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29/01/24

"Quintetto Romano" - cinque racconti di Raoul Precht che diventano un romanzo (su Roma)

 




"Roma assegna a ciascuno il proprio posto", così scriveva Ludwig Feuerbach, uno dei tanti uomini illustri stregati dalla magia di Roma, quando gli capitò di visitarla. 

E' qualcosa che viene in mente quando si legge il nuovo libro di Raoul Precht, uno dei più interessanti autori italiani (anche se vive in Lussemburgo), recentemente finalista al Premio Comisso, con il suo Stefan Zweig - L'anno in cui tutto cambiò (Bottega Errante, 2023).

Lettore accanito e studioso quasi onnivoro, Precht con questo libro - dalla classificazione piuttosto difficile - sceglie dal mazzo dei suoi autori preferiti (o inseguiti o ammirati), con gusto eterogeneo, cinque grandi, uniti da un fil rouge  "territoriale", ovvero accumunati dalla stessa esperienza di aver attraversato la Città Eterna, di averla visitata, di averci vissuto per qualche tempo o esserci semplicemente capitato per un breve viaggio, e comunque, di esserne stati trasformati, come è successo a tanti, in ogni epoca, prima di loro. 

Questo sottile fil rouge - apparentemente labile - diventa invece consistente durante la lettura perché lo "sguardo emotivo" come direbbe Wim Wenders di questi grandi scrittori, intercetta anche senza volerlo, l'essenza impalpabile di Roma, quella che - faceva notare Georg Simmel - si esprime attraverso l'accostamento "casuale" di cose e resti che come relitti si abbinano insieme, a Roma costituendo qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle parti singole. Qualcosa di quasi organico se è vero, come sottolineava Sigmund Freud (anche lui ammaliato da Roma), che l'Urbe assomiglia ad una entità psichica, dove ad ogni strato, ad ogni epoca, ad ogni livello di rovine, corrisponde un livello psichico, dall'esteriorità del carattere (la superficie, il caos quotidiano) fino all'inconscio più profondo delle catacombe, dei mitrei, delle cavità inesplorate. 

E' dunque un viaggio "dell'anima" quello di cui Precht si fa voce, reinventando (sempre sulla base di rigorosissimi referti "veri", cioè lettere, racconti personali, diari, biografie dei 5 diversi autori) una sorta di "romanzo collettivo" o "a più voci", che nell'ambito di racconti contingenti - le "panzane" di Stendhal sulla sua qualità di testimone del celebre e disastroso incendio di San Paolo fuori le Mura o il seppellimento di un topolino nel prato di Villa Borghese compiuto un giorno da John Cheever - costituiscono un continuum dentro il quale si finisce per abbandonarsi. 

I cinque autori scelti da Precht - ciascuno portatore della sua voce e del suo contributo - sono Stendhal, Nikolaj Gogol, Romain Rolland, Malcom Lowry e John Cheever e l'intervallo di tempo che coprono i loro soggiorni vanno, in ordine cronologico, dal 1823 (quello di Stendhal) al 1956 (quello di Cheever). 

I cinque "racconti" scritti da Precht, tutti senza dialoghi, alcuni in prima persona (Stendhal mediante una lunga lettera "inventata" ma del tutto realistica), altri in terza persona, non hanno però lo scopo di imitare lo stile e la voce degli autori (tranne forse Stendhal per la necessità di dover scrivere una lettera "come avrebbe fatto lui"), quanto di aggiungere una interpretazione, di leggere attraverso la lente di ingrandimento della Città - Roma (che Precht ama (pur odiandola, a volte, come tutti quelli che la amano) e in cui è nato - i mutamenti impercettibili, gli spostamenti interiori, subiti da queste cinque grandi anime, come una sorta di redde rationem delle loro vite. 

Nel primo racconto, dunque, Stendhal scrive una lettera apocrifa alla sua amica Clémentine Curial, descrivendo scene di vita vissuta e popolare, descrivendo l'impressione delle maestose rovine, in particolare di quelle lasciate appunto dall'incendio della Basilica di San Paolo avvenuto nel luglio del 1823; nel secondo racconto Nikolaj Gogol descrive i piaceri culinari della Roma dell'epoca, la sua frequentazione della nutrita comunità russa che lì vive o è di passaggio, le esperienze nei salotti romani dove gli capita di incontrare e di fare conoscenza con Giuseppe Gioacchino Belli; nel terzo racconto Romain Rolland è alle prese con i continui paragoni che Roma gli suscita con Parigi, mentre soggiorna nello splendido Palazzo Farnese grazie alla borsa di studio ricevuta dell’Ambasciata francese; nel quarto racconto, quello relativo a Malcolm Lowry è di scena invece la Roma del dopoguerra, misera e stracciona, che lo scrittore inglese attraversa immerso in una sorta di febbre etilica, come un antesignano del Toby Dammit felliniano; nel quinto racconto, seguiamo invece John Cheever mentre sta cercando di seppellire il cadavere di un topolino, anzi di una topolina bianca a Villa Borghese, compagna di giochi del figlio. E anche per Cheever questa strana peregrinazione finisce per diventare una sorta di bilancio personale della sua vita, dei rapporti che è stato capace di tessere con le persone che ama, con i suoi fallimenti, con le mancanze. 

Insomma, la polifonia che Precht mette in piedi, in questo romanzo lungi dall'essere dissonante, riesce a ricreare proprio quel magico, imprendibile equilibrio caratteristico di Roma, di cui parla Simmel, quello di tenere insieme, accostate le une alle altre cose che sembrano molto diverse, ma che insieme formano qualcosa di nuovo e di diverso. Proprio grazie alla linfa vitale della Città che da tremila anni non fa che produrre - e raccontare - storie. I cinque protagonisti scelti da Precht - e la voce stessa di Precht che li racconta a Roma - sono un nuovo capitolo di un romanzo più grande che non si sa dove sia cominciato e che non è ancora finito. E di cui il libro di Precht è pienamente degno. 

28/09/23

Rileggere "La Storia" - Il coraggio delle lacrime e le accuse di "patetismo"


Terminata la rilettura de La Storia e fatti i conti con le ultime pagine strazianti, capisco meglio cos'è che diede fastidio, di questo romanzone di 700 pagine, nella temperie degli anni '70, a una parte consistente degli intellettuali dell'epoca (con le notevoli eccezioni di Cesare Garboli, della Ginzburg e di altri, entusiasti)

Dietro l'accusa esplicita, sferzante o allusiva di "patetismo", si celavano più generali riserve (o censure) riguardanti una concezione della Storia vista dalla parte dei deboli (non dei sommersi di Levi, perseguitati per via dell'essere nati appartenenti alla razza "sbagliata"), ma da coloro - Ida, i suoi figli Nino e Useppe, gli avventori tutti dello Stanzone di Pietralata, anche Davide alla fine - che subiscono, come bovini al macello, il destino di sottomessi, di disegni inafferrabili e crudeli : il Fascismo, l'alleanza con i nazisti, la Guerra, la malvagità, il disastro che si abbatte sulle loro case, sui progetti, sulle speranze, sulle illusioni.
E' tutto quel che vede nelle ultime pagine Ida, subito prima della fine di Useppe, come un film a ritroso: un vortice, o meglio, un Maelstrom, imponderabile e cieco che ha inghiottito la sua famiglia, i suoi figli, lei stessa, obbedendo a nessuna logica, se non alla logica di un destino che non si può e che è inutile contrastare.
C'è odore di cristianesimo, insomma, e specialmente di quel cristianesimo continuamente frainteso dalla critica analitica marxista.
Perché il cristianesimo, come si sa, è molte cose. E se si vede soltanto una cosa, del cristianesimo, non si capisce nulla di cosa esso sia. Morante era credente (lo era a tal punto dal non voler concedere il divorzio a Moravia, perché convinta dell'indissolubilità del legame spirituale), ma era cristiana "pauperista" (il cristianesimo di Carlo Borromeo, il cristianesimo degli ultimi, dei poveri, degli analfabeti, degli indifesi).
Confondere questo con l'accettazione supina del proprio destino (nella speranza, evidentemente di una "ricompensa" nell'altra vita), vuol dire non aver capito niente del cristianesimo della Morante, che poi era lo stesso (senza vera fede) di Pasolini e del suo Vangelo secondo Matteo.
Cristo non è un masochista che vuole soffrire e essere macellato sul Golgota: Cristo, nell'orto degli ulivi, è un uomo che chiede, piangendo, di poter evitare quel calice molto amaro.
Cristo è un cantore, anzi IL cantore, della bellezza del vivere, del vivere in pace, della vita intesa come dono: la pianta di fichi che fa frutti meravigliosi, il granello di senape che diventa florido albero, la vigna che produce botti abbondanti, la pesca che sfama tutti e rende tutti sazi.
È lo stesso incanto che ha Useppe, come tutti i bambini e i puri di cuore.
Se nella creazione le cose non vanno come dovrebbero andare, la colpa non è di Cristo e non è degli ultimi. Loro sono le vittime. Cantare questo e piangere con loro, non è patetismo: altrimenti bisognerebbe buttare a mare non soltanto Manzoni, ma anche Chaplin, De Sica, Rossellini e buona parte del neorealismo italiano.
La "colpa" della Morante fu semmai, quella di essere arrivata "fuori tempo massimo". Ma lei era fatta così: pubblicò Menzogna e Sortilegio quando il romanzo classico, di impianto ottocentesco, era morto e sepolto e pubblicò l'Isola d'Arturo quando il lirico-fantastico era già fuori moda. Poi La Storia, pubblicato mentre le avanguardie chiedevano lo scalpo dei "passatisti".
Sul finire della vita, Morante si prese forse la rivincita definitiva con Aracoeli, romanzo indefinibile che spiazzò tutti e brilla ancora oggi come un diamante grezzo: la dimostrazione (o la conferma) che poteva scrivere tutto, meglio di tutti.
"La Storia" doveva essere così: Elsa Morante era maestra di destini (aveva imparato con tutta la durezza possibile a fare i conti con il suo personale, privato), e sapeva che ogni sua opera avrebbe avuto il suo: ben oltre la mancanza di visione dell'attuale e del contingente.

Fabrizio Falconi - 2023

11/08/22

Un grande romanzo italiano da riscoprire: "La dura spina" di Renzo Rosso


Ho appena finito di rileggere La Dura Spina, pubblicato da Renzo Rosso nell'aprile del 1963.

È stata una fatica trovarlo.
Il libraio di fiducia che trova tutto non riusciva a reperire copia alcuna.
Il romanzo, dopo la gloriosa edizione negli Elefanti di Garzanti, era caduto nell'oblio, risollevato solo per poco da una edizione Isbn, casa editrice oggi fallita, del 2010, ormai introvabile.
Nell'oblio come del resto tutta l'opera di Rosso, di cui oggi, sia in libreria, sia su Amazon et similia, non si trova più nulla di nulla.
Mentre se si cerca il nome dello scrittore su Google bisogna districarsi tra 8 milioni di occurrances dedicate al suo omonimo "fondatore della jeanseria Diesel" (O tempora o mores).
La Dura Spina è uno degli ultimi grandi romanzi italiani. Uscì lo stesso anno de Il male oscuro di Giuseppe Berto e come quello coniugava sperimentalismo (anche se qui ispirato alla grande tradizione mitteleuropea) con quella che in gergo letterario potrebbe chiamarsi "catastrofe dell'Io".
Triestino, Rosso si iscriveva sulla scia di Svevo e di Saba (a cui rubò il verso che dà il titolo al romanzo), modernizzandoli, raccontando il vuoto (e il pieno) esistenziale di un pianista acclamato, Ermanno Cornellis, e pieno di (troppe) donne, che torna a Trieste per un concerto e rimane invischiato in una imprevista storia sentimentale.
Il romanzo arrivò finalista allo Strega ma non vinse (tanto per cambiare). Nei decenni successivi divenne però vero libro di (ristretto) culto.
Nel frattempo Rosso, musicista anche nella vita, si era trasferito come tanti intellettuali friulani prima di lui, a Roma. Aveva vinto il concorso in RAI come assistente musicale e tra Via Asiago e viale Mazzini aveva lavorato per più di trent'anni continuando sempre a scrivere (e a pubblicare con sempre maggiore difficoltà), prima di finire i suoi giorni nel suo piccolo eremo a Tivoli, nel 2009.
Ora che anche La Dura Spina sta finendo nell'oblio, almeno dei libri cartacei pubblicati, non è inutile continuare almeno a parlarne (e a leggere se possibile) nella speranza che qualche editore lo ripubblichi ancora. Perché i libri che valgono davvero sono pochi e quelli che valgono dovrebbero poter continuare a procurare piacere a chi legge.

Fabrizio Falconi - 2022

Renzo Rosso
La Dura Spina
Isbn Edizioni - 2010
p. 347
ISBN-10 ‏ : ‎ 8876381686 ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8876381683

04/07/22

Sembra incredibile, ma al funerale di Elsa Morante, la più grande scrittrice italiana, a Roma, non ci furono più di 20 persone.

 


Sembra davvero incredibile il disinteresse che il nostro paese dimostrò per gli ultimi anni vissuti da uno dei suoi più grandi scrittori, Elsa Morante, che a Roma morì, il 25 novembre 1985, a settantatré anni. 

Come si sa, l'ultimo romanzo di Elsa Morante fu Aracoeli, pubblicato sempre da Einaudi nel 1982, per il quale, nel 1984, ottenne il Prix Médicis, uno dei più prestigiosi premi francesi. 

Poco prima della fine della stesura del romanzo, la Morante, cadendo, si era procurata una frattura al femore, che la costrinse lungamente a letto. 

Ma dopo l'uscita del libro scoprì anche di essere gravemente ammalata; tentò il suicidio nel 1983, ma fu salvata in extremis dalla sua governante, Lucia Mansi. 

Ricoverata in clinica, fu sottoposta a una complessa operazione chirurgica, che però non le giovò molto. Morì nel 1985 a seguito di un infarto.

Come ricorda l'editore Livio Garzanti per i funerali, alla chiesa di piazza del Popolo, qualche giorno dopo, c’erano meno di venti persone. "Ultimo, sbarcò da un’automobile Moravia (che la Morante aveva spostato nel 1941, ndr.), elegante, accompagnato dalla nuova giovanissima Carmen Llera. Un tic nervoso gli scuoteva le spalle in controcampo con la sua zoppia."

Un funerale del tutto indegno, per una scrittrice e una intellettuale quale fu la Morante, che ha lasciato un segno indelebile nel Novecento italiano.

Di quel funerale nemmeno si trovano testimonianze fotografiche in rete. Nemmeno una. 

Questo invece è il corsivo che scrisse Laura Laurenzi, giornalista di Repubblica, il giorno dopo:

Piangono tutti, gli amici più cari; gli altri invece, molti altri, sembrano essere venuti soltanto per guardare. Piange Lucia, spezzata dal dolore, la vecchia governante che due anni e mezzo fa strappò Elsa al suicidio, piange e si raccomanda che le belle piante di limone e di mandarino che ornano il feretro non vadano perdute. Piange la sorella Maria, dal viso forte e sereno, piange Carlo Cecchi, l' amico più caro, con gli occhi cerchiati e un' aria smarrita. Natalia Ginzburg è immobile nel dolore, cupa e severa, sottobraccio alla figlia Alessandra, anche lei commossa. Ed è commossa, il viso rigato di lacrime, l' infermiera di Villa Margherita che ha seguito giorno per giorno la lunga agonìa e racconta di sofferenze tremende, e di urla spaventose durante la notte. 

A Makarousse, il bambino libico di nove anni vicino di stanza della Morante e condannato da un cancro, l' ultimo amico profondo della scrittrice, nessuno ha avuto il coraggio di spiegare che Elsa è morta, non c' è più. "Ci domanda continuamente di lei - racconta l' infermiera -. Per ora gli abbiamo detto che è stata trasferita in un' altra clinica"

Piange, mescolata ai colleghi, anche la fororeporter Antonia Cesareo, amica anni fa della Morante ("Fu Elsa, insistendo, a convincermi che dovevo assolutamente fare un figlio"), piange e non riesce a scattare fotografie. La chiesa è quella di Santa Maria del Popolo, parrocchia della Morante, la chiesa degli splendidi Caravaggio amata da tanti scrittori e dove furono celebrati anche i funerali di Gadda. 

Più che un funerale Elsa Morante avrebbe voluto una festa: lo disse in una delle sue ultime interviste. Una festa, tutti felici, e musiche di Mozart, di Bach e del primo Bob Dylan. L' hanno accontentata soltanto su Bach: "Per gli altri autori era troppo complicato, bisognava forse usare dei dischi", spiega Dacia Maraini, venuta prima degli altri per curare le musiche del rito. L' organista suona dunque la Passione secondo Matteo, come aveva espressamente chiesto la Morante, e alcuni dei Preludi Corali, per primo "Cristo giaceva nelle catene della morte". 

Moravia, pallidissimo, il volto contratto, si fa strada fra una siepe di fotografi. Lui e la sua nuova compagna Carmen Lhera arrivano insieme ma entrano separati, e si fermano in fondo alla chiesa, al quart' ultimo banco, mentre tutti i parenti e gli amici più stretti, microcosmo quotidiano delle ultime sofferenze, sono accanto alla bara, nel primo banco di destra. 

Soltanto due i cuscini di fiori. Uno dice "i cugini Morante", l' altro "il condominio di via dell' Oca". Una bimba depone un mazzo di margherite sulla bara. C' è anche Claudia Cardinale, un piccolo tailleur grigio, i capelli legati, senza trucco, quasi non riuscisse a togliersi di dosso il personaggio spoglio e sofferente di Ida Ramundo, la protagonista della Storia che sta interpretando sul set. 

Ma Elsa Morante era religiosa? Avrebbe voluto tutto questo? "Sì, credeva in Dio - spiega la sorella -, anche se la sua religiosità non era certo chiesastica, ma tutta spirituale". 

All' uscita del feretro sulla piazza un applauso, prima incerto, come imbarazzato, poi lungo e commosso, che suona come un grazie. Nella folla che riempie la chiesa e il sagrato, fra gli altri, l' anziano poeta Attilio Bertolucci ("Ci frequentammo tanto negli anni 50, fui io a presentarle Pierpaolo Pasolini"), Giorgio Bassani amico di quei tempi, Cesare Zavattini.

Nessun uomo politico, non un ministro. 

Elsa Morante, per suo stesso volere, concluse le formalità burocratiche, sarà cremata.

23/02/21

Un brano di "Porpora e Nero" di Fabrizio Falconi - Il ritrovamento della quarta e ultima traccia



Da Porpora e Nero:

“Ho letto l’articolo di Heckscher che ha allegato alla traduzione, è molto affascinante. Se veramente Bernini per l’elefante ha preso ispirazione dall’Hypnerotomachia Pamphili di Francesco Colonna, vorrebbe dire che sia lui che Kircher si stavano occupando dei simboli dei Rosacroce”. 
Per l’occasione si era scomodato anche Meister. Laura lo aveva seduto di fianco, nel sedile posteriore dell’ammiraglia scura che li stava portando a destinazione.
“Sì è una ipotesi interessante”, rispose freddamente Laura senza staccare gli occhi dalla strada.
“È il testo che chiamano Poliphilo?”
“Proprio quello”.
“È molto famoso, ho consultato una copia tempo fa. È un testo pieno di suggestioni. Ma non avevo mai pensato all’episodio di Poliphilo che si addormenta in una valle e sogna un elefante con un obelisco sul dorso. È impressionante la somiglianza con quello di Bernini”.
“Sì, ma non sapremo mai come siano andate le cose”.
“Bonnard cosa dice?” chiese Meister toccando la spalla all’autista per fargli segno di accostare. Laura fissava le sue mani, che sembravano quelle di un adolescente, allungate e prive di peli.
“Non so, credo che propenda per l’ipotesi romana. L’ipotesi che Bernini sia stato influenzato dal vero elefante regalato dal re del Portogallo, inviato quasi un secolo prima in regalo a Leone X”.
“Sì, Annone, l’elefante bianco”.
Laura si sentiva inquieta per la presenza di Meister, e anche se egli continuava a mostrargli il suo lato erudito e socievole, sperava che la mattinata insieme finisse quanto prima.
“La sapienza dell’istinto e della natura che sorregge quella degli uomini”, continuò Meister con fervore. La macchina si era fermata davanti all’albergo Bologna, ed erano ormai a pochi passi dalla Minerva.
“Aspetti un secondo. I nostri uomini stanno bonificando la zona”.
Laura lo guardò interdetta:
“Bonificando?”.
“Sì, stavolta non ci faremo sorprendere. Abbiamo creato una specie di cordone, a protezione di eventuali intrusi. Non vogliamo tra i piedi nessuno”.
Dopo una breve attesa, comparve vicino al finestrino il faccione di Montenegro. Sollevò il pollice nell’aria e si allontanò a piedi in direzione della piazza. Meister fece cenno a Laura di scendere
e insieme si incamminarono verso l’obelisco della Minerva.
La piazza era semideserta, alle otto del mattino. Uno spazzatore automatico puliva la strada all’angolo di fronte al lussuoso albergo. La luce fredda dell’inverno conferiva un aspetto metafisico al piccolo obelisco eretto davanti alla immensa bianca facciata della Chiesa della Minerva.
Avvicinandosi, Laura notò un paio di persone vestite di scuro agli angoli opposti della piazza, che dovevano essere gli scagnozzi di Meister. Montenegro si era fermato sui gradini della chiesa, guardandosi intorno. 
“Facciamo presto”, intimò Meister nervoso. 
Lasciò che fosse Laura, per prima a salire sui tre gradini
del piedistallo. Sorreggendosi con una mano alla base, Laura scrutò al di sotto della gualdrappa che ricadeva di fianco all’elefante. 
Allungò una mano tra le zampe dell’animale scolpito, prima da una parte poi dall’altra mentre Meister la osservava in silenzio. Finalmente sentì tra le dita quello che cercava: un foglietto ripiegato in quattro. Laura fece un cenno a Meister, estrasse la mano e subito la infilò nella tasca del cappotto
come lui le aveva chiesto di fare. Partì un cenno a Montenegro. Il quale a sua volta lo ripeté ai due uomini di guardia agli estremi della piazza. Tutti rimasero al loro posto, mentre Laura e Meister tornarono verso la macchina. 
Quando l’autista mise in moto e guidò lungo via Santa Caterina da Siena e il Collegio Romano, Meister chiese a Laura di consegnargli il biglietto, e lo aprì ansiosamente sotto i suoi occhi: stavolta c’era una fotografia in bianco e nero: la riproduzione di un geroglifico egizio e al di sotto una piccola scritta, nella stessa calligrafia dei biglietti precedenti:



Prima monas
Considera la mano sinistra

Meister rimase ad osservare l'immagine a lungo, poi alzò lo sguardo trionfante su Laura: “Non abbiamo lavorato invano!”

11/10/19

Lasciarsi. Da "Cieli come questo" di Fabrizio Falconi





Il venerdì seguente Giorgio partì per il congresso nazionale del sindacato, in programma per tre giorni a Torino.
Isabella si organizzò. Annunciò a Lorenzo che dovevano assolutamente vedersi, quella sera stessa.
“ Brutte notizie ? “
Lei non rispose. E non disse niente nemmeno quando lo passò  a prendere con la macchina in una piazza del centro dove si erano dati appuntamento.
Lorenzo salì con la sua aria sorridente, percependo l’atteggiamento ostile di lei. 
Arrivarono in un posto subito fuori dalla tangenziale, chiamato Monte Antenne. Al termine della breve salita alberata, Isabella parcheggiò nel grande spiazzo dove altre coppie si appartavano in macchina, coi vetri appannati.
Spense il motore.
“ Che c’è ? Che è successo ?" chiese il ragazzo, sforzandosi di continuare a sorridere.
“ Cosa viene in mente al tuo amico ? “ disse subito lei, aggressiva, “ chiamare mio marito... per cosa poi ? Per proporre un seminario di Sri Rajakrishna patrocinato dai... sindacalisti. Ma dico, ma come gli viene in mente una cosa del genere, è ammattito?”
“ Stai calma, io non ne sapevo niente. Me lo ha detto solo a cose fatte.  E’ stata una sua idea, ne avevamo già discusso e a me pareva una stronzata. Valdemar lo sai com’è fatto, che c’entro io?“
“ E’ semplice. E’ un tuo amico. Dovresti vigilare su di lui. “
“ Ma che dici ? Io non sono il suo tutore. Stai scherzando, spero... Vigilare, vigilare su cosa ?  E perché, poi ? Cosa è successo di tanto grave ? “
“ Certo, niente per te è grave, tu vivi così, tu sei... completamente fuori. Non sai nemmeno cos’è la vita… “
Lorenzo rise amaro:
“ Già, infatti. E tu invece. Tu per fortuna lo sai... “
“ Esistono delle responsabilità. “
Il ragazzo voltò la testa dall’altra parte.
“ Questa parola mi fa orrore, “ disse, “ anzi meglio, non mi fa orrore la parola, mi fa orrore il mondo in cui la pronunciate. E’ il paravento dietro il quale nascondete il vostro lato oscuro, le vostre debolezze. “
“ Perché parli al plurale ? A chi ti riferisci ? Faccio parte di una categoria ? “ Isabella cercava il suo sguardo.
“ Non ti ho mai messo in una categoria, se è questo che intendi. Forse l’hai fatto tu con me. “
Lei per un po’ non rispose. Disegnò un triangolo col dito sulla condensa formata all’interno del parabrezza.
“ Lorenzo, io non ti amo, “ disse alla fine, “ io amo un altro uomo. So perché succedono queste cose, e lo sai anche tu, succedono per mille motivi... Si scambia per amore, ... Si fraintende… Ogni tanto piace a tutti far finta che le cose stiano così. Ma è solo finzione. Io mi fermo qui. “
“ Cosa è l’amore per te ? “ chiese Lorenzo gelido.
“ Che vuol dire ? Io Giorgio lo amo da ventitré anni. So di amarlo. “
“ Lo sai ? Buon per te. Perché invece mi sembra così difficile dirlo. Io non lo dico mai. Ci puoi arrivare solo  per sottrazione.“
“ Cioè ? “
“ Quando sei sicuro di aver tolto ogni artificio, ogni resistenza, ogni negazione dentro di te. “
“ Lorenzo tu vivi in un mondo irreale, inventato. Non è la realtà. E poi non sei sincero, quel giorno, a Bagno Vignoni anche tu hai parlato di amore… Cosa volevi dire se non che mi amavi  ? ”
“ Io ti ho solo detto di essere innamorato. Era una constatazione. Amare non è quello che tu pensi: lo squalifichi al prezzo più triste. Congiunzione carnale, attrazione, convenzione, contratto. Niente di tutto questo. “
“ Straparli. Fai distinzioni di comodo. Io ti dico cose concrete e tu non ascolti neanche. Così diventa tutto difficile. “
Lorenzo guardava fuori dal finestrino. Fece un sospiro, poi disse, come se parlasse da solo:
“ Io so che tu mi ami. L’ho sempre saputo. “
Isabella aprì lo sportello della macchina e scese, incamminandosi per la discesa buia. Lorenzo, dopo qualche secondo, la seguì, le corse dietro, la afferrò per un braccio. Lei si voltò di scatto:
“ Non sai nulla. Non sai quello  che dici. “
“ Dimmi una parola sola. Dimmi quella parola che non riesci a dire. Ma dimmela ora. Solo ora puoi dirmela, “. Isabella non l’aveva mai visto così: sembrava un folle, un invasato, i fari di una macchina gli illuminarono gli occhi in un  lampo.
“ Vattene via. “
“ Quella parola vera. Solo quella mi serve. “
“ Sei solo un povero esaltato. “
Si liberò dalla morsa della sua mano, tornò indietro, salì in macchina e partì con una sgommata.
Lorenzo rimase lì, mentre la macchina gli sfrecciava davanti.
Si accovacciò per terra, poi dopo un po’ si incamminò su per la salita, lungo  il sentiero che conduceva in cima alla collina, dove c’erano i ripetitori. Mucchi di spazzatura, muriccioli sbrecciati, pieni di scritte, profilattici per terra.
Si affacciò dal parapetto, da cui si scorgeva la città illuminata. Pensò alla sua vita, e alle altre vite che scorrevano lì sotto, nel fiume della tangenziale.
Poi guardò in alto, e così, senza un motivo preciso, gli affiorarono sulle labbra alcune parole: “ Mi affido comunque. Mi affido alle tue mani generose. “



Tratto da Fabrizio Falconi, Cieli come questo, Fazi Editore, Roma, 2002 (in edizione Kindle 2014)

19/04/19

Libro del Giorno: "L'amante fedele" di Massimo Bontempelli



Che piacere riconciliarsi con la prosa di Bontempelli,  una delle voci più originali del Novecento letterario italiano.  Merito della casa editrice di Sassuolo, Incontri, aver riportato in libreria, a oltre sessant'anni dalla prima edizione 'L'amante fedele', il libro di racconti con cui Massimo Bontempelli vinse il 'Premio Strega' nel 1953, decimo titolo della collana Kufferle dedicata alla riproposta di testi e autori del passato, con introduzione della drammaturga e storica del teatro Patricia Gaborik, attenta studiosa dello scrittore. 

Si tratta di quindici racconti nei quali Bontempelli, ormai al termine della vita (morì a Roma il 21 luglio del 1960),  esprime la sua idea personalissima idea di letteratura, quel "realismo magico" che si rifa alla tradizione nordica e ai grandi racconti di Djuna Barnes, in seguito applicato da molti grandi autori da Borges fino a Rushdie

In un certo senso questa raccolta è il coronamento della narrativa di Bontempelli per la presenza costante di alcuni elementi cardine della sua poetica, dalla centralita' del mito allo spirito di avventura che guida i suoi personaggi, dai toni incantati e meravigliosi con cui viene descritta la natura,  alla predilezione per i protagonisti femminili. 

Diversi nelle ambientazioni e nelle atmosfere i 15 racconti sono uniti innanzitutto dallo stile di Bontempelli convinto che l'arte del Novecento dovesse essere in grado di esprimere l'"avventuroso miracolo" della vita quotidiana, in una visione in cui erano centrali i concetti di immaginazione, ironia e candore. 

Se, come scrisse Bontempelli, il mistero è "la sola realtà", attraverso uno sguardo candido, libero cioè da intellettualismi o convenzioni sociali, è possibile pervenire a una comprensione istintiva del mondo, in piena sintonia con la natura. E candidi sono, per gran parte, i protagonisti de 'L'amante fedele'.  Un bel tuffo in un mondo dal respiro diverso, completamente estraneo, rispetto all'oggi dominato dal cinismo e dal disincanto. 

Fabrizio Falconi


07/09/18

La magia di Torcello e le luci di Venezia - Una pagina da "Cieli come questo" di Fabrizio Falconi.





Negli ultimi giorni non si era sentita bene. Era ancora piuttosto debole e continuava ad avere fitte all’addome. Giorgio la convinse a farsi controllare da uno specialista. Lei ci andò recalcitrante – perché si fidava ciecamente di Lidia  – e alla fine anche la nuova visita confermò che non c’erano problemi particolari,  il viaggio di lavoro a Venezia non era dunque sconsigliato.
Prima del convegno, i delegati vennero accompagnati per una prima visita alla Cattedrale di Santa Maria dell’Assunta, e alla chiesa di Santa Fosca, a Torcello.
Isabella, insieme a quattro hostess in divisa, li attendeva sul tappeto blu sul molo dell’isola, mentre cominciava a piovere.
Arrivavano alla spicciolata accademici e storici dell’arte infreddoliti, insieme a mogli e compagne, sotto l’ombrello. Isabella stringeva le mani, consegnava l’elegante cartellina di cuoio, contenente  tutte le informazioni e i gadgets preparati per il convegno.
Lavorò senza pause fino alle otto. Poi chiamò al telefono la figlia.
Diletta studiava per un esame, chiusa in casa.
“ Da quando sono ritornata, non hai avuto un attimo per parlare con me, “ disse alla madre, che la sentiva giù di tono, con la voce dimessa.
“ Lo so, “ rispose Isabella, “ ma lo sai, questo convegno è la cosa più importante della stagione, vedrai che quando torno sarò molto più libera. “
“ Voglio raccontarti delle cose. Anche per me non è facile, sai quanto ci metto ad... aprirmi. “
“ D’accordo, ma tu come ti senti, ora ? “
“ Non tanto bene... Questo viaggio mi ha cambiato, mi sento un’altra, ma anche più inquieta. Avrei bisogno di spiegarti tante cose, anche riguardo a Nicoletta e a quello che ha rappresentato questo incontro per me. A quello che ho scoperto dentro di me. Insomma mi sento un po’ sola adesso. Non sto al massimo, veramente“
“ Passerà, vedrai. “
“ E Venezia com’è ? “
“ Terribile. Piove e fa freddo. Lavorare così è duro. Noi l’avevamo detto che il periodo era sbagliato. Bisognava aspettare la primavera. Tuo padre ti ha chiamato ? Quando torna ?“
“ Non lo so. Oggi non l’ho nemmeno visto. “
“ Va bene, adesso devo salutarti .“
Un altro motoscafo si stava avvicinando al molo. Ne discese un uomo alto e stempiato, accompagnato da  una donna bionda, alta quasi quanto lui.
“ Michael  Husselbaink “, si  presentò.
Isabella sulle prime non lo aveva riconosciuto. Eppure sapeva benissimo chi era: un grande musicista, del quale aveva apprezzato soprattutto  la Suite per l’angelo -  Isabella adorava quel cd, l’aveva comperato appena uscito, ed era rimasto uno dei suoi preferiti. Due volte era anche andato a sentirlo suonare dal vivo, quando aveva fatto tappa a Roma insieme al suo ensemble.
“ Le presento mia moglie. Siamo arrivati in ritardo ? “
“ Sì, un po’. Credo che siate gli ultimi, ma la cattedrale dovrebbe essere ancora aperta. Venite, vi accompagno. “
Salirono a bordo di una vettura elettrica, che fungeva da navetta, mentre la pioggia continuava ad abbattersi sulla laguna senza sosta.
Isabella guidò i due ultimi ospiti dentro la Cattedrale. Husselbaink indugiava tra i banchi, fermandosi estasiato ad ammirare i mosaici, sembrava conoscere molto bene le immagini e tutte le interpretazioni cabalistiche. Indicava alla moglie le figure, traduceva per lei le indicazioni che Isabella forniva diligentemente.
Fermi di fronte al pronao, restarono a lungo ad osservare il grande mosaico raffigurante la Vergine.



“Cosa c’è scritto nella iscrizione, lì sopra ?" chiese Husselbaink, indicando la scritta in caratteri gotici che correva lungo la cornice dell’abside.
Isabella non era così preparata. Fece ricorso ad una ragazza, una guida del posto, che lesse ad alta voce senza indugi l’invocazione in versi latini:
              
                Sum deus atque caro, patris et sum matris imago,
                non piger ad lapsum set flentis proximus adsum

fornendo subito la traduzione della frase:

               Sono Dio e uomo, immagine del Padre e della Madre,
             dal colpevole non sono lontano, ma al pentito sono vicino.

Husselbaink sorrise soddisfatto, tradusse la frase in nederlandese per la moglie, trascrivendola poi in un quaderno di appunti.
Lasciarono la cattedrale quando era ormai vuota.
La ragazza spense le luci e si ritrovarono fuori nel buio quasi assoluto della piazza antistante la chiesa. Attesero il ritorno della vettura, sotto il porticato. Isabella e la ragazza da una parte, Husselbaink e la moglie dall’altra, addossati ad una delle colonne. Isabella percepiva le loro frasi sussurrate.
Finalmente la navetta tornò a prenderli. Durante il viaggio, il musicista raccontò di aver accettato l’invito di suonare nella serata di gala del convegno perché affascinato dai misteri di Venezia, e soprattutto dalle isole, da  Torcello e San Michele.
Il sovrintendente Loredan seduto a fianco di Husselbaink, intanto, elencava i nomi dei palazzi. Le hostess, infreddolite nei cappotti, fumavano negli ultimi sedili vicino ai finestrini. La moglie del musicista guardava fuori, con le labbra socchiuse, apparentemente distratta.  Il suo alito formava una leggera condensa sul vetro.
Husselbaink ascoltava la litania dei nomi elencati dal sovrintendente.  “Questi nomi sono come musica,” gli disse ad un certo punto, “ e io sono del tutto innamorato anche del suo cognome. Che fortuna sfacciata: portare lo stesso cognome del doge che è stato immortalato nel dipinto più bello del mondo! “
Giunsero all’albergo in leggero ritardo, ma in tempo per la cena, che era fissata alle dieci.
Isabella si accorse che alla lunga tavolata finemente imbandita le avevano riservato il posto libero tra Husselbaink e il sovrintendente.
La conversazione ristagnò a lungo, quando  verso la fine della cena, incoraggiati dall’ottimo vino, Loredan e Husselbaink cominciarono un prolungato scambio di opinioni sull’ispirazione artistica.
Isabella ascoltò a lungo, senza intervenire, poi in una pausa chiese ad Husselbaink:
“ Ho ascoltato spesso la sua musica, interrogandomi sull’origine della sua  ispirazione. Per esempio la Suite dell’angelo, che io trovo così ...bella, poetica.“
Husselbaink, che sembrava un po’ alticcio e divertito dall’attenzione generale,  si slacciò il colletto della camicia, e rispose  compiaciuto:
“ L’ho scritta in una settimana a Biarritz. Ma vede, signora, l’ispirazione non è come crede lei, e come crede forse anche il dottor Loredan. Ero ospite in una brutta villa e in quella settimana è piovuto tutti i giorni. Ero molto nervoso, e oltretutto schiavo di una colite atroce. “
Il sorriso del sovrintendente si pietrificò. Pensò ad una battuta,  ma Husselbaink andò avanti imperterrito:

“ La suite dell’angelo potrei dire di averla scritta seduto sulla tazza del gabinetto, e con mia enorme sorpresa alla fine tutti hanno detto che è una delle cose migliori che io abbia scritto..”  Rise di gusto, attirando lo sguardo di riprovazione di sua moglie,  “metà seduto sul gabinetto, e per l’altra metà seduto al pianoforte con la pancia gonfia come una cornamusa… “
Isabella cercò di non dare a vedere l’imbarazzo, e intanto Husselbaink proseguì imperterrito:
“ L’ispirazione, mia signora, non si accompagna per forza con il sublime," ma lei già non lo ascoltava più . Cambiò discorso, con i vicini di tavola e aspettò la prima occasione per alzarsi e raggiungere i divani nella hall.
Alla fine della cena, quando Husselbaink si ritirò con la moglie in camera, il sovrintendente manifestò il suo disappunto agli ospiti. Giurò che lo conosceva personalmente già da molto tempo, e non era mai stato così sgradevole.
Isabella commentò:  “Nessuna sorpresa. Solo, nessuno riesce a capire da dove traggano la loro arte certe persone. E’ come se  avessero due anime. Ma forse è meglio non conoscerli mai da vicino. Soltanto i veri grandi non deludono. “
Non si riferiva espressamente a Sri Rajakrishna. Non ci aveva pensato, ma più tardi, quando a letto, prima di addormentarsi lesse qualche riga del libro che le aveva regalato Lorenzo, gli capitò di ricordarsi di quello sguardo liquido,  degli occhi che era sempre come se guardassero oltre. L’ultimo capitolo del libro scritto dal misterioso Marchese de Saint-Germain, si intitolava:   L’unione.

                     Dimoro nel cuore
                     Nell’intimo più recondito
                     Di tutte le cose manifestate.
                    
                     Di coloro che discutono IO SONO l’argomento.

Chiuse il libro e spense la luce.
Dalla finestra riverberava la luce di fanali sulla Riva degli Schiavoni.
Si addormentò con il sottofondo del debole rumore dell’acqua.



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06/07/18

Libro del Giorno: "Il richiamo del merlo" di Enza Armiento.



Enza Armiento 
Il richiamo del merlo 

Le truppe piemontesi hanno ricevuto l’ordine di radere al suolo il paese. Concetta viene violentata dai militari sotto gli occhi del padre, è creduta morta. Quando rinviene tutto è morte e sangue e fuoco. Si rifugia in un bosco, viene accolta dai briganti. A distanza di anni, Michela, lontana parente di Concetta, vuole intraprendere la carriera militare. La scelta non viene accolta con favore dalla famiglia. Il romanzo segue la vita delle due ragazze: Concetta avviata al brigantaggio, Michela al riscatto dalla sua condizione sociale. Il presente avrà rimandi al passato, alle strategie di pace attuate con strumenti e modalità di guerra. Solo alla fine troveranno risposte le voci silenziose dei parenti di Michela, delle donne del Sud che portavano al collo catenine dorate con volti di morti. Sarà una lotta in nome e per conto degli innocenti. 

Enza Armiento

nata a Manfredonia (FG), è docente di lingua e letteratura inglese. È risultata vincitrice e finalista in diversi premi letterari. Alcune sue poesie sono pubblicate in raccolte e antologie letterarie. Nel 2013 cura, insieme a Antonella Taravella e Sebastiano Adernò, l’antologia a scopo benefico dal titolo No job. Visioni del Paese irreale. Nel 2017 partecipa con un suo racconto, tratto dal romanzo autobiografico La voce delle pietre, al concorso europeo Storie di Resilienza indetto dall’Agenzia Nazionale Erasmus+ Indire e viene premiata come role model: figura di riferimento positivo in campo educativo. Scrive per il Words Social Forum Centro Sociale dell’Arte.


04/05/18

Il Libro del Giorno: "La taverna del Doge Loredan" di Alberto Ongaro.



Morto poche settimane fa a Venezia (il 23 marzo scorso) la città dove era nato e dove ha quasi sempre vissuto, Alberto Ongaro pubblicò questo romanzo nel lontano 1980, che è divenuto negli anni un piccolo best-seller italiano, caldeggiato da lettori e recensori che - esagerando non poco - lo hanno definito uno dei migliori romanzi degli ultimi decenni in Italia. 

Ongaro amava l'avventura e i viaggi e la sua stessa vita ha obbedito a questa passione, dai tempi lontani in cui fu incarcerato per attività antifascista, durante la guerra, fino all'amicizia strettissima con Hugo Pratt che lo portò - oltre che a divenire uno degli sceneggiatori delle sue novelle grafiche - a intraprendere lunghi viaggi con lui in Sudamerica, firmando lunghe corrispondenze per l'Europeo. 

Dal 1979, tornato a Venezia, si dedicò esclusivamente alla sua attività di scrittore, e i suoi romanzi, pieni di storie di avventure e intrecci storici hanno conquistato un seguito considerevole. 

Anche la Taverna del Doge Loredan non sfugge al mix di ingredienti amato da Ongaro.  Perlopiù con il pretesto - a far da supporto alla storia - del ritrovamento di un misterioso libro, che diventa pagina dopo pagina il protagonista della storia.

Si susseguono fino alla fine del romanzo dunque i due piani narrativi, uno riferito all'oggi che riguarda l'editore e tipografo Schultz che vive in una vecchia casa veneziana ed è anche un ex capitano di marina mercantile e del suo misterioso alter ego Paso Doble che interloquisce con lui, rivangando storie di amori passati e di viaggi in treno; l'altro, quello raccontato nel libro ritrovato, riguardante una storia ambientata nella Londra di due secoli fa, che ha per protagonista un giovane aristocratico Jacob Flint, alle prese con la bellissima e disinibita Nina e con l'amante di lei, Terry Fielding, capo della malavita inglese. 

E' perfino ovvio che le due storie si intreccino con riferimenti che vanno dall'una all'altra in continuazione, fino ad un rocambolesco finale. 

Non v'è dubbio che Ongaro sia abile nel concertare una avventura picaresca e dai toni libertini, ma il romanzo non è mai seriamente avvincente, perché la qualità della scrittura è di grana ordinaria, sembrando più adatta a far da testo ad una storia a fumetti, seppure nobili, come quelle che disegnava il grande Hugo Pratt. 

Sembra più che altro di leggere parodia - nemmeno ben riuscita - di vera letteratura. Tutto ha un suono posticcio, come i nomi dei protagonisti, come le avventure fasulle, come i dialoghi scontati, come il ritmo che da un passaggio all'altro delle due storie non riesce mai a farsi vera letteratura, vera narrativa.