Visualizzazione post con etichetta nascita della tragedia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta nascita della tragedia. Mostra tutti i post

24/03/14

Dürer, Schiele, Mapplethorpe, l'arte di mettersi a nudo.


Non è un caso che è a cavallo tra '800 e '900 che si giunge, nei diversi campi dell'arte umana alla dissoluzione di quella immagine apollinea della realtà - e dunque anche dell'uomo - che in Occidente, dalla lezione dei grandi padri greci, fino all'esplosione dell'Umanesimo e del Rinascimento, e oltre ancora, avevano ribadito la fede dell'uomo nella conoscenza.  Nella sua capacità di com-prendere il mondo e dunque anche se stesso. Categorizzando, analizzando, dividendo, studiando, classificando.
Il pensiero filosofico, in quel periodo di passaggio cruciale, tra '800 e '900, prima della esplosione terminale del primo conflitto mondiale, rovescia in Occidente questo convincimento.
Nietzsche a ventotto anni, nella Nascita della Tragedia, 1872, teorizza il ritorno allo spirito originario del pre-socratismo, nel quale Dioniso e Apollo, la notte e il giorno, la realtà metafisica e la realtà dell'apparenza, il dolore del conflitto e la pace dello spazio-tempo, il molteplice del principium individuationis e il molteplice della lotta, tornano a convivere, non più separati.

Cambia anche lo sguardo dell'uomo, su se stesso. 
Nell'arte, l'uomo e l'artista, sono finalmente nudi. Senza idealizzazioni, senza fingimenti, senza proporzioni, senza costruzioni. Pura evidenza. 
Una operazione già tentata, genialmente, da Albrecht Dürer, quasi quattro secoli prima, in un celebre autoritratto-verità, di modernità sconvolgente. 


Albrecht Dürer, Autoritratto nudo, c.1503, Penna e pennello, inchiostro nero con biacca su verde preparate carta, 290 x 150 millimetri, Schlossmuseum, Weimar.


L'esempio antesignano di Dürer, viene ripetuto, in quegli anni cruciali, con ulteriore crudezza e senso dell'essenziale da artisti attratti dalla dissonanza, risucchiati dalla possibilità/necessità di spezzare la forma - anche quella del proprio involucro umano - per esporre quello che c'è dentro: la solitudine, la nudità, la pura essenza, l'ombra del dionisiaco e il sogno dell'apolinneo, ciò che convive nello spirito di ciascun essere umano. Così si ritrae dunque Egon Schiele, in uno dei suoi forsennati autoritratti-verità.

Egon Schiele, Autoritratto nudo, 1917, Albertina, Vienna.

Un cammino di ricerca e di scandaglio personale che prosegue per tutto il Novecento fino ai giorni nostri, in forme sempre più esplicite ed estreme.
In fotografia, Robert Mapplethorpe, compie su di sé delle vere e proprie autopsie-viventi. X-portfolio è la sua opera-shock in cui ritrae anche se stesso in ogni tipo di posizione e atteggiamento della estesa casistica sado-maso. Di qualche mese prima è questa foto del 1975. 
Mapplethorpe si mostra nascondendo quello che non serve.  Mostra il suo braccio teso, in un atteggiamento che ricorda da vicino una moderna crocefissione. La purezza dell'immagine è caravaggesca.  Robert sorride, è forse l'unica foto nella quale lo si vede sorridere. Eppure è un sorriso pieno di ombre.  La purezza e bellezza apollinea della forma già si confonde con il cuore dionisiaco che non vuol saperne di restare nell'ombra, e troverà le sue strade. 
Il braccio proteso sembra quello dipinto da Caravaggio, ne La vocazione di San Matteo.  Una chiamata rivolta all'ombra.  Dalla luce provvisoria, già calante.  Come il genio di Merisi, Mapplethorpe condivideva dentro di sè il discorso di Apollo e l'ebrezza di Dioniso. Entrambi vivevano in loro. Entrambi in loro si mostravano


Robert Mapplethorpe (1946-1989), Autoritratto nudo, 1975. Polaroid print (40.6 x 50.8 cm).


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata