, con tutti gli onori, alla Casa Bianca.
Nel contempo nel paese, comincia una lenta e capillare discriminazione degli ebrei (americani) che vengono destinati a "programmi di inserimento" che si propongono di "integrare" gli ebrei nel modo di vita, nei costumi e nelle credenze del popolo americano.
Il tutto viene visto dalla prospettiva di una famiglia ebrea della midlle class di Newark, New Jersey, che precipita in un incubo e in un orrore pesantissimo, con il padre che non vuole per nessun motivo essere costretto ad abbandonare il paese che ritiene "il suo" e la madre che spinge per fuggire - finché è possibile - in Canada.
La zia, zitella, finisce invece per diventare l'amante del rabbino (vedovo) Bengelsdorf che in buona fede finisce per diventare il megafono del presidente Lindbergh.
La serie è prodigiosa per realizzazione tecnica (costumi, ricostruzione dell'epoca, ambienti, ecc.), di qualità cinematografica, per scrittura e per bravura degli attori: John Turturro in primis nei panni dell'ambizioso rabbino che fino alla fine non vuol vedere cosa sta succedendo, rendendosi complice; Wynona Rider, eccezionalmente brava nel ruolo della zia ingenua; Zoe Kazan (nipote del grande Elia), nei panni della madre, Morgan Spector nei panni del padre.
Si parla di una storia parallela, ma la serie parla - molto - dell'oggi, di quello che succede oggi intorno a noi, per questo va vista: perché i meccanismi umani sono sempre gli stessi e possono precipitare - come è successo sovente nella storia e come succede anche oggi - nella viltà, nell'ignavia, nell'ambizione irresponsabile, nella cecità, nell'incapacità di misurare il principio di realtà, conducendo i poteri all'orrore e gli innocenti al sacrificio.

Fabrizio Falconi - 2023

05/07/23

Un romanzo dimenticato e molto bello: "La Rossa" di Alfred Andersch


Se oggi andate a cercare su Amazon o altre librerie on line (non parliamo di quelle tradizionali/cartacee) il nome di Alfred Andersch, non troverete nulla di nulla pubblicato in Italia, negli ultimi 40 anni.
Eppure c'è stato un periodo non lontano, nel quale lo scrittore nato a Monaco di Baviera nel 1914 era piuttosto in voga, come si vede, pubblicato anche dagli Oscar Mondadori.
Personalmente questa edizione del 1972 (il romanzo è del 1961), l'ho trovata in una meritevole libreria che commercia prezioso usato (negli stessi scaffali ho addirittura trovato la prima edizione de Il Dono di Humboldt di Bellow, in Italia (la mia ormai è consumata)).
Così ho scoperto questo notevole romanzo di un autore piuttosto controverso: pur essendo tra i fondatori del Gruppo '47, Andersch infatti dovette difendersi, nel dopoguerra, da accuse di ambiguità/collusione con il regime nazista.
Andersch fu effettivamente arruolato nella Wehrmacht nel 1940, quando aveva 26 anni, e schierato sul fronte occidentale contro la Francia.
Prima di allora, però, dal 1930, Andersch era stato un fervente comunista, e dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, era stato rinchiuso - secondo il suo racconto - per tre mesi nel campo di concentramento di Dachau, in quanto sovversivo.
Uscito dalla prigionia, lo scrittore, caduto in depressione, non aveva potuto evitare l'arruolamento, anche se nel 194 fu ufficialmente "licenziato" dall'esercito perché nel frattempo si era legato sentimentalmente alla pittrice Gisela Groneuer, considerata dalla polizia una "mezza ebrea".
Arruolato nuovamente nel 1943, Anders disertò nel giugno 1944, consegnandosi agli americani, che lo trasferirono in un campo di prigionia in Virginia.
Tornato in patria, fu uno dei protagonisti della scena letteraria tedesca del dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 1980 in Svizzera.
Tredici anni dopo la morte, Andersch fu oggetto di pesanti accuse di "contraffazione letteraria e fanatismo" da parte di W. G. Sebald, ma il rapporto di Sebald fu "giustamente respinto nella sua generalità".
Al di là di queste controversie legate alla sua biografia, "La Rossa" (Die Rote), è un romanzo importante, che risente direttamente delle vicende vissute da Andersch negli anni della guerra e del nazismo.
La vicenda ha per protagonista Francesca, una donna trentenne tedesca, che dopo aver lasciato marito e amante, prende il primo treno alla Stazione di Milano, che la porta a Venezia, con sole 40 mila lire in tasca.
La donna forse è incinta. Non sa cosa succederà della sua vita, vuole semplicemente allontanarsi da tutto, ricominciare. Una cupa, allucinata e bellissima città fantasma la accoglie nel pieno dell'inverno.
Qui, attraverso diverse voci modulate nel testo e diverse scritture, Francesca si trova coinvolta, suo malgrado, dentro una tragica resa dei conti tra una spia inglese e un ex criminale nazista.
Ma c'è molto di più di una semplice spy-story in questo romanzo. Ci sono le vite rovinate dall'orrore, l'orgoglio di una donna che non si vuole sottomettere al potere di maschi ottusi o cinici, c'è una Italia distrutta dalla guerra, eppure desiderosa di ricominciare, ci sono tradimenti e imboscate del destino, c'è l'intelligenza che non vuole morire e vuole anzi, sopravvivere, secondo il "suo" modo.
C'è l'ambiguità di Kramer, uno dei più verosimili "boia" nazisti incontrati nella letteratura che scrive di quel tempo oscuro.

Fabrizio Falconi - 2023

17/04/23

André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin: protagonisti di una bellissima serie Tv su Netflix, "Transatlantic"


André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin, sono loro qui i protagonisti.

Davvero un'altra insperata bellissima sorpresa nel panorama delle serie tv, che ritenevo stesse diventando asfittico, in crisi.
Invece non perdete Transatlantic (titolo fuorviante, completamente sbagliato, NON è una storia ambientata in un Transatlantico e non c'entrano niente i transatlantici), una bellissima serie di produzione tedesco/francese/inglese ora su Netflix.
La storia vera di Varian Fry e Mary Jane Gold che nel 1941 misero in salvo a Marsiglia, circa 2000 persone destinate ai campi di sterminio nazista.
Tra di loro molti intellettuali, artisti, i più prestigiosi dell'epoca, quelli che ho citato, e altri celebri, fedelmente rappresentati qui.
Una serie molto diversa da quelle storiche ambientate in quel periodo. Un tocco meraviglioso della ideatrice Anna Winger e due registe svizzere, a metà e in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, con sfumature che fanno pensare a Wes Anderson, fotografia bellissima, musiche all'altezza, cast freschissimo, che diverte e commuove.
8 puntate che si vedono con grande piacere, un prodotto notevolmente intelligente e di livello inusuale rispetto alle offerte di grande consumo di Netflix.

Fabrizio Falconi - 2023

23/10/22

Muore a 98 anni, Zilli Schmidt, sopravvissuta ad Auschwitz, portavoce del riconoscimento del genocidio nazista di Sinti e Rom

 


È morta Zilli Schmidt, una sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz, Lety e Ravensbrueck che si è fatta portavoce del riconoscimento del genocidio nazista di Sinti e Rom. Aveva 98 anni. 

Secondo la fondazione del Memoriale degli ebrei assassinati d'Europa, il memoriale dell'Olocausto di Berlino, la Schmidt è morta venerdì. Non è stata indicata la causa del decesso. 

Come uno degli ultimi sopravvissuti al genocidio di Sinti e Rom, ha dichiarato la fondazione in un comunicato, la morte di Schmidt "lascia dietro di sé un profondo vuoto". 

Sia i Sinti che i Rom sono popolazioni gitane che vivono prevalentemente nell'Europa orientale. 

Gli storici stimano che fino a 500.000 Sinti e Rom siano stati uccisi durante l'Olocausto. 

Nata come Zilli Reichmann nello stato tedesco orientale della Turingia nel 1924, la Schmidt è cresciuta in una famiglia sinti tedesca di commercianti di strumenti e gestori di cinema ambulanti. 

Fu arrestata e inviata al campo di concentramento di Lety nel 1942 e poi, insieme alla sua famiglia, ad Auschwitz-Birkenau nel 1943

Zilli Schmidt da giovane, prima dell'arresto nazista, con un amica


Nel 1944, la Schmidt fu deportata da Auschwitz al campo di concentramento di Ravensbrueck, in Germania. 

Lo stesso giorno in cui fu trasferita, gran parte della sua famiglia, compresi i genitori, la figlia e la sorella, furono uccisi insieme a molti altri Sinti e Rom ad Auschwitz

Dopo la guerra, la Schmidt si è battuta per il riconoscimento e l'aiuto delle vittime del genocidio nazista.

In seguito, ha iniziato a parlare pubblicamente delle sue esperienze contro il razzismo e l'estremismo di destra. 

Nel 2021 ha ricevuto la Croce Federale al Merito, che premia coloro che hanno dato un contributo notevole alla società tedesca. 

"Lei ci ha raccontato le sofferenze dei Sinti e dei Rom sotto la dittatura nazionalsocialista, a Lety, Auschwitz e Ravensbrueck, dove era stata deportata", ha detto all'epoca il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier. 

Dopo la notizia della sua morte, il ministro della Cultura tedesco Claudia Roth ha elogiato Schmidt come una persona con il "coraggio di affrontare le rimostranze" sia del passato che del presente. "Sono eternamente grata che Zilli abbia scelto di parlare della sua vita e degli orrori che le sono accaduti", ha dichiarato Roth in un comunicato. Schmidt mancherà "come testimone contemporaneo, come combattente per il riconoscimento del genocidio dei Sinti e dei Rom", ha aggiunto Roth. 

05/10/22

Libri: Arriva in Italia "Hitler, la manipolazione, il consenso, il potere"



"Hitler aveva una capacita' quasi medianica di comprendere le piu' profonde aspirazioni del popolo tedesco". A quasi ottant'anni dalla sua morte nel bunker della Cancelleria a Berlino ha ancora senso interrogarci sulla sua eredita' e sulla modernita' della sua leadership? 

La risposta e': ora piu' che mai

Basta leggere il volume Il leader, su Adolf Hitler: la manipolazione, il consenso, il potere scritto dallo storico Davide Jabes. 

Un libro scorrevole, divulgativo, con alla base la volonta' di non volere essere tanto una nuova ricerca sull'attivita' del dittatore tedesco, quanto una riflessione sulla sua 'presenza'. 

Sulla insondabile ma ricorrente seduzione esercitata dal despota sulle masse che lo acclamano.

Una necessaria lettura da fare superando "il naturale disgusto" verso la persona e la ricerca del nemico da annientare, a partire dagli ebrei, suggerisce l'autore, per iniziare "seriamente a preoccuparci di come avrebbe impostato l'esistenza dei suoi 'amici', ovvero di quel mondo che lo idolatrava o quanto meno gli ubbidiva". 

"In Italia, non molti anni fa, durante un quiz televisivo nessuno dei concorrenti seppe rispondere a una semplice domanda: quando era andato al potere Adolf Hitler", ricorda Jabes nella prefazione al libro. 

Il Fuhrer "diede risposta a masse di diseredati, di persone schiacciate da un presente terribile promettendo loro un futuro radioso, il tutto risultando credibile e onesto (questa forse la sua performance 'artistica' migliore). Perche' non considerare la sua pericolosa eredita' non degna della massima attenzione, quando oggi una moltitudine assai maggiore aspetta di essere sollevata dallo stato di costante miseria economica e sociale in cui versa?". 

Il volume analizza la giovinezza di Hitler, il condizionamento disturbante avuto dalla sua famiglia di origine nonche' la giovinezza trascorsa a Vienna, dove sviluppa quel rifiuto della societa' multiculturale, multilinguistica per abbracciare a Monaco sintesi piu' semplificatrici e rispondenti al suo bisogno di cercare il nemico a tutti i costi. 

Le trova nella destra bavarese e nell'antisemitismo che l'alimenta, nella sua disordinata e caotica costruzione di un modello illustrato con enfasi in un crescendo retorico ma quasi musicale

Per questo Jabes sottolinea l'importanza della passione di Hitler per Wagner e le sue frequentazioni dei teatri. Sono descrizioni e ricostruzioni molto suggestive, capaci di trasportarci nel vissuto di un uomo di cui vorremmo non parlare piu', mentre l'autore con professionale distacco ci mostra uno per uno quali sono i possibili agganci con l'attualita'. Sta a noi scegliere di interrogarci sul tema o chiudere il libro e ancora una volta far finta di niente, sperando che tutto si risolva da se'.

DAVIDE JABES
IL LEADER. ADOLF HITLER: LA MANIPOLAZIONE, IL CONSENSO, IL POTERE 
Solferino
pagine 251
18 euro 

29/08/22

Le incredibili circostanze che consentirono a Roman Polanski di salvarsi dall'Olocausto quando aveva 10 anni. L'emozionante incontro con i nipoti dei suoi salvatori

 

Roman Polanski adolescente, nel dopoguerra

Salvarono Roman Polanski durante la Shoah ed ora sono 'Giusti tra le nazioni', il massimo riconoscimento con cui il Mausoleo della Memoria di Yad Vashem a Gerusalemme onora chi ha protetto gli ebrei dai nazisti a rischio della propria vita. 

In Polonia un nipote di Stefania e Jan Buchala, la coppia di contadini cattolici che nascosero il piccolo Roman e lo salvarono, hanno ricevuto la legittimazione pubblica di un atto di grande coraggio. 

Quella di Polanski è una storia dal passato travagliata. Nato a Parigi nel 1933 da genitori polacchi - padre ebreo, Maurycy Liebling (in seguito Polanski), e madre cattolica, ma di origini ebraiche, Bula Katz-Przedborska - Polanski nel 1937, quando aveva solo 4 anni,  fu riportato in Polonia, mentre già la persecuzione anti ebraica era oramai all'apice nella vicina Germania e la guerra non sembrava poi così lontana.

Una scelta per molti versi incomprensibile e fatale, motivata, sembra, dal fatto che il padre di Roman temeva la persecuzione degli ebrei da parte dei francesi, sottovalutando in modo incredibile quel che stava succedendo in Germania, alle porte del suo paese. Non appena i tedeschi conquistarono la Polonia infatti, la sua famiglia fu confinata nel Ghetto di Cracovia: il padre fu poi deportato a Mauthausen mentre la madre finì ad Auschwitz. 

Roman Polanski con il padre Maurycy, sopravvissuto a Mauthausen, negli anni '70


Ma prima, i genitori cercarono di mettere in salvo il figlio, fiduciosi che potesse nascondersi in mezzo al resto della popolazione polacca. 

L'occasione fu fornita dalla madre: in quanto donna delle pulizie impiegata nel Castello Reale di Wawel, residenza del governatore nazista della Polonia Hans Frank in pieno centro di Cracovia, la donna poteva uscire dal Ghetto con un permesso

In una circostanza favorevole riuscì a portare con sé Roman insegnandogli la strada per arrivare all'appartamento di Heinrich e Casimira Wilk, una coppia di amici di famiglia cattolici

Nel marzo del 1943, prima di essere deportati, il padre portò il ragazzo nei pressi del reticolato che circondava il Ghetto e, dopo aver tranciato il filo metallico, lo fece scappare indirizzandolo verso la casa dei Wilk. 

Da loro Polanski restò nascosto per un certo periodo prima di essere trasferito da un'altra coppia di cattolici, Boleslav e Yadwiga Putek. Ma fu solo una tappa: la destinazione finale fu un isolato villaggio vicino Cracovia dove vivevano Stefania e Jan Buchala, poveri contadini con già tre figli. 

Roman Polanski sopravvisse ai nazisti e, alla fine della guerra, si riunì al padre scampato alla morte a Mauthausen. Ma non rivide più la madre, uccisa ad Auschwitz. 

Nella deposizione per Yad Vashem, il regista - come ricorda Haaretz - ha scritto: "Stefania, senza alcuna ricompensa, solo per amore degli altri, ha messo a rischio la sua vita, quella del marito e dei suoi figli, nascondendomi a casa sua per quasi 2 anni. Durante questo tempo, nonostante la povertà e la penuria di di cibo per la sua famiglia, mi ha nascosto e nutrito. Dopo la guerra, come regista, ho viaggiato per due volte in Polonia nel villaggio vicino Cracovia. Sfortunatamente non ho trovato nessun segno di vita da parte loro".

Stefania e Jan erano infatti morti entrambi nel 1953 e sepolti in una tomba poi svuotata per far posto ad altri deceduti. Ma il regista non si è arreso: dopo infinite ricerche e indagini negli archivi, ha finalmente rintracciato un loro congiunto

E quindi è stato Stanislaw Buchala a ricevere il riconoscimento di Yad Vashem a nome dei parenti che hanno salvato un piccolo ragazzino ebreo diventato un grande regista

Roman Polanski con Stanislaw Buchala, nipote della coppia di contadini che salvarono la vita a lui, bambino


Polanski utilizzò i suoi ricordi di bambino nel suo film più commovente, Il Pianista, e recentemente è tornato in patria paterna realizzando, nel ruolo di protagonista e non dietro la macchina da presa, il documentario Polanski Horowitz Hometown. Nonostante i suoi 89 anni appena compiuti, lo scorso 18 agosto, il regista resta sempre attivo e questo documentario è stato premiato al Festival di Cracovia. 

Ma qual è la trama di questa opera? Accompagnato dal suo amico di sempre e sopravvissuto alla Shoah, uno degli ebrei salvati da Oskar Schindler, il celebre fotografo Ryszard Horowitz che conobbe, durante la guerra, nel Ghetto di Cracovia, Polanski si è confrontato con il suo doloroso passato

Come ha sottolineato Mateusz Kudla, regista e produttore del documentario, messo in atto assieme ad Anna Kokoszka Romer, il filmato si concentra “sulla memoria, sul destino e sul trauma. Attraverso questi due personaggi, che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, – ha proseguito Kudla in un’intervista all’Agenzia di stampa francese France Press (AFP) – abbiamo voluto mostrare la tragedia di tutti gli abitanti del Ghetto che non ce l’hanno fatta”. 

Il documentario è forte ed emozionante in alcune scene. Infatti, in una delle sequenze, Polanski ricorda di aver visto un ufficiale nazista sparare a una donna anziana, con il sangue che schizzava dappertutto. “Terrorizzato, corsi attraverso il corridoio dietro di me e mi nascosi nelle scale” ha rievocato il regista nel filmato. Nonostante all’epoca avesse solo sette anni, quando la Seconda Guerra Mondiale cominciò, Roman ha trattenuto nella memoria ogni dettaglio. 

All’amico Horowitz, Polanski racconta che quell’episodio fu “il mio primo incontro con l’orrore”. 

Polanski a 18 anni con un amico

Un momento molto commovente della pellicola è l’incontro fra Polanski, visibilmente commosso, e i nipoti di Stefania e Jan Buchala, i contadini polacchi cattolici che lo nascosero dai nazisti.

Come ha puntualizzato il Times of Israel, il documentario Hometown si concentra sull’infanzia di Polanski, evitando qualsiasi riferimento agli scandali da lui vissuti, che l’hanno bandito da Hollywood e gli precludono il ritorno in America per “timore di essere arrestato”. Soddisfatti del lavoro svolto, i registi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka Romer hanno dichiarato che “si tratta di qualcosa che rende Roman Polanski testimone della storia e utile a impedire che tutto questo possa accadere di nuovo in futuro”. Si sono poi augurati che presto il documentario possa essere distribuito e disponibile online o in streaming.

06/05/22

E' vero che Mussolini si fece costruire un Bunker sul Monte Soratte?

 



E' stato già dai primordi dell'antichità, un monte considerato sacro dove sorgeva, sulla sommità, che domina la valle del Tevere, a pochi chilometri da Roma, un vetusto Tempio di Apollo, cristianizzato in età antichissima, che servì anche da eremo a papa Silvestro I, esiliato da Massenzio e poi diventato dopo la Battaglia di Ponte Milvio consigliere stretto di Costantino imperatore, e il fautore della cristianizzazione urbanistica di Roma. 

Sul Soratte, però, non c'erano soltanto mistici, predicatori, o astronomi. 

Nel 1937, per volere di Benito Mussolini, fu infatti avviata sul Monte Soratte, data la vicinanza con la Capitale, la realizzazione di numerose gallerie all’interno della montagna, che sarebbero dovute servire da rifugio antiaereo per le alte cariche dell’Esercito Italiano, pur sotto le mentite spoglie di fabbrica di armi della Breda: le cosiddette “officine protette del Duce”. 

Cioè un vero e proprio Bunker. 

I lavori furono svolti sotto la direzione del Genio Militare di Roma e, ancora oggi, questo dedalo ipogeo costituisce una delle più grandi ed imponenti opere di ingegneria militare presenti in Europa (circa 4 km di lunghezza: una vera e propria città sotterranea). 

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare nel settembre del 1943, il “Comando Supremo del Sud” delle forze di occupazione tedesche in Italia, guidato dal Feldmaresciallo Albert Kesselring, si stabilì sul Soratte. 

Per un periodo di circa dieci mesi, le gallerie si prestarono come valido rifugio segreto per le truppe naziste e resistettero al pesante bombardamento del 12 maggio 1944,effettuato da due stormi di B-17 alleati, partiti appositamente da Foggia per distruggere il quartier generale tedesco al Soratte. 

Sembrerebbe che, prima di abbandonare l’area, il Feldmaresciallo dette ordine di minare ed incendiare tutto il complesso ipogeo e di interrare delle casse contenenti parte dell’oro sottratto alla Banca d’Italia: le stesse non sono mai state ritrovate.

Per anni, dopo la fuga delle truppe tedesche successiva al bombardamento, il complesso visse periodi di totale abbandono

Fu solamente nel 1967, durante gli anni della Guerra Fredda, che, sotto l’egida della N.A.T.O., venne modificato un tratto delle gallerie, che assunse l’aspetto di bunker anti-atomico, che avrebbe ospitato il governo italiano e il presidente della repubblica in caso di attacco atomico sulla capitale

I lavori, solo parzialmente terminati, si protrassero fino al 1972, quando, per ragioni ancora incerte, vennero bruscamente interrotti

L’area, da alcuni anni, è stata riacquisita dal Comune di Sant’Oreste ed è oggetto di un progetto di recupero delle ex-caserme e di allestimento di un museo storico diffuso, denominato “Percorso della memoria”. 

Oggi le gallerie sono visitabili grazie all'impegno della Libera Associazione Culturale Santorestese “Bunker Soratte”.

Tutte le info per visitare il Bunker al sito: https://bunkersoratte.it/

Informazioni tratte da https://bunkersoratte.it/







06/04/22

Libro del Giorno: "Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò" di Raoul Precht

 


E' di grande interesse, e anche di grande attualità, l'uscita in queste settimane del nuovo libro di Raoul Precht, edito da Bottega Errante, che si concentra sulla vicenda personale, umana e letteraria di Stefan Zweig, inquadrata in un anno cruciale della sua vita, il 1935. 

Precht, studioso attento della letteratura europea e tedesca in particolare (lingua quest'ultima che egli conosce come la madre lingua italiana), dopo Kafka (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, 2014) e Sternheim (Carl Sternheim, Schulin, La Camera verde, 2015), si rivolge alla figura di Stefan Zweig, prolificissimo scrittore ebreo, nato a Vienna nel 1881, vissuto a cavallo tra i due secoli, profondo pacifista e umanista, travolto dagli eventi drammatici del Novecento, il quale abbandonò definitivamente il suo paese dopo l'Anschluss nazista, finì i suoi giorni nel lontano Sud America, suicidandosi, nel 1942, insieme alla sua seconda moglie Lotte. 

Dal suo primo racconto pubblicato a 19 anni, Primavera al Prater, Zweig fu instancabile, pubblicando una mole incredibile di romanzi e racconti, poesie e testi teatrali, memorie e lettere, saggi e articoli, raccolte e antologie, e numerosissime biografie che vanno da Tolstoj a Fouché, da Maria Stuarda a Toscanini, da Magellano a Montaigne e tantissimi altri. 

Il libro di Raoul Precht incrocia la vita di Zweig nel suo anno cruciale, da gennaio del 1935 al gennaio successivo, lo scrittore si trova ad attraversare le sliding doors che ne decideranno il destino: è l'anno in cui la moglie Friderike (che Zweig aveva sposato prendendo con sé anche le due figlie avute dalla donna dal suo precedente matrimonio) scopre la sua relazione con Lotte Altmann, la sua segretaria, alla quale lo scrittore si legherà definitivamente in seguito, sposandola, e condividendo con lei il gesto estremo del suicidio. 

Ma è anche l'anno in cui, a seguito di un primo scontro con la polizia locale, Zweig decide di lasciare Salisburgo e l'Austria e di stabilirsi in Gran Bretagna. Il suo paese infatti, come la Germania, è irretito dalle sirene naziste e il clima per gli ebrei comincia a farsi irrespirabile. 

Zweig inizia un inquieto pellegrinaggio che lo porta in dodici mesi a spostarsi tra Nizza e New York e poi Vienna, Zurigo e le alpi svizzere, Marienbad, Parigi, Londra e infine nuovamente Nizza. 

In questo errare lo scrittore incontra, in giro per l'Europa, scrittori e artisti con i quali è in rapporti di amicizia, da Thomas Mann a Joseph Roth, da Sigmund Freud a Arturo Toscanini. 

Precht sceglie la cifra stilistica di un romanzo biografico: né una vera biografia, né un vero romanzo. La ricostruzione accuratissima degli spostamenti, degli incontri, dei particolari anche apparentemente trascurabili, contribuiscono a ricostruire il clima di un tempo difficile, che lo spirito inquieto di Zweig attraversa come sotto effetto di una febbre cerebrale.  

Si stringe la morsa intorno a lui e intorno ai suoi amici: si impone di abbandonare le scelte di una vita comoda, facile, colma - nel caso di Zweig - anche di riconoscimenti e onori.  Si impone di predisporsi ad abbandonare ciò che è più caro e salpare verso l'ignoto. 

Non solo: la vita di quei mesi obbliga anche a scegliere quale atteggiamento opporre di fronte all'avanzare dell'orrore, della discriminazione, dell'odio, incarnata dal tiranno Hitler, pronto a spaccare il mondo in due e a metterlo a ferro e fuoco. 

Zweig, anche rischiando l'incomprensione o la censura dei suoi amici più cari - magari ebrei come lui, come è il caso di Roth - sceglie un atteggiamento riservato, di non aperta denuncia: non si schiera, non fa appelli, non dà la caccia al mostro. 

Altri gli dicono che è ora, invece, di rompere gli indugi e chiamare il demonio con il suo nome. Ma Zweig temporeggia: la sua indole, il suo credo profondamente pacifista, gli impongono prudenza e desiderio di distacco. E' la natura umana a deluderlo, la triste evoluzione di un destino collettivo - e quindi anche personale - che distrugge il sogno della vita bella, della vita dedicata alla conoscenza, al sapere, alla consapevolezza. 

Zweig si avvicina alla fine della sua vita, sentendo che le forze gli vengono meno, dopo anni di vagabondaggio e sa che il porto del ritorno per lui è precluso per sempre. Cerca rifugio dunque, nell'unica cosa che può dargli piacere e in fondo salvezza: il lavoro, il lavoro intellettuale. 

Verrà un tempo - e verrà presto, di lì a sette anni  - in cui anche questo non basterà più e Stefan abbraccerà il suo desiderio di dissoluzione in compagnia della donna che ha deciso di condividere con lui il suo destino. 

Il libro di Raoul Precht, letto in questi tempi in cui i tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare così forte - e proprio nel cuore della vecchia Europa - si impone come una lettura non solo qualitativa, ma necessaria. 


Raoul Precht

Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò

Bottega Errante Edizioni,2022 

pagg. 198, Euro 17


Fabrizio Falconi - aprile 2022


04/04/22

Perché la Shoah (l'Olocausto) è un "unicum" nella storia umana?


Specialmente in questi anni così confusi, di negazionismi sfrenati, benaltrismi, narcisismi piccoli e grandi che si esaltano nella confutazione spavalda dell'ovvio e del naturale, col pretestuoso e l'inaccettabile, vale la pena riportare qui la risposta forse più chiara ed esaustiva possibile alla domanda che spesso si sente ripetere, ovvero: per quali motivi la Shoah, l'Olocausto degli ebrei da parte dei nazisti, durante la Seconda Guerra mondiale è un "unicum" nella storia umana, e perché è sbagliato concettualmente e materialmente equipararlo ad altri tipi di genocidi terrificanti che sono stati compiuti nella storia. 

La risposta è piuttosto evidente e ciascuno di noi dovrebbe conoscerla, ma Lisa Palmieri-Billig dell'American Jewish Committee l'ha spiegato recentemente con poche parole essenziali che meritano di essere divulgate il più possibile: 

"La Shoah è stata pianificata a sangue freddo secondo precisi concetti di efficienza e tecnologia moderna. Fu eseguita da una civiltà altamente istruita, colta, avanzata, con l'uso di un diabolico, meticoloso piano di omicidio di massa mirato alla totale estinzione di tutti i membri di un certo popolo, una certa religione, una certa tradizione e cultura. Erano condannati per il loro Dna: uomini, donne, bambini, neonati, vecchi e infermi, tutto coloro a quella che era considerata una "razza inferiore". 

Più chiaro di così. 

Fabrizio Falconi - 2022

04/03/22

Come nacque il meraviglioso discorso di Chaplin nel "Grande Dittatore" ?


Specialmente in questi tempi di ansia e di guerra, torna alla mente il monologo finale del Grande Dittatore, uno dei più famosi monologhi cinematografici di sempre, nel capolavoro scritto, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin. 

Come si sa, uscito negli Stati Uniti nel 1940, dunque all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, il film rappresenta una geniale parodia dei regimi nazi-fascisti che a quel tempo imperversavano in Europa, mettendo alla berlina i dittatori e i loro aiutanti  di quel tempo, da Hitler a Mussolini, da Goebbels a Goering. 

Si tratta del primo lungometraggio interamente parlato di Chaplin: il regista sapeva che far parlare il suo personaggio più famoso, Charlot, avrebbe potuto snaturarlo fino a ucciderlo, ma sentiva anche di vivere in un contesto storico in cui parlare era diventato un dovere

Ciò che ancora oggi colpisce del monologo pronunciato da Chaplin, nei panni del barbiere ebreo scambiato per la sua somiglianza con il dittatore, è la sua universalità, il suo messaggio umanista e pacifista, che non è mai invecchiato. 

Il testo del monologo è interamente opera di Chaplin che scrisse interamente da solo la sceneggiatura del film. 

Nel discorso finale, il barbiere, nei panni di Hynkel, adotta un tono radicalmente diverso dal resto del film (per lo più una serie di gag visive ) per una sequenza genuinamente seria e piena di dramma, un messaggio politico profondo, apparendo in un'inquadratura statica  per più di sei minuti, un tempo eccezionalmente lungo, durante i quali Chaplin si rivolge direttamente allo spettatore e il personaggio del barbiere lascia il posto allo stesso Charles Chaplin. 

Nella celebre scena, Chaplin sbatte le palpebre meno di dieci volte durante l'intero discorso finale.

Charlie Chaplin ebbe l'idea del film quando un amico, Alexander Korda, notò che il suo personaggio sullo schermo e Adolf Hitler sembravano in qualche modo simili. 

Chaplin, in seguito, apprese che lui e il dittatore erano nati entrambi a una settimana di distanza e avevano più o meno la stessa altezza e peso ed entrambi hanno lottato nella povertà, fino a raggiungere un grande successo in campi diametralmente opposti: quello del potere assoluto politico e quello artistico. 

Quando Chaplin venne a conoscenza delle politiche di Hitler di oppressione razziale e aggressione nazionalista, usò le loro somiglianze come ispirazione per attaccare Hitler mediante la pellicola. 

Il cineasta - originariamente - intendeva chiamare il film The Dictator, ma ricevette un avviso dalla Paramount Pictures che, qualora avesse scelto questo titolo, gli avrebbero addebitato 25.000 dollari: Chaplin accettò le imposizioni della Paramount Pictures e inserì Great nel titolo.

Il regista raccontò in seguito che indossare il costume di Hynkel lo aveva fatto sentire più aggressivo e quelli a lui vicini ricordano che era più difficile lavorare con lui nei giorni in cui stava girando nei panni del personaggio.

Fabrizio Falconi -2022 

12/02/22

Quando i Neonazi manifestavano liberi nel 1962 a Londra, a Trafalgar Square

 


Una bella miniserie prodotta da BBC, "Ridley Road", in 4 puntate di 1 ora ciascuna, ancora in attesa di trovare un distributore in Italia, ha riportato alla memoria l'incredibile vicenda di un gruppo neonazista che in Gran Bretagna, ispirandosi direttamente ad Adolf Hitler, nel dopoguerra, riuscì a manifestare liberamente per le strade di Londra, come conferma questa foto storica scattata a Trafalgar Square, nel 1962.

Il gruppo era capitanato dal politico Colin Jordan, e dalla moglie francese, Francoise Dior, che oltre ad essere la dama nera del movimento inglese, era anche la nipote (figlia del fratello) di Christian Dior. 

Ero piuttosto curioso, dopo aver visto la serie, di scoprire quanto nella fiction ci fosse di vero. E sembra proprio che la ricostruzione sia molto fedele ai fatti. 

Nell'Inghilterra del dopoguerra Colin Jordan, figlio di un impiegato postale scozzese, cavalcò la frustrazione di un popolo che molto aveva sofferto durante la Seconda Guerra Mondiale, con un inaudito numero di perdite umane; lanciando lo slogan che tutto questo era stato fatto "per salvare gli ebrei" e quindi, tutto sommato, per colpa loro. 

Cominciò così una campagna dai toni sempre più aggressivi nei confronti degli ebrei inglesi, fino a quando Jordan non fu arrestato con l'accusa - e le prove - di aver organizzato una forza paramilitare sul modello delle SA naziste. 

Ridley Road ripercorre con tocco lieve ma efficace, la storia di due infiltrati - ebrei - che riuscirono a sabotare l'organizzazione di Jordan, fornendo a Scotland Yard, le prove della loro attività criminale. 

Come sempre, quando si tratta di serie inglesi, la ricostruzione è perfetta negli ambienti, nel clima, e nei personaggi. 

Tra tutti i (bravi) attori, menzione particolare per Rory Kinnear, attore shakespeariano che incarna magistralmente il nevrotico represso Jordan. 

Fabrizio Falconi - 2022 



21/01/22

Quando Gregory Peck interpretò (con sue grandi perplessità) il ruolo del criminale nazista Josef Mengele, "l'angelo della morte"

 

Nel 1976 uscì un romanzo, "I ragazzi venuti dal Brasile", dello scrittore americano (ebreo) Ira Levin che ebbe un successo strepitoso, raccontando l'immaginaria seconda vita del criminale nazista Josef Mengele, autore di atroci pratiche nei lager nazisti e sfuggito alla cattura dopo la fine della seconda guerra mondiale. Levin, appunto, lo immagina fuggito in Brasile sotto falsa identità e dedito, nella sua fazenda immersa nella foresta, alla realizzazione di un folle esperimento per creare dei cloni attraverso il sangue e i tessuti di Hitler, prelevati dallo stesso Mengele. 

Nell'agosto 1976, visto il grande successo del romanzo, fu annunciato che il gruppo di produttori formato da Robert Fryer, Martin Richards, Mary Lee Johnson e James Cresson, aveva opzionato i diritti cinematografici. Il film, inizialmente offerto al regista Robert Mulligan fu poi assegnato a Franklin Schaffner, incaricato di dirigerlo. Nel maggio 1977 fu annunciata la notizia che il grande Laurence Olivier avrebbe recitato nel film.

A Olivier però, già malato (stava accettando tutti i lavori cinematografici ben retribuiti che poteva, ottenere per provvedere a sua moglie e ai suoi figli dopo la sua morte) che aveva appena interpretato la parte di un sadico medico nazista nel bellissimo The Marathon Man (Il maratoneta) di John Schlesinger (1976), non andava a genio l'idea di calarsi nuovamente nella parte di un criminale nazista come Mengele.

A questo punto, i produttori chiesero a Gregory Peck, che si era unito al film a luglio, di interpretarlo. Peck, che al cinema aveva quasi sempre interpretato ruoli virtuosi, era assai riluttante per questioni personali, ma alla fine accettò di interpretare Mengele solo perché in questo modo avrebbe avuto l'opportunità di lavorare con Sir Laurence Olivier, che stimava da sempre. 

Anche Lilli Palmer, nel cast, accettò un piccolo ruolo solo per lavorare con Olivier.

Olivier ebbe così il ruolo dell'altro protagonista del film, l'immaginario Ezra Lieberman, che si ispirava direttamente al "cacciatore di nazisti" SimonWiesenthal  

Il film fu girato quasi interamente in Portogallo.

Ne scaturì un film di grande qualità, soprattutto per la stellare levatura dei suoi interpreti, con diverse scene che vedono il confronto tra Peck e Olivier, tra cui quella del violento litigio tra Lieberman e Mengele che, raccontano le cronache, richiese circa tre o quattro giorni di riprese a causa della salute cagionevole di Olivier in quel momento. 

Peck, più tardi, ricordò che lui e Olivier "erano sdraiati sul pavimento" ridendo dell'assurdità di dover filmare una scena di combattimento del genere alla loro età avanzata. Non solo due grandi attori, ma due vere pietre miliari nella storia del cinema. 

Il grande Laurence Olivier nei panni di Ezra Lieberman


14/09/20

"Never Gone - Mai Andati Via" , un corto rievoca il tragico eccidio nazista del 28 dicembre 1943 a Cardito Vallerotonda




Il cortometraggio che pubblico oggi,  Never Gone - Mai andati via, è di grande interesse perché ricostruisce vicende storiche che non bisognerebbe mai dimenticare e che appartengono al nostro recente passato e in particolare a una delle numerose stragi compiute dall'esercito nazista nelle regioni dell'Appennino del centro Italia, dopo l'8 settembre 1943. 

Pur nella limitatezza dei mezzi a disposizione, il corto è assai bello ed è fatto per richiamare l'attenzione delle generazioni più giovani che oggi raramente dispongono di una memoria viva (nonni) diretta e  orale a cui attingere. 

Gli attori sono tutti dilettanti e sono stati scelti direttamente tra la popolazione attuale del piccolo paese, Cardito Vallerotonda, che si trova nel basso Lazio al confine con il Molise. 

Qui sotto il riassunto della vicenda storica:

28 dic.1943

Nell’ottobre 1943 un giovane del paese uccise due soldati tedeschi e ne ferì un terzo, causando la rappresaglia. Nel novembre venne ucciso un giovane di sedici anni. 

La zona divenne luogo di transito o di rifugio dei soldati italiani sbandati che cercavano di passare il fronte e dei prigionieri alleati fuggiti essenzialmente dal campo di Sulmona. Due ufficiali americani installarono a Vallerotonda una stazione radio trasmittente che per molto tempo dette informazioni agli Alleati sulla dislocazione delle truppe tedesche e sulle localizzazioni delle piazzole per l’artiglieria, installate nei dintorni di Vallerotonda. 

Vane furono le ricerche e le intercettazioni tedesche per individuare la trasmittente. Dopo aver affisso bandi e minacciato la popolazione, la rappresaglia portò alla fucilazione di 5 paesani e la morte di un sesto “in seguito ai lavori forzati”. 

Infatti, Vallerotonda era visitata tutti i giorni dalle SS tedesche che rastrellavano uomini per i lavori di fortificazione nel fronte di guerra. 

Secondo una testimonianza, si apprende che quando venivano avvistati i camion tedeschi dall’alto del paese, gli uomini si davano alla fuga e rientravano la sera al cessare del pericolo. 

Ma la più sconvolgente tragedia è l’eccidio di Collelungo. 

Il 28 dicembre 1943, per 42 persone – tra i quali bambini da 2 a 12 anni d’età – della frazione di Cardito e di zone limitrofe, compresi 4 soldati italiani sbandati che si erano uniti al gruppo accampato sul greto di un torrente, fu decisa senza alcuna ragione plausibile la loro uccisione dal Comando tedesco; una quarantina di Alpenjaeger tedeschi effettuarono l’esecuzione e dopo coprirono i corpi dei morti e dei sopravvissuti sotto la neve e il frascame. 

Al tramonto gli scampati, compreso uno dei quattro soldati, si districarono dal mucchio delle vittime e raggiunsero la montagna. 

Amara fu la liberazione di Vallerotonda, avvenuta il 14 gennaio 1944 per opera delle truppe di colore del Corpo di Spedizione francese che furono protagoniste di violenze e soprusi sulla popolazione.




 

29/07/20

Quando i nazisti bruciarono le Navi di Caligola a Nemi

L'Ancora di legno di una delle due Navi di Caligola recuperata negli anni '20 e '30 nel Lago di Nemi


I nazisti in ritirata bruciarono le navi di Caligola e ora il comune di Nemi chiede i danni alla Germania

La giunta comunale della cittadina laziale ha votato una delibera su proposta del primo cittadino, Alberto Bertucci per chiedere i danni alla Germania per la distruzione "delle due famose navi romane dell'Imperatore Caligola". 

Le due navi, ritrovate nel secolo scorso tra il 1928 e il 1932, furono 'dolosamente e intenzionalmente bruciate la notte del 31 maggio 1944 dal 163° Gruppo Antiaereo Motorizzato tedesco che occupava la zona ed era in ritirata'. 

Dunque "quel danno irreparabile di un bene archeologico non fu il risultato di una imprevedibile azione bellica ma -spiega il sindaco Bertucci- un consapevole gesto di sfregio. Per questo chiediamo il risarcimento". 

"Si ritiene - aggiunge il Sindaco Alberto Bertucci" di sottoporre a giudizio risarcitorio nei confronti della Repubblica Federale di Germania per i danni morali e materiali subiti dalla collettivita' di Nemi a causa dell'irreparabile danno causato a un bene archeologico di inestimabile valore". 

"Abbiamo ritrovato relazioni, ampie documentazioni, testimonianze: i nazisti allontanarono tutti i residenti e il custode. Decisero di dare alle fiamme quei tesori. Non c'e' dubbio", aggiunge Bertucci. Il sindaco (che guida una lista civica di centro) pero' va oltre: «Noi non chiediamo semplicemente i danni. 

Vorremmo che, con un gesto significativo di spirito europeo, le autorita' tedesche collaborassero con noi per ricostruire cio' che emerse delle due navi ricorrendo alle nuove tecnologie di riproduzione. Grazie a un libro dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato del tempo, abbiamo una grande mole di dati, misure, immagini per procedere a un'opera di riproduzione, in concorso col governo tedesco e magari con la mediazione del nostro ministero per i Beni e le attivita' culturali». 


03/04/19

L'incredibile storia di Luigi e Mokryna.

Passeggiando tra i più bei parchi di Kyiv, capitale dell’Ucraina, si possono ammirare numerosi monumenti, tra questi una statua in particolare di due anziani che si abbracciano attira l’attenzione dei passanti. La scultura commemora la commovente storia di Luigi Pedutto e Mokryna Yurzuk e celebra una incredibile storia d'amore durata oltre settant’anni che ha affrontato una guerra, ha valicato i confini e ha superato le barriere linguistiche.
Chi sono questi due innamorati e perché la loro storia d’amore è così importante? Tutto ebbe inizio nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il cavaliere maresciallo Luigi Pedutto della Guardia di Finanza, originario di Castel San Lorenzo in provincia di Salerno, poco più che ventenne, viene deportato dai tedeschi nel campo di concentramento di Krems, nei pressi della città di Sankt Polten, in Austria. Fu lì che Luigi incontrò l’ucraina Mokryna Yurz, o meglio Maria come la chiamava lui, anche lei giovane ventenne deportata e condannata ai lavori forzati. Mokryna non parlava l’italiano e Luigi conosceva solo alcune frasi in ucraino ma nonostante ciò i due si innamorano perdutamente. In un luogo di tanto dolore e crudeltà la coppia riuscì a sopravvivere, grazie anche alla forza dell’amore, sostenendosi a vicenda: lui le portava da mangiare, lei in cambio gli cuciva gli abiti e insieme sognavano la libertà.
Quando il campo fu liberato nel 1945, la ragazza fu rimandata in Ucraina e a Luigi fu impedito dalle autorità sovietiche di unirsi alla sua innamorata. 

Tornati nel proprio paese d’origine, entrambi si sono sposati e hanno avuto figli ma non hanno mai dimenticato il loro vero e unico amore

Luigi non ha mai smesso di cercare la sua Maria e l’ha ritrovata solamente dopo sessant’anni grazie a un programma televisivo, nel 2004. In quel momento Luigi, il più emotivo dei due, ha potuto finalmente riabbracciare Mokryna, e da allora i due innamorati non si sono più separati.
Questa commovente riunione è stata immortalata e fusa in bronzo nel 2013, a oltre sessant’anni dal loro primo incontro, in un parco a Kyiv vicino al Ponte degli Innamorati, una destinazione popolare tra le giovani coppie che si promettono eterno amore

La scultura rappresenta l’amore tra Luigi e Mokryna, ormai anziani, stretti in un immortale abbraccio. 

Una copia esatta della scultura è stata inaugurata nella città natale di Pedutto, a Castel San Lorenzo, il 30 aprile 2017. L’opera è diventata simbolo di amore eterno tra due innamorati che la guerra ha riunito e poi separato. 

La versione italiana, chiamata la Fratellanza Universale, rappresenta metaforicamente un abbraccio tra due popoli, l’Italia e l’Ucraina, che hanno entrambi sofferto per i tragici eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale.
Luigi Pedutto è morto nel 2013 all’età di 91 anni e pochi anni dopo lo ha raggiunto Mokryna, ma il loro amore resterà scolpito in eterno.

01/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)

Non ha avuto forse abbastanza considerazione il maestro ungherese Istvàn Szàbo, di origini ebraiche (classe 1938),  nonostante alcuni suoi film siano arrivati anche al grande pubblico internazionale.

Come è stato il caso di Mephisto, uscito nel 1981, che fu candidato alla Palma d'Oro al Festival di Cannes di quell'anno (vincendo il Premio per la migliore sceneggiatura) e vinse l'Oscar per il miglior film straniero l'anno seguente (1982). 

Il film è notoriamente ispirato all'omonimo romanzo di Klaus Mann (figlio del grande Thomas e morto suicida nel 1949), scritto fra il '35 e il '36 dopo che la sua famiglia aveva lasciato la Germania subito dopo l'avvento del nazismo. 

Il romanzo - e il film - raccontano l'irresistibile ascesa del protagonista, l'eclettico attore Henrik H - sotto i panni del quale Mann aveva celato quelli del celebre attore Gustav Gründgens (marito, fra l'altro, di sua sorella Erika), suo ex amico carissimo, talento straordinario ma anche straordinariamente ambizioso, o meglio arrivista: determinato cioè a qualunque compromesso pur di arrivare al successo.

Il film mostra con una impeccabile sceneggiatura - e la prova monumentale di un grandissimo attore austriaco, Klaus Maria Brandauer - i turbamenti personali di Höfgen dopo l'ascesa di Hitler al potere, nel 1933.

Höfgen, nel pieno della sua scalata al successo, teme che tutto svanisca.  Deve oltretutto nascondere la relazione con Juliette, una ragazza mulatta, che ama e con la quale si esercita nella danza. In breve però, si decide a lasciarsi ogni responsabilità alle spalle, e assetato di successo, scende a patti con i nazisti, diventando presto anzi un favorito di Göering e un esponente di primo piano del teatro di regime.

Il film non si dimentica per la carica trascinante di Brandauer (irresistibile) nel tracciare il suo percorso faustiano: quello che molti intellettuali tedeschi decisero di intraprendere vendendo l'anima, sfruttando i gangli e la macchina di propaganda del regime nazista.

Ma Mephisto è anche una potente meditazione sul ruolo tra creatività e potere.  Tra ambizione personale e arte.  Gusto estetico e responsabilità morale. 

Un dilemma morale che Klaus Mann visse in prima persona, assistendo alla mutazione genetica del cognato, convertitosi al nazismo, contro cui si vendicò scrivendo questo romanzo; e che Szàbo deve aver sentito molto attuale anche nei decenni di Cortina di Ferro, oltre la quale scrisse e diresse questo film, nella Ungheria dei primi anni '80.

Fabrizio Falconi

Mephisto
di István Szabó 
Ungheria, 1981
durata: 144 minuti









05/01/19

Un'incredibile lettera ritrovata svela il "Giallo degli Uffizi", con il "Vaso di fiori" rubato dai nazisti.



Una lettera prova che un soldato tedesco della Seconda Guerra Mondiale, il caporale della logistica Herbert Stock, aveva trafugato e poi inviato a casa il quadro 'Vaso di Fiori' del fiammingo Jan van Huysum (1682-1749), tra i capolavori evacuati dagli Uffizi in ville della campagna fiorentina e poi rubato dalle truppe naziste in ritirata verso il Brennero

E' quanto rivela un reportage del settimanaletedesco Der Spiegel. 

Il 17 luglio 1944 Stock scriveva alla moglie Magdalena avvisandola che con la posta militare le avrebbe inviato la tela: "Ho un bel dipinto, fiori su tela. Lo spedisco. Starebbe bene in una cornice dorata". 

E cosi' la natura morta arrivo' nella casa del soldato, Halle an der Saale, in Sassonia, vicina a Lipsia, rimasta nella Germania Est (ex Ddr) anche se c'e' una seconda pista investigativa che porterebbe a Kassel, piu' a ovest.

Comunque sia la citta' sassone resta l'unica traccia certa su dove potrebbe esser stato il quadro poiche' poi, per decenni, pur essendo un'opera certificata, non se ne sapra' piu' nulla.

Si dovra' aspettare la caduta del muro di Berlino (1989) perche' la famiglia in possesso del dipinto potesse prendere contatti all'estero. 

Infatti nel 1991 il quadro viene proposto per una vendita alla case d'aste di Sotheby's a Londra, che pero' rinuncia a prenderlo in carico essendone incerta la provenienza

Negli anni 2000 quindi ci furono contatti, in piu' volte, da parte di alcuni legali degli eredi Stock, con le soprintendenze fiorentine alle quali lo offrirono in cambio di soldi, inizialmente 2,5 mln di euro che poi calarono a 500.000 euro, in pratica un riscatto. 

I funzionari del Ministero per i Beni culturali rifiutarono e denunciarono tutto all'autorita' giudiziaria. 

Quindi scatto' un'indagine per estorsione, coordinata dalla procura di Firenze, che vede adesso quattro cittadini tedeschi indagati. I carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio artistico nel tempo hanno individuato la famiglia del caporale, ma rimane tuttora ignoto il luogo dove viene conservato. 

Il dipinto fu portato via il 3 luglio 1944 dalla villa Bossi Pucci di Montagnana di Montespertoli (Firenze) dal reparto Kuntschutz incaricato di 'proteggere' le opere d'arte dagli eventi bellici. 

Nel viaggio verso la Germania, a Castel di Giovio (Bolzano), pero' le casse furono aperte e il quadro spari'. 

Intanto a Firenze si aspettano segnali dalla Germania dopo che a Capodanno il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha posizionato un cartello con la scritta 'Rubato' nella Galleria Palatina dove 'Vaso di fiori' era esposto fino al 1943. 

"Si e' consumato in questi decenni un continuo tentativo di sciacallaggio ed estorsione ai danni dello Stato italiano - ha commentato Schmidt - 'Vaso di Fiori' si trova in ostaggio da oltre 70 anni di persone che cercano di ottenere un riscatto dall'Italia per un capolavoro che legalmente le appartiene".